S. PAOLO APOSTOLO A ROMA. Raccolta degli articoli scritti da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /07 /2009 - 21:58 pm | Permalink | Homepage
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Raccolta degli articoli scritti da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it. Ad essi sono stati aggiunti due articoli scritti per la rubrica In cammino con Gesù, dello stesso sito.

Il Centro culturale Gli scritti (14/7/2009)

Indice

1. ROMA, FARO PER PAOLO E PER I PRIMI CRISTIANI

«Sì, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto, incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come e perché "Cristo è Romano" (cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, XXXII, 102)».

Così ebbe a dire Paolo VI nella messa celebrata per il suo ottantesimo compleanno, nel 1977. Questa rubrica, attraverso gli articoli che saranno pubblicati on-line ogni due settimane, è animata dallo stesso desiderio, quello di indagare, attraverso la figura di Paolo, l’amore di predilezione che il Signore ha avuto per l’Urbe e i suoi abitanti e, tramite la sua chiesa, per tutti.

È semplicemente straordinario come la testimonianza apostolica e neotestamentaria sia legata alla città di Roma, al punto che viene spontaneo parlare di una “geografia della salvezza”, a fianco di una “historia salutis. Gli stessi romani sembrano a volte inconsapevoli di tutta la ricchezza di questo legame.

Già i maccabei inviarono delegati a Roma, a parlare nella Curia del Senato che è tuttora possibile ammirare nei Fori ai piedi del Campidoglio (1 Mac 8). Erode il Grande salì al Campidoglio, come attesta Flavio Giuseppe che scrisse in Roma le sue opere, avendo al suo fianco Ottaviano e Antonio, quando nel 40 a.C. gli venne assegnato nell’Urbe il regno. I suoi figli, fra i quali Erode Antipa, si incontrarono con Ottaviano Augusto, divenuto nel frattempo imperatore, nel tempio di Apollo sul Palatino, quando venne diviso dal potere romano il regno del loro padre.

Più volte Pilato, durante il regno di Tiberio, dovette ascendere al Palazzo imperiale a conferire sui fatti della Giudea e recarsi per i sacrifici agli dèi al Tempio dedicato sul colle del Campidoglio alla triade capitolina, come al Tempio di Marte ultore nei Fori, luogo rituale di incontro dei rappresentanti della politica estera dell’impero.

Ma, sopratutto, è impressionante constatare come il desiderio paolino di testimoniare Cristo a Roma sia stato accompagnato dal grande amore che dovette destare la città di Roma non solo in Pietro, ma in tanti cristiani della prima generazione.

Gli Atti testimoniano di Aquila e Priscilla, nella cui casa si riuniva la comunità (cfr. Rm 16, 5), espulsi dall’Urbe con l’editto di Claudio del 49 d.C. e probabilmente ritornati poi in città successivamente.

Due dei quattro evangelisti ebbero un forte legame con Roma: Marco, che probabilmente scrisse il suo Vangelo in città – come sembrano indicare, oltre alla tradizione, i latinismi del testo e alcune sottolineature che ben si confanno al diritto latino, ad esempio l’asserita possibilità giuridica del divorzio delle donne – e Luca che certamente giunse a Roma e vi soggiornò, come attesta la finale degli Atti (appartenente alle famose “sezioni-noi”, cfr. in particolare At 28).

Non possiamo essere certi della presenza a Roma dell’evangelista Giovanni, del quale la tradizione attesta, nel luogo dell’odierna San Giovanni in Oleo, la persecuzione, ma certo Roma, la “prostituta che siede sui sette colli” (cfr. Ap 17, 9), dovette avere un ruolo decisivo nella vicenda del discepolo amato e della sua scuola.

Sopratutto Pietro fu, insieme ai primi martiri romani durante la persecuzione neroniana ricordata da Tacito, il grande testimone del vangelo in Roma. L’urbe che si presenta come Babilonia (1 Pt 5, 13), come nemica di Dio, diviene l’amata del Signore che invia i suoi apostoli non per la vendetta, ma per la salvezza dei romani.

Insieme a quella di tutti costoro – a partire da quegli anonimi primi annunziatori che portarono il Vangelo in Roma a motivo del loro lavoro di commercianti – la presenza di Paolo in Roma divenne benedizione per la città.

A Roma egli inviò, in preparazione al suo viaggio, la grande lettera paolina sul peccato originale e sulla grazia e nell’Urbe stessa potrebbero essere state scritte le cosiddette “lettere dalla prigionia”, Filippesi e Filemone principalmente e poi Efesini e Colossesi.

La lettera agli Ebrei risulta essere inviata in Italia, probabilmente a Roma, poiché al testo è accluso un biglietto nel quale gli emigrati della penisola inviano un saluto ai loro connazionali (Eb 13, 24).

La seconda lettera a Timoteo, allora ad Efeso, attesta non solo la presenza del principale collaboratore di Paolo a Roma, ma anche la consapevolezza dell’ora del martirio, sebbene il testo possa essere nella sua redazione successivo alla morte dell’apostolo.

Paolo è stato, insomma, in Roma annunziatore del vangelo di Cristo, unito a Pietro fino alla testimonianza suprema, come attesta la tradizione dell’ultimo abbraccio fra i due apostoli presso la Piramide Cestia. Essi non furono, però, soli nell’amore con il quale convinsero del Vangelo di Cristo tanti romani, ma furono accompagnati da quel nugolo di testimoni dei quali si è parlato.

L’augurio che ancora una volta Paolo VI rivolse a tutti illumini le riflessioni che compariranno in questa rubrica: «Che tutti i credenti della Santa Chiesa e anche coloro che aspirano a un ecumenismo religioso autentico, possano a buon diritto, per fede e per amore, far propria la definizione, non tanto giuridica quanto spirituale, che di San Paolo fu data: “Hic homo civis Romanus est”, “quest’uomo è cittadino Romano” (Act. 22, 26)».

2. L’APOSTOLO NELL’URBE, COSCIENTE DI UN DEBITO

Sentirsi in debito. Meglio: essere in debito. Questo il motivo del desiderio di Paolo di giungere a Roma. Come di ogni suo altro viaggio dopo la conversione. «Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti: sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il Vangelo anche a voi di Roma» (Rm 1, 14-15).

Annunciare il Vangelo, per Paolo, non è un’eccedenza, non è volontariato, non è opera buona. È piuttosto ciò che “lega” chi ha incontrato per grazia il Signore. Se per pura grazia Paolo ha ricevuto la manifestazione del Risorto sulla via di Damasco, da quel momento egli non può tenere per sé il dono ricevuto. «Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato» (1 Cor 9, 16-17).

Ricordo come fosse ieri don Tonino D’Ammando, uno dei parroci “romani” della vecchia generazione, che spiegava cosa fosse per lui la gratitudine. Era stato chiamato al sacerdozio da adulto mentre era ingegnere presso le acciaierie di Terni ed aveva beneficiato di una borsa di studio per poter studiare al Collegio Capranica e pagare le tasse universitarie. Aveva compreso che non si trattava di dire “grazie” a chi aveva offerto a lui il denaro per prepararsi al sacerdozio, ma che il debito di gratitudine sarebbe stato saldato solo quando una nuova persona avrebbe ricevuto in dono una borsa di studio offerta da lui, don Tonino. Egli era in debito e l’azione del rendimento di grazie non riguardava semplicemente i suoi benefattori; era lui stesso a dovere ora rendere possibile per una nuova generazione ciò che a lui era accaduto.

La fede ricevuta e l’annuncio che ne deriva sono, per Paolo, un binomio indissolubile. Dove c’è l’una, l’altro non può mancare: «Animati da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2 Cor 4, 13).

Monsignor Gianfranco Ravasi, con l’acutezza e l’affabilità che gli è consueta, dichiarava alcuni mesi fa in risposta a una delle ricorrenti prese di posizione che vorrebbero etichettare come illegittimo l’annunzio cristiano: «Si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che “è sempre bello e legittimo augurare all’altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano”. Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita».

Paolo avvertiva di non poter tenere per sé il tesoro prezioso che aveva ricevuto. A lui era stato affidato, perché anche altri potessero goderne. Se tutta la sua azione ha il suo senso in questo debito di cui era consapevole - «charitas Christi urget nos» - è ad Efeso che nacque in lui il desiderio specifico di raggiungere Roma, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli. È, infatti, dopo le dispute accesesi in quella città, che «Paolo si mise in animo di attraversare la Macedonia e l’Acaia e di recarsi a Gerusalemme dicendo: “Dopo essere stato là devo vedere anche Roma”» (At 19, 21).

Un evento, però, giungerà a confermare Paolo in questo suo proposito. L’apostolo, infatti, recatosi a Gerusalemme fu rinchiuso nella Fortezza Antonia, della quale gli scavi archeologici hanno riportato alla luce il famoso Lithostrotos, il cortile pavimentato in marmo. Ciò avvenne per proteggerlo da alcuni che volevano ucciderlo, accusandolo di aver profanato il Tempio.

Gli Atti raccontano che, mentre Paolo era tenuto prigioniero nella Fortezza Antonia, durante la notte «gli venne accanto il Signore e gli disse: “Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11). È l’unico versetto del Nuovo Testamento nel quale è Gesù stesso, il Signore risorto, a pronunziare il nome dell’urbe, il nome di Roma.

Luca, autore degli Atti, che accompagnò l’apostolo fin nella capitale dell’impero, dovette ascoltare dallo stesso Paolo questo racconto. In quella notte gli era stato rivelato che il progetto di raggiungere Roma non discendeva solo dal suo cuore di uomo, ma derivava come chiamata dalla esplicita volontà del Cristo.

Proprio la lettera ai Romani esprime, ancora una volta, con una straordinaria progressione retorica che vede il susseguirsi di incalzanti domande, il nesso che lega la salvezza dei nuovi credenti alla vocazione di chi la trasmette loro: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? Come sta scritto: Quanto son belli i piedi di coloro che recano un lieto annunzio di bene!» (Rom 10, 13-15).

3. UNA VITA NUOVA DOPO L’INCONTRO CON IL SIGNORE

«Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto» (1 Cor 15, 8). Paolo descrive qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro con il Signore.

Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’Urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea.

Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del cristianesimo.

La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco.

La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro con la Chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli cominci a vedere, che egli abbia la vista.

Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo. L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i
nobili, hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio – a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere “come un aborto”.

Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano.

Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco.

È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano.

Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).

4. PAOLO E IL CUORE DIVISO DELL’UOMO

«Io non riesco a capire ciò che io faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15). L’esigenza che spinge Paolo ad annunciare il Vangelo fino a Roma nasce certamente dalla sua consapevolezza di essere stato fatto oggetto, nell’incontro sulla via di Damasco, della rivelazione della misericordia di Dio. Ma egli sa pure che di questo annunzio è l’uomo ad aver bisogno, perché, come afferma proprio nella Lettera ai Romani, l’uomo lasciato alle sole sue forze non compie il bene che pure vuole e desidera.

Come ha affermato con grande chiarezza il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, all’apparire di Cristo l’uomo comprende finalmente cosa sia l’amore e, al contempo, prende coscienza di non aver mai amato di quell’amore.

Paolo, preparando la sua venuta a Roma con l’invio della lettera ai cristiani della capitale dell’impero, si sofferma sul “mistero” dell’uomo. Egli ne vede le luci e le ombre ed invita a considerare alla luce di Cristo la dignità, ma anche le ferite che segnano il cuore dell’uomo.

L’apostolo ritiene l’uomo capace di riconoscere la presenza di Dio nel mondo. Infatti – afferma - «dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).

Non solo. L’uomo è anche in grado di riconoscere il bene ed il male perché anche i pagani, che pure non hanno ricevuto il Decalogo, «dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono» (Rm 2,15).

In questa duplice relazione con Dio e con gli altri uomini, in questa ricerca di verità e di un retto operare sta tutta la grandezza dell’uomo. Ma Paolo, subito, ne vede anche le ombre. Gli uomini «pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa» (Rm 1,21), giungendo ad immaginare Dio come egli non è. «Essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore» (Rm 1,25). E questo ha portato con sé – prosegue la lettera ai Romani - uno stravolgimento delle relazioni umane: poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, essi sono diventati «colmi di cupidigia, di malizia, d'invidia, di rivalità, di frodi; diffamatori, maldicenti, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E pur conoscendo il giudizio di Dio, non solo continuano a fare tali cose, ma anche approvano chi le fa» (cfr. Rm 1,29-32; e l’elenco dei vizi umani è molto più lungo nella lettera!).

Ecco il mistero dell’uomo. Socrate aveva affermato che l’uomo fa il male solo perché non ne è consapevole. L’educazione filosofica consisteva precisamente, secondo la sua proposta, nel far prendere coscienza del male; egli era convinto che, attraverso questo processo, l’uomo avrebbe vinto da se stesso il male presente nel suo cuore.

Paolo è più moderno e più profondo del pensatore greco. L’apostolo afferma, infatti: «Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio... Io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me» (Rm 7,18-19.21).

In un famoso passo il Concilio Vaticano II riprende questa tematica, presentando la divisione che esiste nel cuore umano. L’uomo anela ad una armonia, ad un cuore unificato, proteso verso il bene, ma si scopre anche capace di provare sentimenti di male e di renderli poi concreti nella vita. La Gaudium et spes afferma, infatti: «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre» (GS, 13).

È questo uomo, così come esiste nella sua concretezza, per il quale Cristo è venuto. Ed è questo uomo che ha bisogno di Cristo per trovare in lui la forza di amare: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7,24-25).

Per questo uomo, oltre che per amore del Signore, Paolo raggiungerà Roma.

5. IL PECCATO E IL CUORE UMANO

«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo eredita dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorge, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo.

Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)? Perché non lo si può semplicemente seguire, tanto in esso si combattono voci diverse?

Proprio la lettera che Paolo indirizza ai cristiani di Roma lo porta a riflettere sulla situazione di peccato nella quale versa la condizione umana. L’apostolo comprende, alla luce di Cristo, che non appartiene alla natura delle cose che tutti siano abitati dalla voce del male che, come una forza potente, agisce nell’uomo: «Tutti hanno peccato» (Rm 5,12).

Parlare del peccato è per Paolo così importante perché senza affrontare questo tema di petto non si può capire l’attuale situazione dell’uomo. Ma – si noti bene – per parlare del peccato, l’apostolo sente il bisogno di parlare di Cristo, di colui che lo sconfigge pur mettendolo in rilievo: «Se per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un uomo solo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini» (Rm 5,15).

In quel “molto di più” sta tutta la fede cristiana. L’uomo è partecipe del peccato del primo uomo: quel peccato arreca delle conseguenze che ogni generazione deve portare, proprio perché nessun uomo esiste in una individualità a sé stante, ma la colpa di ognuno arreca danno a tutti fratelli. Ma allo stesso modo e “molto di più” la grazia di uno solo, l’amore del Cristo stesso, viene da lui partecipata a tutti gli uomini.

Proprio questa concezione così realistica di un peccato che danneggia tutti è assente spesso nella coscienza dell’uomo. Ed è uno dei motivi per i quali il peccato sembra essere un male, in fondo, non così rilevante e decisivo. Ma allo stesso modo e “molto di più” anche la gioia e la consolazione della vita scompaiono se l’uomo si chiude in se stesso senza essere aperto alla grazia e al bene che gli vengono dalla relazione con i fratelli e dalla comunione con Dio che il Cristo è venuto a donare, per grazia e senza che nessuno la meritasse.

Nel secolo scorso uno scrittore che ha usato tutta la sua ironia per difendere il cristianesimo, G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva – e viene – gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato – cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno – ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».

Ma, insieme, Chesterton subito affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».

Paolo scrive ai Romani, invitandoli a considerare quanto la situazione umana porti le tracce di una comunione spirituale che è stata incrinata fin dal primo gesto libero di un uomo sulla terra, ma, “molto più” riesce a far sollevare lo sguardo a quel Dio che ha voluto manifestare come tutti fossero rinchiusi nella disobbedienza «per usare a tutti misericordia» (cfr. Rm 11,32).

6. LA LETTERA AI ROMANI

La Lettera di Paolo apostolo ai Romani contiene 7.101 parole. Nessun’altra lettera antica regge al suo confronto, almeno quanto ad ampiezza. Già questo fatto dice, da solo, l’importanza di questo scritto.

Una caratteristica di Romani, che la differenzia da altre lettere pagane a lei contemporanee, è quella di essere inviata per essere letta da una comunità. Al di fuori delle lettere neotestamentarie si conoscono lettere inviate a singoli (lettere familiari, di amore o di affari) o anche trattati in forma di lettera (come, ad esempio, le lettere di Seneca a Lucilio) composti da lettere che non sono state realmente inviate l’una dopo l’altra al destinatario. Questi ultimi sono così piuttosto degli scritti nei quali ogni lettera corrisponde ad un capitolo scritto a tavolino e destinato al pubblico più ampio dei lettori del tempo.

Paolo scrive, invece, a un’intera comunità, sapendo che la sua lettera sarà letta in uno o più incontri che vedranno radunati i cristiani di Roma. La lettera è così, per lui, uno strumento ecclesiale. Manifesta che la fede è personale, ma, al contempo, ha una dimensione comunitaria che vede coinvolta l’intera chiesa.

La Lettera ai Romani fu scritta su papiro o su pergamena e fu ovviamente recata a mano fin nella capitale dell’impero e poi letta ad alta voce. Nella seconda lettera di Giovanni (2 Gv 12) si parla del papiro come materiale scrittorio, mentre nella seconda Lettera a Timoteo si accenna alla pergamena (2Tm 4,13), la pelle conciata di animale utilizzata come supporto scrittorio – il termine pergamena proviene dall’antica città di Pergamo, famosa per le sue botteghe che producevano il prezioso materiale.

Romani, per quanto sia un testo diretto dall’apostolo ad una specifica chiesa, si presenta sotto la forma di un’esposizione sintetica e sistematica. Paolo non è pressato da urgenze immediate, come in altre lettere. Conosce solo alcuni cristiani della chiesa di Roma, ma vuole rivolgersi a tutti gli altri che ancora non lo conoscono.

Romano Penna ha scritto, sottolineando la specificità della Lettera ai Romani: «Essa si avvicina al genere che oggi chiameremmo un saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte – chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in giro per il mondo».

Questo scritto manifesta così ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che la teologia non è puramente narrativa, ma ha bisogno anche di uno sguardo sintetico che solo una riflessione sistematica può dare (così come necessita ulteriormente degli inni e delle professioni di fede, dei proverbi e delle liriche poetiche, ecc.). La teologia non nasce dopo il Nuovo Testamento, ma è presente in esso: Paolo, in Romani, vuole mettere in luce la realtà dell’uomo e della sua condizione di peccato, così come la verità di Dio e del suo disegno di misericordia realizzatosi nel Cristo.

Un passaggio del “Direttorio generale per la catechesi”, il documento di riferimento per la catechesi elaborato durante il pontificato di Giovanni Paolo II, così si esprime a riguardo della necessità di quello sguardo sintetico che l’annuncio della fede deve proporre e che l’uomo stesso esige per comprendere cosa siano la vita ed il vangelo: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede» (DGC 128).

È maestro, in questo, Paolo, che avvertì l’esigenza, per sé e per gli altri, di esplicitare quale visione dell’uomo e del male, di Dio e della sua salvezza fosse presente nella fede che il Risorto sulla via di Damasco gli aveva rivelato.

7. NELLA SCRITTURA IL DISEGNO DI DIO È UNICO

«I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). Questa famosa affermazione con la quale San Paolo spiegava ai Romani che l’amore di Dio per il popolo ebraico non era cessato fu fatta propria dal Papa Giovanni Paolo II che la ripeté nella sua storica visita alla sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.

L’apostolo testimonia la sua convinzione che il disegno di Dio sia unico, che una sia la storia della salvezza e che l’alleanza con Israele non sia semplicemente superata e pertanto da dimenticare. Anzi proprio nei primi versetti della lettera Paolo afferma che il Vangelo che egli annunzia era stato promesso da Dio «per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture» (Rm 1,2).

Paolo si sente in diritto di fornire la giusta interpretazione dell’Antico Testamento. Esso gli appartiene, non gli è estraneo. È netta e chiara in lui, al punto che non sente nemmeno la necessità di fornirne una dimostrazione, la convinzione che la Sacra Scrittura è una unità e che essa ha in Cristo la sua chiave di lettura.

L’idea di un Canone delle Scritture si basa proprio sulla fede nell’unico Dio che si è rivelato ai patriarchi, ai profeti ed, infine, pienamente in Cristo. Non è solo la fede successiva della Chiesa nei secoli a cogliere questa unità; essa è piuttosto il punto di partenza manifesto all’interno della stessa Sacra Scrittura.

Nella premessa al suo “Gesù di Nazaret” l’attuale Pontefice ha affermato acutamente che tale unità della Scrittura «è un dato teologico che non è, tuttavia, attribuito solo dall’esterno a un insieme in sé eterogeneo di scritti. L’esegesi moderna ha mostrato come le parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un processo di sempre nuove riletture: i testi antichi, in una situazione nuova, vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo».

Si pensi a come Paolo rilegge nel capitolo quinto della lettera ai Romani le parole di Genesi 3, relative al peccato di Adamo. Veramente il peccato di quell’unico progenitore ha segnato tutte le generazioni a venire, ma ancor più la grazia donata dall’unico Cristo si estende ad ogni uomo. Non è così Sant’Agostino o il dogma della Chiesa ad inventare la grazia e la sua necessità dinanzi al male presente nel cuore umano a partire da quella prima caduta, ma è il Nuovo Testamento stesso a rileggere in profondità l’Antico, manifestandone in pienezza il senso.

Qual è allora il motivo che sta a fondamento di questa continua rilettura che la Scrittura fa di se stessa, raggiungendo il suo culmine nella manifestazione di Cristo che permette di vedere in una luce più ricca tutto l’Antico Testamento? Esso consiste non solo nella fede nell’unico Dio, ma anche nel fatto che «il popolo di Dio - la Chiesa - è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza» (così ancora nel “Gesù di Nazaret”). Paolo rilegge con assoluta naturalezza i libri dell’Antico Testamento, perché si sente parte di quell’unico popolo che Dio ha guidato fin dalle origini e al quale ora ha inviato il Cristo.

La novità del cristianesimo non rompeva così il legame con la storia sacra che lo precedeva. Ma già nel II secolo si avvertì la tentazione di spezzare questa unità. Marcione fu il capostipite di quella che si manifesterà come una perenne provocazione che la comunità cristiana sarà chiamata a respingere. Egli, venuto a Roma dal Ponto, fu espulso dalla Chiesa nel 144 d.C. proprio per questo motivo: talmente affascinato dal Vangelo della grazia, giunse a ritenere che l’Antico Testamento era opera di un dio diverso dal Dio di Gesù Cristo e, perciò, da rifiutare. Marcione si fondò sulle lettere paoline e sul loro annunzio di grazia, ma non si avvide che proprio Paolo, conformemente a tutta la tradizione apostolica, difendeva invece la relazione esistente fra il Cristo e la Scrittura che lo aveva preannunziato.

Anche la teologia e l’esegesi moderne si trovano a dover sempre di nuovo affrontare la sfida di chi vuole contrapporre Cristo all’Antico Testamento. Confrontandosi a viso aperto con questa grande questione così scrisse, con parole densissime, il grande teologo francese Henri de Lubac nella sua riflessione sulla perenne attualità dell’esegesi medioevale: «In Cristo, i verba multa (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est (numerose sono le parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno)».

8. LO SPIRITO DI CRISTO CHE RENDE FIGLI DI DIO

«Diventare di nuovo bambino significa imparare di nuovo a dire Abba». Con queste parole il grande esegeta J. Jeremias sottolineava come l’invito di Gesù a rinascere e ad essere come bambini non fosse da interpretare nella linea di una presunta umiltà o purezza dell’infanzia, quanto piuttosto nella scoperta della relazione costitutiva con il Padre che ci chiama suoi figli.

Similmente, proprio l’annunzio del Padre - dell’Abba - segna, nella lettera di Paolo ai cristiani di Roma, il passaggio dall’invincibilità del male da parte delle sole forze umane all’efficacia della grazia divina che salva: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16).

Paolo mostra qui una perfetta adesione ai racconti evangelici ricordando l’espressione che Gesù utilizzava per indicare il Padre suo: Abbà. Questa espressione aramaica doveva essere rimasta impressa in modo così indelebile nella mente degli apostoli come caratteristica del loro Signore che si sentivano obbligati a ripeterla nella predicazione in quella forma aramaica anche quando parlavano e scrivevano in greco.

Paolo deve avere conosciuto questo modo caratteristico di Gesù di rivolgersi al Padre dagli stessi Dodici o dalla comunità di Damasco o di Antiochia. Egli, che pure omette quasi totalmente i riferimenti ai fatti e alle parole della vita pubblica di Gesù, ricorda insistentemente il termine Abbà proprio nella sua forma aramaica a connotare la nuova esistenza che il cristiano riceve dalla fede. Il cristiano può chiamare Dio Abbà proprio a motivo dell’opera dello Spirito di Cristo in lui.

Nella riflessione pneumatologica di Paolo è evidente, innanzitutto, la connotazione teologica – e non puramente psicologica o intimistica - dello Spirito: è lo Spirito di Dio che attesta al nostro spirito di uomini la nostra identità filiale, è Dio stesso che realizza nella nostra umanità la nostra figliolanza.

Ma, sopratutto, nell’epistolario paolino lo Spirito ha una fortissima connotazione cristologica: è lo Spirito del Figlio del Padre, è lo Spirito di Cristo (Fil 1,19; Gal 4,6; Rm 8,9). Mentre l’odierna New Age si compiace di termini impersonali come “energia” o “positività”, il Nuovo Testamento specifica in maniera straordinaria lo Spirito come Spirito di Gesù.

Nella lettera ai Galati il nesso fra l’Incarnazione del Figlio - che celebriamo nel Natale – e la nostra figliolanza nello Spirito è strettissimo: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,4-6).
È così caratteristica di Cristo la sua filiazione dal Padre che lo Spirito che imprime nell’uomo i tratti del Cristo stesso non può che far sgorgare nel credente la stessa invocazione: Abbà, Padre.

Paolo contempla Gesù e ne vede immediatamente la relazione con il Padre suo; si volge a vedere l’uomo nella grazia del battesimo e, subito, ne scorge la dignità filiale.

Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa dei nostri tempi, ha vissuto questa comprensione dell’infanzia spirituale, anzi ne ha fatto la chiave di lettura dell’esistenza cristiana. La “piccola” Teresa scrisse di aver scoperto che non sarebbe stata adatta alla vita cristiana, se non avesse prima vinto i suoi tratti di ipersensibilità infantile:

«Avevo un gran desiderio di praticare la virtù, ma lo facevo in un buffo modo, ecco un esempio: mi accadeva talvolta, per far piacere al buon Dio, di rifarmi il letto, oppure, in assenza di Celina, rimettere dentro, a sera, i suoi vasi da fiori: era per il buon Dio solo che facevo quelle cose, perciò non avrei dovuto attendere il grazie delle creature. Ahimé! Le cose andavano ben diversamente; se per disgrazia Celina non aveva l’aspetto felice e stupito per i miei servizietti, non ero contenta, e glielo provavo con le lacrime. Ero veramente insopportabile per la mia sensibilità eccessiva. Così, se mi accadeva di dare involontariamente un po’ di dispiacere a qualcuno cui volessi bene, invece di dominarmi e non piangere, ciò che ingrandiva il mio errore anziché attenuarlo, piangevo come una Maddalena, e quando cominciavo a consolarmi della cosa in sé, piangevo per aver pianto. Non so come io mi cullassi nel pensiero caro di entrare nel Carmelo, trovandomi ancora nelle fasce dell'infanzia! Bisognò che il buon Dio facesse un piccolo miracolo per farmi crescere in un momento, e questo miracolo lo compì nel giorno indimenticabile di Natale».

In quella notte del Natale 1886, Teresa si accorse che suo padre le preparava svogliatamente i regali. Venne presa dalla tentazione di piangere per questo, ma subito si rasserenò: «Sentii che la carità mi entrava nel cuore, col bisogno di dimenticare me stessa per far piacere agli altri, e da allora fui felice!»

Comprese progressivamente che la gioia consisteva non nell’essere piccoli, ma nell’essere figli nelle braccia del Padre, come racconta riflettendo sulla sua stanchezza che la coglieva durante le preghiere comuni: «Dormo (da 7 anni) durante le mie orazioni e i miei ringraziamenti, ebbene, non sono desolata... penso che i bambini piccoli piacciono ai loro genitori quando dormono come quando sono svegli; penso che per fare delle operazioni, i medici addormentano i malati. Infine penso che “il Signore vede la nostra fragilità, e si ricorda che noi siamo solo polvere”».

Per essere cristiani - insegna Teresa - non bisogna rimanere nell’infantilismo e nelle manchevolezze che caratterizzano chi non è ancora adulto, ma è necessario piuttosto ritrovare la via della relazione con il Padre. La sua spiritualità attualizza per il nostro tempo quello che è il dono eterno dell’incarnazione, che Paolo aveva spiegato ai Romani. Il male è vinto perché dall’amore del Padre niente potrà ormai separarci, dopo che Cristo è venuto per noi e ci ha dato la sua vita. Questo è ciò che lo Spirito attesta al nostro spirito: che il Padre ama i suoi figli.

9. IL DESIDERIO DELL’APOSTOLO DI RECARSI IN SPAGNA

«Non bisogna confondere le qualità del cuore e dell’intelligenza. Spesso si ha un cuore duro ed una intelligenza molliccia, mentre bisognerebbe avere un cuore morbido ed una intelligenza dura ed acuta». Mi tornano alla mente queste parole udite da giovane studente che frequentava il bellissimo corso sul corpus paolino del professor Ugo Vanni, presso l’Università Gregoriana, nel pensare lo straordinario intreccio di teologia e prassi presente nella Lettera ai Romani.

La lettera che, più di ogni altra, affascina per il suo impianto teorico, per la penetrante presentazione del tema della grazia e del peccato, della salvezza donata in Cristo e della rivelazione del mistero divino, contiene nella sua finale una serie di concretissime indicazioni sul cuore di Paolo e sui suoi progetti.

Paolo, infatti, come se volesse presentare le sue credenziali ai romani preparando la sua futura venuta presso di loro, non solo espone loro il suo Vangelo e la sua fede, ma anche descrive i passi che lo attendono ed i desideri che ha nel cuore.

Egli desidera recarsi in Spagna. Ben due volte il termine che indica la penisola iberica ricorre nei versetti 15,24 e 15,28 della lettera. Paolo da tempo desidera incontrare i cristiani di Roma, ma ora questa possibilità gli sarà concretamente offerta dal fatto che egli vi vuole passare per giungere appunto fino in Spagna.

Paolo dichiara di aver portato a termine la predicazione del Vangelo di Cristo da Gerusalemme fino all’Illirico (cfr. Rom 15, 19) e di essersi fatto un punto di onore nel non aver annunciato il Vangelo se non dove non era ancora giunto il nome di Cristo. E cita il profeta Isaia, a fondamento della sua azione e dei suoi spostamenti: «Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunciato e coloro che non ne avevano udito parlare comprenderanno» (Rom 15,21).

Ora è come se, in oriente, Paolo avesse terminato di compiere la missione che gli era stata affidata. Non che tutto la parte orientale dell’Impero Romano fosse già divenuta cristiana, ma certo egli ne aveva toccato le città più importanti attuandovi quella che il professor Biguzzi ha chiamato la «strategia della primizia», quella cioè di piantare il primo seme, di annunciare il Vangelo a persone in grado di proseguire a loro volta l’annunzio, perché tutti, progressivamente, potessero conoscere il Cristo. “Primizia” sono chiamati Epeneto (Rom 16,5) e la famiglia di Stefana (1 Cor 16,15), ma lo stesso modo di procedere è facilmente riscontrabile negli Atti e nelle altre lettere, si pensi solo ad Epafra ed al suo ruolo nei confronti di Colosse.

Paolo pensa allora all’occidente. Ad ovest di Roma nessuno si è ancora mai spinto per portare il nome di Gesù ed egli comprende che questo è il passo da compiere e ne scrive ai romani. Da loro si attende un aiuto – probabilmente dei viveri e del denaro, forse anche un compagno di viaggio ed un traduttore – per potersi recare in quella regione (Rom 15,24).

E prosegue raccontando che, nell’immediato, sta per recarsi a Gerusalemme dove deve consegnare la colletta raccolta dalle chiese sorte dal paganesimo a beneficio dei poveri della comunità di Gerusalemme. Questo gesto di carità e condivisione è pensato in termini di “debito”: avendo i pagani «partecipato ai beni spirituali [dei cristiani di origine ebraica], sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (Rom 15,27). Le comunità di Tessalonica, Corinto e delle altre città greche, hanno ricevuto dagli apostoli la ricchezza della fede, ora debbono restituire un aiuto che è infinitamente minore, ma che è altrettanto importante, quello materiale. La colletta si rese necessaria, probabilmente, a motivo della grande carestia che si era avuta al tempo dell’imperatore Claudio e che ancora faceva sentire i suoi effetti a distanza di anni.

Paolo sa che, infine, giungendo a Roma, lo farà «con la pienezza della benedizione del Signore» (Rom 15,29). La straordinaria espressione indica la consapevolezza dell’apostolo che questi suoi progetti sono una chiamata di Dio stesso e che egli accompagna i suoi una volta che li ha scelti.

Passando da Roma per recarsi in Spagna, Paolo si fermerà nella Capitale «per godere un poco» (Rom 15,24) della presenza dei romani. Egli desidera incontrarli e quasi riposarsi, rinfrancarsi con loro, condividere scambievolmente un po’ del tesoro di fede ricevuto, per poi riprendere il cammino della predicazione.

Non è dato di sapere se Paolo sia mai giunto in Spagna. Gli studiosi sono divisi. Un recente convegno di biblisti e patrologi tenutosi a Tarragona ha pensato di poter affermare che il viaggio di Paolo sia infine divenuto realtà e che proprio la città portuale tarragonense sia stata la sua meta a motivo degli itinerari di navigazione che la collegavano con Roma.

La conclusione, ovviamente, non è definitiva, poiché non ci sono dati certi in merito. Certo è che la lettera ai Romani apre uno spiraglio sul cuore di Paolo, sul suo desiderio di annunciare il vangelo e di giungere fino agli estremi confini della terra.

La Lettera ai Romani unisce così ortodossia ed ortoprassi, teologia e vita di carità. Paolo è veramente teologo e pensatore, ma è, al contempo, uomo di bene e di azione. E nei suoi scritti, traspare tutta la sua comprensione del mistero cristiano, ma insieme una concretezza impensabile in un filosofo del suo tempo.

Un cuore di carne, insomma, e una intelligenza acuta e penetrante.

10. «VEDI COME SI AMANO»

Il fenomeno Facebook – il gesuita Spadaro in un recente articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica afferma che l’8,5 per cento della popolazione italiana ha un profilo Facebook – manifesta insieme il desiderio di relazioni che sempre caratterizza l’essere umano e l’utopia che esse possano realizzarsi semplicemente nella virtualità del flusso telematico.

Il capitolo finale della lettera ai Romani, il famosissimo capitolo 16, presenta Paolo che, 2000 anni fa, conosce realmente fra le cento e le centocinquanta persone abitanti in una città che non ha ancora mai visitato. Sono, infatti, nominati diciassette nomi di uomini, sette nomi di donne, più due delle quali non compare il nome, più cinque gruppi di persone che si riuniscono nelle case di alcuni di loro.

Afferma il professor Penna, nell’ultimo volume appena uscito del suo commentario alla lettera ai Romani, che le lettere dell’antichità contenevano ovviamente spesso saluti a terze persone, ma il numero massimo di esse attestato è nella lettera papiracea di una certa Diodora che, scrivendo ad un certo Valerio Massimo, lo prega di dare i suoi saluti a sei persone. La lettera ai Romani è così la lettera che contiene il maggior numero di persone da salutare in tutta l’antichità classica, superando di gran lunga il numero di sei.

Delle persone nominate, Paolo sottolinea innanzitutto la loro attività evangelizzatrice. Febe, probabilmente la latrice della lettera ai Romani, la prima ad essere nominata, è definita “diacono della chiesa di Cencre” (Rm 16,1), dove “diacono” è da intendersi nella sua forza espressiva di servitrice. Paolo chiede ora ai romani di assistere Febe, come lei “ha protetto molti ed anche me stesso” (Rm 16,2).

Si parla poi di Maria “che ha faticato molto per voi” (Rm 16,6). Poi di Andronico e Giunia, “apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me” (Rm 16,7). Qui Paolo mostra di conoscere un ulteriore significato del termine “apostolo”: se egli sa bene che il ruolo dei Dodici è unico (cfr. ad esempio, 1 Cor 15,5), tuttavia utilizza il termine anche per altri missionari della prima generazione, forse appartenenti ai settantadue di cui parla l’evangelista Luca o agli “stranieri di Roma” presenti il giorno di Pentecoste. Andronico e Giunia potrebbero, forse, essere stati i primi evangelizzatori della comunità romana.
Si accenna poi ad Urbano, “nostro collaboratore in Cristo” (Rm 16,9), a Trifena e Trifosa che “hanno lavorato per il Signore” (Rm 16,12), poi a Perside che ha, anch’essa, “lavorato per il Signore” (Rm 16,12). Si ripetono i verbi che indicano il collaborare, il lavorare, l’affaticarsi per il vangelo e la sua diffusione, per il servizio dei fratelli.

Se, nel capitolo 16, il numero degli uomini citati è maggiore, si sottolinea maggiormente il ruolo evangelizzatore delle donne: sette donne e cinque uomini sono detti faticare nel Signore. Anche la persecuzione è stata motivo di fatica: Aquila e Priscilla “hanno messo in gioco il loro collo per la mia vita” (Rm 16,4), con riferimento alla possibilità della decapitazione che era riservata ai cittadini romani, mentre Apelle “ha dato buona prova in Cristo” (Rm 16,10).

Si sottolinea di alcuni l’essere punto di riferimento, anche per aver messo a disposizione la propria casa come luogo delle riunioni liturgiche e catechetiche. Sono citati subito dopo Febe, all’inizio del capitolo, Aquila e Priscilla “miei collaboratori in Cristo Gesù” (Rm 16,3) e “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rm 16,5), così quelli della casa di Narciso “che sono nel Signore” (Rm 16,11), Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma “e i fratelli che sono con loro” (Rm 16,14), Filogolo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpias “e tutti i credenti che stanno con loro” (Rm 16,15).

Soprattutto, emerge la fraternità che lega i cristiani di Roma e Paolo. La fede cristiana genera un nuovo tipo di relazioni. Non esiste più solo l’amore sponsale o amicale (vedi Aquila e Priscilla o i “diletti” Ampliato e Perside), ma viene esaltato pure il legame che unisce i fratelli in Cristo. Febe è definita “nostra sorella” (Rm 16,1), “fratelli” vengono chiamati coloro che sono con Asincrito e gli altri (Rm 16,14), “credenti” coloro che sono con Filogolo e gli altri (Rm 16,15). Tutti insieme sono “santi” (Rm 1,7) e “chiamati” (Rm 1,6) da Gesù Cristo (chiesa, ekklesia, deriva dal termine greco che indica l’essere chiamati da Dio, l’essere kletoi).

Questa fraternità si esprime in un tipico gesto che caratterizzerà da allora la fraternità nelle comunità cristiane: “Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rm 16,16). Lo scambio della pace, attraverso quel bacio santo, sarà il segno di una relazione di amore nata in Cristo che tutti abbraccia. La fraternità ecclesiale si pone come realtà che contraddistingue i credenti in Cristo. Essa viene offerto al mondo come segno che invita alla fede.

Come ricorda Tertulliano, questa era l’espressione di stupore che sorgeva nei pagani che per la prima volta venivano in contatto con i cristiani: “Vedi come si amano”.

11. ESAMINATE OGNI COSA

«Fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene» (Rm 12,9). La lettera ai Romani, nel presentare l’atteggiamento del cristiano dinanzi alla cultura del proprio tempo, ripete le parole del primo scritto paolino, la prima lettera ai Tessalonicesi: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono, astenetevi da ogni specie di male» (1 Ts 5,21-22).

Dove è immediatamente evidente la presenza nella vita del bene e, insieme, la coscienza che anche il male è all’opera. L’invito a non conformarsi «alla mentalità di questo secolo» (Rm 12, 2) indica ulteriormente la serietà della questione del discernimento che si impone a partire dalla presenza di Cristo nel mondo.

Ha scritto una volta lo psicoanalista C. G. Jung che «con lo spirito del tempo non è lecito scherzare: esso è un credo a carattere completamente irrazionale, ma con l’ingrata proprietà di volersi affermare quale criterio assoluto di verità, e pretende di avere per sé tutta la razionalità. Lo spirito del tempo si sottrae alle categorie della ragione umana. Esso agisce su basi inconsce esercitando una suggestione preponderante sugli spiriti più deboli e trascinandoli con sé. Pensare diversamente da come si pensa oggi genera sempre un senso di fastidio e dà l’impressione di una cosa non giusta; può apparire persino una scorrettezza, una morbosità, una bestemmia» (da “Realtà dell’anima”).

Quanto è necessario esercitare un vigile discernimento fra quelli che sono i “segni dei tempi”, secondo la nota espressione evangelica ripresa dal Concilio Vaticano II, e quello che è lo “spirito del tempo”, la “mentalità del secolo”, secondo il linguaggio paolino!

Paolo nel cogliere la permanenza della presenza del bene si rivolge all’uomo in quanto tale, prima che alle singole culture da lui prodotte. Nella lettera ai Romani si sofferma sulla dimensione religiosa che appartiene al cuore umano (Rm 1,19-20). L’animo umano, pur non essendo in grado di giungere al mistero della croce di Cristo con le proprie forze, poiché questo è possibile solo a partire dalla rivelazione di Dio, manifesta l’apertura dell’uomo all’Infinito.

Paolo afferma così implicitamente che la ricerca di Dio, la nostalgia di Dio presente nel cuore umano, è una delle caratteristiche più proprie dell’uomo che ne manifesta la sua dignità altissima.

In un’intervista rilasciata ad alcune televisioni tedesche nel 2006 il papa Benedetto XVI ha affermato, a questo proposito, che «l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. Proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente».

L’anelito a Dio è riconosciuto da Paolo come uno degli aspetti più grandi dell’esperienza umana ed anche nel famoso discorso dell’Areopago, pur fremendo «nel suo spirito al vedere la città piena di idoli» (At 17,16), inizia la sua predicazione testimoniando che i cittadini ateniesi sono «in tutto molto timorati degli dèi» (At 17,22).

Ma anche l’esperienza morale, il relazionarsi al bene ed al male, appaiono a Paolo come straordinarie manifestazioni della dignità nativa dell’uomo, poiché essi hanno pur sempre, anche nel peccato, «la testimonianza della loro coscienza e dei loro stessi ragionamenti che ora li accusano ora li difendono» (cfr. Rm 2,15).

Ma «poiché tutti hanno peccato» (Rm 5,11) ecco che sempre, a fianco del bene, la voce del male fa sentire la sua presenza e cerca di confondersi con il soffio dello Spirito. G. K. Chesterton così scriverà nei “Racconti” che hanno per protagonista il suo personaggio più famoso, il prete cattolico inglese padre Brown: «Sono un uomo - rispose padre Brown, gravemente - e perciò ho il cuore pieno di diavoli».

Proprio questa capacità di leggere il cuore dell’uomo, a partire dal bene e dal male che vi abitano, sarà la carta vincente delle indagini nelle quali Scotland Yard non riesce a mettere le mani sui peggiori delinquenti, mentre il piccolo pretino risolve i casi più difficili, offrendo poi spesso al
malvivente la possibilità del ravvedimento. Chesterton commenterà poi che «la Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo».

Il rapporto della fede con il tempo si rivela così anceps, nell’epistolario paolino. Da un lato sempre l’uomo conserva le tracce della sua dignità, del suo desiderio di Dio, della sua grandezza di cuore, che lo contraddistinguono come colui che è uscito dalle mani del Creatore, ma, contemporaneamente, ogni singolo uomo porta in sé dei germi di morte penetrati a motivo del peccato originale e dei peccati che ne sono conseguiti.

Così è anceps l’atteggiamento della fede cristiana dinanzi ad ogni cultura. In ogni epoca il cristiano cercherà, da un lato, di accogliere, ricevere e valorizzare quegli elementi che sono propri di ogni cultura e che manifestano nella storia la loro appartenenza a quel bene originario derivante dalla creazione e dalla presenza dello Spirito nel tempo, mentre, dall’altro, sottoporrà quella stessa cultura a critica, perché essa venga come rinnovata dall’interno, perché siano posti in luce e combattuti i suoi elementi di male.

In questo senso non corrisponde a verità l’affermazione che il cristianesimo paolino o successivo a lui si è semplicemente ellenizzato – analoghe espressioni potrebbero orientare in vista di una ebraicizzazione o di una occidentalizzazione o di una orientalizzazione del cristianesimo – ma piuttosto la storia della Chiesa mostra che è stata la grecità, la latinità, così come l’ebraicità o l’africanità, a cristianizzarsi.

Supremo è, per Paolo, il riferimento a Cristo. È alla sua luce e sotto la sua grazia che si manifesta ciò che è conforme e ciò che è difforme dal vangelo. Come nessuna cultura è povera di doni dinanzi a Cristo, così nessuna cultura è esente da un male dalla quale deve essere purificata attraverso un faticoso rinnovamento interiore. La bellezza della fede consiste così nel poter accogliere ed insieme rinnovare le culture più diverse pur rimanendo pienamente se stessa.

12. LE RAGIONI DELLA COSCIENZA

«Il giorno della nascita del divinissimo Cesare (Augusto) lo equipariamo all’inizio di tutte le cose, inizio della vita e dell’esistenza, che segna il limite e il termine del pentimento di essere nati. Egli una volta apparso superò le speranze dei suoi predecessori e i buoni annunci di tutti (nell’originale greco euangélia pántōn) e il giorno genetliaco del dio fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (in greco tôn di’autòn euaggelíōn)».

Una iscrizione rinvenuta nella Stoà sacra di Priene, città ellenistica nei pressi di Mileto, edificata secondo il preciso schema urbanistico elaborato dal famoso architetto Ippodamo, mostra così come l’imperatore Augusto volesse essere venerato con attributi divini: con la sua nascita, cessava il “pentimento di essere nati”! Il testo utilizza per ben due volte il termine vangelo: la nascita di Augusto è il vangelo che porta la gioia al mondo.

Paolo giunge a Roma, capitale imperiale, in un periodo che vede crescere il culto del sovrano. Nerone, che condannerà a morte l’Apostolo, riceve in un’iscrizione il titolo di “Signore di tutto il mondo” e Domiziano, l’imperatore che l’Apocalisse prende di mira, sarà chiamato addirittura “Dominus ac Deus noster”. Gli studiosi vedono in questa progressiva divinizzazione dell’imperatore non solo la manifestazione di una volontà di potere, ma anche un segnale della crescente sfiducia della popolazione negli dèi della tradizione, come ha affermato lo studioso E. R. Dodds: «Quando crollano gli dèi di un tempo, i troni spogli reclamano qualcuno che li occupi».

La Lettera ai Romani, però, conformemente a tutto il pensiero paolino e in perfetta coerenza con l’insegnamento evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, ammonisce: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13,1-2).

Paolo, sulla scia di Gesù, manifesta l’allergia che il cristianesimo nutre verso l’utopia e l’anarchia ed, invece, la sua difesa delle istituzioni. Esse, però, non vengono assolutamente divinizzate con queste parole, ma, piuttosto, se ne afferma la necessità per il buon andamento della res publica. Provengono “da Dio”, non perché l’imperatore debba essere ritenuto come inviato personalmente da Dio o perché ogni sua azione sia da considerarsi come buona, ma piuttosto perché è Dio stesso, per il bene degli uomini, ad insegnare l’importanza dell’autorità nella vita civile.

L’autorità è legittimamente costituita perché «è al servizio di Dio per il bene.... e per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm 13,4). L’utopia di una rigenerazione in terra dell’umanità che renda superfluo il ruolo delle istituzioni non trova accoglienza presso la fede cristiana. Saranno i secoli successivi a mostrare che, anzi, dove si cercherà di “render nuovo” il cuore dell’uomo per una via politica, nasceranno le peggiori fra le dittature.

Lo schierarsi a favore delle istituzioni nasce, in Paolo, piuttosto dal suo realismo, da quella comprensione carica di concretezza che la fede ha dell’uomo stesso, con le sue ombre e le sue luci.

Ma, per ciò stesso, la politica è spogliata delle sue pretese divine. Essa non deve mai sostituirsi a Dio e deve piuttosto obbedire a principi morali dei quali è servitrice e non creatrice. Come i cittadini «debbono fare il bene» (cfr. Rm 13,3), così anche ai governanti è richiesto lo stesso. Le posizioni di Paolo si incontrano qui con la filosofia più diffusa nel suo tempo, quello stoicismo che riconosceva l’esistenza di principi morali a cui tutti, compresi i governati, erano tenuti a conformarsi.

Paolo insegna ai Romani che non deve essere la paura della punizione a guidare il cristiano nella sua consapevole adesione al bene comune, quanto piuttosto le “ragioni della coscienza (cfr. Rm 13,5). Ecco comparire l’elemento della dignità personale che lo stato non può violare e che caratterizza ulteriormente la visione cristiana della politica. La coscienza difende, da un lato, la persona da una politica che si volesse divinizzare e sostituire all’uomo e, d’altro canto, impegna l’uomo alla responsabilità nei confronti degli altri cittadini nel conseguimento del bene.

Il rifiuto, nel corso delle persecuzioni, di adorare gli dèi pagani e di adorare l’imperatore manifesterà come questa lezione sarà penetrata nelle menti e nei cuori. I cristiani continueranno a pregare per lo stato e per l’imperatore, testimonieranno di essere profondamente impegnati per il bene della res publica, ma al contempo rifiuteranno ogni divinizzazione dello stato ed ogni profanazione della dignità della coscienza.

In un altro testo paolino appare evidente come la via educativa, la via della maturazione del cuore, sia il punto di forza a partire dal quale avverrà nei secoli il profondo rinnovamento delle istituzioni stesse. Nella lettera a Filemone, Paolo invita l’amico a riaccogliere lo schiavo Onesimo «non più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore» (Fm 16): è la prima tappa del cammino che porterà un giorno all’abolizione della schiavitù.

13. LUNGO LA VIA APPIA FINO A PORTA CAPENA

Sono ancora oggi visibili i resti del porto imperiale di Pozzuoli e lo straordinario bacino protetto, formato da un antico cratere ricoperto quasi fino alla sua sommità dalle acque del mare, nel quale era di stanza la flotta romana che controllava il mare Tirreno. Proprio a Pozzuoli, forse in un arsenale secondario adibito al traffico dei passeggeri e mercantile, se non direttamente nel porto militare, sbarcò Paolo. Dopo il naufragio che lo aveva portato a Malta, l’apostolo, sempre sotto scorta militare, aveva ripreso la navigazione toccando i porti di Siracusa e Reggio Calabria, per sbarcare, questa volta definitivamente, a Pozzuoli (At 28,11-13).

Da lì si dovette proseguire a piedi. Probabilmente Paolo e la sua scorta raggiunsero la via Appia precisamente a Sinuessa, dopo aver attraversato Cuma e Liternum, lungo la via che ricevette più tardi da Domiziano, il nome di via Domizia. Giunti sull’Appia a Sinuessa, l’itinerario continuò toccando Minturno, Formia, Fondi, Terracina. L’odierno scavo della città di Minturno permette di camminare nuovamente sulla via Appia che attraversava la città e mettere i propri passi sul basolato romano calpestato da Paolo.

Nel I secolo d.C. le paludi rendevano difficile e pericoloso il cammino a piedi ed il genio romano aveva allestito un canale navigabile che da Terracina giungeva fino ad una cittadina chiamata allora Foro di Appio, situata a quarantatré miglia da Roma (circa 64 chilometri), generalmente identificata con l’odierno Borgo Fàiti. Da lì l’itinerario doveva proseguire per la località di Tre Taverne (a tutt’oggi non identificata con sicurezza dagli studiosi, ma probabilmente non distante da Cisterna, se non addirittura identificabile con essa) per passare poi vicino a Velletri ed attraversare Ariccia e Boville, prima di giungere a Roma.

L’evangelista Luca, autore degli Atti degli Apostoli e compagno di Paolo in questo tratto di cammino, racconta che «i fratelli di Roma ci vennero incontro fino al Foro di Appio ed alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio» (At 28,15).

In queste poche parole è detto molto dei sentimenti che Paolo doveva avere in quel momento. Egli, innanzitutto, rese grazie a Dio della compagnia dei fratelli che gli venivano incontro. Le sue lettere hanno spesso, nel loro incipit, parole di ringraziamento a Dio per le comunità alle quali Paolo si rivolge. Solo l’epistola ai Galati e, parzialmente, la seconda ai Corinzi, omettono di manifestare prima di tutto i sentimenti di gratitudine.

Per Paolo il «mistero» che Dio ha rivelato ha certamente il suo fulcro in Cristo, ma comprende altresì i fratelli, la chiesa tutta intera. Se Dio si fosse rivolto all’uomo, ma la sua rivelazione non fosse stata accolta, la sua manifestazione sarebbe ancora da venire. La rivelazione dell’amore implica che ci sia chi lo accolga, avendolo compreso. Così Paolo scrive già nella prima lettera ai Tessalonicesi: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1 Tes 1,2-3).

Paolo, vedendo il Cristo, vede immediatamente e contemporaneamente il suo corpo che è la Chiesa. In particolare, in quel venirgli incontro dei fratelli di Roma, forse doveva comprendere che la lettera che aveva inviato a Roma era stata favorevolmente accolta e che la comunità romana era salda nel vangelo della grazia cristiana.

Gli Atti aggiungono ancora che Paolo non solo rese grazie, ma anche «prese coraggio». Questa sottolineatura apre uno spiraglio sui sentimenti che dovevano essersi manifestati nel cuore di Paolo nel corso del viaggio verso Roma, come prigioniero, forse consapevole di una possibile condanna a morte. La fatica del lungo viaggio, il naufragio, l’essere sotto scorta, l’incertezza sull’esito del processo, l’attesa del giudizio dei fratelli di Roma sul suo messaggio, tutto questo dovevano aver influito sull’animo dell’apostolo.

Ora egli, al vedere i fratelli che gli vengono incontro, ritrova coraggio e viene confermato dalla loro presenza nella convinzione che quell’itinerario è secondo la volontà di Dio. Egli ritrova quel coraggio che costituisce una delle caratteristiche dell’esistenza cristiana, come ebbe a scrivere l’allora cardinale primate di Polonia Stefan Wyszyński, in riferimento al ministero episcopale, ma, in fondo, come monito per ogni credente: «Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza [...] La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola».

Paolo, rinfrancato, riprende così, insieme ai fratelli, la via verso Roma. Ancora oggi è possibile ripercorrere i suoi passi lungo la via Appia, preservatasi nel verde della campagna romana, toccando monumenti che ai tempi di Paolo ancora non esistevano come la villa dei Quintili, ed altri già in loco, come tanti dei sepolcri che fiancheggiano tuttora la via.

Attraverso Porta Capena – oggi distrutta, ma ricordata dall’onomastica viaria, subito prima del Circo Massimo – Paolo dovette entrare in Roma; l’attuale Porta San Sebastiano è, infatti, successiva, risalendo al tracciato delle Mura aureliane.

14. BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano.

Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo:

«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»

Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano.

Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo.

Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella dei Sechenon (termine greco di non univoca interpretazione).

Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C.

La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere.
Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano).

Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi.

Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’Urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa.

Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la chiesa di Santa Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni.

Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri.

È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis.

Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35).

Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi.

Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

15. UNA SPINA NELLA CARNE: DALLA DEBOLEZZA LA FORZA

«Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino. Mi dicevo: “Per Te, Signore, non dico che lo detesto”. Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono».

Così Ingrid Betancourt ha raccontato della sua prigionia, durata ben sei anni nella giungla dove era stata condotta dopo il suo rapimento.
Paolo visse parte del suo periodo romano in una analoga situazione di carcere. Già la sua prima abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria detenzione

La tradizione conserva nei sotterranei della chiesa di S. Maria in via Lata (l’antico nome dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata» (2 Tim 2,9).

Più noto ancora è il Carcere Mamertino, il luogo di detenzione dei prigionieri che sfilavano al seguito dei cortei degli imperatori vincitori. Mentre gli Augusti salivano al Tempio della Triade Capitolina, ad offrire sacrifici agli dèi di Roma per la vittoria ottenuta, i prigionieri venivano lì custoditi, in attesa della loro esecuzione capitale. Vi passarono certamente le loro ultime ore di vita Giugurta, re della Numidia, Vercingetorige, capo dei Galli, Aristobulo II, che si era opposto a Pompeo quando questi conquistò la Siria e Gerusalemme, Simone di Ghiora, uno dei leader che guidarono e persero la I guerra giudaica contro Roma che si concluse con la distruzione del Tempio di Gerusalemme.

Probabilmente san Paolo trascorse in quel luogo la sua ultima detenzione, così come avvenne per Pietro. La parte inferiore del carcere, detta Tullianum, conserva la memoria del battesimo che gli apostoli avrebbero impartito ai loro carcerieri che erano stati convertiti al Signore dalla testimonianza di fede e di amore dei loro due prigionieri.

Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda. Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in occasione di grazia.

Innanzitutto dal carcere Paolo scrisse le cosiddette “lettere dalla prigionia”, certamente Filippesi e Filemone che sono unanimemente riconosciute di mano paolina dagli esegeti. Ma anche Efesini e Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Non è certo se tutti questi testi siano stati scritti nel corso della prigionia romana come afferma la tradizione o se si debba ipotizzare una prigionia efesina non esplicitamente attestata dagli Atti.

Nelle catene, comunque, egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio - e dovunque - si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14). Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso.

Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della salvezza.

In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella carne (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di realizzarli».

Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11,24-28).

Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Paolo dichiara così, nella stessa lettera, la fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor 4,7-12).

Da quelle catene, dalla morte di Paolo e Pietro, è giunta a noi la fede.

N.B. Questo il testo integrale della Betancourt da cui è presa la citazione che compare all’inizio dell’articolo: (N.d.R. Il testo è stato raccolto per il settimanale francese «La Vie» da Elisabeth Marshall e pubblicato in italiano da Avvenire del 21 gennaio 2009, con il titolo Ingrid, la fede e il perdono. Ingrid Betancourt, candidata alle presidenziali in Colombia, viene rapita nel 2002 tre mesi prima delle lezioni, dalle Farc, sigla che designa le Forze Armate Rivoluzionarie. È stata liberata il 2 luglio 2008, dopo 6 anni di prigionia)

Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul ritualismo: come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando mi sono ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia. Ho avuto il piacere, in sei anni, di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché si è sempre pigri per riflettere sull’essenziale.
Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è, attraverso la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho compreso il carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è una Parola, qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la Bibbia, razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente con la parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.
Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: «Questo è stato scritto per me!». Avevo sentito a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente giusta. In un momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una volta, non si tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia vita.
Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque è più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha cambiato la natura della mia speranza.
La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.
Mi dicevo: «Per Te, Signore, non dico che lo detesto». Il fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori.
Ho perdonato anche quelli che erano prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili. Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e che sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la prigionia me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo perché io stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è nel cuore che si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in cui ci sarà un atteggiamento diverso nei cuori.

16. COLLABORATORI DELLA CHIESA NELL’ANNUNCIO DEL VANGELO

Paolo, anche dalla prigione, continua ad inviare lettere. Non si sente solo nella sua fatica apostolica, ma continuamente travasa la sua esperienza personale nel seno della Chiesa, accogliendo insieme l’aiuto e la testimonianza dei fratelli in Cristo.

È straordinario, in questa prospettiva, il piccolo biglietto a Filemone, nel quale Paolo si rivolge appunto a Filemone, chiamato «nostro caro collaboratore», alla sorella Appia, ad Archippo ed alla comunità che si riunisce nella loro casa, per presentare la situazione dello schiavo Onesimo fuggitivo, ma ora disposto a ritornare sui suoi passi.

Paolo si definisce nella lettera «vecchio e ora anche prigioniero in Cristo» (Flm 9). Il biglietto potrebbe essere stato scritto a Roma, oppure, secondo altri studiosi, in una prigionia efesina della quale gli Atti non hanno conservato memoria. Questa seconda ipotesi è stata avanzata a motivo del fatto che Filemone è un colossese e un invio della lettera da Roma presupporrebbe un lungo tragitto dell’epistola. Certo è che l’apostolo, comunque lontano e in carcere, sente il suo legame personale ed ecclesiale con le diverse comunità e a queste si rivolge, per venire in aiuto della difficile situazione in cui versa lo schiavo Onesimo.

Paolo non solo ha dei fratelli nelle lontane chiese da lui fondate, ma ne ha altri che gli sono vicini anche nella prigionia. La finale della stessa lettera a Filemone contiene i saluti che Paolo rivolge. Ed egli non è solo a ricordarsi di Filemone e degli altri colossesi, ma: «Ti saluta Epafra, mio compagno di prigionia per Cristo Gesù, con Marco, Aristarco, Dema e Luca, miei collaboratori» (Flm 1,23-24).

Come il lontano Filemone, così anche i fratelli che sono compagni di prigione con lui o comunque vicini a Paolo in catene, vengono chiamati synergoí, “collaboratori”. Paolo utilizza questa espressione molte volte nel suo epistolario. Essa ha innanzitutto una qualificazione teologica: si tratta di una collaborazione che non è semplicemente una vicinanza puramente affettiva a Paolo in quanto persona, ma è un servizio svolto a partire da una chiamata che proviene da Dio stesso ed esercitata con la grazia e la forza del Signore.

Nel suo epistolario, Paolo afferma esplicitamente di se stesso, utilizzando la stessa espressione «Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1 Cor 3,9). E ancora «E poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio» (2 Cor 6,1), ma attribuisce poi lo stesso titolo ad altri: «Abbiamo inviato Timoteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede» (1 Ts 3,2).

Un secondo aspetto del termine è che esso indica delle persone che svolgono un servizio che è ecclesiale, che è un servizio di comunione nella chiesa. Essi non semplicemente aiutano Paolo a titolo personale, perché gli è cara la figura dell’apostolo, ma sono “collaboratori” poiché gli è cara la Chiesa stessa. Proprio la preposizione syn, “con”, contenuta nel termine synergoí (“coloro che lavorano insieme”) indica espressamente questa loro caratteristica.

Ma essi vivono questa fatica in una prospettiva missionaria, perché ogni uomo possa giungere ad ascoltare e ad accogliere il Vangelo del Signore Gesù. “Collaboratori” sono espressamente chiamati Aquila e Priscilla (Rm 16,3) che hanno annunciato il Vangelo nelle diverse città in cui erano giunti, dopo l’espulsione da Roma avvenuta a motivo dell’editto dell’imperatore Claudio.

Nel termine “collaboratore” appare così evidente sia il primato di Dio, sia la comunione ecclesiale che è il contesto di ogni servizio, sia la coscienza che la Chiesa esiste per l’annuncio del Vangelo e non per se stessa. Per questi motivi, proprio questo termine potrebbe essere oggi nuovamente utilizzato ad indicare e caratterizzare il servizio svolto nella comunità cristiana dai laici che assumono delle specifiche responsabilità nell’edificazione della Chiesa e nell’annuncio del Vangelo.

È divenuto abituale, in tempi recenti, l’utilizzo nel linguaggio comune del termine “operatori”, ma esso sembra sottolineare esclusivamente l’aspetto pratico, operativo, e, inoltre, non ha nessun radicamento nella tradizione ecclesiale. Precedentemente è stato in voga il termine “ministeri”, ma esso sembra attirare troppo l’attenzione sul servizio liturgico e, comunque, accentua una prospettiva intra-ecclesiale (alcune annotazioni per un uso non indiscriminato del termine “ministeri” sono venute dall’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II n. 23). L’espressione “animatori”, in alcuni casi, è stata utilizzata al posto delle precedenti, ma essa mette in ombra che è lo Spirito colui che anima la vita della Chiesa e, comunque, anche questo termine, non appartiene al linguaggio ecclesiale della tradizione.

Proprio il termine “collaboratori” è, invece, frequentemente usato nel Nuovo Testamento ed è, forse, adatto ad esprimere la ricchezza teologica del servizio svolto nella Chiesa. L’espressione è stata, nel magistero recente, utilizzata dall’esortazione apostolica post-sinodale “Christifideles laici” di Giovanni Paolo II che la utilizza nel titolo del n. 61: “Collaboratori di Dio educatore”.

17. L’ABBRACCIO DI PIETRO E PAOLO SULLA VIA OSTIENSE

«In questo luogo si separarono S. Pietro e S. Paulo andando al martirio et disse Paulo a Pietro: la luce sia con teco fundamento de la chiesa et pastore di tutti li agnelli di Christo. Et Pietro a Paulo: va in pace predicator de buoni et guida de la salute de giusti».

Così recita l’antica lapide che era posta nella Cappella del SS. Crocifisso (o dei SS. Pietro e Paolo), poi demolita per permettere l’allargamento della via Ostiense. Il luogo sacro si trovava fuori Porta S. Paolo e l’iscrizione è ora stata trasferita all’interno del Museo della Via Ostiense, ospitato nella Porta Ostiensis, l’attuale Porta San Paolo, attigua alla Piramide di Caio Cestio.

La tradizione dell’abbraccio che si scambiarono in quel luogo Pietro e Paolo è stata fissata dal medioevo nella “Legenda Aura” di Jacopo da Varagine, dalla quale la lapide riprende testualmente le parole dei due santi.

Se l’attestazione del fatto è tardiva, è però vero che Pietro e Paolo dovettero certamente incontrarsi a Roma, negli anni che precedettero il loro martirio e continuare nell’Urbe quel rapporto che avevano intessuto nel corso di tutta la loro vita.

Già il triplice racconto della conversione di Paolo, negli Atti, attesta come Paolo non fosse semplicemente il fondatore di nuove comunità cristiane, ma, prima ancora, come fosse stato accolto nella chiesa ed in essa avesse ricevuto i sacramenti la catechesi dopo l’incontro sulla via di Damasco. Il racconto lucano se, da un lato, manifesta la libera scelta di Cristo che appare all’apostolo, d’altro canto sottolinea parimenti il significativo ruolo di Anania, inviato a Paolo perché sia battezzato. Solo dopo l’incontro con la chiesa rappresentata dallo stesso Anania, l’apostolo, che era stato accecato dalla luce di Cristo, torna a vedere.

Negli Atti, la stessa predicazione ai pagani ed il loro successivo battesimo non ha inizio con le missioni paoline, bensì con Pietro che trasmette la fede al centurione Cornelio: è lui a comprendere per primo la volontà divina che Cristo fosse annunciato a tutte le genti.

Ma è poi lo stesso epistolario paolino a far comprendere il ruolo decisivo di Pietro nell’esperienza cristiana di Paolo. La lettera ai Galati è testimone della parresia, della franchezza di parola, con la quale Paolo, ad Antiochia, rimprovera Pietro per la sua debolezza di comportamento quando per un momento sembra allontanarsi dal rapporto con i pagani, per timore del giudizio dei cristiani provenienti dalla circoncisione. Ma proprio questo fatto indica la centralità del ruolo petrino nella storia di Paolo.

Egli deve procedere in accordo con il primo degli apostoli e la sua critica è un atto di amore e di ricerca della verità. La stessa lettera racconta che già precedentemente Paolo si era recato a Gerusalemme con l’esplicito intento di “consultare Cefa” (Gal 1,18) e, degli altri, non aveva visto nessun altro se non Giacomo, il fratello del Signore. Così, nell’elenco dei testimoni della resurrezione, in 1 Cor 11,5, il primo ad essere nominato è proprio Cefa.

L’epistolario paolino conserva la forma aramaica del soprannome che il Cristo dette a Simone, scegliendolo come roccia sulla quale edificare la sua chiesa: Paolo lo chiama continuamente Cefa. La voce di Paolo si unisce così a quella di tutti gli scritti neotestamentari che conservano unanimemente memoria della centralità della figura di Pietro nel collegio dei Dodici, confermando il valore simbolico del nome attribuitogli da Cristo.

Come scrive il commento italiano della Bibbia di Gerusalemme, ai versetti matteani sul primato: «Né la parola greca petros, e nemmeno, sembra, il suo corrispondente aramaico kefa (“roccia”) erano usati come nomi di persona prima che Gesù avesse chiamato così il capo degli apostoli per simboleggiare il suo compito nella fondazione della chiesa».

Il ruolo di Pietro appare con evidenza anche nel momento decisivo dell’evoluzione della missione paolina, il cosiddetto “concilio di Gerusalemme” o “concilio degli apostoli”, descritto negli Atti, quando Paolo tornò a Gerusalemme per “non correre il rischio di correre o di aver corso invano” (Gal 2,2). La sua predicazione doveva avvenire in piena comunione con Cefa e con gli altri apostoli.

Nell’abbraccio di Pietro e Paolo è così possibile scorgere, come in una splendida immagine sintetica carica di verità, la complementarietà del primato petrino e della collegialità apostolica. Paolo, che afferma con vigore la sua dignità di apostolo chiamato direttamente da Cristo stesso al suo ministero, è però ben consapevole di doverlo esercitarlo in piena comunione con Cefa che ha ricevuto un preciso compito in ordine anche al suo apostolato. Pietro, dal canto suo, evidentemente conscio del suo primato, chiaramente lo vive riconoscendo la vocazione divina di Paolo, sostenendolo ed incoraggiandolo nel suo specifico compito.

Nell’ottica della fede cristiana e dell’amore che unisce i discepoli ciò che, in un’altra logica, non sarebbe assolutamente possibile manifesta invece la sua vitalità e la sua fecondità: il reciproco e continuo richiamarsi del primato e della collegialità.

18. DALLA MORTE LA VITA: IL MARTIRIO DI PAOLO

«Decapitarono Paolo presso il fondo delle Acque Salvie, vicino all’albero del pino». Così recita il testo apocrifo degli Atti di Pietro e Paolo, scritto fra il V ed il VII secolo. Acquae Salviae è un toponimo che ricorda la gens Salvia (il cui rappresentante più famoso è l’imperatore Marco Salvio Otone che regnò per un brevissimo periodo nell’anno 69 d.C.) che poteva avere avuto il possesso di quei terreni, oppure una sorgente d’acqua ritenuta “salvifica” in età romana, a motivo di una particolare presenza benedicente di divinità pagane.

Solo successivamente il luogo prese il nome delle “Tre fontane”, quando si volle sottolineare la triplice sorgente d’acqua miracolosa sorta al contatto con il capo dell’apostolo decapitato, nella quale, al di là dell’oggettività del fatto, è da vedere la verità che già Tertulliano aveva enunziato: «Sanguis martyrum, semen christianorum», il sangue dei martiri è il seme che dà la vita a nuovi cristiani.

Sì, i cristiani di Roma - e non solo loro - debbono la loro fede e sono debitori di quella sorgente che irriga i loro cuori alla testimonianza di Pietro e Paolo.
Il martirio è l’espressione più alta della testimonianza. Il testimone è colui che non indica se stesso, ma piuttosto il Cristo in cui crede, invitando a guardare a lui come al Signore della vita e della storia. La convinzione che il martire ha della verità e della bellezza del Cristo è così grande che egli non esita ad offrire la stessa vita come suprema attestazione della propria certezza e del proprio amore.

Il nostro tempo, proprio perché erede del cristianesimo, è particolarmente sensibile all’autenticità ed alla trasparenza di ciò che è nel cuore dell’uomo. La testimonianza del martirio è, in questa prospettiva, una delle forme più alte di comunicazione inter-personale. Il martire accetta di essere conosciuto nell’intimo, permette a tutti di avere accesso alla sua profonda convinzione di fede: l’amore di Cristo non può essere rinnegato e non c’è alcuna cosa, neanche la stessa vita, che è più importante della fedeltà al Signore in cui si è creduto.

Più volte Paolo utilizza un’espressione che sconcerta, ed, insieme, conquista ed affascina: il “mio Dio”, il “mio vangelo”, così l’apostolo afferma più volte. La fede gli è così intima che, certo, è di tutta la chiesa, ma al contempo è totalmente sua, gli appartiene pienamente.

Rifiutare all’altro di conoscere la fede che si ha nel cuore è come negargli di conoscere in profondità noi stessi. È proprio per questo che è così difficile ed, insieme, così bello giungere ad una intimità che condivide la fede. Ricordo una persona sposata che diceva: «Mi sentirei più nuda nel chiedere di pregare insieme il Padre nostro la sera, prima di addormentarci, di quando facciamo l’amore».

Paolo, nella nudità del martirio, permette ad ogni uomo di leggere nel suo cuore, consente a tutti di contemplare la sua fiducia ed il suo amore per Cristo. Ed egli è consapevole di questo. Più volte aveva ricordato ai cristiani nelle sue lettere che l’unico culto gradito a Dio è quello del cuore e della vita, quello in cui si offre il proprio corpo, la propria stessa vita, trasformando così radicalmente la concezione del culto propria dell’antichità: «Vi esorto, fratelli, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1-2), o ancora «Mi è testimone Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunciando il vangelo del Figlio suo» (Rm 1,9).

Ora egli vive questa offerta nella sua radicalità più totale, fino all’offerta del sangue, come aveva scritto: «Se io devo essere versato sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me» (Fil 2,17).
E questo dono di sé per continuare a parlare di Cristo diviene l’acqua che disseta la nostra vita.

Scriveva alcuni anni fa mons. Fisichella che in tedesco «“zeugnis” si traduce “testimone”, ma “zeugen” significa anche “generare”; insomma, il vero testimone genera e crea!».

Ed è significativo che il luogo del martirio di Paolo sia un luogo anche nascosto; lo portarono probabilmente alle Acque Salvie non per volontà dell’apostolo, ma per quella dei suoi carnefici.

Colui che fu notissimo al mondo, colui che visse per decenni sotto i riflettori della storia, colui che percorse l’impero per annunciare il nome di Cristo, accettò poi di morire lontano dagli occhi degli uomini, per dire in semplicità ancora una volta, e questa volta pienamente, il suo amore per Cristo, la sua fiducia nel Risorto, la certezza che il Signore lo avrebbe fatto con-risorgere con lui.

E da questa testimonianza il mondo continua a trarre vita, giungendo a credere al Signore della storia.

19. LA BASILICA DI SAN PAOLO FUORI LE MURA: EDIFICATI SUL FONDAMENTO DEGLI APOSTOLI

«Io sono ancora il democratico d'allora. Senza più cimici e pidocchi e pulci; senza più topi che mi camminano sulla faccia, senza più fame, anzi, senza appetito addirittura, e con tanto tabacco, ma sono ancora il democratico di allora, e sul nostro Lager non direi una parola che non fosse approvata da quelli del Lager. Da quelli vivi e da quelli morti. Perché bisogna anche tener conto dei Morti, nella vera democrazia».

Così scriveva Giovanni Guareschi, nel suo Diario clandestino, esprimendo la consapevolezza di un comune passato e di una memoria che non deve essere dimenticata.

Similmente si era espresso, prima di lui, G. K. Chesterton cercando di motivare l’importanza che la chiesa cattolica annette alla Tradizione:

«La tradizione può essere definita, come una estensione del diritto politico. Tradizione significa dare il voto alla più oscura di tutte le classi, quella dei nostri avi. [...] I democratici respingono l’idea che uno debba essere squalificato per il caso fortuito della sua nascita; la tradizione rifiuta l’idea della squalifica per il fatto accidentale della morte. La democrazia ci insegna di non trascurare l’opinione di un saggio, anche se è il nostro servitore, la tradizione ci chiede di non trascurare l’opinione di un saggio, anche se è nostro padre. Io non posso, comunque, separare, le due idee di tradizione e di democrazia: mi sembra evidente che sono una medesima idea».

Quando ci si avvicina al ciborio della basilica di S. Paolo fuori le mura si ha una fortissima immagine visiva di tutto questo: l’altare odierno poggia sulla tomba stessa di Paolo, che è stata riportata alla vista dei pellegrini nell’ultimo scavo realizzato in vista dell’anno paolino.

L’eucarestia viene cioè celebrata “sopra” il corpo dell’apostolo, sopra il sarcofago che conserva le sue reliquie. Non c’è maniera più espressiva di affermare che la fede della chiesa è la fede apostolica, che la nostra fede è radicata sulla fede degli apostoli che hanno conosciuto il Signore. L’eucarestia che ha celebrato Paolo e le nostre celebrazioni sono lo stesso ed unico sacrificio.

Non solo questo: Paolo, insieme agli altri apostoli, è raffigurato nei mosaici dell’abside, a raffigurare la chiesa del cielo che, insieme alla chiesa pellegrina in terra, è l’unica chiesa che comprende il cielo e la terra.

Questa dimensione verticale della chiesa – e della vita e della storia – caratterizza la fede cristiana. La chiesa non comprende semplicemente il “noi” orizzontale di coloro che oggi credono sparsi in ogni luogo della terra, ma comprende insieme il “noi” verticale, abbracciando tutti coloro che hanno creduto prima della nostra generazione ed, in primo luogo, gli apostoli stessi del Signore.

Per questo, fin dall’antichità, la chiesa ha valorizzato la tradizione del pellegrinaggio alla tomba degli apostoli, dei martiri e dei santi, perché ogni generazione accogliesse la fede delle generazioni che l’avevano preceduta e chiedesse la loro intercessione dal cielo.

La prima testimonianza esplicita della venerazione della tomba di Paolo sulla via Ostiense risale allo storico Eusebio di Cesarea, vissuto ai tempi di Costantino imperatore, che nella sua Storia ecclesiastica afferma: «Si narra che Paolo fu decapitato da Nerone e Pietro crocifisso a Roma; e ne sono riconferma tuttora i monumenti insigniti dei nomi di Pietro e di Paolo, visitati tuttora nei cimiteri della città di Roma. Del resto anche Gaio, un ecclesiastico vissuto ai tempi del Vescovo di Roma Zefirino, in un suo scritto contro Proclo, capo della setta dei Montanisti, parla dei luoghi ove furono deposte le sacre spoglie dei detti Apostoli; e così si esprime: “Io posso mostrarti i trofei degli Apostoli. Se vorrai recarti al Vaticano, o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa Chiesa”».

La testimonianza di Gaio, riportata da Eusebio, ci riporta così agli anni 199-217, gli anni del pontificato di papa Zefirino, ma, evidentemente, la tradizione della tomba dell’apostolo risale all’età neotestamentaria.

Gaio utilizza il termine “trofei” per indicare le sepolture di Pietro e Paolo, al colle Vaticano e sulla via Ostiense. Se il termine è passato ad indicare la prima solennizzazione architettonica di quei sepolcri, non si deve dimenticare che esso voleva indicare, in origine, la “vittoria” riportata in Cristo dai due apostoli martiri.

Essi avevano conseguito, come dice 2 Tim 4,8, la «corona di giustizia» preparata dal Signore per «tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione».

Lo straordinario candelabro pasquale, opera di Niccolò d’Angelo e Pietro Vassaletto, scolpito tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo e sopravvissuto al terribile incendio ottocentesco della basilica, reca iscritti ancora perfettamente leggibili, alcuni versi che inneggiano al trionfo di Cristo che dona ai suoi i frutti della salvezza:

«+L’albero reca i frutti. Io sono un albero che reca luce. E doni. Annunzio gioia in un giorno di festa. Cristo è risorto. Ed io offro tali doni» (questo il testo originale in latino: «+Arbor poma gerit. Arbor ego lumina gesto. Porto libamina. Nuntio gaudia, sed die festo. Surrexit Christus. Nam talia munera p[rae]sto»).

Anche gli apostoli, raffigurati subito sotto il Cristo Pantokrator del catino absidale, intonano il Gloria, avendo come antifonari i due angeli che sono intorno all’Etimasia, cioè al trono sul quale si erge regale la croce vittoriosa.

L’angelo che è alla destra dell’Etimasia intona l’inno, recando nel cartiglio le parole «Gloria in excelsis Deo», e l’angelo a sinistra gli risponde con le parole «et in terra pax hominibus bonae voluntatis». Gli apostoli seguono, a destra ed a sinistra, proseguendo il canto.

Ai cori angelici ed alla prima generazione apostolica si unisce il gesto di papa Onorio III (1216-1227) prostrato ai piedi del Cristo. È la parte artisticamente più bella del mosaico; infatti, solo nella parte centrale inferiore si è conservata l’opera musiva originaria, mentre tutto il resto fu completamente rifatto dopo l’incendio ottocentesco, anche se in piena adesione al modello iconografico precedente.

Paolo VI, nel suo primo discorso ai vescovi del Concilio, nel settembre 1963, così si espresse, manifestando l’unità della Tradizione che concorde rivolge tutta la sua lode al Cristo:

«Si presenta ai nostri occhi rapiti e smarriti Gesù stesso rifulgente di tanta maestà quanta nelle vostre basiliche, venerabili fratelli delle chiese d’Oriente e pure delle chiese d’Occidente, appare del Pantokrator. E noi stessi ci vediamo in persona del nostro predecessore Onorio III nello splendido mosaico di San Paolo fuori le mura raffigurato adorante il Cristo, piccolo nella statura e annichilito prostrato in terra a baciare i piedi del Cristo che grandioso presiede l’assemblea raccolta nella basilica, cioè la Chiesa».

20. PERCHÉ IL SACRIFICIO DELLA CROCE? LA RISPOSTA DELLA LETTERA AGLI EBREI

«Non è il dolore in quanto tale che conta nel sacrificio della croce, bensì la vastità dell’amore. Se così non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all’altare della Croce sarebbero stati i carnefici: proprio essi infatti, che hanno provocato il dolore, sarebbero stati altrimenti i ministri che hanno immolato la vittima sacrificale». Così scriveva già nel 1968 Joseph Ratzinger nelle sue lezioni sul Simbolo apostolico del volume “Introduzione al cristianesimo”.

La domanda sul significato della Croce non cessa di scuotere ogni generazione. Uno dei testi neotestamentari che ne chiarifica il senso è la lettera agli Ebrei. Essa è, in realtà, la trascrizione di un’omelia pronunciata prima dell’anno 70 dopo Cristo, l’anno nel quale il generale Tito, agli ordini del padre Vespasiano, distrusse il Tempio di Gerusalemme, depredandone gli arredi. L’arco di Tito conserva memoria in Roma di quegli antichi avvenimenti: nel suo fornice un pannello rappresenta i soldati romani in trionfo che portano su due portantine il candelabro a sette braccia e la tavola sulla quale erano offerti i pani detti “della proposizione”. Da quell’anno si interruppero le offerte dei sacrifici nel Tempio e la storia dell’ebraismo conobbe una svolta radicale.

Nella lettera agli Ebrei, che confronta il nuovo sacerdozio di Cristo con il sacerdozio levitico che si svolgeva nel Tempio, non è possibile trovare neanche un minimo accenno alla fine dell’antico culto; gli esegeti ne deducono che la lettera è di poco anteriore al 70, poiché se l’autore avesse avuto conoscenza della distruzione del Tempio ne avrebbe certamente inserito la notizia nella sua argomentazione.

L’omelia divenne una lettera, come è facile vedere dagli ultimi versetti. Fu cioè inviata a un altra comunità perché lì fosse letta. Questa comunità è probabilmente Roma, poiché si dice in chiusura del testo: “Vi salutano quelli che provengono dall’Italia” (Eb 13,24). Queste parole sono testimonianza del fatto che alcuni emigrati dall’Italia inviarono insieme alla lettera il saluto ai loro compatrioti; è ovvio che un invio dello scritto in Italia non poteva non comprendere come destinazione anche Roma.

Perché il sacrificio di Cristo è “nuovo” e “definitivo”? Perché la morte in Croce? Perché un sacrificio compiuto una volta per tutte? Queste sono le grandi domande a cui risponde la lettera agli Ebrei. Afferma l’Autore: «La legge non ha portato nulla alla perfezione» (Eb 7,19)! I tanti sacerdoti che avevano offerto sempre nuovi sacrifici a Dio dovevano offrirli sempre di nuovo, perché né loro, né il popolo erano mai senza peccato. I sacrifici rinnovavano sempre il ricordo dei peccati, ma mai rendevano totalmente nuovo il cuore.

Cristo non offrì una vittima per quanto preziosa, ma offrì se stesso (Eb 8,27). A Dio fu gradita non semplicemente la sua morte, non il suo dolore – lungi dal cristianesimo l’idea di un Dio che si compiace del dolore! Dio ha amato, nella Croce, l’amore del Figlio. È questo la novità cristiana, è questa la salvezza del mondo: Cristo ha riempito di amore il dolore fisico della crocifissione, Cristo ha colmato di amore, attraverso il perdono, anche il dolore del rifiuto che gli uomini hanno avuto di lui. Lì dove l’uomo accresce la rabbia o il rifiuto, Egli ha riempito di obbedienza al Padre e di misericordia il male che gli era inflitto.

Ma perché ha potuto farlo? Proprio perché è il Figlio fattosi uomo. I sacrifici delle religioni sono offerte dell’uomo rivolte a Dio; ogni popolo nei secoli ha cercato di prendere quanto di più bello e prezioso aveva per offrirlo a Dio. Nella fede cristiana, invece, l’offerta discende dal Cielo. Il dono giunge da Dio, il sacrificio e il sacerdote provengono da lui. Dio ci ha donato il Cristo perché noi accogliessimo il suo sacrificio per noi. Cristo, dice l’Autore della lettera agli Ebrei, non è solo «misericordioso» verso noi uomini, ma è, insieme, «degno di fede», perché più grande degli angeli, perché, luce della stessa gloria divina, porta impressa in sé tutta la divinità di Dio.

21. EDUCARE LE NUOVE GENERAZIONI: UNO SGUARDO SULL'ETÀ APOSTOLICA NELLE LETTERE DI PAOLO A TIMOTEO

«Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5): le cosiddette lettere pastorali, cioè le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, abitualmente indagate come documenti che permettono di cogliere lo sviluppo del ministero nella chiesa, sono anche uno specchio di come i primi genitori cristiani vivessero l’educazione delle nuove generazioni.

Le lettere a Timoteo parlano della terza generazione cristiana: Timoteo ha ricevuto la fede tramite la madre Eunìce e costei, a sua volta, da Lòide che ora è nonna di Timoteo. Il Nuovo Testamento è così testimone che, non appena si diventa cristiani, subito la fede viene trasmessa ai propri figli e nipoti. Il piccolo Timoteo non deve attendere la sua età matura, ma fin da piccolo riceve il dono di quei riferimenti e di quei valori che sono il tesoro prezioso di chi lo ha chiamato alla vita.

La seconda lettera aggiunge un particolare di questa precoce iniziazione alla fede: «Fin dall'infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2 Tim 3, 15). Il padre di Timoteo era pagano, la madre ebrea, ma non lo aveva circonciso. Aveva, però, evidentemente accompagnato suo figlio, fin dalla tenera età, a conoscere la rivelazione di Dio, secondo la più bella tradizione ebraica. Eunìce gli aveva fatto conoscere non solo i libri dell’Antico Testamento, ma anche quel Gesù che era la chiave per comprendere quei testi ed il loro più vero significato, poiché la salvezza promessa raggiungeva gli uomini per la fede in lui.

Se le due lettere a Timoteo aprono uno squarcio sull’educazione dei figli, specularmente non parlano astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha accolto pienamente la condizione di vedovanza.

La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove... Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).

L’odierna catechesi che sceglie di parlare sempre più di famiglia, piuttosto che semplicemente di adulti, rispecchia proprio questa coscienza della centralità delle relazioni personali, delle scelte che costituiscono la condizione tipica dell’adulto. Egli non educa solo perché si rivolge ai più piccoli, ma anche e soprattutto perché vive con serena responsabilità la propria vita, proponendosi così come modello e testimone.

La prima formazione ricevuta da Timoteo non è però sufficiente. Essa non può mai essere semplicemente presupposta, proprio perché la persona è viva ed affronta situazioni sempre nuove. «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (1 Tim 1, 6-7): così afferma l’autore subito dopo aver parlato dell’educazione che Timoteo ha ricevuto dalla nonna e dalla madre.

È una educazione che si deve misurare anche con la fatica della lettura e del pensiero - «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura» (1 Tim 4, 13), come, d’altro canto, a Timoteo viene chiesto di farsi portatore dei libri necessari per Paolo: «Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene» (2 Tim 4, 13).

Soprattutto, la conoscenza della affidabilità della rivelazione – «So a chi ho creduto» (1 Tim 1, 12)- si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8). Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).

Per questo una vera educazione non si rivolge semplicemente alla persona stessa, ma la apre a vivere pienamente nel mondo per poter condividere con ciascuno i doni ricevuti da Dio. Timoteo è così invitato ad avere sempre presenti tutti nel suo sguardo e nella sua preghiera - «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2, 1-6).

Per Timoteo, come vescovo, valgono le raccomandazioni ad essere ospitale, capace di insegnare, benevolo, non litigioso (1 Tim, 3, 2-3); infatti «è necessario che [il vescovo] goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo»( 1 Tim 3, 7).

La critica moderna si è spesso domandato chi sia l’autore delle pastorali, poiché esse utilizzano un linguaggio differente dalle lettere sicuramente autentiche di Paolo, ma,d’altro canto, sono piene di riferimenti a fatti che possono provenire solo da un intimo conoscitore dell’apostolo. Una proposta recente del prof.Giancarlo Biguzzi ipotizza, con buona probabilità, che l’autore possa essere lo stesso Timoteo che avrebbe fuso insieme – da qui la non piena organicità della disposizione finale delle lettere - i suoi ricordi dell’apostolo, i cosiddetti personalia contenuti nelle lettere pastorali.

22. CONOSCERE PAOLO ATTRAVERSO LE IMMAGINI

«Il Signore è grande e non si può disegnare (perché nel foglio non ci sta)»: così recita il titolo di un recente libro che racconta di alcune esperienze educative in campo religioso nelle scuole. Il paradosso che San Paolo, insieme a tutta la fede cristiana, ci consegna è che, invece, è possibile rappresentare Dio, anzi è doveroso, perché egli ha accettato di manifestarsi nel Figlio.

Proprio nella lettera ai Colossesi, una delle cosiddette lettere della prigionia che potrebbero avere un’origine romana, si conserva l’espressione: «Cristo è l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). Come a dire che quel Dio che nessun ricercatore umano avrebbe mai potuto vedere o conoscere, ora, liberamente, si è rivelato a noi in Cristo. E – si badi bene – non alla maniera di una semplice “apparenza”! Continua la lettera ai Colossesi, infatti: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità».

Questo versetto era molto caro a Giuseppe Dossetti, uno dei padri della Costituente, divenuto poi monaco, che vedeva in questa chiarissima affermazione una difesa contro ogni possibile gnosi che volesse portare oltre Gesù Cristo, spostando la presenza di Dio al di là dell’Incarnazione, come se essa non fosse sufficiente.

Nei secoli, la formulazione dogmatica cristiana ha saputo cogliere, a partire da questo tratto peculiare della fede cristiana, alcune conseguenze decisive per la realizzazione delle immagini ed il loro utilizzo nel culto e nella catechesi. Nel corso della crisi iconoclasta, quando appunto l’imperatore ed alcuni suoi seguaci avevano affermato che non era degna di Dio la sua raffigurazione, il Concilio Niceno II (celebrato nel 787 d.C.) stabilì che, invece, le icone – le immagini! – erano non solo possibili, ma addirittura necessarie alla fede cristiana. Una fede senza immagini avrebbe negato, praticamente, la verità dell’incarnazione del Figlio.

Scrive, a questo proposito, il Concilio Niceno: «Se qualcuno non ammette che Cristo, nostro Dio, possa essere limitato, secondo l’umanità, sia anatema». E prosegue: «Noi definiamo con ogni accuratezza e diligenza che, a somiglianza della preziosa e vivificante Croce, le venerande e sante immagini sia dipinte sia in mosaico o di qualsiasi altra materia adatta debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, nelle sacre suppellettili e nelle vesti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e sulle vie; siano esse l’immagine del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella della
immacolata Signora nostra, la Santa Madre di Dio, degli angeli degni di onore, di tutti i santi e pii uomini
».

Proprio perché l’infinito è disceso nella carne, Maria, come è raffigurato nei mosaici di San Salvatore in Chora a Istanbul, è diventata la “dimora dell’incontenibile”, la “chora tou achoretou” (titolo da cui la chiesa prende il nome).

L’episodio della vita di Paolo che è stato più frequentemente raffigurato è quello del suo incontro con il Signore sulla via di Damasco. In questa rappresentazione una figura si è prepotentemente inserita, quella di un cavallo che Paolo avrebbe cavalcato in quel giorno (l’animale non era ancora presente, ad esempio, nei mosaici del duomo di Monreale).

Qual è il motivo di questa presenza che non compare nella narrazione degli Atti degli Apostoli? Il racconto lucano ripete, con varianti, tre volte l’incontro di Paolo sulla via di Damasco con il Signore risorto, ma mai compie alcun accenno ad una cavalcatura, benché essa non sia necessariamente da escludere.
La motivazione di questa innovazione iconografica dipende dal fatto che gli artisti hanno sempre raffigurato nell’uomo a cavallo il segno di una potenza, di una gloria, di una riuscita tutta umana.

Si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio, a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini o ai due monumenti equestri di Giovanni Acuto e di Nicolò da Tolentino dipinti da Paolo Uccello e da Andrea del Castagno in Santa Maria del Fiore a Firenze. O ancora ai dipinti di Velázquez, come il Conte-duca di Olivares ed il ritratto dell’imperatore Filippo III.

Paolo viene disarcionato da Cristo, viene rovesciato dalle sue idee e sicurezze, viene “schienato”, per utilizzare una terminologia desunta dalle arti marziali. Il cavallo che si erge maestoso, mentre egli è a terra, sottolinea enfaticamente l’enormità dell’avvenuto. Ma tutto ciò è possibile ed ha motivo e consistenza solo nella rivelazione del Risorto che gli si presenta. Cristo stesso è sempre rappresentato nell’immagine della conversione di Paolo, come nello straordinario affresco michelangiolesco della Cappella paolina recentemente restaurato. Solo Caravaggio, nella seconda versione della tela della Cappella Cerasi, in Santa Maria del Popolo, ometterà l’esplicita raffigurazione cristologica e la suggerirà con un fascio di luce, alla sua maniera.

Nell’arte moderna lo scultore Marino Marini ha ripreso, in chiave antropologica la metafora della cavalcatura, rappresentando sempre più, man mano che la sua ricerca progrediva, cavalli con uomini disarcionati e non più sereni equilibri di uomini e bestie.

I due attributi iconografici che caratterizzano, invece, Paolo come figura a sé stante, sono la spada ed il libro. La spada è, innanzitutto, lo strumento del martirio. L’iconografia è solita rappresentare un martire con in mano l’oggetto con il quale i carnefici hanno posto fine alla sua vita. L’oggetto in questione è come un trofeo, come un titolo di vittoria. Lì dove l’avversario riteneva di poter ottenere un completo trionfo, si trova ad essere sconfitto proprio tramite quell’offerta testimoniale della vita, che trasforma una circostanza di odio in occasione di annunzio del vangelo.

Ma, nell’iconografia paolina, la spada viene a simboleggiare anche la parola delle sue lettere, la Parola di Dio, identificandosi con l’altro attributo che è il libro stesso che egli porta. Lo vediamo, ad esempio, nel portale maggiore di ingresso alla basilica di San Paolo fuori le Mura in Roma, dove la spada è poggiata sulle pagine del libro aperto.

Come dice la Lettera agli Ebrei, infatti, «la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).

La spada diviene qui metafora di quella capacità che ha la parola divina di compiere finalmente quel discernimento del bene e del male, della vita e della morte che è così necessario alla vita dell’uomo, quell’uomo che brancola nel buio, non conoscendo la meta del proprio cammino e quindi la strada, che soprattutto non sa comprendere il proprio cuore, finché non si pone alla luce dell’amore di Cristo stesso, che rivela il bene inatteso, ma anche il male che si fingeva di ignorare.

In questo senso l’immagine della spada si completa con quella del libro o del rotolo che l’apostolo reca in mano. Quella luce che è il Cristo stesso, viene iscritta nelle parole umane della Sacra Scrittura, e così anche nelle lettere paoline, e Paolo attesta e offre la rivelazione cristiana negli scritti che, ispirato da Dio, ha composto.

23. IGNAZIO E CLEMENTE, UNA TRADIZIONE CHE CONTINUA

«Tu, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2,1-2).

La seconda Lettera a Timoteo invita già ad immaginare le generazioni che seguono quella apostolica: Paolo ha trasmesso il Vangelo a Timoteo ed ora, confermandolo nel suo incarico di “vescovo” di Efeso, gli chiede di preoccuparsi di una nuova generazione e di curare che questa, a sua volta, faccia sorgere nuovi collaboratori di Dio perché la Parola di Dio continui la sua corsa.

Come è noto, gli studiosi sono concordi nel ritenere con sicurezza che sette lettere dell’epistolario paolino sono state scritte direttamente dall’apostolo – 1 Ts, 1 Cor, 2 Cor, Gal, Rm, Fil, Flm – mentre la discussione è aperta sull’attribuzione delle altre (vedi L'origine apostolica dei vangeli e la loro storicità).

Appare ormai certa l’esistenza di una “scuola paolina”, cioè di un seguito di persone formatesi all’insegnamento di Paolo che hanno continuato a scrivere nel suo nome, affrontando alla luce del Vangelo che l’apostolo aveva trasmesso loro i nuovi problemi che via via andavano sorgendo nelle diverse comunità.

Proprio questo fatto è segno della grande fecondità del pensiero paolino e, più in generale, della tradizione cristiana. “Tradizione” vuol dire la “viva trasmissione” di ciò che si è ricevuto; mentre nel linguaggio comune talvolta con questo termine si è soliti indicare qualcosa di stantio e vecchio; ad una riflessione più attenta appare evidente che ciò che si trasmette è esattamente ciò che è vivo, ciò che genera nuova vita, mentre ciò che cessa di essere trasmesso è propriamente ciò che è morto e non può dare più alcun frutto.

Scriveva il grande scrittore cattolico J. R. R. Tolkien, autore de “Il signore degli anelli”, in una lettera al figlio Michael: «La “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero».

L’esistenza di una “scuola paolina” significa in questo senso, come ha giustamente sostenuto il professor Romano Penna nei suoi studi sulla pseudoepigrafia neotestamentaria, non l’affermazione di un plagio o di un falso, quanto piuttosto l’ammissione di un debito di chi nasconde il proprio nome perché sia messo in rilevo quello dell’apostolo.

A Roma, dove Paolo dette l’estrema testimonianza del martirio, la trasmissione dell’eredità paolina avviene, senza alcuna discontinuità e se ne ha l’attestazione negli scritti dei cosiddetti “Padri apostolici”; quelle figure, cioè, i cui scritti non sono entrati nel Canone, ma che seguono immediatamente la redazione degli scritti neotestamentari. Solo per toccare con mano l’antichità di questi testi, basti pensare che gli apocrifi più antichi vengono una cinquantina d’anni dopo gli scritti dei Padri apostolici.

Il più antico testo romano della tradizione cristiana che segue gli scritti del Nuovo Testamento è la lettera che Clemente scrive, a nome della Chiesa di Roma, ai Corinti nell’anno 96 d.C. Il testo si colloca dopo la morte di Nerva, che aveva perseguitato i cristiani.

Clemente scrive ai Corinti invitandoli a considerare la testimonianza che Pietro e Paolo avevano offerto a Roma ed a trovare in essa un motivo di concordia per ristabilire l’unità nella chiesa di Corinto che doveva essere molto divisa: «Lasciando gli esempi antichi [dell’Antico Testamento], veniamo agli atleti vicinissimi a noi e prendiamo gli esempi validi della nostra epoca. Per invidia e per gelosia le più grandi e giuste colonne furono perseguitate e lottarono sino alla morte. Prendiamo i buoni apostoli. Pietro per l'ingiusta invidia non una o due, ma molte fatiche sopportò, e così col martirio raggiunse il posto della gloria. Per invidia e discordia Paolo mostrò il premio della pazienza. Per sette volte portando catene, esiliato, lapidato, fattosi araldo nell'oriente e nell'occidente, ebbe la nobile fama della fede. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, giunto al confine dell'occidente e resa testimonianza davanti alle autorità, lasciò il mondo e raggiunse il luogo santo, divenendo il più grande modello di pazienza» (V, 1-7).

Si noti che già a Roma i due apostoli sono venerati insieme e, alla memoria dell’uno, subito viene associata quella dell’altro.

Clemente continua ricordando ai Corinti la prima lettera che Paolo aveva scritto loro: «Prendete la lettera del beato Paolo apostolo. Che cosa vi scrisse all'inizio della sua evangelizzazione? Sotto l'ispirazione dello Spirito vi scrisse di sé, di Cefa, e di Apollo per aver voi allora formato dei partiti. Ma quella divisione portò una colpa minore. Parteggiavate per apostoli che avevano ricevuto testimonianza e per un uomo [Apollo] stimato da loro. Ora, invece, considerate chi vi ha pervertito e ha menomato la venerazione della vostra rinomata carità fraterna» (XLVII, 1-5).

E prosegue poi parafrasando l’elogio della carità di 1 Cor 13, perché a distanza di alcuni decenni, ancora i cristiani di Corinto non avevano appreso quella lezione: «Chi può spiegare il vincolo della carità di Dio? Chi è capace di esprimere la grandezza della sua bellezza? L’altezza ove conduce la carità è ineffabile. La carità ci unisce a Dio: "La carità copre la moltitudine dei peccati". La carità tutto soffre, tutto sopporta. Nulla di banale, nulla di superbo nella carità. La carità non ha scisma, la carità non si ribella, la carità tutto compie nella concordia. Nella carità sono perfetti tutti gli eletti di Dio.
Senza carità nulla è accetto a Dio. Nella carità il Signore ci ha presi a sé. Per la carità avuta per noi, Gesù Cristo nostro Signore, nella volontà di Dio, ha dato per noi il suo sangue, la sua carne per la nostra carne e la sua anima per la nostra anima. Vedete, carissimi, come è cosa grande e meravigliosa la carità, e della sua perfezione non c'è commento
» (XLIX, 2-6; L, 1).

E, solo quindici anni dopo, Ignazio vescovo di Antiochia, condotto a Roma per essere punito come cristiano ed essere dato in pasto alle fiere, probabilmente nei giochi del Colosseo, scrive ai cristiani di Roma, intorno all’anno 110 d. C. sotto l’impero di Traiano, per chiedere che non si adoperino per ottenere per lui la grazia dell’imperatore e che non ostacolino il suo martirio per la gloria di Dio.

Nel rivolgere questa richiesta, Ignazio scrive: «Scrivo a tutte le Chiese e annunzio a tutti che io muoio volentieri per Dio, se voi non me lo impedite. Vi prego di non avere per me una benevolenza inopportuna. Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio.
Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Non vi comando come Pietro e Paolo. Essi erano apostoli, io un condannato; essi erano liberi io a tuttora uno schiavo. Ma se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui. Ora incatenato imparo a non desiderare nulla
» (Lettera di Ignazio ai Romani, IV,1.3).

La lettera conserva, fra l’altro, la prima affermazione del primato di Roma sulle altre chiese. Ignazio, rivolgendosi alla comunità romana, la chiama «la Chiesa che presiede all’agape» (Lettera di Ignazio ai Romani, I,1), dove è evidente che, nel suo linguaggio, con il termine “agape” si intende la “comunione di tutte le chiese”, il vincolo di carità che tutte le unisce o, forse, la celebrazione eucaristica stessa: ebbene questa “agape”, questo amore che tiene unite tutte le Chiese, ha una presidenza e questa è tenuta proprio dalla Chiesa di Roma, a motivo della testimonianza di fede di Pietro e Paolo che nell’urbe è conservata.

La recente scoperta, proprio al termine dell’Anno paolino, di due clipei con i volti di Pietro e di Paolo nella catacomba di Santa Tecla, non lontano dalla basilica di San Paolo fuori le Mura, databili alla fine del IV secolo, ha richiamato tutti a quella “concordia apostolorum”, a quella duplice testimonianza di Pietro e Paolo che è custodita, per opera dello Spirito Santo, dalla tradizione della chiesa di Roma.