Riflettendo sul Qohèlet (testi di Salvatore Natoli, Laura Badaracchi e Andrea Lonardo)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /07 /2011 - 22:12 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 7/7/2011, una sintesi curata dal quotidiano cattolico della postfazione del filosofo Salvatore Natoli al volume Chi era Qohelet?, dell’ebraista Amos Luzzatto che esce in questi giorni da Morcelliana. L’articolo era accompagnato da un testo di Laura Badaracchi che mettiamo anche noi a disposizione. Infine, ripresentiamo un breve testo di Andrea Lonardo ad ulteriore commento. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/7/2011)

1/ Il libro del profeta «io» che parla al mondo, di Salvatore Natoli

Non entro nel merito dell’ipotesi formulata da Amos Luzzatto, secondo cui Qohelet – almeno quello che parla – sarebbe una donna. Lascio ai filologi e ai critici del testo il compito di definire la validità o meno di una tale ipotesi. Per quanto mi riguarda, non mi meraviglia affatto che parole di sapienza siano poste sulle labbra di una donna e che proprio a un donna sia assegnato il compito d’essere maestra di verità. Lo è certamente nel Simposio di Platone: lì è Diotima, donna dotta di Mantinea, che interroga Socrate e gli svela la vera natura di Amore. Ma uomo o donna che sia, chi, fin dall’inizio, entra da protagonista è l’individuo.

Si tratta di una sorta di io narrante e osservatore, che racconta di sé e delle sue esperienze. Qohelet è un soggetto narrante che molto ha vissuto e ha visto, che ha osservato come vanno le cose nel mondo e in base a questo racconta, consi­glia, giudica... Protagonista è sempre e uniformemente l’io. D’altra parte Qohelet, da empirista conseguente quale cerca d’essere, non può che parlare del mondo a partire da sé; per la medesima ragione nel momento in cui parte da sé ne prende anche le distanze. Infatti, per comprendere davvero le proprie esperienze è necessario oggettivarle, guardarle come da fuori. Ma soprattutto bisogna guardare da fuori se stessi, come se si fosse un altro.

È perciò necessario che l’ enfasi dell’io venga limitata al massimo proprio nel momento in cui se ne tematizza l’esperienza: è necessario portarsi al margine perché l’andatura del mondo possa emergere nella sua verità. Per questo, mano a mano che si procede nella lettura di Qohelet, l’io parlante si trasforma sempre di più in una sorta di voce fuori campo.

Qohelet è tutt’altro che pessimista – come si crede e come è fatto valere da letture macabre e decadenti – ma è piuttosto realista: ricorda fin dall’inizio a ogni uomo di avere consapevolezza e memoria della propria finitezza e di deporre perciò ogni orgoglio e ogni mania di supremazia.

Certo, vi sono tanti e giustificati motivi per odiare la vita, specie quando ci si è spesi senza riserva per qualcosa che alla fine si è rivelato inconsistente ed effimero. E non tanto perché transitorio, ma perché illusorio in se stesso.

In Qohelet, infatti, non c’è una protesta che nasce dalla sofferenza, non c’è, come in Giobbe, la chiamata in causa di Dio innanzi allo scandalo del dolore innocente, e soprattutto all’evasione della sua promessa, ma vi è piuttosto una delu­sione da successo, una sorta di nausea da sazietà.

«Ho raccolto argento e oro – si legge – [...] mi sono fatto dei corifei, uomini e donne e una moltitudine di concubine che sono la deli­zia del genere umano [...] Ho considerato tutte le azioni fatte dalle mie mani e l’impegno profuso, ed ecco: tutto è alito evanescente, inseguimento del vento» (2,8.11). Ma da dove questa delusione? Viene spontaneo domandarselo e si potrebbe rispondere, leopardianamente, che il desiderio umano è infinito ed è perciò esposto costitutivamente alla delusione. Oppure può capitare – e capita di frequente – di sopravvalutare i nostri obiettivi, di puntare unilateralmente su di essi illudendoci che la felicità stia nelle cose e nei beni, non piuttosto nelle relazioni, nel rap­porto giusto con gli altri e con il mondo. E, spesso, dopo la delusione si ricomincia da un’altra parte con lo stesso strabismo e la medesima unilateralità.

È difficile reperire un testo ove sia presente una tale e tanta reiterazione dell’io. E se la delusione nascesse proprio dall’idolatria del sé, dall’elevare ad idoli le opere delle proprie mani, ritenendo di trovare in esse la propria più compiuta realizzazione?

Che un maestro del giudaismo la pensi così è normale e perfino ovvio. Per questo il testo di Qohelet, lungi dal denigrare la vita, ne demolisce gli unilaterali strabismi e, lungi dall’essere pessimista, è invece un buon consigliere sul da farsi, ci sollecita a vivere la vita con equilibrio e misura.

2/ Rabbino o sapiente, ma non al femminile, di Laura Badaracchi

Sicuramente si tratta di uno «scettico fedele a Dio, credente». Ma che l’autore del Qohelet possa essere una donna è «un’ipotesi ardita e suggestiva, inedita» per Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose: «Può darsi che sia possibile, ma non mi sembra di ravvisare nel libro tratti maschili o femminili, anzi: in alcuni passaggi si notano valutazioni non positive nei confronti delle donne. In primo luogo, comunque, emerge la meditazione e riflessione di un sapiente, così poco passionale e toccata dai sentimenti che mi sembra difficile sia stata scritta da una mano femminile. Ma rispetto questa teoria di Amos Luzzatto, di cui sono grande estimatore».

Secondo Bianchi, autore di un commento al libro biblico, a vergare le pagine sarebbe stato forse un «rabbino ebreo, certamente uno che riflette sulla realtà, sulla storia, sulle persone; dato che contesta in modo intelligente la sapienza tradizionale, in qualche modo la sua chiave di lettura potrebbe sembrare cinica o epicurea ma non è così: le cose hanno un’inconsistenza se mancano della visione di Dio, se non hanno quella trasparenza. Un richiamo alla fragilità interna e alla transitorietà di ciò che passa, ma in una visione molto pacificata. Tanto che i Padri della Chiesa lo consigliavano come uno dei libri da leggere prima di ricevere il battesimo, perché lo concepivano come viatico pedagogico alla fede cristiana». Infatti san Girolamo lo prescriveva ai suoi discepoli come primo libro da tradurre.

In ogni caso, per il priore di Bose «il testo è molto più recente rispetto ai tempi di Salomone: su questo punto gli esegeti concordano». Lo ribadisce anche Gian Luigi Prato , docente di Lingua ebraica all’Università Roma Tre e membro dell’Associazione biblica italiana: «Anche se la data è ancora incerta, si tratta di un testo del periodo ellenistico, tra il IV e il III secolo avanti Cristo; l’ambiente in cui è stato scritto è più difficile a stabilirsi». Ma secondo il biblista non si può identificare un singolo autore, uomo o donna che sia. A partire dall’enigmatico termine «qohelet», che di per sé, «come forma grammaticale, è un participio femminile, anche se si sostiene che potrebbe essere inteso al maschile ». Deriva dal verbo ebraico «riunire o riu­nirsi, quindi significa 'colui che ha a che fare con una riunione di persone, una piccola assemblea' (da cui la traduzione latina 'Ecclesiaste'), anche se non c’era ancora la sinagoga; oppure 'riunione di detti, proverbi': in questo caso indicherebbe il redattore di varie massime che espone nella sua opera». Ma la prima accezione è la «più comune e accettata. Si tratta quindi di un nome simbolico, di funzione, di un uomo che conosceva non solo la cultura ebraica ma la filosofia e la sapienza popolare, oggi diremmo esistenziale», precisa Prato.

Dal VII capitolo del libro, tuttavia, lo studioso deriva la convinzione che «l’identità dell’autore non può essere femminile. Scrive infatti: 'Trovo che amara più della morte è la donna'. E ancora: 'Un uomo su mille l’ho trovato: ma una donna fra tutte non l’ho trovata': frasi che esprimono un pensiero piuttosto maschilista».

3/ Qohelet: un credente, non uno scettico, di Andrea Lonardo

Un amico, esegeta dei libri sapienziali, spiega, a ragione:

«Qohelet non è assolutamente uno scettico, nel senso moderno del termine. Non è uno scettico epistemologico, cioè uno che non sappia se Dio c’è o non c’è! Qohelet è un credente. Mai mette in dubbio l’esistenza di Dio. Non è assolutamente un nihilista. Potremmo dire, piuttosto, che è uno scettico gnoseologico, cioè uno che sa che è la conoscenza dell’uomo ad essere limitata, proprio perché è creatura e non Creatore. L’uomo, nel suo limite, non può che rimandare a Dio ed alla fede in Lui. La vera episteme, la vera sapienza è rimettere a Dio il giudizio. Probabilmente Qohelet si misura con la sapienza greca scettica a lui contemporanea e, con sottigliezza, accoglie alcuni spunti di quella prospettiva, ma per cambiarne radicalmente l’impostazione ed, anzi, confutarla. La sua conclusione, dopo aver visto la difficoltà dell’uomo a trovare nell’umano la stabilità, è: “Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto” (Qo12, 13)».

Una recente pubblicazione di Virgilio Melchiorre, filosofo, sembra andare in questa stessa direzione, provocatoria già nel titolo: Qohelet o della serenità del vivere (Morcelliana). All’autore sembra centrale il versetto 3,11 – che spesso viene trascurato rispetto ai più famosi “c’è un tempo per...”, mentre, invece, ne è la chiave di lettura – “Dio ha posto ogni cosa nel suo tempo. Nel cuore umano ha posto anche il senso dell’eterno, senza però che l’uomo possa comprendere dal principio alla fine l’opera di Dio”. Melchiorre così scrive: “La sentenza dice appunto che nel cuore dell’uomo dimora l’a priori di un ultimo senso, ma dice ad un tempo che di questo senso non è dato cogliere la trama nella sterminata sequenza dei tempi”.