1/ Una società che vuole crescere sente l'urgenza del dialogo, di Fabrice Hadjadj 2/ Ritorno alla terra: un mito fatto a pezzi dal digitale, di Fabrice Hadjadj 3/ Culto della singolarità e indifferenziazione, di Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /07 /2016 - 22:59 pm | Permalink | Homepage
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1/ Una società che vuole crescere sente l'urgenza del dialogo, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire dell’1/5/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (10/7/2016)

Una brava donna mi ha fatto di recente una confidenza: «Dialogare, va bene; ma devo ammettere che mi riesce meglio con Pepette che col mio vicino». Preciso che Pepette è un barboncino nano femmina, di colore albicocca e toelettatura "alla leone" e questo fatto conferisce alla precedente affermazione una profondità particolare.

Non bisogna infatti burlarsi troppo in fretta di quella dama con cagnolino. La sua mescolanza contraddittoria di misantropia e di antropomorfismo è abbastanza caratteristica dei rapporti che il cittadino intrattiene oggi col suo animale domestico. Tale mescolanza è però soltanto una forma speciale e mitigata di un'altra mescolanza, più frequente e temibile, di antropomorfismo e di altruismo: senza rendersene conto, uno proietta sull'interlocutore la sua prospettiva ed è così che la discussione può svolgersi senza ostacoli.

In fondo non è poi così stupido pensare che il dialogo col vicino sia difficile: più difficile di quello che le nostre innocenti abitudini di ventriloquio ci facciano credere. Si potrebbe affermare anche che il dialogo comincia esattamente quando sembra impossibile (una certa pratica della vita coniugale mi ha dato largamente conferma di questa intuizione).

Che cosa esige un vero dialogo? Padre Cottier (morto in Vaticano, e cioè sul campo di battaglia, esattamente un mese fa) notava che vero dialogo presuppone uguale dignità degli interlocutori, ma non uguale dignità delle loro opinioni.

Questa doppia ipotesi ben traspare nella richiesta di Socrate nel Gorgia: «Sarò io, dunque, a spiegare come mi pare che stiano le cose. Ma se a qualcuno di voi sembrerà che io convenga con me stesso cose che in realtà non sono, bisognerà che costui mi interrompa e mi confuti». C'è dialogo soltanto se: accetto di essere ripreso dal mio interlocutore, cosa che implica da parte mia il riconoscimento della sua attitudine a ragionare come me e se non affondiamo nel relativismo, poiché, quando tutte le opinioni si equivalgono, nessuno può riprendere l'altro

Il relativismo infatti, come dice il nome stesso, è rottura di ogni relazione: ciascuno si ritira nella sua sfera privata e il dialogo è sostituito dall'indifferenza, la collisione o la giustapposizione di due monologhi. Da un punto di vista più essenziale, bisogna ammettere che il dialogo viene prima anche del nostro prendere la parola in una conversazione.

Il filosofo Francis Jacques lo sintetizza così: «Io parlo, ma noi diciamo». La lingua di cui sono erede e che uso per rivolgermi agli altri fa sì che io sia sempre in un dialogo, anche nella solitudine della mia stanza. La possibilità del mio soliloquio si fonda su un dialogo precedente, quello dei miei genitori, quello dei miei maestri, dialogo su cui si fondano le risorse del mio pensiero e anche della mia rivolta. Quando al mio interlocutore dico «merda!», per rompere con lui, faccio ancora appello a lui e attingo a un vocabolario comune.

Conviene però andare oltre se non vogliamo cadere nell'ideologia del "dialogismo". Molti, infatti, esaltano oggi il dialogo come l'alfa e l'omega della parola. Lo fanno generalmente con grandi discorsi che lasciano poco spazio a una replica. Talvolta li osserviamo fermarsi e dare agli altri il tempo di esprimersi. Annuiscono, allora, con condiscendenza: nella loro inconfessabile sordità, sanno recitare molto bene la scena dell'ascolto.

Ma il problema non sta soltanto in questa postura. È evidente che in molte circostanze la verità richiede non il dialogo ma qualcos'altro. Per esempio una bella pedata nel sedere. Qualche volta non c'è niente di meglio per aprire le orecchie. Alcuni cominciano a rispettarvi solo se li avete svegliati in questo modo.

Una simile ristrutturazione mira ancora al dialogo. Ma non è tutto. Ci sono due altre dimensioni della parola, una più radicale e l'altra più ultimativa (come si poteva già intuire dal fatto che il dialogo ha i suoi prerequisiti e che, quando parlo, sto accogliendo in modo pre-volontario un dialogo primordiale che mi trascende).

Si tratta delle dimensioni della lode e del comando. Uno che si innamora o che è afferrato da una presenza, non sta innanzitutto in un dialogo: è anche probabile che, nella sua grandezza impassibile, la bellezza che lo incanta non lo ascolti, non gli risponda, e che lui la celebri comunque in un "sacrificio di lode".

Adamo non comincia a dialogare con Eva (grazie a Dio!). È estasiato. Canta. Riconosce che sta di fronte a qualcosa che lo sorprende e che è la condizione di ogni dialogo futuro.

E poi, in un'inversa asimmetria, c'è la relazione tra padre e figlio, dove la conversazione lascia il posto al comando. Questa parola ci fa paura, perché la interpretiamo a partire dall'ordine meccanico o dall'ingiunzione militare che ne sono forme degradate. Ma il comando è innanzitutto il luogo della tenerezza paterna, della responsabilità per un altro che si invita a crescere e a fruttificare, e dunque a essere sé stesso, nella sua generosità. I nostri appelli al dialogo ne sono la prova: chiamano prima di dialogare.

2/ Ritorno alla terra: un mito fatto a pezzi dal digitale, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire dell’8/5/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)

Tornare alla terra. Coltivare il giardino. Ritrovare il piccolo, il locale, il familiare, il fazzoletto di campagna, dimentichi dell'alta finanza, della grande industria, separati dalle mondanità del mondo, per radicarsi nel suolo materno. Questa è ormai la bella utopia. Quella dei nostri amici Amish. Quella di un ritorno alla vita domestica, quando la politica è talmente pervertita. Quella di un ritorno agli utensili, quando le apparecchiature tendono a disprezzare le nostre mani. Quella di un ritorno alla campagna, o addirittura alla natura incontaminata, quando la città è totalmente "connessa".

Un tale ritorno è però possibile senza illusioni? Ci fu un tempo in cui bastava piantare una siepe per mettersi in disparte dal vicino. Ci fu un tempo in cui il catasto aveva un senso: qui si era a casa propria, al chiuso, al riparo, e d'altra parte questo permetteva di uscire per andare incontro all'altro o di restare per offrirgli ospitalità.

Ma bisogna arrendersi all'evidenza: quel tempo è passato. Il Roundup di Monsanto si diffonde tra le nuvole, la pioggia e la nebbia e diventa atmosferico. Nessuna dogana ha potuto obbligare le radiazioni di Chernobyl al rispetto delle frontiere. La grande barriera corallina può situarsi in mezzo al Pacifico finché vuole, le nostre emissioni di CO2 sono riuscite a raggiungerla e ridurre la sua superficie della metà.

Dov'è dunque l'approdo immacolato? Dove sono la terra sana, l'acqua pura, l'aria senza pesticidi né radiazioni? La risposta può essere immaginata non senza qualche brivido. È simile al "naturale" di uno studio televisivo. Per compensare l'artificio dell'illuminazione bisogna rinforzarlo con uno spesso maquillage. La pelle del presentatore non sembra malaticcia solo a condizione di essere ricoperta di una mano di intonaco che le permetta di prendere bene la luce dei proiettori. E i suoi gesti sembrano spontanei solo in una continua finzione che sposi tutte le manovre della telecamera.

L'Eden si ricostituisce solo in una ridondanza della caduta. Questa è la logica che sta alla base della nascita degli ortaggi Toshiba (ai quali mi limiterò, lasciando da parte gli spinaci Panasonic e le lattughe Fujitsu). Il conglomerato industriale nipponico ha grande reputazione per le sue televisioni, i suoi computer, i suoi reattori nucleari. Ma ecco che, proprio a causa dei reattori di Fukushima, dopo lo tsunami del marzo 2011, la questione degli ortaggi non contaminati si è posta ai giapponesi drammaticamente; e Toshiba, dopo altri grandi gruppi dell'elettronica, ha deciso di trasformare una fabbrica anticamente addetta alla fabbricazione di lettori di dischetti in una fattoria verticale.

Su una superficie di 2000 metri quadri a Yokosuka, vicino a Tokyo, questa Clean room farm produce oggi tre milioni di insalate all'anno. Ovviamente sono coltivate senza terra, su rotelle, in grandi scaffalature bianche con «lampade fluorescenti speciali, ottimizzate per la crescita dei vegetali», aria condizionata che mantiene costanti temperatura e umidità e un sistema di microchip che tiene sotto stretta sorveglianza lo stato fisico delle piante e l'asetticità del luogo.

Con una procedura simile, Sharp, specialista delle "fotocopiatrici multifunzione per l'impresa", ha già una «fattoria digitale di fragole». Si trova a Dubai, e «riproduce, in uno spazio chiuso, le condizioni ideali per la coltivazione del frutto».

Qui starebbe l'avvenire dell'agricoltura "bio e di prossimità", secondo il parere dell'ecologo e microbiologo Dickson D. Despommier, non nel ritorno alla terra, dunque, ma in una riformattazione degli immobili: degli Empire State Buildings di rucola e scarola, delle Trump Towers di frutti di bosco e patate… E più non importano le stagioni o la latitudine. Nessuna donna incinta potrà più essere capricciosa (tanto più che in questa prospettiva non ci saranno più donne incinta ma personale di manutenzione delle matrici elettroniche).

Con queste serre-grattacielo faremo crescere la papaya nell'inverno siberiano e perfino nell'inverno nucleare o su Marte. Panasonic, per esempio, fabbrica alcune delle sue "Veggie life salads" in una fabbrica ultra-sterile impiantata sul territorio di Fukushima che, da questo punto di vista, non è peggiore di un altro posto qualsiasi.

Hans Jonas lo sottolineava nel suo Principio di responsabilità: La «civilizzazione tecnologica» mette fine a una morale giocata esclusivamente nella prossimità, dove la natura è ancora una riserva immacolata e inesauribile. Gli effetti del tecnocosmo sono talmente smisurati, talmente globali, che non ci si può più accontentare di ritirarsi nel proprio giardino per rivivere. L'isola deserta è già ricoperta di volantini e di rifiuti tossici.

Inoltre, sfortunatamente, l'impegno deve necessariamente avere una dimensione politica e internazionale. E bisogna entrare in una certa radicalità. Una radicalità le cui radici non siano però come quelle della fattoria Toshiba: astratte, fantasmatiche, lontane dalla terra carnale

3/ Culto della singolarità e indifferenziazione, di Fabrice Hadjadj

Riprendiamo da Avvenire del 24/4/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (15/5/2016)

«Sei veramente unico!». Quando mi si fa l'onore di questo complimento divento diffidente o mi sento deluso, con un pizzico di vanità, evidentemente: se sono così unico da non potere essere paragonato a nessuno, impossibile per me sembrare migliore di un altro

Certo, è bello celebrare l'unicità di qualcuno. È anche abbastanza salutare, dopo secoli nei quali l'individuo è stato ridotto ai particolarismi di razza, sesso, classe, nazione, quando non dissolto nell'universalismo dell'Umanità. È nota la risposta di Joseph de Maistre all'umanesimo astratto dei rivoluzionari: «Nella mia vita ho visto francesi, italiani, russi […] ma, quanto all'uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in vita mia». Dichiarazione esatta, che però può condurre a un pericoloso nazionalismo. Ecco perché ci si è sentiti obbligati di andare oltre dichiarando che non abbiamo mai incontrato né francesi né italiani, ma soltanto Pierre, Candida, Ugo... Ciascuno unico. Ciascuno con un nome proprio.

Potrà anche suonare un pochino nominalista, ma sembra questo il bastione contro i totalitarismi di ogni tipo. Il totalitarismo è dunque il solo male da temere? I contraccolpi della storia molto spesso fanno sì che le nostre prevenzioni, mentre ci proteggono da un male passato ci precipitano verso il male futuro.

È forse venuto il tempo di pensare non soltanto al totalitarismo di ieri, ma alla sua inversione attuale: un certo singolarismo che ha contaminato le coscienze più illuminate. Queste ci ricordano che ciascuno è unico e però, attenendosi a questa sola constatazione, con le migliori intenzioni e senza rendersene conto, contribuiscono all'oblio del sesso, della lingua, della storia, della stessa natura…

La singolarità separata da un insieme di appartenenze, quando essa non è l'apice di una piramide che va dal genere, alla specie, a una specie sessuata, alla nascita, quando si pone nell'assoluto, finisce per corrispondere soltanto ad una identità numerica.

È “il volto”, ma è un volto senza lineamenti, ridotto a uno smiley, perché troppo grande è il timore di riconoscere un tipo etnico, un carattere morfologico, un'età della vita, la somiglianza con un padre o una prozia, eccetera. E dunque la sua unicità è quella di una cosa qualsiasi, distinguendosi soltanto per le sue coordinate spazio-temporali.

Perché ogni filo d'erba anche è unico, come peraltro ogni oggetto industriale che porta la sua marca e il numero di una serie. Secondo Tommaso d'Aquino l'unicità è trascendentale (Tommaso adopera il termine aliquid per designarla). Essa esprime ciò che sfugge alla generalizzazione, ma secondo la stessa modalità, astratta e comune, della parola “essere”. Ecco perché la pura esaltazione dell'unicità che non passa attraverso categorizzazioni preliminari finisce nell'indifferenziazione.

Sul piano antropologico corrisponde a ciò che è accaduto sul piano politico in Francia nel 1791, con la legge Le Chapelier che soppresse i corpi intermedi. Togliendo ogni riconoscimento legale alle famiglie, alle corporazioni, alle confraternite o alle associazioni contadine si inventava un gioco sociale dove restavano solo gli individui e lo Stato – ma quegli individui divisi, isolati per così dire dalla loro base, diventavano elementi facili da manipolare e massificare, secondo la limpida descrizione di Hannah Arendt.

Succede lo stesso quando si riconosce soltanto l'identità generica – l'Uomo – e l'identità numerica – il puro singolare. Mancano tutti gli intermediari che danno a questi termini la loro densità. Il mio amico Olivier Rey mi ha di recente suggerito che il culto della singolarità ha favorito lo sviluppo della statistica. Di fatto, quando non c'è più niente di comune, né natura, né genere, né principi a partire dai quali si possano fare deduzioni, non resta che censire e catalogare dati empirici. L'unicità si trasforma in semplice unità di calcolo.

L'incomparabilità dell'individuo e tale da renderlo uno qualsiasi e farlo rientrare, alla fine, in un algoritmo. Allora, certo, io sono unico, ma lo sono essendo quell'essere vivente, mortale, animale, umano, figlio di Bernard e Danielle Hadjadj, d'origine ebreo-tunisina ma nato a Nanterre (Hauts-de-Seine), di lingua francese, di confessione cattolica, cresciuto ascoltando Mozart e Marvin Gaye, eccetera. Solo l'unicità che prende su di sé tutto questo (e non l'unicità assoluta) può avere una consistenza, tanto è vero che l'originalità si dispiega veramente solo nell'ospitalità che diamo alle nostre origini.