La Dei Verbum: l’idea di rivelazione in San Bonaventura nel Concilio di Trento e nel Vaticano II (da J. Ratzinger)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /04 /2012 - 15:12 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

da J. Ratzinger, La mia vita San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pp. 72-74; 89-93

Avevo constatato che in Bonaventura (e, anzi, nei teologi del secolo XIII in generale) non c'era alcuna corrispondenza con il nostro concetto di «rivelazione», che eravamo soliti usare per definire l'insieme dei contenuti rivelati, tanto che anche nel lessico si era introdotta l'abitudine di definire la Sacra Scrittura semplicemente come la «rivelazione». Nel linguaggio medievale una tale identificazione sarebbe stata impensabile. In esso, infatti, la «rivelazione» è sempre un concetto di azione: il termine definisce l'atto con cui Dio si mostra, non il risultato oggettivizzato di questo atto. E dato che le cose stanno così, del concetto di «rivelazione» fa sempre parte anche il soggetto ricevente: dove nessuno percepisce la rivelazione, lì non è avvenuta nessuna rivelazione, dato che lì nulla è stato svelato. L'idea stessa di rivelazione implica un qualcuno che ne entri in possesso. Questi concetti, acquisiti grazie ai miei studi su Bonaventura, sono poi divenuti molto importanti per me, quando nel corso del dibattito conciliare vennero affrontati i temi della rivelazione, della Scrittura e della tradizione. Perché se le cose stanno come le ho descritte, allora la rivelazione precede la Scrittura e si riflette in essa, ma non è semplicemente identica a essa. Questo significa inoltre che la rivelazione è sempre più grande del solo scritto. Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero «sola Scriptura» («solamente attraverso la Scrittura»), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione.

[...]

Fin dal suo sorgere e per ragioni legate alla sua evoluzione interna, il movimento francescano si era mostrato molto sensibile alla profezia storica dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore, morto nel 1202. Questo pio e colto monaco credeva di poter desumere dalla Sacra Scrittura che la storia si sarebbe sviluppata in tre diverse fasi: dal severo regno del Padre (Antico Testamento), attraverso il regno del Figlio (la Chiesa esistita fino a quel tempo), fino al terzo regno, quello dello Spirito, in cui finalmente si sarebbero compiute le promesse dei profeti e ci sarebbe stato il pieno dominio della libertà e dell'amore. Aveva anche creduto di trovare nella Bibbia delle basi di calcolo per la venuta della Chiesa dello Spirito. Detti calcoli sembravano indicare in Francesco d'Assisi il principio e nella comunità da lui fondata i portatori della nuova epoca. Fin dalla metà del secolo XIII si svilupparono delle interpretazioni radicali di questa idea, che alla fine portarono gli «Spirituali» fuori dall'ordine e a un conflitto aperto con il Papato. In una delle sue opere tardive, in due volumi, Henri de Lubac ha studiato la posterità spirituale di Gioacchino, che arriva fino a Hegel e ai sistemi totalitari del nostro secolo. Fino a quel momento, però, si era sempre sostenuto che Bonaventura non avesse mai citato Gioacchino; l'edizione critica delle sue opere non contiene il nome di Gioacchino. Ma questa tesi, considerata con attenzione, non poteva non risultare discutibile, dal momento che Bonaventura, come generale del suo Ordine, dovette inevitabilmente affrontare la polemica sulla relazione tra Francesco e Gioacchino; infine, Bonaventura era arrivato a far chiudere in regime di carcere conventuale il suo predecessore, Giovanni da Parma, incline alle idee gioachimite, per prevenire gli estremismi che avrebbero potuto cercare degli appoggi pretestuosi nella sua persona. Nel mio lavoro dimostravo, per la prima volta, che Bonaventura nella sua interpretazione dell'opera dei sei giorni (il racconto della creazione) si era minuziosamente confrontato con Gioacchino e, come uomo di centro, aveva cercato di accogliere quanto poteva essere utile, ma integrandolo nell'ordinamento della Chiesa.

[...]

Determinante per la forma concreta che assunse questo dibattito si rivelò una presunta scoperta storica che il teologo di Tubinga, J. R. Geiselmann, riteneva di aver fatto negli anni Cinquanta. Negli atti del concilio di Trento egli aveva scoperto che, nell'elaborazione del decreto sulla tradizione, in un primo tempo era stata proposta una formula secondo cui la rivelazione sarebbe «in parte nella Scrittura, in parte nella tradizione». Nel testo finale, però, l'«in parte - in parte» fu evitato e sostituito da «e»: Scrittura e tradizione ci trasmettono insieme la rivelazione. Geiselmann ne deduceva che Trento aveva voluto insegnare che non esiste alcuna divisione dei contenuti della fede tra Scrittura e tradizione, ma che, piuttosto, ambedue - Scrittura e tradizione - contengono, ciascuna per conto proprio, il tutto, siano cioè in se stesse complete. Ora, però, in quel momento non interessava la presunta o reale completezza della tradizione; quel che interessava era l'affermazione che secondo la dottrina di Trento la Scrittura conteneva l'intero deposito della fede. Si parlava della «completezza materiale» della Bibbia nelle questioni di fede.

Questa formula, che ora girava dappertutto e che era considerata la nuova, grande scoperta, si svincolò ben presto dal suo punto di partenza, che era l'interpretazione del decreto tridentino. L'inevitabile conseguenza fu che si cominciò a ritenere che la Chiesa non potesse insegnare nulla che non fosse espressamente rintracciabile nella Sacra Scrittura, dato che quest'ultima contiene appunto in modo completo tutto ciò che riguarda la fede. E dato che interpretazione della Scrittura ed esegesi storico-critica venivano identificate, ciò significava che la Chiesa non poteva insegnare nulla che non reggesse alla prova del metodo storico-critico. Con ciò era ampiamente messo in ombra il principio luterano della «sola Scriptura», che era poi ciò di cui si era trattato a Trento. Infatti, questa nuova tendenza significava che nella Chiesa l'esegesi doveva diventare l'ultima istanza, ma, dato che per la stessa natura della ragione umana e della ricerca storica non può sussistere la piena unanimità tra gli esegeti di testi tanto difficili (poiché in gioco ci sono sempre delle opzioni pregiudiziali, siano esse conscie o inconscie), la conseguenza era che la fede doveva ritrarsi nell'indeterminatezza e nella continua mutabilità di ipotesi storiche o apparentemente tali: alla fine «credere» significava qualcosa come «ritenere», avere un'opinione soggetta a continue revisioni. Naturalmente il Concilio dovette opporsi a teorie così formulate, ma nell'opinione pubblica ecclesiale la parola d'ordine della «completezza materiale», con tutte le sue conseguenze, era ben più forte del testo finale del Concilio.

Il dramma dell'epoca postconciliare è stato ampiamente determinato da questa parola d'ordine e dalle sue conseguenze logiche. Personalmente avevo già avuto modo di conoscere le tesi di Geiselmann nell'aprile del 1956, durante il già citato convegno dogmatico di Königstein, in cui il professore di Tubinga presentò per la prima volta la sua presunta scoperta (che, peraltro, egli non estendeva fino alle conseguenze fin qui descritte, che si sono sviluppate in questi termini solo nella «propaganda conciliare»).

All'inizio ne fui affascinato, ma molto presto mi balzò agli occhi che il grande tema del rapporto tra Scrittura e tradizione non poteva essere risolto in maniera così semplice. In seguito ho io stesso minuziosamente studiato gli atti di Trento e ho potuto constatare che la variante redazionale, che Geiselmann considerava di importanza centrale, non era stata che un insignificante aspetto secondario nel dibattito tra i Padri conciliari, che si spinse molto più a fondo per illuminare la questione fondamentale di come la rivelazione possa tradursi in parola umana e, quindi, in parola scritta. In questo fui aiutato dalle conoscenze acquisite con i miei studi sul concetto di rivelazione di Bonaventura. Trovai che l'orientamento di fondo dei Padri di Trento nel modo di pensare la rivelazione nella sostanza era rimasto lo stesso del tardo medioevo. Proprio a partire da queste acquisizioni, che ora non posso certo sviluppare oltre, le mie obiezioni nei confronti dello schema conciliare che ci era stato sottoposto erano di tutt'altra natura rispetto alle tesi sostenute da Geiselmann e alla loro grossolana volgarizzazione nell'eccitato clima conciliare. Tuttavia vorrei almeno accennare al suo aspetto essenziale: la rivelazione, cioè il volgersi di Dio verso l'uomo, il Suo venirgli incontro, è sempre più grande di quanto può essere espresso in parole umane, più grande anche delle parole della Scrittura.

Come si è già visto a proposito dei miei lavori su Bonaventura, nel medioevo e a Trento sarebbe stato impossibile definire la Scrittura semplicemente come «la rivelazione», come invece oggi avviene nel linguaggio corrente. La Scrittura è la testimonianza essenziale della rivelazione, ma la rivelazione è qualcosa di vivo, di più grande - perché sia tale essa deve giungere a destinazione e deve essere percepita, altrimenti essa non è divenuta «rivelazione». La rivelazione non è una meteora precipitata sulla terra, che giace da qualche parte come una massa rocciosa da cui si possono prelevare dei campioni di minerale, portarli in laboratorio e analizzarli. La rivelazione ha degli strumenti, ma non è separabile dal Dio vivo, e interpella sempre la persona viva a cui essa giunge. Il suo scopo è sempre quello di raccogliere gli uomini, di unirli tra loro - per questo essa implica la Chiesa. Ma se si dà questa sporgenza della rivelazione rispetto alla Scrittura, allora l'ultima parola su di essa non può venire dall'analisi dei campioni minerali - il metodo storico-critico -, ma di essa fa parte l'organismo vitale della fede di tutti i secoli. Proprio questa sporgenza della rivelazione sulla Scrittura, che non può a sua volta essere espressa in un codice di formule, è quel che noi chiamiamo «tradizione». Nel clima generale del 1962, che si era impadronito delle tesi di Geiselmann nella forma sopra descritta, mi fu impossibile far comprendere questa mia prospettiva, che avevo acquisito dallo studio delle fonti e rispetto alla quale, del resto, già nel 1956 non ero stato capito. La mia posizione venne semplicemente annoverata nell'opposizione generale allo schema ufficiale e valutata come un'altra voce in direzione di Geiselmann.

Per desiderio del cardinal Frings, misi allora per iscritto un piccolo schema, in cui cercavo di esprimere la mia prospettiva alla sua presenza, potei quindi leggere quel testo a un gran numero di influenti cardinali, che lo trovarono interessante, ma sul momento non vollero, né potevano esprimere alcun giudizio in proposito. Ora, quel piccolo saggio era stato scritto in gran fretta e non poteva nemmeno lontanamente competere per solidità e precisione con lo schema ufficiale, che aveva avuto origine in un lungo processo di elaborazione ed era passato attraverso molte revisioni di studiosi competenti. Era chiaro che il testo doveva essere ulteriormente elaborato e approfondito. Un simile lavoro richiedeva anche l'intervento di altre persone. Fu dunque stabilito che io redigessi insieme con Karl Rahner una seconda redazione, più approfondita.

Questo secondo testo, che va ascritto molto più a Rahner che a me, fu poi fatto circolare tra i Padri e suscitò in parte delle aspre reazioni. Lavorando insieme con lui, mi resi conto che Rahner ed io, benché ci trovassimo d'accordo su molti punti e in molte aspirazioni, dal punto di vista teologico vivevamo su due pianeti diversi. Anch'egli, come me, era impegnato a favore di una riforma liturgica, di una nuova collocazione dell'esegesi nella Chiesa e nella teologia e di molte altre cose, ma le sue motivazioni erano parecchio diverse dalle mie. La sua teologia - malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni - era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e dalla sua nuova versione alla luce dell'idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui, alla fin fine, la Scrittura e i Padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri, da un pensiero essenzialmente storico: in quei giorni ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui io ero passato, e quella di Rahner, anche se dovette passare ancora qualche tempo prima che la distanza che separava le nostre strade fosse pienamente visibile all'esterno.

Ora era chiaro che lo schema di Rahner non poteva essere accolto, ma anche il testo ufficiale andò incontro alla bocciatura con un'esigua differenza di voti. Si dovette quindi procedere al rifacimento del testo. Dopo complesse discussioni, solo nell'ultima fase dei lavori conciliari si poté arrivare all'approvazione della Costituzione sulla parola di Dio, uno dei testi di spicco del Concilio, che peraltro non è stato ancora recepito appieno. All'inizio si impose in pratica solo quello che era passato come la presunta novità nel modo di pensare questi argomenti da parte dei Padri. Il compito di comunicare le reali affermazioni del Concilio alla coscienza ecclesiale e di plasmarla a partire da queste ultime è ancora da realizzare.