L’educazione è diventata un paradosso?, del cardinale Camillo Ruini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /07 /2011 - 21:17 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito una relazione tenuta da S. Em. il cardinale Camillo Ruini a Milano, presso il Collegio San Carlo, il 2 febbraio 2009. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti sulla questione educativa, vedi la sezione Catechesi e pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (17/7/2011)

La parola “paradosso” secondo il Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli significa, in conformità alla sua origine greca, affermazione sorprendente, e più precisamente “proposizione formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune, ma che all’esame critico si dimostra valida”. Chiedersi se l’educazione sia diventata un paradosso vuol indicare dunque da una parte la sua permanente importanza e necessità, dall’altra le sue attuali difficoltà, anzi una sua apparente impossibilità, o almeno il suo carattere controcorrente, nel contesto socio-culturale in cui viviamo.

Un anno fa, nel gennaio-febbraio 2008, Benedetto XVI, in una lettera alla diocesi di Roma e poi in una grande udienza in piazza San Pietro, riassumeva una situazione di questo genere nella formula “emergenza educativa”, che poi è stata abbondantemente ripresa perché esprime una sensazione diffusa in Italia e, perfino più acutamente, in molti altri paesi.

Educare non è mai stato facile, osserva il Papa, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno per esperienza i genitori, gli insegnanti, lo sappiamo noi sacerdoti, come tutti coloro che a vario titolo si occupano di educazione. Sembrano aumentare cioè le difficoltà che si incontrano nel trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, nel formare quindi persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. Naturalmente ogni regola ha le sue eccezioni e in concreto sembra a sua volta un paradosso venire a parlare di paradosso e di emergenza educativa in questo Collegio San Carlo che fortunatamente è un luogo di eccellenza dell’educazione a Milano, ma il dato generale dell’emergenza educativa rimane difficilmente contestabile, anzi è praticamente incontestato.

Per spiegarlo non basta richiamare la cosiddetta “frattura tra le generazioni”, nel nostro tempo certamente più profonda e più condizionante che in passato: essa infatti sembra essere l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori. Ancora meno senso ha far carico di questa frattura e dell’emergenza educativa alle nuove generazioni, come se i bambini di oggi fossero diversi e “più difficili” rispetto a quelli che nascevano nel passato.

Ma probabilmente è anche poco utile e troppo sbrigativo, o comunque insufficiente, attribuire tutte le responsabilità agli adulti di oggi, come se, per loro carenze, non fossero più capaci di educare. È certamente forte e diffusa, tra i genitori come tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tendenza a rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il proprio ruolo. Ma, di nuovo, questo sembra essere piuttosto l’effetto che la causa delle difficoltà dell’educazione.

Non vorrei essere frainteso. Non ho mai condiviso quelle tendenze allo “scaricabarile” che attribuiscono tutte le colpe a un’imprecisata “società” e negano le responsabilità personali: nel nostro caso sia quelle degli educatori sia anche quelle dei ragazzi e dei giovani che sono i soggetti dell’educazione. Non mi sembra fondato però mettere principalmente l’accento sulle carenze delle persone. Non basta nemmeno chiamare in causa le pur evidenti lacune e disfunzioni del nostro sistema scolastico, come del resto di quelli di molti altri paesi.

Una spiegazione seria dell’emergenza educativa in cui ci troviamo rimanda piuttosto al predominio del relativismo nella nostra cultura e vita sociale. In questo senso Benedetto XVI ha parlato più volte di “dittatura” del relativismo, e alla luce di questa ha affermato che l’emergenza educativa oggi è, in certa misura, un’emergenza inevitabile. Quando infatti vengono a mancare, anche solo come orizzonte della nostra vita, la luce e la certezza della verità, al punto che, anche e particolarmente in ambito educativo, lo stesso parlare di verità viene considerato pericoloso e “autoritario”, e parallelamente, sul piano etico, si ritiene infondato e lesivo della libertà ogni riferimento ad un bene “oggettivo”, che preceda le nostre scelte e possa essere il criterio della loro valutazione, diventa inevitabile dubitare della bontà della vita e della consistenza dei rapporti e degli impegni di cui la vita è intessuta.

È ancora un bene, allora, essere una persona umana? Vivere può ancora avere un significato? Come sarebbe possibile, entro questo quadro di riferimento culturale, proporre ai più giovani e trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un significato e degli obiettivi consistenti per la nostra esistenza e per il nostro futuro, sia come persone sia come comunità? Non è strano, allora, che l’educazione tenda a concentrarsi sulle questioni che chiamerei di “tecnica educativa”, certamente importanti ma non decisive, e a ridursi alla trasmissione di informazioni e di specifiche abilità, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni superficiali. Ma proprio così abdichiamo al nostro compito educativo e non offriamo ai più giovani quello di cui hanno anzitutto bisogno: dei fondamenti solidi su cui costruire la loro vita.

Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro recente che ha avuto molta fortuna, intitolato L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ha offerto una diagnosi del disagio giovanile che direi complementare a quella proposta da Benedetto XVI, riconducendo il malessere diffuso tra la gioventù ad una causa culturale, l’atmosfera nichilista del nostro tempo. Il nichilismo e il relativismo sono infatti intimamente connessi e, tra i due, il nichilismo sembra essere il fenomeno più ampio e più radicale, capace di un influsso pervasivo di cui forse non siamo abbastanza consapevoli.

Anche senza fare nostro il giudizio di Heidegger che il nichilismo costituirebbe il destino della nostra epoca, è difficile negare che esso rappresenti una specie di spirito del nostro tempo, diagnosticato per primo da Nietzsche, che giustamente lo ha fatto risalire alla “morte di Dio”, cioè alla fine della presenza di Dio nella nostra cultura, una fine che Nietzsche e dopo di lui tanti altri, compreso Galimberti, ritengono irreversibile.

È questa, secondo la penetrante e preveggente intuizione di Nietzsche, la vera radice della caduta, o della “transvalutazione”, di tutti i valori, e quindi del fenomeno complessivo del nichilismo. In concreto è difficile non vedere, alla radice degli aspetti più inquietanti della vita della nostra società e quindi anche della strana stanchezza, del desiderio di evasione e dello smarrimento morale di molti giovani, e pertanto dell’emergenza educativa, la presenza pervasiva e “distruttiva” del nichilismo.

Mi sembra necessario richiamare una terza dimensione della cultura diffusa, a sua volta collegata con il relativismo e il nichilismo, che mina alla base un’educazione autentica. Potremmo chiamarla “naturalismo”, o più esattamente riconduzione e riduzione dell’uomo a un elemento della natura: già il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes, n.14, aveva individuato questo rischio denunciando la tendenza a considerare l’uomo “soltanto una particella della natura”. Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando egemone l’idea che il soggetto umano non sia altro che un risultato dell’evoluzione cosmica e biologica: certamente il suo risultato più alto, almeno per ora e nella piccola porzione dell’universo da noi meglio conosciuta, ma pur sempre un risultato omogeneo a tutti gli altri, in particolare agli animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive. In questa ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente.

Per cogliere in tutto il suo spessore questa riduzione dell’uomo alla natura bisogna aggiungere un suo ulteriore fattore propulsivo. Negli ultimi decenni le scienze empiriche e le tecnologie, nella loro sempre più stretta connessione che spinge a parlare di “tecnoscienza”, hanno avuto decisivi sviluppi nelle loro applicazioni all’uomo, con quelle che chiamiamo “biotecnologie”. Attraverso di esse si aprono sempre più rapidamente nuovi scenari, che non riguardano soltanto la cura e la prevenzione delle malattie, ma la trasformazione del soggetto umano, anche in quello che è il suo organo fondamentale, il cervello: per questa via, a parere di non pochi intellettuali e uomini di scienza – ad esempio di Aldo Schiavone, che al riguardo ha scritto un saggio assai interessante, dal titolo Storia e destino –, l’evoluzione della nostra specie potrebbe essere sottratta ai ritmi lentissimi della natura e affidata invece a quelli rapidissimi della tecnologia.

È chiaro però che se cambia il nostro concetto di uomo, e a maggior ragione se dovesse cambiare la realtà stessa dell’uomo, cambia a sua volta il concetto di educazione ed entrano in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i nostri parametri educativi. A mio parere è proprio questo ciò che sta avvenendo, anche se per ora molti non se ne rendono conto. L’educazione infatti, nella sua essenza, è formazione dell’uomo, della persona umana, e non può che definirsi e strutturarsi in vista di tale obiettivo.

In concreto, sta cambiando di significato quella definizione classica dell’uomo come animal rationale, animale ragionevole, di origine greca e più precisamente aristotelica ma poi corroborata e internamente potenziata dall’idea ebraico-cristiana dell’uomo come immagine di Dio, che ha retto attraverso i secoli la nostra civiltà. Il suo senso concreto è che l’uomo, in quanto animale, appartiene a pieno titolo alla natura ed è sottomesso alle sue vicende e alle sue leggi, ma in quanto razionale ha, rispetto a tutto il resto della natura, un insormontabile differenziale ontologico.

Proprio questo differenziale viene ora radicalmente ridimensionato, anzi negato nel suo carattere di differenza essenziale e insuperabile. In questa negazione convergono un certo modo di intendere l’evoluzione biologica e la tendenza delle scienze empiriche a considerare l’uomo come un “oggetto”, come tale conoscibile e “misurabile” attraverso le forme dell’indagine sperimentale: questo approccio è certamente legittimo, anzi indispensabile per il progresso della conoscenza e della cura di noi stessi, ad esempio per la cura delle malattie fisiche e mentali.

Quando però, cedendo a un tipo più o meno nuovo di scientismo, si considera quella scientifica come l’unica forma di conoscenza del nostro essere che sia davvero valida e universalmente proponibile, si finisce con il negare che l’uomo sia anzitutto e irriducibilmente “soggetto” ossia persona, il quale, proprio nella sua intrinseca e ineliminabile soggettività, non può mai essere totalmente oggettivato e non può essere conosciuto adeguatamente attraverso le scienze empiriche.

All’interno di queste coordinate culturali, che sopprimono la differenza essenziale dell’uomo dal resto della natura e tendenzialmente lo riducono ad un oggetto, diventa assai difficile, o meglio logicamente impossibile, mantenere quel primato assoluto della persona umana, per il quale essa – e solo essa – ha una dignità assoluta ed inviolabile, va considerata e trattata cioè, per usare le parole di Emanuele Kant, sempre come un fine e mai come un mezzo o, come dice il Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, 24), è la sola creatura sulla terra “che Dio abbia voluto per se stessa”. Le conseguenze sono evidenti per il concetto e la pratica dell’educazione, ma anche per tutti i nostri comportamenti e per l’assetto globale della società.

Confido di aver mostrato quali siano le ragioni, non astratte e generiche ma assai concrete, per le quali si può affermare che le cause principali – anche se certo non uniche – dell’attuale emergenza educativa sono di ordine culturale. A questo punto cercherò di indicare delle piste per superare o almeno fronteggiare questa emergenza, cominciando dagli aspetti più pratici ed operativi per poi risalire di nuovo, alla fine, al quadro culturale di fondo e ai modi e alle motivazioni per cui è possibile cambiarlo.

Una prima constatazione incoraggiante è che dell’emergenza educativa siamo tutti diventati, in quest’ultimo periodo, maggiormente consapevoli. Per ciò stesso cresce la preoccupazione e anche la volontà di reagire a una situazione di questo genere. Aumentano, in concreto, la domanda di un’educazione autentica e il bisogno e la richiesta di educatori che siano davvero tali.

È una richiesta assai presente tra i genitori, nel duplice senso di poter trovare, nella scuola, nella comunità cristiana e anche altrove, veri educatori per i propri figli, e di essere essi stessi aiutati e consigliati in modo da poter adempiere meglio il proprio compito educativo.

Ma la richiesta è in aumento anche tra gli insegnanti, molti dei quali avvertono che diventa sempre più urgente reagire alla perdita di una vera e propria funzione, o meglio missione educativa da parte della scuola.

Almeno in maniera implicita la domanda di educazione è fortemente presente anche nei ragazzi, negli adolescenti e negli stessi giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita: lo sa per esperienza chi è disponibile a dedicare loro il proprio tempo, il proprio ascolto, la propria attenzione.

In forme diverse una richiesta simile sale dall’intero corpo sociale, che avverte con crescente disagio le difficoltà e le deviazioni che rendono faticoso il cammino delle nuove generazioni e teme siano messe in pericolo le basi stesse della convivenza. In particolare, oltre ai responsabili politici, coloro che hanno responsabilità di conduzione di imprese sembrano ben consapevoli che il futuro del nostro paese dipende in misura decisiva dalla qualità complessiva – e non solo dalla preparazione tecnica – del suo cosiddetto “capitale umano”.

Non è il caso, dunque, di cedere al pessimismo e tanto meno alla rassegnazione. Vorrei ora, seguendo da vicino gli interventi che ho già ricordato di Benedetto XVI sull’emergenza educativa, riflettere con voi su alcune condizioni di base per un’educazione autentica.

Il primo e più necessario contributo alla formazione della persona rimane sempre quello che proviene dalla vicinanza e dall’amore, a cominciare naturalmente da quella fondamentale esperienza dell’amore che i bambini fanno, o almeno dovrebbero fare, con i loro genitori. Ogni vero educatore sa che per educare occorre donare qualcosa di se stessi e che soltanto così si possono aiutare i più giovani di noi ad acquistare fiducia, a superare progressivamente il narcisismo iniziale e a diventare a propria volta capaci di amore autentico e generoso.

Mi sia permesso qui un riferimento molto concreto, che riguarda i genitori e il modo di comprendere anzitutto la loro reciproca unione: il primo grande dono che potete fare ai vostri figli – ha detto Benedetto XVI rivolgendosi a loro nell’udienza in piazza San Pietro –, quel dono di cui i figli hanno bisogno per crescere e per acquisire fiducia in se stessi e fiducia nella vita, è la certezza del vostro reciproco amore.

Del resto l’esperienza degli ultimi decenni ha già mostrato, in Italia e ancor più in altri paesi – ad esempio l’Inghilterra dove il problema sta richiamando su di sé l’attenzione dei responsabili della comunità nazionale –, che il fallimento di tanti matrimoni è un fattore decisivo del disagio giovanile e dell’emergenza educativa. Si conferma dunque che è troppo sbrigativo e superficiale considerare il matrimonio e la sua stabilità una questione soltanto privata.

Già in un piccolo bambino, insieme al bisogno di essere amato, è presente d’altronde una grande curiosità, un forte desiderio di sapere e di capire che si manifesta in continue domande e richieste di spiegazioni. Questo desiderio di per sé non ha limiti, come non ha limiti il bisogno di essere amati. Si rivolge anzitutto a ciò di cui il bambino, e poi l’adolescente e il giovane, fa esperienza diretta, ma non si arresta a questo livello, vuol capire di più ed ogni risposta può provocare una domanda ulteriore. Man mano che affiorano nell’animo del ragazzo le grandi domande che riguardano l’orientamento da dare alla propria vita – con tutto ciò che queste domande presuppongono e che ha a che fare con l’origine e con il significato di noi stessi e del mondo – l’orizzonte della curiosità si approfondisce e si allarga all’infinito. Il lavoro educativo, se vuole davvero farsi carico della formazione della persona, non può dunque evitare di confrontarsi con quelle grandi domande, con rispetto e umiltà ma anche senza impossibili neutralità e senza riserve o limitazioni che contraddirebbero la sua principale funzione.

Nella prospettiva della formazione della persona va anche inquadrata la questione forse più controversa e dibattuta in ambito educativo: quella del rapporto reciproco tra libertà e disciplina. Non per caso tutte le grandi tradizioni educative fanno leva su precise regole di comportamento e di vita: senza di esse infatti non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare la realtà della vita. Personalmente ritengo quindi un errore gravido di conseguenze negative, che ormai sono sotto gli occhi di tutti, quella brusca svolta per la quale, una quarantina di anni fa, si è ritenuto che la disciplina fosse una forma di autoritarismo nocivo al pieno sviluppo delle potenzialità della persona.

Al tempo stesso il rapporto tra l’educatore e l’allievo è pur sempre l’incontro tra due libertà, una delle quali in formazione, e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane, bisogna dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo però sempre attenti ad aiutare a correggere le scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo fare è assecondare gli errori, fingendo di non vederli, o peggio condividendoli come se fossero espressione di creatività e di libertà personale.

Del resto, il rischio della libertà non solo è ineliminabile, ma è il segno distintivo della trascendenza della persona umana. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale sia delle persone sia di un’intera generazione non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni.

Anche i più grandi valori del passato non possono essere semplicemente ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale. Perciò l’assunzione di responsabilità non può non accompagnare la libertà ed è condizione sostanziale di ogni nostra seria realizzazione, personale o collettiva. Proprio far crescere progressivamente, con il progresso dell’età, il senso della propria responsabilità è dunque un obiettivo centrale del processo educativo, che coinvolge certo il compito degli educatori ma anche la personalità e la libertà dei ragazzi, che restano pur sempre i veri soggetti dell’educazione.

Un ultimo aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione riguarda qualcosa di cui di solito non si parla, o meglio si parla solo in termini negativi. Mi riferisco al rapporto tra educazione e sofferenza, educazione ed esperienza del dolore. Nella mentalità diffusa la sofferenza – fisica o morale – è quell’aspetto oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi e da cui in ogni caso bisogna preservare il più possibile le giovani generazioni. La sofferenza però fa parte della realtà e della verità della nostra vita. Cercando di tenere i più giovani al riparo da ogni difficoltà ed esperienza del dolore rischiamo perciò di far crescere, al di là delle nostre intenzioni, persone fragili, poco realiste e poco generose: la capacità di amare e di donarsi corrisponde infatti alla capacità di soffrire, e di soffrire insieme. Per essere completa e adeguata, o meglio pienamente umana, l’educazione deve piuttosto cercare di non lasciare senza risposta gli interrogativi che la sofferenza, soprattutto la sofferenza innocente, e alla fine la morte stessa pongono alla nostra coscienza.

Quando si toccano gli aspetti oscuri della vita sorge immediatamente l’interrogativo circa un fondamento solido sul quale si possa comunque costruire, e reciprocamente si comprende come l’incertezza e la mancanza di prospettive a questo riguardo siano un aspetto essenziale delle attuali difficoltà dell’educazione.

Ritorniamo così alle ragioni più profonde, di ordine anzitutto culturale, dell’emergenza educativa. In termini “laici” si può dire che il nodo di fondo è la presenza, o l’assenza, di fiducia nella vita. In termini religiosi bisogna parlare della speranza cristiana, a cui Benedetto XVI ha dedicato non per caso la sua seconda Enciclica: per lui soltanto una speranza affidabile può essere l’anima dell’educazione, come dell’intera vita.

Questa speranza oggi è insidiata da molte parti ed è forte la tendenza a ridiventare come gli antichi pagani, che San Paolo definiva uomini “senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef 2,12). Uno studioso non credente come Jürgen Habermas già da tempo ha parlato della perdita di fiducia nella salvezza che viene da Dio, nella redenzione e nella grazia come di un fenomeno che per la prima volta è diventato generale, o almeno molto diffuso, nei paesi europei, senza però che questa perdita abbia trovato compensazioni e sostituti nella nostra cultura: anzi, il venir meno delle ideologie che promettevano una piena realizzazione dell’uomo attraverso la trasformazione della società ha reso questo vuoto ancora più evidente.

Non posso dunque concludere questo intervento sul “paradosso” dell’educazione senza proporre qualche spunto di riflessione riguardo alle tendenze culturali che abbiamo visto essere all’origine dell’emergenza educativa. In primo luogo vorrei rifarmi di nuovo a un paradosso, cioè alla verità contenuta nel nichilismo: è vero cioè che, alla fine, senza Dio tutto manca di fondamento e finisce per crollare.

È vero, in particolare, che se Dio non c’è diventa ben difficile, anzi logicamente impossibile, giustificare una differenza qualitativa e irriducibile dell’uomo rispetto al resto della natura: da dove mai, infatti, una simile differenza potrebbe provenire, se soltanto la natura, l’universo fisico, è la realtà primordiale da cui tutto trae origine e a cui, quindi, tutto si riconduce. Così, ad esempio, non ci potrebbe più essere spazio per una libertà intesa in senso proprio, come facoltà del soggetto umano di decidere in un senso o nell’altro, sottraendosi sia alla necessità sia alla casualità della natura.

Oggi, in una cultura nella quale la razionalità scientifica e tecnologica ha assunto una vera leadership e un peso spesso preponderante, la negazione di Dio, o comunque il ritenerlo non necessario e irrilevante per la comprensione del mondo, e al tempo stesso la riduzione dell’uomo ad un elemento della natura, fanno capo soprattutto a una certa interpretazione del sapere scientifico, che lo vorrebbe autosufficiente e almeno potenzialmente “onniesplicativo”. Queste posizioni “scientiste” non sono certo condivise dagli uomini di scienza più importanti e significativi, ma comunque hanno dato luogo ad una specie di “volgata” che si pretende scientifica – mentre semmai ha a che fare con le interpretazioni filosofiche della conoscenza scientifica e in generale della conoscenza umana – e che esercita un forte influsso sulla cultura diffusa, compresa quella che viene proposta sui giornali e anche nelle scuole.

Perciò siamo in molti a ritenere che nell’attuale contesto culturale la via più efficace per riaprire lo spazio a Dio sia quella di concentrare l’attenzione sulla struttura e sui presupposti della stessa conoscenza scientifica. Una sua caratteristica fondamentale è rappresentata infatti dalla stretta sinergia tra matematica ed esperienza, ossia tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: questa sinergia è la chiave dei risultati giganteschi e sempre crescenti che si ottengono attraverso le tecnologie, operando sulla natura e mettendo al nostro servizio le sue immense energie.

La matematica però è frutto della nostra intelligenza, un frutto puro e “astratto” che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente e che proprio in questa sua “astrattezza” consente i più straordinari risultati conoscitivi e operativi, ad esempio nella fisica quantistica e nella teoria della relatività.

La corrispondenza che non può non esistere tra la matematica e le strutture reali dell’universo, perché in caso diverso le previsioni scientifiche e le applicazioni tecnologiche non funzionerebbero, pone dunque una grande domanda: implica infatti che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la nostra ragione soggettiva e la razionalità oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi a quali condizioni una tale corrispondenza sia possibile e in concreto se non debba esservi un’Intelligenza originaria che sia la fonte comune della natura e della nostra razionalità.

Così non direttamente la scienza, ma la riflessione filosofica sulle condizioni che rendono la scienza possibile, ci riporta verso quel Verbo, quel Logos creatore di cui ci parla San Giovanni all’inizio del suo Vangelo. Benedetto XVI ha proposto più volte questo tipo di argomentazione, sia in sedi propriamente accademiche come nel suo celebre discorso di Ratisbona sia in occasioni assai più semplici e popolari, come nell’incontro che ha avuto con i giovani di Roma l’8 aprile 2006.

Non vorrei però ricondurre subito ed esclusivamente alla questione di Dio la risposta alle problematiche culturali che rendono difficile l’educazione. Anche chi non è credente, infatti, può e deve svolgere un ruolo positivo ed efficace nella comune opera educativa, e soprattutto la persona umana ha già in se stessa una sua consistenza che rende poco credibile il ridurla semplicemente a una particella della natura, anche se – come dicevo – in ultima analisi questa consistenza senza Dio rimane sospesa nel vuoto. In concreto, per rispondere alla domanda chi sia realmente l’uomo non basta studiare i percorsi evolutivi che hanno condotto al suo apparire sulla terra, e nemmeno indagare sulle strette connessioni che indubbiamente esistono tra i processi mentali e il funzionamento dell’organo cerebrale.

Bisogna prendere in altrettanto seria considerazione un approccio diverso, che parte dall’esame delle “prestazioni” di cui l’uomo si è mostrato e si mostra capace. Mi riferisco a quella capacità di produrre cultura che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco e sempre più rapidamente crescente, all’interno del quale emergono “punte” estremamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, il rigore e l’efficacia del pensiero logico, la creatività estetica. In realtà, se riflettiamo su ciascuna di queste caratteristiche, ci troviamo di fronte a qualcosa di incondizionato, come il dovere morale, che può certo essere contraddetto dalle nostre scelte ma che non cessa di proporsi come la misura autentica della nostra dignità personale, o come l’evidenza di verità di un ragionamento o di un’intuizione, o come la bellezza che si impone alla nostra ammirazione. Tentare di spiegare tutto questo soltanto in termini di meccanismi psico-fisici o di “interessi” dell’evoluzione della nostra specie significherebbe non vedere e considerare inesistenti questi che sono gli aspetti più propri e più profondi della nostra esperienza umana.

Termino riconoscendo due limiti, che contengono al tempo stesso due provocazioni, o meglio due appelli. Dobbiamo riconoscere anzitutto che nessuno studio e nessun ragionamento può fornirci delle evidenze incontrovertibili riguardo a Dio come anche riguardo all’uomo. Quando infatti ci interroghiamo su noi stessi, la questione non è mai puramente teorica e oggettiva, ma sempre anche ed inevitabilmente pratica e personale, dato che si tratta appunto di noi stessi, di che cosa, o meglio di chi siamo, e quindi della direzione da dare alla nostra vita, di come possiamo orientarla e realizzarla.

E qualcosa di analogo vale per la questione di Dio: anch’essa infatti ha delle grandissime ed ineludibili implicazioni riguardo al senso e all’orientamento della nostra vita. Nessuno dunque, credente o non credente, scienziato, filosofo o uomo comune, dovrebbe ritenersi preservato da questa caratteristica della condizione umana, giudicando le sue convinzioni riguardo all’uomo, o riguardo a Dio, puramente “neutrali”, razionali o “laiche”, e imputando invece agli altri di procedere in modo aprioristico e dogmatico. Perciò, anche riguardo all’argomento che risale dalla razionalità della natura all’Intelligenza creatrice, Benedetto XVI parla non di dimostrazione apodittica ma di “ipotesi migliore”, che esige da parte dell’uomo e della sua ragione “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”.

Questo limite, almeno apparente, della condizione umana, rappresenta però un appello grande e radicale alla nostra libertà, alla dimensione più profonda dell’io di ciascuno e a quel “noi” che non può abdicare alla solidarietà reciproca davanti agli interrogativi supremi della vita: per chi cerca di seguire la voce della coscienza e di considerare ogni persona degna di un rispetto incondizionato, quell’ipotesi riguardo a Dio e all’uomo diventa pian piano una certezza interiore che illumina e sostiene il cammino della vita.

Il secondo limite riguarda le possibilità di azione di ciascuno di noi, compresi coloro che vengono classificati come “persone molto importanti”. Nel campo dell’educazione, come sostanzialmente in ogni altro ambito della vita, sperimentiamo di continuo la scarsità delle nostre possibilità di intervento e la precarietà dell’influsso che possiamo esercitare, in un contesto che dipende da mille, spesso imponderabili, fattori. Perciò è facile, e anche comodo, pensare: non dipende da me e quindi, alla fine, non è affar mio.

In concreto, quando si tratta di modificare quel clima culturale che sembra contrario ad un umanesimo autentico e quindi sfavorevole all’educazione e formazione della persona, la prima sensazione che proviamo è quella di un’impotenza di fondo ad opporci a tendenze che vengono da lontano e che hanno radici e sostegni molti diffusi.

La società però, come ha scritto Benedetto XVI nella lettera sull’educazione, “non è un’astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme,… sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno”. A questo punto oso proporre un ultimo appello, o se volete provocazione, che formulo in questa città di Milano e da questo Collegio San Carlo che a Milano ha uno spazio e un compito di grande significato. L’appello è rivolto a voi tutti e a ciascuno nel ruolo e nelle responsabilità di cui è investito. Modificare il clima culturale, o – per usare la formula di Benedetto XVI – allargare gli spazi della razionalità e liberarsi dalla dittatura del relativismo, è un’impresa impegnativa ma non impossibile, e in realtà nemmeno disperata. A ciascuno di noi è richiesto di rendersi sempre più consapevole della portata di questa sfida e di affrontarla con determinazione e con fiducia. Così anche l’emergenza educativa potrà pian piano diventare meno acuta.