"Se un giovane venisse a vivere nella tua fraternità... si innamorerebbe della nostra vita?". Padre Raniero Cantalamessa spiega la vecchia e la Nuova Evangelizzazione in America Latina, di Antonio Gaspari

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /12 /2011 - 13:58 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dall’Agenzia di stampa Zenit un articolo di Antonio Gaspari apparso il 16 dicembre 2011 e la trascrizione della III Predica di Avvento 2011 pronunciata in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2011)

Indice

1/ "Se un giovane venisse a vivere nella tua fraternità... si innamorerebbe della nostra vita?". Padre Raniero Cantalamessa spiega la vecchia e la Nuova Evangelizzazione in America Latina, di Antonio Gaspari

Nella sua terza Predica di Avvento, svolta in Vaticano davanti al Pontefice Benedetto XVI ed alla Curia Romana, Padre Raniero Cantalamessa ha illustrato le luci e le ombre della prima evangelizzazione del continente Americano, indicando le strade da percorrere per la Nuova Evangelizzazione.

Il Predicatore della Casa Pontificia ha rilevato che “l’Europa cristiana, insieme con la fede, ha esportato nel nuovo continente anche le proprie divisioni” così che “alla fine della grande ondata missionaria, il continente americano riprodurrà esattamente la situazione in atto in Europa: a un Sud in maggioranza cattolica corrisponderà un Nord a maggioranza protestante”.

Molti i problemi legati all’adesione condizionata al regno di Spagna ed alla fede cattolica, ma è indubbio l’eroismo e il sacrificio di tanti frati missionari il cui lavoro è presente nei frutti copiosi delle opere di fede.

Padre Cantalamessa ha respinto “energicamente” la tesi di coloro che parlarono della necessità di una “de-colonizzazione” e “de-evangelizzazione”, dando l’impressione di preferire che l’evangelizzazione del continente non avesse avuto luogo affatto, anziché aver avuto luogo nel modo conosciuto.

A un mondo senza peccato ma senza Gesù Cristo, la teologia ha mostrato di preferire un mondo con il peccato, ma con Gesù Cristo” ha affermato il Predicatore della casa Pontificia.

Alle domande: “A un continente senza “gli sbagli e le ombre” che accompagnarono la sua evangelizzazione, ma anche senza Cristo, chi non preferirebbe un continente con tali ombre, ma con Cristo?” e “Quale cristiano, di destra o di sinistra (specie se sacerdote o religioso) potrebbe dire il contrario senza venir meno, per ciò stesso, alla propria fede?” Padre Cantalamessa ha risposto: “La cosa più grande che avvenne nel 1492 non fu che Cristoforo Colombo scoprì l’America, ma che l’America scoprì Gesù Cristo”.

In merito al ruolo svolto dai Frati missionari, il predicatore della casa Pontifica ha precisato : “Non andavano per prendere, ma per dare; volevano conquistare anime a Cristo, non sudditi per il re di Spagna, anche se condividevano l’entusiasmo patriottico dei loro connazionali”.

Circa i compiti attuali della Nuova Evangelizzazione Padre Cantalamessa ha detto: “più che insistere su ciò che possiamo imparare o disimparare da quel tempo, è utile riflettere sul compito attuale dell’evangelizzazione nel continente latino-americano”.

A questo proposito ha proposto di superare l’annosa divisione tra l’anima attiva e l’anima contemplativa, tra la Chiesa dell’impegno sociale per i poveri e la Chiesa dell’annuncio di fede.

La dottrina dei carismi – ha sostenuto - ci risparmia questa lotta. Il dono della Chiesa cattolica è di essere, appunto, cattolica, cioè aperta ad accogliere i doni più diversi che provengono dallo stesso Spirito”.

Secondo il Predicatore della Casa Pontificia la storia degli ordini religiosi mostra che c’è posto per tutti, non potendo nessuno realizzare il Vangelo integrale e rappresentare Cristo in tutti gli aspetti della sua vita.

Ognuno dovrebbe rallegrarsi che altri facciano quello che lui non può fare: chi coltiva la vita spirituale e l’annuncio della Parola che vi sia chi si dedica alla giustizia e alla promozione sociale, e viceversa. È sempre valido l’ammonimento dell’Apostolo: “Cessiamo una buona volta dal giudicarci gli uni gli altri!” (cfr. Rom 14, 13).

Per quanto riguarda il problema dell’esodo di cattolici verso altre denominazioni cristiane, Padre Cantalamessa ha voluto ricordare che “non si possono qualificare indistintamente queste diverse denominazioni come “sette”, anche perché “con alcune di esse, comprese i Pentecostali, la Chiesa cattolica mantiene da anni un dialogo ecumenico ufficiale, cosa che non farebbe se le ritenesse semplicemente delle sette”. In questo contesto “la promozione, anche a livello locale, di questo dialogo è il mezzo migliore per svelenire il clima, isolare le sette più aggressive e scoraggiare la pratica del proselitismo”.

Nell’affrontare il ruolo dei religiosi nella nuova evangelizzazione, Padre Cantalamessa ha evocato la vivacità e lo zelo dei primi evangelizzatori, chiedendosi “Ma oggi, che ne è di questa loro forza?”

La secolarizzazione – ha osservato - è, certo, una delle cause del calo delle vocazioni, ma non è la sola. Vi sono comunità religiose di recente fondazione che attirano schiere di giovani”.

Secondo Padre Cantalamessa la forza sta in “una profonda esperienza di Dio”. È questo che attira le vocazioni e che crea le premesse per una nuova efficace ondata di evangelizzazione”.

A questo proposito ha citato la lettera scritta a tutti i frati dal superiore provinciale dei Cappuccini delle Marche, che si conclude così: “se un giovane venisse a vivere per alcuni giorni o mesi nella tua fraternità, condividendo la preghiera, la vita fraterna, l’apostolato…si innamorerebbe della nostra vita?

Lo Spirito Santo – diceva san Bonaventura – va là ‘dove è amato, dove è invitato, dove è atteso’. Per questo – ha aggiunto Padre Cantalamessa “Dobbiamo aprire le nostre comunità al soffio dello Spirito che rinnova la preghiera, la vita fraterna, l’amore per Cristo e con esso lo zelo missionario. Guardare indietro, alle proprie origini e al proprio fondatore, certo, ma guardare anche avanti”.

La Terza Predica di Avvento si è aperta e ci è conclusa con l’invocazione di “Nostra Signora di Guadalupe”, “stella dell’evangelizzazione” che “è chiamata a farsi - e vuole farsi - indigena con gli indigeni, creola con i creoli, tutta a tutti”.

2/ "Fino ai confini della terra". La prima evangelizzazione del continente americano. Terza Predica di Avvento 2011, tenuta questa mattina, 16/12/2011 in Vaticano da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., predicatore della Casa Pontificia.

1. La fede cristiana varca l’oceano

Quattro giorni fa, il 12 Dicembre, il continente americano ha celebrato la festa di Nostra Signora di Guadalupe che in Messico è anche festa di precetto. È una felice coincidenza per parlare, in questa meditazione, della terza grande ondata evangelizzatrice nella storia della Chiesa, quella che seguì la scoperta del nuovo mondo.

Richiamiamo alla mente, per sommi capi, lo svolgersi di questa impresa missionaria. Anzitutto una osservazione. L’Europa cristiana, insieme con la fede, ha esportato nel nuovo continente anche le proprie divisioni. Alla fine della grande ondata missionaria, il continente americano riprodurrà esattamente la situazione in atto in Europa: a un Sud in maggioranza cattolica corrisponderà un Nord a maggioranza protestante. Noi ci occuperemo qui solo dell’evangelizzazione dell’America Latina, anche perché fu la prima che ebbe luogo subito dopo la scoperta del nuovo mondo.

Dopo che Cristoforo Colombo, nel 1492, tornò dal suo viaggio con la notizia dell’esistenza delle nuove terre (credute ancora parte dell’India), scattò nella Spagna cattolica, inseparabilmente mescolate insieme, due decisioni: quella di portare ai nuovi popoli la fede cristiana e quella di estendere ad essi la propria sovranità politica. A questo scopo si ottenne dal papa Alessandro VI una decisione con cui si riconosceva alla Spagna il diritto su tutte le terre scoperte cento miglia al di là delle Azzorre e al Portogallo quelle al di qua di tale linea. In seguito, questa linea fu spostata a favore del Portogallo, in modo da legittimare il suo possesso del Brasile. Si delineava, in tal modo, anche linguisticamente, il volto futuro del continente latino-americano.

Penetrando in un paese, le truppe emanavano ogni volta un proclama (requerimiento), con il quale agli abitanti veniva ordinato di abbracciare il cristianesimo e di riconoscere la sovranità del re di Spagna[1]. Solo alcuni grandi spiriti, in primo luogo i domenicani Antonio di Montesino e Bartolomeo de Las Casas, ebbero il coraggio di levare la voce contro gli abusi dei conquistatori e in difesa dei diritti dei nativi. In poco più di una cinquantina d’anni, anche per la debolezza e le divisioni dei regni locali, il continente era sotto il dominio spagnolo e portoghese e, almeno nominalmente, cristiano.

Gli storici recenti tendono ad attenuare le tinte fosche gettate in passato sopra questa impresa missionaria. Anzitutto si fa notare che, a differenza di quanto avverrà con le tribù “indiane” del Nord America, in America latina, per quanto decimati, la maggioranza dei popoli nativi sopravvisse con la propria lingua e nel proprio territorio e hanno potuto riprendere e riaffermare in seguito la loro identità e indipendenza.

Si deve poi tener conto del condizionamento che veniva ai missionari dalla loro formazione teologica. Prendendo alla lettera e in maniera rigida l’adagio “Extra Ecclesiam nulla salus”, essi erano convinti della necessità di battezzare quante più persone possibili e nel più breve tempo possibile per assicurare la loro salvezza esterna.

Vale la pena soffermarsi un momento su questo assioma che ha avuto tanto peso sull’evangelizzazione. Esso fu formulato nel III secolo da Origene e soprattutto da san Cipriano. All'inizio non riguardava la salvezza dei non cristiani, ma al contrario quella dei cristiani. Era diretto infatti esclusivamente agli eretici e agli scismatici del tempo, per ricordare loro che, rompendo la comunione ecclesiale, essi si facevano rei di una grave colpa, per cui si escludevano da soli dalla salvezza. Era diretto dunque a quelli che uscivano dalla Chiesa, non a quelli che non vi entravano.

Solo in un secondo momento, quando il cristianesimo era diventato religione di stato, l'assioma cominciò ad essere applicato a pagani e giudei, in base alla convinzione allora comune (anche se oggettivamente errata) che ormai il messaggio era noto a tutti gli uomini e quindi rifiutarlo significava rendersi colpevoli e meritevoli di condanna.

Fu proprio in seguito alla scoperta del nuovo mondo, che quei limiti geografici si ruppero drasticamente. La scoperta di interi popoli vissuti al di fuori di ogni contatto con la Chiesa costrinse a rivedere una interpretazione così rigida dell’assioma. I teologi domenicani di Salamanca e, in seguito, alcuni gesuiti iniziarono a porsi in posizione critica, riconoscendo che era possibile essere fuori della Chiesa, senza essere necessariamente colpevoli e quindi esclusi dalla salvezza. Non solo, ma di fronte al modo e ai metodi inaccettabili con cui il Vangelo era stato talvolta annunciato agli indigeni, qualcuno, per la prima volta, si pose il problema se veramente si possono ritenere colpevoli tutti quelli che, pur avendo conosciuto l'annuncio cristiano, non vi hanno aderito[2].

2. Protagonisti, i frati

Non è certo questo il luogo per dare un giudizio storico sulla prima evangelizzazione dell’America Latina. In occasione del suo quinto centenario, nel maggio del 1992, si tenne qui a Roma un simposio internazionale di storici su tale argomento. Nel suo discorso ai partecipanti, Giovanni Paolo II affermò: “Senza dubbio in questa evangelizzazione, come in ogni opera dell’uomo, vi sono stati esiti e sbagli, luci ed ombre; però più luci che ombre, a giudicare dai frutti che troviamo dopo cinquecento anni: una chiesa viva e dinamica che rappresenta oggi una parte rilevante della Chiesa universale”[3].

Dalla sponda opposta, in quell’occasione, alcuni parlarono della necessità di una “de-colonizzazione” e “de-evangelizzazione”, dando l’impressione di preferire che l’evangelizzazione del continente non avesse avuto luogo affatto, anziché aver avuto luogo nel modo conosciuto. Con tutto il rispetto dovuto all’amore per i popoli indigeni che muoveva questi autori, io credo che una tale opinione sia da rifiutare energicamente.

A un mondo senza peccato ma senza Gesù Cristo, la teologia ha mostrato di preferire un mondo con il peccato, ma con Gesù Cristo. “O felice colpa –esclama la liturgia pasquale nell’Exultet – che ci ha permesso di avere un tale e così grande redentore”. Non dovremmo dire lo steso dell’evangelizzazione di entrambe le Americhe, del Sud e del Nord? A un continente senza “gli sbagli e le ombre” che accompagnarono la sua evangelizzazione, ma anche senza Cristo, chi non preferirebbe un continente con tali ombre, ma con Cristo? Quale cristiano, di destra o di sinistra (specie se sacerdote o religioso) potrebbe dire il contrario senza venir meno, per ciò stesso, alla propria fede?

Ho letto da qualche parte questa affermazione che condivido in pieno: “La cosa più grande che avvenne nel 1492 non fu che Cristoforo Colombo scoprì l’America, ma che l’America scoprì Gesù Cristo”. Non era, è vero, il Cristo integrale del Vangelo per il quale la libertà è il presupposto stesso della fede, ma chi può pretendere di essere il portatore di un Cristo libero da ogni condizionamento storico? Quelli che propongono un Cristo rivoluzionario, contestatore delle strutture, direttamente impegnato nella lotta anche politica, non dimenticano forse anch’essi qualcosa di Cristo, per esempio la sua affermazione “il mio regno non è di questo mondo”?

Se nella prima ondata evangelizzatrice i protagonisti erano stati i vescovi e nella seconda i monaci, in questa terza ondata i protagonisti indiscussi furono i frati, cioè i religiosi degli ordini mendicanti, in primo luogo francescani, domenicani, agostiniani, e in un secondo momento i gesuiti. Gli storici della Chiesa riconoscono che, in America latina, “furono i membri degli ordini religiosi a determinare la storia delle missioni e delle chiese”[4].

A loro riguardo vale il giudizio ricordato di Giovanni Paolo II che “le luci sono maggiori delle ombre”. Non sarebbe onesto misconoscere il sacrificio personale e l’eroismo di tanti di questi missionari. I conquistatori erano mossi da spirito di avventura e sete di guadagno, ma essi cosa potevano aspettarsi, lasciando la loro patria e i loro conventi? Non andavano per prendere, ma per dare; volevano conquistare anime a Cristo, non sudditi per il re di Spagna, anche se condividevano l’entusiasmo patriottico dei loro connazionali.

Quando si leggono le storie legate alla evangelizzazione di un particolare territorio, si vede quanto i giudizi generici siano ingiusti e lontani dalla realtà. A me è capitato leggendo, sul posto, la cronaca dell’inizio della missione in Guatemala e nelle regioni vicine. Sono storie di sacrifici e peripezie inenarrabili. Di un manipolo di 20 domenicani partiti per il nuovo mondo e diretto alle Filippine, 18 morirono durante il viaggio.

Nel 1974 si tenne il sinodo su “l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo”. In un appunto manoscritto fatto al documento finale (che la Prefettura della Casa Pontificia ha avuto l’idea di pubblicare unitamente al programma di queste prediche), Paolo VI annotava:

“Basta quello ch’è detto [nel documento] per i religiosi? Non è da aggiungere una parola sul carattere volontario, intraprendente, generoso della evangelizzazione dei Religiosi e delle Religiose? La loro evangelizzazione deve dipendere da quella della Gerarchia e coordinarsi con essa, ma è da lodare l’originalità, la genialità, la dedizione, spesso d’avanguardia e a tutto loro rischio”.

Questo riconoscimento si applica in pieno ai religiosi protagonisti dell’evangelizzazione dell’America Latina, soprattutto se pensiamo a certe loro realizzazioni, come le famose “riduzioni” dei Gesuiti in Paraguay, cioè i villaggi nei quali gli indios cristiani, al riparo dai soprusi dell’autorità civile, potevano istruirsi nella fede, ma anche mettere a frutto i loro talenti umani.

3. I problemi attuali

Ora, come al solito, cerchiamo di passare all’oggi e vedere cosa dice a noi la storia dall’esperienza missionaria della Chiesa che abbiamo sommariamente ricostruita. Le condizioni sociali e religiose del continente sono così profondamente cambiate che, più che insistere su ciò che possiamo imparare o disimparare da quel tempo, è utile riflettere sul compito attuale dell’evangelizzazione nel continente latino-americano.

Su questo argomento c’è stata e c’è tuttora in atto una tale quantità di riflessione e di documenti da parte del magistero pontificio, del CELAM e delle singole Chiese locali, che sarebbe presuntuoso da parte mia pensare di poter aggiungere qualcosa di nuovo. Posso però condividere qualche riflessione suggerita dalla mia esperienza sul campo, avendo avuto occasione di predicare ritiri a conferenze episcopali, al clero e al popolo di quasi tutti i paesi dell’America latina e in alcuni di essi diverse volte. Anche perché i problemi che si pongono, in questo campo, in America Latina non sono poi tanto diversi da quelli del resto della Chiesa.

Una riflessione riguarda la necessità di superare una eccessiva polarizzazione presente ovunque nella Chiesa, ma particolarmente acuta in America Latina, specie in anni passati: la polarizzazione tra l’anima attiva e l’anima contemplativa, tra la Chiesa dell’impegno sociale per i poveri e la Chiesa dell’annuncio di fede. Davanti a ogni differenza noi siamo istintivamente tentati di fare una scelta di parte, esaltando una e disprezzando l’altra. La dottrina dei carismi ci risparmia questa lotta. Il dono della Chiesa cattolica è di essere, appunto, cattolica, cioè aperta ad accogliere i doni più diversi che provengono dallo stesso Spirito.

Lo dimostra la storia degli ordini religiosi che hanno incarnato istanze diverse e a volte opposte: l’inserimento nel mondo e la fuga dal mondo, l’apostolato tra i dotti, come i gesuiti, e l’apostolato tra il popolo, come i cappuccini. C’è posto per gli e per gli altri. Di più, abbiamo bisogno gli uni degli altri, non potendo nessuno realizzare il vangelo integrale e rappresentare Cristo in tutti gli aspetti della sua vita. Ognuno dovrebbe, dunque, rallegrarsi che altri facciano quello che lui non può fare: chi coltiva la vita spirituale e l’annuncio della Parola che vi sia chi si dedica alla giustizia e alla promozione sociale, e viceversa. È sempre valido l’ammonimento dell’Apostolo: “Cessiamo una buona volta dal giudicarci gli uni gli altri!” (cfr. Rom 14, 13).

Una seconda osservazione riguarda il problema dell’esodo di cattolici verso altre denominazioni cristiane. Anzitutto è da ricordare che non si possono qualificare indistintamente queste diverse denominazioni come “sette”. Con alcune di esse, comprese i Pentecostali, la Chiesa cattolica mantiene da anni un dialogo ecumenico ufficiale, cosa che non farebbe se le ritenesse semplicemente delle sette.

La promozione, anche a livello locale, di questo dialogo è il mezzo migliore per svelenire il clima, isolare le sette più aggressive e scoraggiare la pratica del proselitismo. Alcuni anni fa si tenne a Buenos Aires un incontro ecumenico di preghiera e di condivisione della parola con la partecipazione dell’arcivescovo cattolico e dei leaders di altre chiese, presenti settemila persone. Si vide con chiarezza la possibilità di un rapporto nuovo tra i cristiani, tanto più costruttivo per la fede e l’evangelizzazione.

In un suo documento, Giovanni Paolo II affermava che la diffusione delle sette obbliga a interrogarsi sul perché, su cosa manca nella nostra pastorale. La convinzione che mi sono fatta in base all’esperienza – e non solo dei paesi dell’America Latina – è la seguente. Ciò che attira fuori dalla Chiesa non sono certo forme di pietà popolare alternative che anzi la maggioranza delle altre chiese e le sette rigettano e combattono. È un annuncio, magari parziale ma incisivo, della grazia di Dio, la possibilità di sperimentare Gesù come Signore e Salvatore personale, l’appartenere a un gruppo che si fa carico personalmente dei tuoi bisogni, che prega su di te nella malattia quando la medicina non ha più niente da dire.

Se da una parte ci si può rallegrare che queste persone abbiano incontrato il Cristo e si siano convertite, dall’altra è triste che per farlo abbiano sentito il bisogno di lasciare la loro Chiesa. Nella maggioranza delle chiese a cui approdano questi fratelli, tutto ruota intorno alla prima conversione e alla accettazione di Gesù come Signore. Nella Chiesa cattolica, grazie ai sacramenti, al magistero, alla ricchissima spiritualità, c’è il vantaggio di non fermarsi a questo stadio iniziale, ma di giungere alla pienezza e alla perfezione della vita cristiana. I santi ne sono la prova. Ma bisogna che quell’inizio consapevole e personale sia posto ed è in questo che la sfida delle comunità evangeliche e pentecostali ci è di stimolo.

In ciò il Rinnovamento Carismatico si rivela più che mai, secondo la parola di Paolo VI, “una chance per la Chiesa”. In America latina, i pastori della Chiesa si stanno rendendo conto che il Rinnovamento Carismatico non è (come all’inizio qualcuno ha creduto) “parte del problema” dell’esodo dei cattolici dalla Chiesa, ma è piuttosto parte della soluzione del problema. Le statistiche non riveleranno mai quante persone sono rimaste fedeli alla Chiesa grazie ad esso, avendo trovato nel suo ambito quello che altri cercavano altrove. Le numerose comunità nate dal seno del Rinnovamento Carismatico, pur con i limiti, e a volte le derive, presenti in ogni iniziativa umana, sono all’avanguardia nel servizio della Chiesa e dell’evangelizzazione.

4. Il ruolo dei religiosi nella nuova evangelizzazione

Ho detto di non volermi soffermare sulla prima evangelizzazione. Una cosa però dobbiamo ritenere da essa: l’importanza degli ordini religiosi tradizionali in vista dell’evangelizzazione. Ad essi il beato Giovanni Paolo II dedicò la sua Lettera apostolica in occasione del V centenario della prima evangelizzazione del continente intitolata, nell’originale, “Los caminos del Evangelio”. L’ultima parte della lettera tratta appunto dei “religiosi nella nuova evangelizzazione”: “I religiosi –scrive -, che sono stati i primi evangelizzatori –e hanno contribuito in maniera così rilevante a mantenere viva la fede nel continente -, non possono mancare a questa convocazione ecclesiale della nuova evangelizzazione. I diversi carismi della vita consacrata rendono vivo il messaggio di Gesù, presente e attuale in ogni tempo e luogo”[5].

La vita di comunità, il fatto di avere un governo centralizzato e dei luoghi di formazione di livello superiore fu ciò che permise agli ordini religiosi di allora una così vasta impresa missionaria. Ma oggi, che ne è di questa loro forza? Parlando dall’interno di uno di questi ordini antichi, posso osare di esprimermi con una certa libertà. Il rapido calo delle vocazioni nei paesi occidentali sta determinando una situazione pericolosa: quello di spendere quasi tutte le proprie forze per soddisfare le esigenze interne della propria famiglia religiosa (formazione dei giovani, mantenimento delle strutture e delle opere), senza molte forze vive da immettere nel circolo più ampio della Chiesa. Quindi il ripiegamento su se stessi. In Europa gli ordini religiosi tradizionali sono costretti a riunire più province in una e a chiudere dolorosamente una casa dopo l’altra

La secolarizzazione è, certo, una delle cause del calo delle vocazioni, ma non è la sola. Vi sono comunità religiose di recente fondazione che attirano schiere di giovani. Nella lettera citata, Giovanni Paolo II esortava i religiosi e le religiose dell’America Latina a “evangelizzare a partire da una profonda esperienza di Dio”. È qui, credo, il punto: “una profonda esperienza di Dio”. È questo che attira le vocazioni e che crea le premesse per una nuova efficace ondata di evangelizzazione. L’adagio “nemo dat quod non habet”, nessuno può dare ciò che non ha, vale più che mai in questo campo.

Il superiore provinciale dei Cappuccini delle Marche, che è anche il mio superiore, ha scritto per questo Avvento una lettera a tutti frati. In essa lancia una provocazione che credo faccia bene a tutte le comunità religiose tradizionali ascoltare: “Tu che leggi queste righe devi immaginare di ‘essere lo Spirito Santo’. Sì, hai capito bene: non solo di essere ‘ripieno di Spirito Santo’ per i sacramenti che hai ricevuto, ma proprio ‘di essere’ lo Spirito Santo, la Terza Persona della SS. Trinità. E, in questa veste, pensa che hai il potere di chiamare e inviare un giovane su una via che lo aiuti a camminare verso la perfezione della carità, la vita religiosa per intenderci. Avresti il coraggio di inviarlo nella tua fraternità, con certezza e garanzia che la tua fraternità possa essere il luogo che lo aiuti sul serio a raggiungere la perfezione della carità nella concretezza della vita quotidiana? In parole povere: se un giovane venisse a vivere per alcuni giorni o mesi nella tua fraternità, condividendo la preghiera, la vita fraterna, l’apostolato…si innamorerebbe della nostra vita?”

Quando nacquero gli ordini mendicanti, domenicani e francescani, all’inizio del secolo XIII, anche gli ordini monastici preesistenti trassero beneficio da essi e fecero proprio il richiamo a una maggiore povertà e a una vita più evangelica, vivendolo secondo il proprio carisma. Non dovremmo fare lo stesso oggi noi, ordini tradizionali, nei confronti delle nuove forme di vita consacrata suscitate nella Chiesa?

La grazia di queste nuove realtà è multiforme, ma ha un denominatore comune che si chiama lo Spirito Santo, la “novella Pentecoste”. Dopo il concilio quasi tutti gli ordini religiosi preesistenti hanno rivisto e rinnovato le proprie costituzioni, ma già nel 1981, il beato Giovanni Paolo II ammoniva: “Tutta l'opera di rinnovamento della Chiesa, che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato... non può realizzarsi se non nel­lo Spirito Santo, cioè con l'aiuto della sua luce e del­la sua forza”[6] .

“Lo Spirito Santo –diceva san Bonaventura – va là “dove è amato, dove è invitato, dove è atteso”[7]. Dobbiamo aprire le nostre comunità al soffio dello Spirito che rinnova la preghiera, la vita fraterna, l’amore per Cristo e con esso lo zelo missionario. Guardare indietro, alle proprie origini e al proprio fondatore, certo, ma guardare anche avanti.

Osservando la situazione degli ordini antichi nel mondo occidentale, sorge spontanea la domanda che Ezechiele sentì pronunciare sulla distesa di ossa aride: “Potranno queste ossa rivivere?” Le ossa aride di cui si parla nel testo non sono dei morti, ma dei vivi; sono il popolo d’Israele in esilio che va dicendo: "Le nostre ossa sono secche, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti!". Sono i sentimenti che affiorano, talvolta, anche in noi, appartenenti a ordini religiosi di antica data.

Conosciamo la risposta, piena di speranza che Dio da a quella domanda: “Metterò in voi il mio Spirito, e voi tornerete in vita; vi porrò sul vostro suolo, e conoscerete che io, il Signore, ho parlato e ho messo la cosa in atto", dice il Signore”. Dobbiamo credere e sperare che si avvererà anche per noi, e per tutta la Chiesa, quello che è detto al termine della profezia: “Lo Spirito entrò in essi: tornarono alla vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, grandissimo” (cf. Ez 37, 1-14).

Quattro giorni fa, ricordavo all’inizio, l’America Latina ha celebrato la festa di Nostra Signora di Guadalupe. Si discute molto sulla storicità dei fatti che sono all’origine di questa devozione. Dobbiamo intenderci su cosa si intende per fatto storico. Ci sono tanti fatti che sono realmente accaduti, ma che non sono storici perché “storico”, nel senso più vero, non è tutto quello che è accaduto, ma solo quello che, oltre ad essere accaduto, ha inciso nella vita di un popolo, ha creato qualcosa di nuovo, ha lasciato una traccia nella storia. E quale traccia ha lasciato la devozione alla Vergine di Guadalupe nella storia religiosa del popolo messicano e latino-americano!

È di grande significato simbolico il fatto che, agli inizi dell’evangelizzazione del continente americano, nel 1531, sulla collina del Tepeyac a nord di Città del Messico, l’immagine della Vergine si sia stampata sul mantello, la tilma, di san Diego come “la Morenita”, cioè con i tratti di un’umile fanciulla meticcia. Non si poteva dire in maniera più suggestiva che la Chiesa, in America Latina, è chiamata a farsi - e vuole farsi - indigena con gli indigeni, creola con i creoli, tutta a tutti.

Note al testo

[1] Cfr. J. Glazik, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, vol. VI, Milano Jaca Book, 1075, p. 702.

[2] F. Sullivan, Salvation outside the Church? Tracing the History of the Catholic Response, Paulist Press, New York 1992.

[3] Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale sulla evangelizzazione nell’America Latina, 14 Maggio 1992.

[4] Cfr. Glazik, op. cit., p. 708.

[5] Giovanni Paolo II, “Los caminos del Evangelio”, nr. 24 (AAS 83, 1991, pp. 22 ss.)

[6] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica “A Concilio Constantinopolitano I” (25 marzo 1981).

[7] S. Bonaventura, Sermone per la IV Domenica dopo Pasqua, 2 (ed. Quaracchi, IX, p.311).