Il ritorno della virtù. Due relazioni di Francesco Botturi e Luigi Frudà

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /04 /2011 - 13:40 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito www.romasette.it le relazioni dei proff.ri  Francesco Botturi e Luigi Frudà tenute in occasione dei Dialoghi in Cattedrale, Basilica di S. Giovanni in Laterano, 7 aprile 2011. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti della relazione del prof. Botturi sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. quelli della relazione del prof. Frudà erano già presenti nel testo stesso.Per altri testi sulla questione educativa, vedi su questo stesso sito la sezione Catechesi e pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2011)

1/ Relazione del prof. Francesco Botturi

Quello della virtù appare oggi come discorso improbabile, irrealistico, ‘retorico’, se non in cattiva fede; oppure appare come discorso sui comportamenti dignitosi, a livello personale e interpersonale, ma inincidente rispetto alle potenti strutture del mondo e sproporzionato rispetto alla condizione di crisi nichilista (Barcellona) o di “mondo della notte” (Forte), di cui si è parlato in questa stessa sede.

Eppure, uomini esperti del cuore e del vivere umani la pensano diversamente: “bisogna far sentire ai giovani – scriveva don Gnocchi in Educazione del cuore (1937) – che i buoni non sono pochi, che la virtù esiste ancora, bisogna dar loro il senso corroborante della solidarietà nel bene”.

I. L’oblìo del discorso della virtù viene da lontano e si stabilizza nella confluenza di due linee filosofiche e culturali, che si richiamano l’una all’altra:

a) il giudizio di inefficienza della virtù – orientamento virtuoso della vita del singolo – nei confronti dei grandi apparati politici, sociali, tecno-scientifici della modernità. Un giudizio che inizia già nella coscienza ‘tragica’ di Machiavelli, che constata l’impotenza della virtù morale nei confronti della spietata logica del politico; se di virtù s’ha da parlare si tratterà piuttosto di scaltrezza nell’uso della forza (“volpe” e “leone”). Tutta la tradizione della “ragion di Stato” moderna sarà discepola di questa idea.

b) la teoria dell’impossibilità della virtù. Lungo il XVII secolo la dottrina dell’egocentrismo del soggetto di natura (Hobbes) e quella dell’“amor proprio” (Pascal, Nicole e il giansenismo) si combinano nell’idea del “individualismo possessivo” o “individuo utilitario”, per cui l’uomo è dominato da un’affettività egocentrica che la sua ragione non può in nessun modo trasformare e educare: il mondo delle passioni è dominato da una necessità impenetrabile alla luce della ragione; che, a sua volta, può solo contenere dall’esterno (in modo coercitivo) i guasti eccessivi della passione; oppure può sfruttare l’energia delle passioni cieche per cavarne tramite aggiustamenti spontanei delle convenienze collettive: cfr. la teoria dei “vizi privati e pubbliche virtù” (Mandeville), che il liberalismo classico farà sua nelle forma della spontanea armonia (“a mano invisibile”, sorta di provvidenza ‘laica’) degli egoismi di mercato da cui risulterebbe un bene pubblico.

Nei principali orientamenti della cultura moderna (soprattutto di “seconda modernità”, a partire dal XVII secolo) gli spazi ‘reali’ per il discorso della virtù si restringono progressivamente, soprattutto si privatizzano e si marginalizzano (in analogia alla pietà religiosa).

II. L’oblìo della virtù è dunque l’effetto di una consapevole rimozione, perché con essa è una certa idea di uomo che viene messa da parte. Infatti, ciò che è in gioco nella questione della virtù non sono dei tipi di comportamento, più dignitosi o eroici, ma è un’intera cifra antropologica. Con l’idea di virtù la modernità ha iniziato la dismissione dell’idea stessa dell’unità del soggetto umano e della sua esperienza.

L’idea classica della virtù, a cui la modernità rinuncia, affermava esattamente questo come progetto di vita. In diverso modo (platonico, aristotelico, stoico, anche epicureo, e nelle plurime riprese cristiane di queste vedute) la questione della virtù coincideva con la questione della composizione dell’umano con se stesso.

Coincideva appunto con l’idea che l’uomo nasce diviso o tentato dalla divisione e ha bisogno di diventare se stesso raggiungendo una condizione stabile di unità, in cui ne va della sua identità, del suo bene, ma anche della sua capacità di fare unità sociale/‘politica’, e quindi non solo del suo essere buono ma anche del suo ben-essere.

Infatti, l’idea antica, già omerica, di virtù/areté coincide con quella di “eccellenza”, di realizzazione dotata di perfezione e che, perciò, diventa paradigma e tipo. È interessante che l’areté omerica non abbia natura morale, ma antropologica: gli eccellenti sono gli eroi, modelli di umanità superiore. In cui è già l’idea che l’umano giunge davvero a se stesso solo se tende a una forma di perfezione, che l’uomo si possiede solo se si supera, che è se stesso se si protende in avanti e si erge oltre le condizioni date: in effetti, solo la perfezione è normale per l’uomo; la spontanea normalità è già mediocrità; la mediocrità lasciata a se stessa finisce nel vizio.

È un’idea alta dell’uomo, ma condotta in forza di una valutazione realistica secondo cui l’uomo è quella natura così fatta che non è già dotata della sua sintesi sufficiente e del suo equilibrio spontaneo. L’umano è dato affinché venga anche conquistato: questo cammino di conquista è il cammino della virtù.

L’elaborazione morale di questa idea passa nella storia dell’umanesimo occidentale attraverso l’ideale della sintesi di ragione e passioni, nella convinzione che l’energia affettiva ha bisogno di una forma che le dia unità, armonia, orientamento e che questa sintesi è possibile; in questo senso la virtù è esperienza di un’identità umana integrata, frutto dell’educazione dell’umano, che caratterizza la civiltà e la sua storia.

Da qui si comprende che la rimozione della virtù ha coinciso con la rimozione di un caposaldo dell’umanesimo occidentale.

III. Non sempre con questa ampiezza di sguardo, l’etica contemporanea però registra un non casuale “ritorno alla virtù” (cfr l’ampio fronte della Virtue Ethics), proprio per il bisogno di reintegrare la dimensione morale dell’esistenza in una più ampia considerazione antropologica e di ricongiungere la riflessione etica al cuore dell’esistenza. In un recente libretto, intitolato appunto Il ritorno delle virtù (ESD, Bologna 2009) G. Samek Lodovici riprende il filo di quegli autori anglofoni che hanno avvertito il limite sia di un’etica impostata principalmente su un’idea astratta e decontestualizzata del “dovere”, sia di un’etica che per recuperare il concreto dell’esperienza si incentra sul sentimento e diventa emotivismo, espressivismo, ecc.

La cosa interessante è che incentrare l’esperienza morale sulla virtù significa appunto recuperare la centralità del soggetto agente e il suo impegno integrale, la sua iniziativa e la sua inventiva, la sua appartenenza comunitaria e la sua responsabilità storica. Virtù infatti significa vita morale di prima persona, condotta a livello del concreto agire, che esige l’aver maturato la capacità di interpretare e valutare le singole situazioni che esigono di più che non il rispetto della legge morale e chiedono l’aver raggiunto un equilibrio intellettuale e affettivo; dunque di aver compiuto l’opera di ricomposizione umana di cui si diceva, che non ha principi standard, ma è possibile solo partecipando a processi educativi e culturali tipici di una comunità umana che porta in sé il patrimonio di uomini saggi e di esempi, forme, stili che si assimilano per simpatia e imitazione.

Da tutto ciò risulta evidente che quello che chiamiamo virtù ha a che fare con l’intero dell’esperienza umana e con l’unità dell’esperienza.

Di nuovo la virtù è una cifra antropologica, una chiave interpretativa di chi sia l’uomo e di chi osa diventare. E ancora una volta gli antichi possono aiutarci. Alla domanda perché essere virtuosi, Aristotele risponde: “perché è bello”; intendendo che è perfezione umana e perciò è bella ed amabile. In ultima istanza la virtù si giustifica per la sua attrattiva, che indirizza verso una bellezza umana che porta in sé la sua stessa ragion d’essere.

Anche per la virtù si può dire ciò che Tommaso d’Aquino dice in generale del bello, che esso risulta da un’esistenza dotata di integritas, consonnantia e claritas: integrità delle parti, armonia e luminosità. Desideriamo e ricerchiamo queste cose nell’ambito dello sport, della moda, dello spettacolo, ma ne abbiamo perso il gusto per l’uomo in quanto tale, per quella bellezza umana che non sta in ciò che si fa, ma in chi si diventa facendo.

Dovremmo abituarci a considerare da questo punto di vista della bellezza antropologica le virtù, come di fatto sono le quattro cardinali, prudenza, temperanza, giustizia e fortezza; che serenamente considerate appaiono come linee di un ritratto di un uomo affascinante, stabilmente capace di saggia valutazione concreta, di energico equilibrio affettivo e intellettuale, di sane ed eque relazioni, di serena tenuta nelle difficoltà. A ben vedere, chi non vorrebbe essere così? E chi essendo, in qualche misura così, non attrae altri a esserlo, risanando e fecondando l’ambiente umano in cui dimora?

Altrettanto, se non di più, è da dirsi per le virtù teologali della fede, della speranza e della carità, quando appunto sono virtù in atto e non solo posizioni ed enunciazioni; perché in quanto virtù fanno corpo con la personalità di chi le possiede e quindi parlano da sole, irraggiano con (sovrannaturale) naturalezza e attraggono di per sé, dando la testimonianza di una unità della persona ancora più forte e più profonda.

IV. Un ritorno della virtù non corrisponde, dunque, a un incremento della componente etica in un tempo di crisi, a una iniezione di energie morali in un mondo che non funziona a dovere, bensì corrisponde a una riconsiderazione pratica concreta del soggetto umano in azione, appunto come soggetto protagonista, costruttore della propria personalità e agente benefico per il suo ambiente umano.

Per contrasto la questione della virtù evidenzia il livello profondo della crisi antropologica in cui versa l’uomo di oggi, che è essenzialmente una crisi di esperienza, se si intende questa come la capacità di raccogliere il proprio vissuto in una unità di senso e di direzione. Di “senso”, cioè non di un significato qualsiasi o arbitrario, ma capace di illuminare l’esistenza intera e quindi di darle una direzione buona e costruttiva.

Nel suo iperattivismo l’uomo contemporaneo è al fondo smarrito quanto al senso e alla direzione della sua esistenza. La fenomenologia di tale smarrimento è data da una permanente difficoltà a comporre la sua esperienza, in mancanza della quale provvede con i più diversi sostituti, tutti caratterizzati dalla palese alienazione di riporre l’unità della propria esistenza in qualcosa altro da sé.

Nell’età del nichilismo si radicalizza la difficoltà a dare al vissuto la forma di un’esperienza reale in prima persona, di esperienza intesa cioè come “fare esperienza”, come unità narrativa della vita, come vissuto di un’esistenza unificata, dinamica e aperta. La condizione dell’uomo contemporaneo non è favorevole al “fare esperienza”, ma favorisce la scomposizione degli elementi dell’esperienza umana in forme in cui domina la frammentazione e la segmentazione dell’esperienza, nelle forme anche contrapposte dell’attivismo o dell’estetismo, dell’esteriorismo pragmatico o dell’interiorismo spiritualista, ecc.

Può essere utile ricordare alcuni aspetti palesi di tale situazione. Uno, forse il principale, è proprio la scomposizione di ragione e affetti. Forse non si è ancora apprezzato adeguatamente lo sconvolgimento antropologico che tale sistematica scomposizione sta operando. Il prevalere sociale della razionalità tecnologica, ormai pervasiva di ogni ambito dell’esistenza tende ad assimilare a sé ogni forma di razionalità; ma la razionalità analitica e calcolatoria tecno-scientifica ed economica tende di per sé ad estraniare l’affettivo dalla sfera del vivere razionale, a immunizzare dagli affetti.

L’affettività, a sua volta, essendo sempre meno in comunicazione con criteri razionali e assiologici, si sviluppa in termini sempre più soggettivistici e anomici.

Si stabilisce così una sindrome culturale costituita da due momenti simmetrici e complementari: quello della razionalità come potere e quella dell’affettività come (sola) emotività, che si completano e si sostengono fra loro, scisse e complementari nella loro opposizione.

La sfera emozionale esclude la razionalità, la regola, la progettualità; la sfera razionale esclude invece l’esistenziale, il relazionale, l’affettivo. Si dà in tal modo una «fatale separazione di emozione e razionalità – afferma D. Kamper – che nessuna precedente epoca dell’umanità ha conosciuto in forma così acuta […]»: è in atto «una catastrofe emotiva»[1].

L’esperienza di vita diventa infatti schizofrenica e frammentata, come dimostra in modo sempre più esteso la biografia di molti: “razionalità” della vita pubblica e disordine crescente di quella privata; instabilità dei legami affettivi e “impossibilità” della vita famigliare, crisi profonda dei legami generativi-generazionali; fragilità nei confronti dei “pesi” o dei “compiti” dell’esistenza; insicurezza sempre maggiore nell’impegno educativo, ecc.

Analogamente si potrebbe dire sulla considerazione del corpo umano nella nostra cultura. Da una parte esso è “corpo tecnologico”, oggetto di sperimentazione e di manipolazione, dall’altra è “corpo di desiderio”, vissuto e pubblicizzato come sacrario della soddisfazione privata e dell’autoesaltazione erotica ed estetica. Tutto ciò comporta, sotto l’esaltazione dei successi tecnologici e l’esibizione dei corpi, un progressivo preoccupante prevalere dell’impersonale: la corporeità tecnologica e la corporeità pulsionale impongono di fatto una visione del mondo i cui protagonisti sono la forza organizzativa e l’energia del desiderio possessivo e in cui la persona e le sue relazioni personalizzate spariscono.

Ciò che ormai è in gioco non è, dunque, qualche pur rilevante aspetto morale dell’esistenza, ma la possibilità della stessa costituzione dell’identità personale, cioè relazionale dei soggetti, la consistenza della loro biografia, la permanenza delle relazioni primarie significative. Insomma, la vita umana come contesto/tessitura valoriale.

La questione dell’affettività, del corpo, della razionalità sono strettamente congiunte con quella della libertà, che è oggetto addirittura di una duplice antinomia.

Nel contesto attuale di esaltazione del soggettivismo affettivo vigoreggia la rivendicazione insindacabile della libertà individualista, in cui la scelta è il valore assolutamente primo, se non esclusivo.

A tale rivendicazione, però, si giustappone in contemporanea una diffusa predicazione sui determinismi (neuronali, psichici, sociali), che sottraggono ogni spazio alla libertà e all’”eccedenza” dell’individuo; così, lo stesso soggetto sollecitato, da un lato, a rivendicare fino all’arroganza la sua libertà, è investito dall’altro del messaggio sul suo essere alla mercé degli apparati neuronali, pulsionali, mediatici, sociali, ecc: insomma, la libertà è bersaglio di un incitamento nevrotizzante a esercitare una libertà che non si possiede.

A questa antinomia interna della libertà se ne aggiunge una esterna, generata dalla incongruenza di una tale pratica libertaria individualistica con le esigenze del convivere. La dimensione intersoggettiva dell’identità umana è avvertita oggi in modo nuovo, così come il senso comune è sensibile alla dimensione pratica della solidarietà. Ma – questo è il punto – i due lati della libertà (potere di scelta e scelta del bene nel vincolo della relazione) rischiano di coesistere giustapposti e senza conciliazione.

Così, se, da una parte, è viva la sensibilità per i grandi valori dell’etica pubblica, quali le libertà civili, la tolleranza, la democrazia, la pace, la giustizia, la tutela dell’ambiente, ecc., valori in cui si afferma un senso forte di universalità, di uguale dignità dell’essere umano, di protezione delle relazioni tra gli uomini; dall’altra, esiste un’area assai vasta dell’esistenza in cui valgono criteri affatto diversi, anzi contrari, che prevalgono nella sfera individuale, o che si pretende che abbia a che fare solo con l’individuo: gli ambiti già considerati degli affetti, della sessualità, della generazione, della “qualità” della vita e, similmente, del consumo, dello spettacolo, del divertimento, ecc.

Questi squilibri sono sempre esistiti – si può osservare -, ma non sempre nella forma dell’antinomia, cioè della giustapposizione non avvertita e non problematizzata, che ha l’effetto appunto di ostacolare l’unità dell’esperienza, anzi di minacciarla dall’interno. Una condizione antropologica che, di conseguenza, rende difficile oggi pensare l’esperienza in termini di virtù; ma che, dall’altra parte, ha una via di uscita solo se è possibile riavviare processi di apprendimento di un esistere consapevole e virtuoso.

V. Quanto più i problemi della vita in comune si fanno grandi, complessi e rischiosi, cioè globalizzati, tanto più è un errore di prospettiva pensare che vi si possa adeguatamente provvedere con dispositivi (istituti, norme, regole, procedure) sempre più grandi e complessi. Tali dispositivi sono necessari e inevitabili, ma sono anche strutturalmente insufficienti; anzi, per sé soli aumentano il rischio.

Torniamo così all’inizio del nostro discorso; l’autonomia e la complessità delle strutture non è un’obiezione al vissuto virtuoso, al contrario. Proprio il primato strutturale e funzionale delle tecniche (comunicative, finanziarie, economiche) della riorganizzazione del mondo attuale toglie ogni equivoco a proposito della loro autosufficienza e automatismo quanto ai fini proposti.

Certamente gli apparati tendono ad essere autotelici, cioè a prendere se stessi come fine della loro attività; ma appunto ciò è l’inizio di un processo di distacco dai bisogni sociali cui dovrebbero provvedere e dai beni richiesti dalla vita in comune. Certamente l’uomo oggi vive sempre più in simbiosi con le forme della sua tecnica, ma questo non vuol dire che debba diventarne l’appendice, piuttosto che esserne, nella misura del possibile, il decisore. Ma questo dipende dall’alternativa tra un soggetto della tecnica costituito da uomini “senza qualità” (Musil), che accettano che il mondo diventi, secondo la visione di Luhmann, un apparato in cui il soggetto umano non conta, e invece un soggetto consapevole che le sue qualità di prudenza, temperanza, giustizia e fortezza contano in modo irriducibile rispetto al meccanicismo degli apparati. Come già ricordava a suo tempo J. Ladrière il “nodo” degli apparati umani è comunque sempre l’“azione” umana e la sua qualità.

I competenti, comunque, ci avvertono che anche i mondi più astratti e virtualizzati come quelli della finanza, caratterizzata da incertezza e asimmetria informative, non possono prescindere dall’elemento della fiducia, che non può essere affidata a meccanismi impersonali; che, anzi, probabilmente l’adozione di comportamenti meccanicistici produca nei mercati finanziari risultati inefficienti e generi irresponsabilità diffusa. Cosa che ha riscontri significativi nell’ultima (o prima nel mondo globalizzato) crisi finanziaria.

In generale, un sistema di regolamentazione “perfetto” che delimiti il confine tra comportamenti finanziari accettabili e inaccettabili probabilmente non esiste e non può esistere; quello che può esistere è piuttosto “il coraggio di una ‘imperfezione’ che punti a sostenere la prudenza intesa come virtù specifica di chi intraprende un’azione rischiosa nel tempo e nell’incertezza, costruendo patti durevoli”[2]. Analogo, e ancor più evidente, discorso si può fare nell’ambito economico e del lavoro, come è avvertito sempre più ampiamente dai competenti; rivelativo in proposito il titolo del recente volume Alla radice dello sviluppo. L’importanza del fattore umano[3].

Come argomento per opposizione si può citare il 44° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese della Fondazione CENSIS, che – come è noto – vede nell’involuzione narcisistica autoreferenziale del consumismo individualistico la causa di un calo del “desiderio” nella capacità di affrontare la realtà, curare le risorse, organizzare le forze in senso lato produttive. “Il nodo - è scritto -, che si è andato aggrovigliando negli ultimi anni [è] un franare verso il basso dell’intima consistenza di individui, soggetti collettivi, istituzioni” (p. 2), perché nella prassi educativa e sociale il desiderio non è stato sostenuto, orientato, elevato, ma è stato lasciato in balia dell’arbitrio, non trovando più nella “legge” (psichica del contenimento) la sua polarità indispensabile. Che è come dire, col linguaggio antico, che le passioni non hanno più ricevuto forma dalla ragione, così che gran parte delle virtù relazionali necessarie per dar forma alla vita civile sono andate perdute, perché non sono più state alimentate e fatte crescere. Sono cadute in oblìo o, meglio, rimosse, come dicevamo.

Osserva, infatti, sinteticamente il Rapporto, “se, come dicevano i greci, virtuoso è colui che sa modulare la potenza del proprio desiderio [… e così mantenendolo vitale, evitando che si estenui], allora non è paradossale dire che tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita” (p. 8).

Una nazione si nutre come di linfa vitale delle pratiche eccellenti dei suoi figli, e ancor più del sua patrimonio di virtù eroiche. Basta guardare indietro al più prossimo momento di rifondazione etico-politica del nostro paese, dopo la Liberazione, e al tesoro di eroismo, religioso e laico, palese e appartato (ma visibile) che l’ha resa possibile per riprenderne coscienza: simbolicamente questa basilica di san Giovanni in Laterano si eleva poco distante da un cupo edificio di via Tasso…

E bisogna coltivare anche la virtù morale della memoria volontaria e ricordarsi che come ogni patrimonio anche questo ha bisogno di essere ben impiegato e rinnovato; diversamente è destinato a consumazione sino all’indigenza e all’annullamento. Al termine del processo la Nazione manca di un suo alimento indispensabile per dare frutti di vita buona, comune civile: quando queste cose mancano con troppa frequenza è segno che si è giunti vicino alla consunzione.

La sfida educativa trova qui un fronte decisivo, non solo per la serietà della materia, ma anche per l’esigente richiesta di autenticità che essa pone. Perché l’apprendimento delle virtù o, meglio, la capacità di suscitare e alimentare vite virtuose, mette a severa prova anzitutto gli educatori. Tale capacità infatti non è cosa dottrinale o astrattamente metodologica, affidabile a un sapere costituito o a dispositivi sicuri.

La virtù non si insegna – pensava già Aristotele –, la si rende possibile con l’esempio, l’accompagnamento, la correzione, da parte di una vita già virtuosa. Perché si tratta di una qualità di vita che si trasmette solo con la vita, suscitandone il desiderio, sollecitandone la libertà, rigenerandone la forma , creandone l’ambiente adatto. Ma è esattamente su questa volontà e capacità di trasmettere la vita con la vita che la nostra esperienza e la nostra cultura debbono oggi interrogarsi sinceramente.

2/ Relazione del prof. Luigi Frudà (Sapienza – Università di Roma)

Devo confessare – e mai luogo fu più adatto di questo dove stasera siamo riuniti – che soltanto una robusta dose di temerarietà o, per rimanere al tema, di mancanza di ‘prudenza’ può avermi convinto ad accettare l’invito che mi è stato rivolto a trattare in questa sede, anche se a mio modo, un tema di così enorme complessità come quello della virtù.

Il mio sarà un tentativo, del quale siete chiamati ad essere testimoni e giudici, più dal punto di vista pragmatico per una ipotesi di progetto educativo possibile in un contesto complesso come quello metropolitano piuttosto che sul versante delle etiche della virtù e della filosofia morale.

Da dove e come iniziare?

Dopo vari tentativi ho scelto di iniziare, non per un artificio retorico ma soltanto per una esigenza di sintesi argomentativa, dalla fine, cioè da una delle possibili conclusioni che potrebbe essere formulata con qualche approssimazione nel modo che segue.

La virtù è essenzialmente esercizio pratico, cioè concreto, della virtù, o meglio ancora delle virtù, e trova un suo territorio elettivo ed anche specializzato nella relazionalità, cioè nelle relazioni di ciascuno di noi con i sistemi relazionali che quotidianamente attraversiamo e costruiamo: relazioni fra persone, relazioni fra individui e collettività plurali, relazioni fra collettivi e sistemi sociali strutturati.

Quindi il territorio azionale ed operativo da attraversare e l’impegno da erogare sta certamente anche in territori individuali ma soprattutto trova concretezza ed efficacia virtuosa nell’essere fatto relazionale sociale.

Dal che si comprendono due piccole derivate: che chi vi parla si occupa soprattutto di dinamiche sociali, di sociologia e di ricerca sociale e che qualsiasi corsista di Teologia morale, prima ancora che un maestro e studioso di Teologia morale, potrebbe legittimamente invitarmi a ripetere l’esame con la raccomandazione di studiare e impegnarmi un bel po’ di più per il semplice fatto che con quanto sopra abbozzato come conclusione e definizione ho eliminato o reso subordinata la relazione primaziale con Dio. Un maestro di Teologia morale come edificante e costruttiva riparazione mi precetterebbe quanto meno allo studio di autori classici sul tema come Agostino Vescovo di Ippona e Tommaso d’Aquino. Un filosofo morale, più laicamente, potrebbe farmi notare che mi si aprono davanti, con quel tipo di definizione, parecchie strade anche dalle opposte direzioni: per un verso percorsi che possono attraversare costruttivamente le vie del personalismo nelle sue varie forme e per un altro verso possono portare a derive individualiste, comportamentiste, psicologistiche e utilitaristiche anche estreme.

Ebbene, sulla questione non sono omissivo: esplicitando, secondo corretta metodologia, le mie premesse di valore, do al contrario per scontato, da cristiano e cattolico, che la virtù, con Agostino, è alla base “ordo amoris” (Agostino, De civitate Dei, XV, 22: “Unde mihi videtur quod definitio brevi et vera virtutis: ordo est amoris”), cioè una dinamica dell’amore che, gerarchicamente ordinata, ha al suo vertice Dio, quel Dio-Amore Supremo che nel sacrificio di Cristo, e nella evidenza della dimensione storica, ci “giustifica” restituendoci liberi a percorsi di Grazia.

La scelta socio-relazionale è quindi una scelta di campo di tipo pragmatico ed applicato. Tanto premesso, provo ad intercettare un inizio argomentativo assonante e praticabile.

Fuori da esigenze di definizione, mi chiedo, ed è giusto chiedersi, cosa vi sia, nella costanza storico-culturale, nella definizione di virtù.

Ogni testo che tratta di virtù non può omettere di evidenziare che il termine virtù viene da vir, corrispettivo latino del greco αρετή, e rinvia ad una abilità per eccellere, una qualità espressa dalla forza, e nelle sue articolazioni e nei suoi significati classici di uso è collegata a valori come il bene, la bontà, l’onore sino ad una caratterizzazione di genere come quello maschile (vir) dove forza e coraggio fanno le caratteristiche del maschio con la vocazione e specializzazione implicita del guerriero. Nella mitologia e nella allegorica romana la virtù insieme alla giustizia è figlia della verità ed è associata all’onore militare e alla gloria[4].

Con l’intermediazione di Aristotele e Tommaso d’Aquino, fra classicità, medioevo e modernità si è venuta a precisare e consolidare una tradizione iconografica e allegorica dove - prendiamo come esempio ricorrente Il trionfo della Virtù di Andrea Mantegna (1499-1502, ora al Louvre di Parigi) - la virtù viene rappresentata come un guerriero - nell’opera citata, Minerva con elmo, corazza e lancia - dove insieme alla Fortezza si unisce la Saggezza, cioè il valore intellettuale della mente umana che si adopera a scacciare i vizi come l’ignoranza, l’avarizia, la lussuria, l’ingratitudine, l’accidia, l’odio, la malizia mettendo in campo, in questa lotta, anche la Giustizia e la Temperanza.

Nella parte terza del Catechismo della Chiesa Cattolica, alla Sezione prima, Capitolo I, Articolo 7 la virtù viene definita (n. 1803) come “una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete”.

La Virtù implica quindi un agire concreto, un operare, in varie forme e metodologie, nella direzione del bene.

Di questo operare intendo porre in evidenza l’operare in “relazione a”, cioè il dominio territoriale proprio dell’agire in società.

E seguendo come traccia argomentativa la costruzione progressiva di relazionalità sociali a seconda delle varie tappe della vita di ognuno di noi, il primo nucleo, per così dire, genetico e organizzativo che intercettiamo è la famiglia.

Luigi Sturzo nella sua più importante opera sociologica La società sua natura e leggi (1935) trattando e generalizzando, secondo il suo linguaggio, della “società in concreto” e delle sue “forme ”di base, cioè del “ modo o la ragione propria del concretizzarsi della società”, individua nella “forma familiare”, nella “forma politica” e nella “forma religiosa” le tre “esigenze fondamentali di ogni singola società storica”. E fra queste definisce la famiglia come il primo nucleo di ogni società. Nella famiglia, scrive, si sostanzia un doppio “istinto, quello sessuale e quello parentale” e in essa si realizza un primo fondamentale vincolo ingegneristico-sociale che è quello di ”una prima presa di coscienza sociale”.

Senza procedere oltre su questo terreno, è indubbio che la famiglia e i meccanismi di socializzazione primaria costituiscono il perimetro primo entro il quale si incardinano e via via si sviluppano le pratiche quotidiane della nostra vita e all’interno di queste la definizione, nel concreto, di virtù e delle pratiche virtuose.

Al numero 1810 (Cap. 1, art. 7) della parte terza del Catechismo della Chiesa Cattolica viene esplicitato che le virtù umane “sono acquisite mediante l’educazione” ed esse (n. 1804) “sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell'intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede […]. L'uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene”.

Quindi da un lato un contesto primario sociale e relazionale che parte dalla famiglia e dalle agenzie di socializzazione primaria e dall’altro libertà, intelligenza, volontà.

Ma, cos’è la famiglia oggi? Quale è il contesto sociale nel quale essa si muove e nel quale possono incardinarsi comportamenti responsabili, individualmente e socialmente virtuosi?

Interrogativi ai quali dare risposte nel concreto per non cedere alla tentazione di parlare in astratto sia dell’esercizio della virtù che della stessa famiglia come tipo sociale ideale a vocazione regolativa.

La prima affermazione osservativa ed empirica che va fatta è che i sistemi sociali della contemporaneità, e al loro interno le famiglie come nuclei costitutivi della società, sono attualmente in una fase di profonda mutazione e continua trasformazione.

E ciò non in un percorso a cronologia secolare o plurisecolare, ma all’interno di una frazione temporale brevissima che possiamo fissare, ad esempio per l’Italia, in pochi decenni: al massimo quaranta o cinquanta anni. Con maggiore precisione temporale possiamo affermare che nell’arco di soli venti/trenta anni sono cambiate le tipologie di famiglia, lo stesso modo di stare insieme come gruppo familiare, il modello culturale e relazionale all’interno della famiglia, i ruoli agiti dai singoli componenti all’interno delle nostre famiglie. Il tutto con più di un trauma, spesso dirompente sul piano individuale, collettivo e culturale. Con l’aggravante di un processo fortemente velocizzato da contesti sociali più generali a loro volta attraversati da dinamiche continue, veloci e per molti aspetti stressanti.

Di tutto ciò ciascuno di noi ne ha diretta e personale esperienza quotidiana, storico-sociale e culturale, per cui non è il caso di aggiungere altro. Ma va rilevato il fatto che questa mutazione comporta una grande fatica relazionale, una grande fatica culturale, una grande incertezza progettuale e a una grande preoccupazione anche sul piano morale e delle scelte comportamentali.

Malgrado ciò non vi è da gridare al dramma, al catastrofismo o, come è stato detto ed enormemente amplificato, alla “liquefazione” della società, allo “ sfarinamento” del tessuto sociale.

Abbiamo soltanto problemi nuovi che ci chiamano ad adattamenti e risposte nuove sul piano individuale, di gruppo e di macrocollettivi e sul piano della modellistica culturale ed educativa.

Soffermiamoci, in modo sintetico, sulla mutazione strutturale intervenuta sia all’interno delle singole realtà familiari sia a livello di collettivo sociale complessivo. Perché solo in questo modo riusciamo a comprendere quale è il terreno operativo nel quale si incardinano le pratiche quotidiane virtuose, quali sono i limiti a queste azioni, quali sono le sfide quotidiane che siamo chiamati ad affrontare e quali sono gli adattamenti educativi e di modello da porre in atto.

Qualche dato appena di natura strutturale.

Nel 1971, in Italia, eravamo residenti in poco più di 54 milioni, nel 2010 poco più di 60 milioni. Nel 1971 quando ci contavamo in 54 milioni avevamo circa 16 milioni di famiglie, nel 2010 arriviamo a 60 milioni di residenti e contiamo circa 25 milioni di famiglie!

Cosa è successo? O più esplicitamente: cosa abbiamo combinato?

Semplicemente che il progetto famiglia si è di molto impoverito.

Nel 1971 il numero medio di componenti totali per famiglia era di 3,4, mentre nel 2010 del 2,4. Non solo, ma mentre nel 1971 le famiglie composte da un solo componente erano circa il 18%, nel 2010 arriviamo al 28%; le famiglie con 5 componenti totali nel 1971 erano circa il 12%, nel 2010 circa il 6%.

E andando ancora avanti di un qualche passo in questa ultra-sintetica analisi troviamo che nel 1971 (quando eravamo 54 milioni) contavamo circa 6 milioni di persone al di sopra dei 65 anni, nel 2010 (quando siamo cresciuti in 40 anni di soltanto 6 milioni) ne contiamo il doppio, cioè oltre 12 milioni.

E per comprendere meglio quali scompensi sono venuti a determinarsi in soli 40 anni, basti riflettere sul fatto che sulla popolazione del 1971 le persone al di sopra degli 85 anni erano 349.000, mentre oggi, sulla popolazione 2010, le persone al di sopra degli 85 anni sono circa 1.600.000 (quasi cinque volte di più rispetto al 1971) con l’effetto che la piramide demografica delle età ne esce stravolta sino ad assomigliare ad una pera, con alcuni vistosi rigonfiamenti nella parte alta e molto corrosa alla base.

Nel complesso basta solo un dato statistico a leggere questa dinamica: mentre l’indice di vecchiaia era nel 1971 pari a 46,1, oggi siamo a circa 132,5: il che sta a significare che siamo prossimi ad avere una popolazione di over-65 del 25% sul totale, con una previsione, a tendenza invariata, del 28% nel 2030. Non ci consola il fatto di registrare all’interno enormi differenziazioni territoriali fra le regioni italiane: la Liguria, la Regione più vecchia d’Italia, ha un indice di vecchiaia pari a 242 - gli ultrasessantacinquenni sono il 27% della popolazione della regione, che sul dato Italia corrispondono al 3,6% di tutta la popolazione anziana italiana - mentre la Campania, la più giovane, è al 76,9% con una quota di ultrasessantacinquenni pari a circa il 16% della popolazione.

Roma ne è un esempio più che calzante e per certi aspetti preoccupante: al suo interno ingloba municipalità con un indice di vecchiaia pari a 234,2% come nel caso della IX municipalità (corrispondente al territorio di S. Giovanni), o del 264,6% come nel caso della XVII municipalità (Prati), cui si contrappone all’opposto la giovinezza della VIII municipalità (delle Torri nella zona Est oltre i municipi Prenestino e Casilino) con un basso indice di vecchiaia, l’84,9%, o della XII municipalità (EUR) e la XIII municipalità (Ostia) con un indice vicino alla parità con valori intorno a 100, a testimonianza del fatto che Roma è una realtà polimorfa e complessa sino a includere più città nella stessa città in un contesto metropolitano complesso la cui dinamica quotidiana finisce con il coincidere con l’intera realtà regionale. Non a caso si è parlato spesso di Roma come città-regione a scala di complessità sovra-regionale e nazionale per gli effetti aggiuntivi dell’essere anche città-capitale, città della politica e città a vocazione internazionale per la presenza dello Stato della Città del Vaticano.

Per tornare alla nostra analisi, una società quindi che – solo parzialmente protetta

demograficamente dai nuovi italiani, che, indipendentemente dalla correttezza statistica, continuiamo a chiamare, secondo stereotipo, extracomunitari o stranieri - invecchia velocemente, con l’aggravante che da un lato l’indice di fecondità è fermo al valore medio di 1,4 nascite per donna fertile con una tendenza al ribasso per ragioni strutturali, culturali e sociali - il minimo augurabile per il ricambio dovrebbe essere pari a circa il 2,1 - e dall’altro la vita continua ad allungarsi con una speranza di vita alla nascita stimata oggi (2011) in circa 79 anni per i maschi e 85 per le donne.

Cosa ha a che fare tutto questo con una riflessione sulla pratica della virtù nelle società contemporanee del post-moderno?

Molto e forse anche moltissimo se soprattutto interfacciamo le possibili riflessioni alle dinamiche sociali correnti e alla complessità degli stili di vita ormai prevalentemente metropolitani, a prescindere dagli specifici luoghi di residenza abituale.

Cambia profondamente sia il rapporto fra generazioni che il comportamento quotidiano dei singoli e dei collettivi sociali in una dinamica che è molto dilatata sul piano spaziale e territoriale e che modifica di continuo le dinamiche temporali quotidiane.

Ripartiamo da Luigi Sturzo: la famiglia come forma di base della società testimonia e realizza in concreto un doppio vincolo di natura strutturale, quello individuale e quello collettivo. In entrambi i casi si esplicitano reciprocità fondamentali fra individui, gruppi, parentali e non, e collettivi che hanno una relazione forte con “funzioni di ordine e difesa […] che è regolativa dei rapporti fra i singoli e la collettività e delle collettività fra di loro”; reciprocità che attengono, ad un livello più generale, a quelle dinamiche sociali riferibili alla “forma politica”. Nel tipico argomentare sturziano si intuisce una circolarità costitutiva e funzionale virtuosa fra individuo e società che ha la sua regola nella costante ricerca di una armonia nella responsabilità fra individui e collettivi, fra comportamenti e regole.

Ebbene, oggi viviamo una serie accelerata di frammentazioni che rischiano di mettere in difficoltà sia l’istituto familiare che l’agire politico soprattutto sul versante delle politiche sociali possibili.

Affrontiamone solo alcuni aspetti privilegiando l’ambito familiare ma senza spezzarne le relazioni, sia con il contesto strutturale che con le azioni regolative e di intervento della politica.

I dati che abbiamo sopra richiamato ci dicono che vi sono gravi sofferenze all’interno delle famiglie e che di ancora più gravi ne avremo di fronte. Abbiamo sempre di più famiglie unipersonali, famiglie di persone in età avanzata, famiglie senza prole o con un solo figlio o al massimo due, famiglie polimorfe e meno stabili.

Come si è arrivati a questo modello?

Fra le tante cause, una, certamente fondamentale, ha come riferimento genetico la veloce mutazione del modello culturale della post-modernità e come evidenza empirica la crescita di comportamenti egoistici ed egocentrati che chiamano in causa deleghe continue a territori altri, diversi da sé e che accentuano la tendenza alla deresponsabilizzazione.

Tutto ciò, è bene ripeterlo, non significa che siamo condannati al pessimismo, al peggio e alla disperazione: abbiamo soltanto squilibri da correggere e abbiamo da attivare riflessioni e interventi, compresi quelli educativi, più articolati e più complessi che vanno ben al di là del sentire e dell’intuito o consapevolezza individuale.

Ed è proprio qui che troviamo la saldatura fra comportamenti individuali, comportamenti, virtuosi o meno, ed effetti strutturali sul collettivo.

Pensate, già Sturzo, difendendo la famiglia come istituto sociale fondamentale, con preoccupata intuizione, imputava – e siamo nel 1935 - la decadenza del ruolo sociale della famiglia anche alla “limitazione della prole […] che deriva da volontà egoistica”; evidenziava che i divorzi – aveva davanti a sé dal 1924, anno del suo esilio londinese, l’esperienza dell’Inghilterra - erano “divenuti frequenti man mano che la famiglia si [era] impoverita spiritualmente, onde questa sarebbe del tutto decaduta se la religione non avesse supportato con la sua disciplina alla mancanza del sostegno e di rilevamento sociale”; denunciava disarmonie e interferenze negative della politica sulla famiglia e sulla sua autonomia.

Tutto ciò è riconducibile, in una visione delle virtù più allargata e rivolta anche al sociale e alla relazione individuo-società, alla minore presa di coscienza e minore responsabilità individuale e collettiva nei confronti del progetto famiglia.

La famiglia che cade nel gioco della instabilità e ritualità irresponsabile perde spinta etica a fronte del prevalere di logiche, per dirla ancora con Sturzo, individualistiche ed egoistiche.

E la politica, come “forma sociale” che non sostiene il progetto famiglia o che, con affanno, lo fa in forme troppo deboli ne accentua, direttamente o indirettamente, le negatività e non riesce a porre in campo azioni virtuosamente costruttive.

Ne deriva che le difficoltà, spesso pesanti, che sul piano strutturale la famiglia si trova oggi a vivere rendono faticoso o problematico l’esercizio pratico e quotidiano di virtù socialmente incardinate che sempre più vivono di tratti relazionali sia di coppia che collettivi.

Perché questa caduta di stabilità, di progettualità e di responsabilità?

Bisogna ritornare alle dinamiche e agli effetti della mutazione analizzata.

Non vi è dubbio che le grandi mutazioni intervenute hanno liberato risorse, atteggiamenti, comportamenti, stili di vita rimodulando anche i rapporti di genere, gli assetti economici e molti aspetti relazionali.

Posizioniamo all’interno di questa mutazione tutto ciò che abbiamo vissuto, nei singoli e nei collettivi, per l’intero arco degli ultimi 40/50 anni, e non possiamo non osservare che l’individuo come tale ha progressivamente guadagnato forti e fortissime quote di individualità, comportamentale, relazionale, economica e culturale.

In poche parole, bambini – proprio così, anche ‘bambini’ con i loro mercati di nicchia specializzati e ultra specializzati -, adolescenti, adulti, sia come individui che come collettivi, ma soprattutto come individui, si sono trovati nel corso di tali dinamiche, sempre più potenti, capaci cioè di generare sfere sempre più ampie di autonomia: autonomia dalla famiglia, autonomia dalle agenzie educative, autonomia dai collettivi, autonomia nel produrre dinamiche, autonomia decisionale, autonomia economica, autonomia culturale.

A fronte di tutto ciò si sono interfacciati mondi, anche funzionali, positivi e importanti, sempre più specializzati: la mobilità territoriale che meticcia più velocemente le culture locali e il modello culturale nel suo complesso, la diffusione della tecnologia, la diffusione della conoscenza e dell’informazione, il mondo della comunicazione e soprattutto l’autoproduzione di comunicazione anche istantanea da qualsiasi punto geografico e su qualsiasi evento a partire anche dai comportamenti individuali più singolari.

Tutto ciò ha sicuramente liberato grandi energie ed opportunità e nello stesso tempo ha generato, letteralmente, una esplosione di individualità, cioè “io”, individuo prima che collettivo e società, di fronte alle dinamiche del mondo.

Individualità, si badi bene, non ipotetica o soltanto psicologica o comportamentale a livello micro, ma supportata strutturalmente, cioè organizzata funzionalmente, in modo esteso e capillare e innervata nell’essere individuo. Il riferimento è all’individuo contemporaneo che ricco di protesi, tecnologiche, conoscitive e culturali, si muove a tutto tondo nelle realtà-mondo che sono, insieme, locali e globali e con gergo sociologico glocali.

Sottolineo: protesi che si innervano, in modo distribuito, capillare e planetario, in ciascuno di noi, e che costituiscono protesi del nostro corpo e delle nostre elaborazioni funzionali, mentali e culturali. Pensiamo soltanto, per semplificare al massimo, ad internet, alla telefonia mobile e al mondo del digitale ma anche alla fittissima rete di comunicazioni fisiche terrestri ed aeree e alla loro estesissima accessibilità economica.

Da questa esplosione, progressiva e velocissima, di individualità al – consentitemi - delirio di onnipotenza, spesso il passo è breve, senza con questo - e intendo sottolinearlo con forza e convinzione - voler concludere che tale processo di avanzamento sia culturale che tecnologico sia in sé negativo.

Al contrario, esso è ricco di grandi opportunità, soprattutto a livello globale, ma ci obbliga, tutti, ad un veloce adattamento culturale.

Un’altra riflessione che va messa in agenda è, all’interno di questo quadro, il passaggio strutturale – e mi riferisco con evidenza al mondo occidentale avanzato – da un mondo (quello premoderno e moderno) regolato sulla soddisfazione prioritaria dei bisogni primari ad un mondo, se non regolato, certamente sempre più proiettato alla soddisfazione di desideri.

In sintesi estrema, siamo passati da un mondo che aveva come obiettivo primario la soddisfazione dei bisogni materiali, ad un mondo che, una volta soddisfatta in ampia misura l’area del materiale, si rivolge sempre più a nuove esigenze, tutte del post-materiale che hanno attinenza con il desiderabile anche ben oltre una qualche soglia, più che ampia, del necessario: territorio che con tutta evidenza tende di per sé all’infinito e che si presta moltissimo ad essere sempre più frammentato e relativizzato.

Un progetto educativo che voglia incidere virtuosamente su tali dinamiche non può che riferirsi al recupero di senso collettivo del proprio progetto di vita, solo in apparenza singolare e al contrario fatto sociale a tutto tondo.

Educare alla tensione e missione del risultato attraverso il sacrificio continuo, personale e di gruppo, attraverso una assunzione continua di responsabilità individuale e sociale, attraverso la pratica rigorosa e quotidiana dei doveri prima ancora del reclamare sempre e comunque la primazia dei diritti (e spesso solo di essi), attraverso l’esercizio costruttivo della pazienza, della prudenza, dell’umiltà e del senso, altrettanto costruttivo , dei propri limiti e dei propri punti di forza, diventa sempre più urgente proprio a partire dalla famiglia e dai processi di prima socializzazione.

Come reagisce la famiglia all’impatto con questa frammentazione e con questa carica di potente individualismo?

La famiglia rimane un valore progettuale personale e collettivo di riferimento? In che misura essa dà senso al nostro progetto di vita e al progetto sociale nel suo insieme? In che misura le instabilità e le sofferenze, anche strutturali, odierne ne intaccano il ruolo progettuale, il ruolo culturale e il ruolo sociale?

Certamente possiamo affermare che se continuiamo a presentare come modello comunicato e di rappresentazione sociale idealtipica soltanto la famiglia delle coppie che “scoppiano”, anche in allegria, o che hanno difficoltà o, comunque, la famiglia senza durata o a tempo definito, un progetto educativo sulla progettualità familiare e sulla stabilità familiare ha qualche difficoltà in più ad essere, non dico, indottrinato o veicolato ma semplicemente testimoniato.

Ma qui ricadiamo di nuovo nel gergo giornalistico e nella vulgata corrente per cui la “normalità”, certamente di gran lunga maggioritaria e silente, non fa notizia, e facilmente si può cadere nel condividere acriticamente e senza differenziazioni affermazioni come quelle di Zygmunt Bauman[5], che da polemista critico quale è, scrive che, “sulla base di una esperienza ampiamente condivisa” tutti apprendiamo “fin dalla prima infanzia […] che le probabilità di sopravvivere alla propria famiglia sono molto esigue”. Il che con tutto il rispetto per il valore della provocazione offertaci da Bauman e per l’importanza delle sue analisi sulla contemporaneità è una affermazione, indipendentemente dal condividerla o meno, fondata su una generalizzazione superficiale o quanto meno forzata e non provata.

Calarsi nella concretezza del reale può aiutarci a comprendere meglio il problema.

Nelle attuali condizioni, molte famiglie sono, e sempre più devono essere, a doppia carriera, cioè devono poter sommare redditi del lavoro di entrambi i coniugi per sostenere il peso economico di un nucleo familiare, soprattutto in ambito metropolitano. Da ciò deriva, come rilevato da più indagini, che spesso il lavoro - il riferimento è al lavoro delle donne – viene addirittura visto (intorno al 42%) come un rischio per la famiglia e i figli[6], in una situazione di reale conflitto fra necessità, scelte e dinamiche familiari.

Quali sono le derivate reali e quotidiane?

Semplifichiamo, se si vuole, fino alla banalizzazione: problematicità, sino al ritardo o alla rinuncia, del progetto procreativo, affannosa e quotidiana rincorsa nella organizzazione del proprio tempo e dei tempi della famiglia, affanno e difficoltà nella gestione delle funzioni organizzative quotidiane della famiglia, elevata mobilità territoriale con pesante sovraccarico di consumo del tempo, difficoltà di conciliare e armonizzare i tempi individuali e collettivi della famiglia, necessità di deleghe funzionali relative ai bisogni primari di bambini e persone anziane non autosufficienti o comunque bisognose di una qualche assistenza anche temporanea, riduzione della relazionalità infragruppo e parentale, ricorso, spesso sovrabbondante, a comunicazioni mediate tecnologicamente, organizzazione frammentata, anche all’interno della singola famiglia, dei bisogni individuali.

Oggettivamente, una grande fatica e molti i rischi connessi, ad iniziare dai processi educativi collettivi - nel senso di gruppo primario - costruttivi e virtuosi.

Il rischio più immediato è quello di sommare parti fra di loro sconnesse e non armonizzate in un contesto esperienziale frammentato e con difficoltà riconducibile ad un agire collettivo educante.

Vi è un altro dato strutturale che si lega a queste dinamiche intrafamiliari ed è connesso al modo di elaborare esperienze, soprattutto nella prima socializzazione e nel mondo adolescenziale e giovanile.

In una situazione in cui può, di fatto, essere prevalente l’autogestione, anche per via tecnologica, mediale e anche virtuale, della propria produzione di individualità nella fase formativa di base, non è per nulla detto che si realizzi, per questa via, un optimum dello sviluppo.

Ad un contesto di apparente piena libertà sempre più spesso si accompagna il fare da soli piuttosto che il dialogicamente insieme, in assenza cioè dell’insieme congiunto di tutti i ruoli familiari, poco armonizzabili temporalmente per i fattori cui sopra si è accennato.

Credo vi sia da esprimere qualche preoccupazione sul fatto che soprattutto bambini e adolescenti, ma anche molti giovani, possano formarsi, spesso o in prevalenza, in solitudine e autogestione. Tanto più che un modello di costruzione complessivo della realtà vede oggi prevalere la realtà rappresentata, comunicata e mediata rispetto alla realtà realmente esperita e controllabile; gli effetti, diretti o indiretti, di tale modello, a volte e purtroppo, arrivano tristemente anche sulle pagine di cronaca nera.

In tale quadro, un progetto educativo e di supporto operativo va prioritariamente orientato nella direzione del sostegno alla maternità e alle famiglie viste nella funzione primaziale e sociale di unità sociali educanti che non esprimono bisogni astratti ma bisogni concreti, anche minimi e funzionali, calati all’interno di una pluralità di dinamiche individuali, relazionali e sociali quotidiane.

Come si può intervenire virtuosamente in una situazione come quella prospettata? La politica, i collettivi a vocazione pubblica, le aziende, singolarmente o fra di loro consorziate, possono, e forse anche devono, attivare, virtuosamente, servizi di sostegno alla maternità territorialmente diffusi e mirati, e le famiglie, dai gruppi parentali ai collettivi di famiglie, devono solidalmente mettere in atto progettazioni flessibili di autosostegno territorialmente diffusi e mirati. Come azione a copertura generale lo Stato può intervenire con azioni fiscali favorevoli e premiali, con bonus, con politiche strutturali di medio e lungo termine come quelle abitative per le giovani coppie, la mobilità territoriale e l’attrezzaggio di servizi mirati anche nella direzione dei bisogni delle famiglie di anziani.

Le famiglie devono sempre più educarsi ad attivare in reciprocità forme virtuose e innovative di solidarietà, creando reti territoriali solidali al bisogno a partire da scale sociali micro come quelle di quartiere, mettendo insieme energie collettive come quelle delle competenze, dell’autoaiuto e della risorsa-tempo che è sempre più preziosa e necessaria in ambienti quanto mai dilatati come quelli metropolitani: le banche del tempo e delle competenze possono essere un modello e molte organizzazioni già presenti sul territorio in modo continuo e consolidato, possono agire come collettori di energie individuali e sociali e come erogatori di risorse anche attraverso semplici reti di comunicazione.

In definitiva si tratta di controbilanciare l’aumento di spinte individualistiche con l’aumento di azioni solidaristiche rivolte alla scoperta degli altri e della pratica del bene comune, in una prospettiva che sostituisce all’egoismo del pensare solo per sé il valore del pensare anche per il bene e la felicità di tutti.

Ma come può entrare la politica e un soggetto pubblico, in apparenza, astratto, nel campo dei comportamenti virtuosi?

In primo luogo correggendo vizi ed errori pregressi che condizionano il piano strutturale sia dell’oggi che del futuro prossimo e venturo. E possiamo concordare sul fatto che correggere vizi ed errori possa essere già un primo indispensabile passo per incamminarsi sulla via della virtù pubblica.

Discorso e monito classico, antico e costante che ha ancora una sua valenza ed urgenza ed al quale bisogna sempre più richiamarsi nelle condotte virtuose cui ci chiama la complessità del presente.

Per distanziarci, senza estraniarci, dalla pressione che ci viene dal tempo presente possiamo richiamare, a monito pedagogico, il formidabile ciclo padovano delle Virtù della Cappella degli Scrovegni di Giotto e più ancora la famosa Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (Siena, Palazzo Pubblico, Sala dei Nove 1337-1340), dove i cittadini virtuosi accomunati dalla Concordia vincono i loro nemici sostenuti dalle milizie cittadine e da cavalieri armati, tutti insieme guidati dal Governo del Bene Comune assiso in trono ai cui lati, simmetricamente fra gli estremi, segnati a sinistra dalla Pace e alla destra dalla Giustizia, siedono la Fortezza, la Prudenza, la Magnanimità e la Temperanza; da un lato la Giustizia è istruita e fisicamente retta e ispirata dalla Sapienza, dall’altro, il Buon Governo è sovrastato dalla protezione e ispirazione generata dalle virtù teologali Fede, Speranza, Carità.

Riflettiamo appena un attimo, con profonda e sincera autocritica: Buon Governo e Bene Comune. Quante volte abbiamo tradito o visto tradire questa parallela e fondamentale relazione, che anche oggi ci presenta con tremenda evidenza un conto pesante, anche attraverso la semplice distrazione collettiva, prima ancora che attraverso silenti complicità e comportamenti individuali, e, soprattutto, attraverso la pratica omissione del pensare per tutti e del principio di solidarietà generazionale.

Qualche esempio concreto, può aiutarci a capire meglio i termini della questione e indirizzarci sul piano pragmatico e operativo.

Abbiamo verificato che siamo in presenza di una quota notevole e crescente di popolazione anziana. Nell’ottica del pensare per tutti e di adeguare i nostri comportamenti a principi pratici di bene comune, proviamo a chiederci cosa abbiamo fatto o stiamo facendo per attrezzare strutturalmente le città o i nostri territori a questa nuova realtà, in non pochi casi, veramente estrema e difficile.

Nella città di Roma il consorzio METREBUS ha attivato una serie di agevolazioni e gratuità, a determinate condizioni di reddito, per i portatori di handicap e per anziani over-70: ebbene, malgrado siano intervenuti di recente notevoli miglioramenti, parecchie stazioni della linea metropolitana A non sono ancora accessibili ad una utenza particolare come quella degli anziani e dei portatori di disabilità. Gli stessi percorsi per l’utenza ‘normale’ – giovane o meno – presentano evidenti difficoltà di accesso non appena ci si trascini dietro un qualche bagaglio (leggi sbarramenti e scale) o si sia in una situazione di lieve impedimento fisico (leggi, un bastone o una stampella). Sembrerà una cosa minima e irrilevante: consiglio di provare per credere! Da notare che la prima linea (la B) è attiva a Roma dal 1955 e la linea A è attiva dal 1980: un tempo, probabilmente più che congruo per poter produrre analisi di qualità e valutare interventi attivi sulla base di pregi, difetti e bisogni vecchi e nuovi.

Qui evidentemente rileviamo, con evidenza, una mancanza di pensiero, progettazione e organizzazione nella direzione del pensare nella direzione di tutti, sani e meno sani. Se continuiamo a ritenere che questa situazione sia una cosa minima, che non rileva ai fini di comportamenti virtuosi nella gestione della cosa pubblica e che in fondo sia una questione tecnica che non deve coinvolgerci più di tanto, siamo fuori da una visione sociale e responsabile dei doveri pubblici e collettivi sino a scivolare nel radicalismo negativo del pubblico di nessuno piuttosto che del pubblico di tutti.

Del tutto diversa la prontezza della risposta in parecchi ambienti privati e di mercato: la società METRO, multinazionale e quarto gruppo mondiale nel campo della grande distribuzione, ha messo a punto in Germania a partire dalla città di Bitterfeld una filiera di servizi orientata alla utenza anziana che è in forte aumento in tutto il paese. Sono stati predisposti piccoli trasporti aziendali che passano a casa dei clienti, li portano ai supermercati e li riaccompagnano a domicilio; nello stesso tempo si sta procedendo ad una riprogettazione interna dei supermercati con corsie più larghe, cartellonistica di grande formato, espositori più accessibili e a portata di anziano, servizi aggiuntivi e isole protette e appartate di riposo. Fin troppo facile reagire con un giudizio di comportamento interessato, ma altrettanto facile controbattere che di fatto si realizza in parallelo una ricaduta di qualità individuale, funzionale e sociale su soggetti deboli: una progettazione che ha al suo interno elementi sociali virtuosi che combattono nel concreto l’esclusione sociale dell’anziano.

Passando bruscamente dal micro al macro propongo una riflessione strutturale a scala nazionale ed europea.

All’interno del complesso della spesa sociale, l’Europa spende sulla voce pensioni e invalidità il 54% delle sue risorse, l’Italia il 67%; per l’Europa si tratta del 14,1 % del PIL, per l’Italia il 21,5% del PIL e si badi 1 punto di PIL equivale a 15 miliardi di Euro (per chi ha ancora la lira come riferimento circa 30.000 miliardi di vecchie lire). Come termine di confronto per l’Italia possiamo prendere la Francia che spende il 18,6% di PIL sulle stesse voci.

La domanda alla quale rispondere: perché tanta differenza nella situazione italiana? Con quali effetti sulla nostra spesa sociale?

E per ritornare alla nostra riflessione sulla virtù, chiamando in causa anche qualcuno o più d’uno dei comandamenti: come siamo arrivati a questa situazione? Di chi sono le responsabilità dirette e indirette? Possiamo dirci, sulla materia pensionistica e sulle invalidità, in generale e in particolare, senza peccato? Noi come individui (comportamenti e prassi correnti) e noi come collettivo (cittadini nelle organizzazioni portatori di interessi e cittadini nella politica) possiamo dichiararci senza colpa?

Si può dire che questo tipo di riflessione sta fuori dal discorso sull’esercizio pratico delle virtù relazionali, collettive e sociali?

Ci rendiamo conto che in questo modo, con i nostri comportamenti pregressi individuali e collettivi, abbiamo incassato, consumato o ipotecato in anticipo un bel pezzo di futuro dei nostri giovani e delle generazioni avvenire, mentre invece altre nazioni a noi similari possono avere maggiori risorse libere da destinare a politiche sociali mirate sulla famiglia, sui giovani, sul lavoro, sulla edilizia pubblica e più in generale alle politiche sociali e del lavoro?

E dato - come sopra evidenziato - l’aumentare degli anni di vita e l’alto numero di

popolazione anziana in Italia (record europeo), quando potremo avere risorse libere o aggiuntive per le generazioni più giovani?

Di fatto abbiamo creato, strutturalmente, una competizione sleale, individuale e collettiva, con le generazioni avvenire prima ancora della loro discesa in campo o come nuovi nati o come cittadini che si affacciano alla maturità delle dinamiche sociali. Il primo regalo che presentiamo ai nostri figli appena venuti al mondo e subito cittadini è una fetta non indifferente del nostro ‘scialo’ sociale pregresso trasformato a loro carico in debito da saldare.

Riprendo l’interrogativo di cui sopra: possiamo dire di essere stati virtuosi come individui? Siamo stati virtuosi come collettivo, come politici, come decisori pubblici e come legittimi rappresentanti di interessi?

Qualche dubbio, ritengo, dovremmo averlo.

Dai dati strutturali che abbiamo esaminato e dalle ricadute che ne derivano comprendiamo che vi è in atto una dinamica disarmonica fra generazioni, soprattutto fra adulti e anziani, fra anziani sempre più anziani e soli e giovani che sempre più tardi entrano nell’età adulta, nel progetto sociale e nei progetti familiari, che si diversificano, si diluiscono nei rapporti di coppia e si differiscono nel tempo quanto a progetto procreativo che, come visto, si è impoverito di molto.

Come collettivo bisogna che ci si impegni molto di più e in modo più articolato nel dare soprattutto ai giovani fiducia, speranza e ottimismo nel progetto individuale e sociale del loro corso di vita. E bisognerà impegnarsi come comunità in cammino molto di più sul piano educativo e formativo per un arco più lungo di tempo sino all’età adulta ma partendo con più incisività e consapevolezza dalla socializzazione primaria.

Impresa tanto difficile quanto possibile e indispensabile se si tiene conto delle condizioni strutturali richiamate e degli stili di vita della contemporaneità. L’impresa è individuale e più ancora collettiva.

E infine, per concludere, permettiamoci una buona notizia.

La virtù non è morta, non sta nemmeno male e non e mai partita!

Chi ci autorizza a questa coraggiosa e apparentemente imprudente affermazione?

La prima prova potremmo ricavarla dalla condivisa e comune testimonianza della riunione di questa sera e da tutta una serie, veramente incalcolabile di iniziative che ruotano intorno alla vita della Chiesa in tutta la sua distensione e organizzazione territoriale qui a Roma, in Italia e nel mondo. Iniziative che sono tutte incanalate nella direzione sia della promozione che della pratica reale della virtù, dell’andare incontro al prossimo e ai bisogni del mondo in mille e mille forme.

Iniziative, la grande parte delle quali silenti, per nulla chiassose e che non cercano la ribalta dell’apparire e l’eco mediatica. Si sostanziano quotidianamente nel fare e nella pratica evangelica e umana della gratuità del dono. Vi concorrono religiosi, religiose, diaconi permanenti e numerosissime collettività cattoliche[7].

Ma la virtù non è una esclusiva monopolistica dei cattolici e dei cristiani: una massa enorme di persone si muove nella direzione del bene e della pratica delle virtù.

Ma, come si suole dire in gergo giornalistico, una buona notizia non fa notizia mentre una cattiva notizia è una buona notizia.

Malgrado la tentazione sia veramente forte, non mi azzardo a citare un solo titolo della immensa letteratura sulle opere virtuose di oggi e di ogni tempo: mi permetto di invitare tutti a frequentare questa letteratura che, come le cose buone e genuine, va cercata, letteralmente scovata con attenzione e costruttiva curiosità, coltivata con cura in luoghi di cui essere gelosi e generosi sostenitori, a partire dal circuito delle parrocchie e delle librerie cattoliche e non solo da esse.

Troveremo al contrario in grande evidenza e dappertutto, con ampia e capillare diffusione, la letteratura che denuncia, a ragione e anche a torto, negatività vere e certamente degne di preoccupazione e rilievo, insieme a letterature e pubblicistiche istantanee che, molto spesso, sono costruite sul filo della sottile e fin troppo facile malizia del dubbio, del sospetto e anche di artefatti assimilabili alla menzogna.

La seconda testimonianza la ricavo da un dato strutturale di natura sociologica, da quelli che la ricerca sociale individua da molto tempo e con sempre maggiore evidenza come corpi sociali intermedi, cioè come realtà associative collettive che si pongono strutturalmente fra i due grandi attori strutturali delle nostre società costituiti dallo Stato e dal Mercato.

Si tratta di una realtà variegata, polimorfa e diffusissima all’interno della quale anche le realtà cattoliche si muovono e operano a partire da quadri dottrinali storici e autorevolissimi: cito per tutti la Lettera enciclica Rerum Novarum del 1891 di Papa Leone XIII, la Sollecitudo rei socialis del 1988 di Papa Giovanni Paolo II, e la magistrale sintesi operativa reperibile nei nn. 1882 e 1883[8] della Parte terza del Catechismo della Chiesa Cattolica (1997).

Ma anche qui, giova ripeterlo, la società civile virtuosa non è monopolio ed esclusività del mondo cattolico.

Fra i possibili indicatori empirici ne richiamo, in chiusura, uno soltanto: quello relativo alla variegata realtà del volontariato, che anche se non riconducibile direttamente a processi di per sé costitutivamente virtuosi, sia sul piano individuale che su quello sociale restituiscono il segno di una dinamica collettiva che muove, anche attraverso la produzione di nicchie derivate a bassa valenza economica, nella direzione del servizio rivolto agli altri e al mondo dei bisogni.

Dati di non molti anni fa dell’Istituto Nazionale di Statistica sulle Organizzazioni di volontariato in Italia (2006) ci dicono che questa realtà conta su poco più di 21.000 unità, con una crescita costante a partire dalla legge 266 del 1991 sul Volontariato. All’interno di tali organizzazioni, regolarmente iscritte a norma di legge nei registri regionali, vi operano circa 870.000 persone che contano e classificano 12.000 dipendenti, 13.000 collaboratori, 7.000 religiosi, 9.000 volontari del servizio civile e 826.000 volontari. La gran parte di questi operano nei settori dell’assistenza sociale, della sanità e dei servizi alle persone; soltanto per un 35% dipendono da risorse pubbliche e al loro interno sono attivi sia giovanissimi (22% sino a 29 anni) sia adulti (41% fra 30 e 54 anni; 23% fra 55 e 64 anni).

Va sottolineato che non vi è fine di lucro, si opera per libera scelta e a titolo gratuito con una specializzata missione comunitaria ed etica. Una realtà che merita più rispetto, molta attenzione e maggiore cura e promozione a più livelli e in più stadi dei corsi di vita individuali e collettivi di ciascun ambiente sociale.

Una realtà che può farci dire e certamente sperare, con le parole dell’illustre anonimo manzoniano dei Promessi Sposi (siamo al capitolo 38°, quello finale), “che si dovrebbe pensare più a far bene che a stare bene: e così si finirebbe anche a star meglio”.

Note al testo

[1] D. Kamper, Desiderio, in AA.VV., Cosmo, corpo, cultura, a cura di R. Bodei, Mondadori, Milano, 2002, pp. 1021 sgg.

[2] S. Beretta, Finanza, fiducia, regole. Dimensione antropologica e strumenti di regolamentazione nel sistema finanziario globale, intervento al Convegno Capitalismo avanzato e finanza innovativa, Milano 24-25.03.11, pro-manuscripto.

[3] Guerini, 2011.

[4] A Roma esisteva un Tempio dedicato all’Onore e alla Virtù nei pressi di Porta Capena, al cui interno era custodito un famoso globo terrestre detto di Archimede, portato a Roma da Siracusa dal Console Marcello nel 212 a.C.

[5] Zygmunt Bauman, In search of politics, Polity Press, 1999.

[6] Fonte: Indagine Censis – Schering, 2006

[7] Cfr. Annuario Statistico della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2010.

[8] Catechismo della Chiesa Cattolica, CCC, Parte Terza, n. 1882:Certe società, quali la famiglia e la comunità civica, sono più immediatamente rispondenti alla natura dell'uomo. Sono a lui necessarie. Al fine di favorire la partecipazione del maggior numero possibile di persone alla vita sociale, si deve incoraggiare la creazione di associazioni e di istituzioni d'elezione «a scopi economici, culturali, sociali, sportivi, ricreativi, professionali, politici, tanto all'interno delle comunità politiche, quanto sul piano mondiale». Tale «socializzazione» esprime parimenti la tendenza naturale che spinge gli esseri umani ad associarsi, al fine di conseguire obiettivi che superano le capacità individuali. Essa sviluppa le doti della persona, in particolare, il suo spirito di iniziativa e il suo senso di responsabilità. Concorre a tutelare i suoi diritti”; n. 1883:La socializzazione presenta anche dei pericoli. Un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l'iniziativa personali. La dottrina della Chiesa ha elaborato il principio detto di sussidiarietà. Secondo tale principio, «una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».