Gesù, Hillel, Shammai ed il matrimonio, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /02 /2010 - 22:42 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito l'articolo scritto da Andrea Lonardo il 5/2/2010 per la rubrica In cammino verso Gesù del sito Romasette di Avvenire. Per altri articoli sulla Sacra Scrittura, vedi su questo stesso sito la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (7/2/2010)

«La scuola di Shammai insegna che il marito non deve divorziare dalla propria moglie a meno che abbia trovato in lei qualcosa di immorale, conformemente al testo che dice: “Avendo trovato in lei qualcosa di vergognoso” (Dt 24,1). La scuola di Hillel opina invece: anche se essa ha bruciato il suo cibo. Rabbi Aqiba dice: Anche se trova un’altra più bella di lei, conformemente al testo che dice “che accada anche se essa non trovi grazia ai suoi occhi” (Dt 24,1)» (Mishnah Ghittin VIII,9-10).

Così la Mishnah, la raccolta dei detti dei rabbini dei primi due secoli d.C. – Mishnah vuol dire, letteralmente “ripetizione”, quindi “insegnamento” - presenta le diverse opinioni sul divorzio al tempo di Gesù.

A partire dalla concessione del divorzio contenuta nella Legge di Mosè ed, in particolare, nel libro del Deuteronomio, le diverse scuole argomentavano sulle condizioni del divorzio stesso.

Per Shammai, rabbino più rigorista, il divorzio era possibile solo se l’uomo scopriva l’adulterio della moglie (“qualcosa di immorale”), mentre Hillel, più lassista, permetteva il divorzio anche se la donna non sapeva cucinare. Ovviamente non era previsto che fosse la moglie a poter divorziare, ma era solo il maschio a poter ottenere di separarsi dalla donna che aveva sposato.

Il Talmud (letteralmente “Studio”), che contiene invece le riflessioni dei rabbini dal III al V secolo e che si presenta come un commento allargato alla Mishnah, spiega ulteriormente che in caso di adulterio il divorzio è necessario e che la donna ripudiata non potrà essere poi ripresa in moglie dal suo precedente marito (bGit 90a/b).

Rabbi Aqiba, il rabbino che aiutò Bar Kokhba nella rivolta contro i romani riconoscendolo come inviato da Dio e che morì per questo martire, famoso anche per la sua storia di amore con la moglie Rachel che lo sostenne per tutta la vita, aveva invece secondo la Mishnah una posizione ancora più duttile, ritenendo possibile il divorzio anche se una donna non trovava più grazia agli occhi del marito (Rabbi Aqiba, vissuto nella prima metà del II secolo è di poco posteriore a Shammai ed Hillel vissuti a cavallo dell’inizio dell’era cristiana).

Gesù visse così in un contesto in cui la possibilità del divorzio era tranquillamente ammessa, anche se il Talmud si affretta a precisare, citando Malachia 2,15-16, che il Signore detesta il ripudio, pur concedendolo (bGit 90b): «Nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d'Israele».

Anche il mondo greco e romano conosceva l’istituto del divorzio. L’antichità ha conservato contratti di separazione come quello di Zois ed Antipatro che dichiarano di essersi accordati «di essere separati l’uno dall’altro, rompendo l’unione formatasi per contratto davanti allo stesso tribunale nel corrente anno XVII di Cesare Augusto, e Zois riconosce di aver ricevuto da Antipatro di mano dalla casa di lui ciò che egli ebbe in dote: abiti per il valore di 120 dracme d’argento e un paio di orecchini d’oro. Perciò d’ora in poi è nullo il contratto di matrimonio, e né Zois né un altro per lei potrà procedere contro Antipatro per richiedere la restituzione della dote, né alcuna delle due parti contro l’altra per quanto riguarda la coabitazione o altra materia fino al presente giorno, a partire dal quale è lecito a Zois sposare un altro uomo e ad Antipatro un’altra donna, senza che nessuno dei due sia perseguibile».

In taluni ordinamenti del mondo ellenistico era lecito che anche la donna – e non solo l’uomo – chiedesse il divorzio. Ne è testimone lo stesso Nuovo Testamento: infatti il vangelo di Marco, che evidentemente mostra di conoscere un contesto greco-romano e non solo ebraico, aggiunge al divieto per l’uomo cristiano di divorziare, anche il reciproco femminile: «Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,12).

Le stesse domande che i discepoli pongono al maestro, mostrano quanto fosse nuovo e scandaloso il suo insegnamento (cfr. Mc 10,10 «Rientrati a casa, i discepoli lo interrogarono di nuovo su questo argomento»).

Il nuovo insegnamento di Gesù sul matrimonio è evidentemente un’espressione della nuova alleanza e del nuovo precetto dell’amore, che però si radica in quel disegno originario di Dio sull’uomo che è narrato in Genesi: è un comandamento antico e nuovo (cfr. 1Gv 2,7), antico quanto il Padre nei cieli e nuovo quanto il dono di Cristo in croce. Pietro Lombardo, riprendendo un’esegesi che già era stata dei rabbini, scriveva commentando l’immagine biblica della donna tratta dal fianco dell’uomo e non dal capo, né dai piedi: «Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna» (Sentenze 3, 18, 3).

Nel disegno di Dio l’uomo e la donna sono pensati non come esseri isolati, bensì per divenire “una sola carne”. Gesù annuncia l’evento straordinario che Dio stesso è presente nel loro amore sponsale («l’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto» Mc 10,9).

Proprio il dolore che si scatena alla scoperta del tradimento manifesta quanto l’amore sia nato per durare, perché solo la «carità resta»: essa sola può entrare nell’eternità. Dinanzi al tradimento dell’amore, la persona percepisce che la fine della relazione attenta al senso stesso della vita. Se l’amore finisce, allora tutto muore, allora niente ha significato.

E quando domandano al Cristo perché Dio abbia permesso nell’antica alleanza tramite Mosè il divorzio, Gesù risponde facendo riferimento al grande nemico dell’uomo: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma» (Mc 10,5).

L’amore si può corrompere proprio perché esiste il male nel cuore dell’uomo, ma, per questo, può anche ritrovare la sua linfa vitale, nel mistero della croce di Cristo e del perdono che essa conferisce.

L’indissolubilità dell’amore sponsale di Cristo per gli uomini si consumerà il venerdì santo, nel dono totale che Cristo farà di sé, dinanzi all’umanità dimentica di lui. Di quell’amore l’amore umano diviene sacramento.

Come canterà Iacopone da Todi:
«O Amor, devino Amore,
Amor, che non èi amato!
» (Lauda 39).

Come gli farà eco Santa Maria Maddalena de’ Pazzi che ripeterà: «Amore, Amore! O Amore, che non sei né amato né conosciuto! O anime create d’amore e per amore, perché non amate l’Amore? E chi è l’Amore se non Dio, e Dio è l’amore? Deus charitas est!».


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