Considerazioni sulla mobilità del suolo, di Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /09 /2016 - 08:01 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 4/9/2016 un articolo di Fabrice Hadjadj. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri articoli di Fabrice Hadjadj, cliccare sul tag fabrice_hadjadj.

Il Centro culturale Gli scritti (20/9/2016)

Il terremoto di Lisbona del 1755

Abbiamo visto, la settimana scorsa, gli atleti olimpionici lanciarsi, correre, saltare, gettare la palla, il disco o il giavellotto, e ammirato il balletto dei loro muscoli come se le loro prodezze avvenissero in sospensione. Di fatto, non abbiamo preso abbastanza in considerazione la condizione elementare di tutti i loro gesti, che è anche il fondamento degli stadi e dei podi: la solidità e la stabilità del suolo.

Ed ecco che tre giorni dopo la chiusura dei Giochi, il 24 agosto, questa condizione si è fatta ricordare in modo tragico. La terra, nascosta nella sua evidenza, offerta nella sua umiltà – non sarebbe possibile coricarsi più basso di essa – la terra si è messa a tremare. Ci siamo ricordati brutalmente che le nostre performance così come le cose di tutti i giorni, le nostre elevazioni non meno delle nostre bassezze, tutti i nostri passi e anche il nostro riposo, presuppongono il suo sostegno

Che questo appoggio ci manchi, ed è l'abisso, in senso proprio e in senso figurato. Il sismologo non può darcene la spiegazione senza perderne il senso. Parlerà di “faglia normale”, più precisamente di rotazione antioraria della microplacca adriatica che si scosta dalla placca tirrenica in ragione di 3 millimetri all'anno. Poi rievocherà le “norme antisismiche” che bisogna ormai rispettare in questa zona degli Appennini: seguendo scrupolosamente quelle norme, si costruiranno edifici tutti nuovi che sapranno resistere alle scosse future, e con questo si completerà la distruzione dei villaggi di ieri e dei loro vecchi campanili così avventurosamente tirati su in cima a uno sperone roccioso.

Quando parla così, il sismologo sta seduto sulla sua sedia o in piedi su un pavimento. La terra che non trema è la condizione del suo discorso sulla terra che trema. Che una buca si apra sotto ai suoi piedi, che le mura facciano un salto di un metro e poi crollino, e non resta più un granché della sua scienza, eccetto gli occhi fuori dalle orbite e una bocca smisuratamente spalancata su un grido vano.

La stabilità del suolo è così fondamentale da dare essa stessa il suo nome al fondamento. Anche quando si parla di Dio come di “roccia”, di “sostegno”, o di “cammino”, si manifesta ancora quanto questa esperienza della terraferma sia lo zoccolo duro della nostra fiducia originaria nello spazio e della nostra capacità di orientarci.

Galileo può pure esclamare: «Eppur si muove!» e nondimeno la sua esclamazione può essere intesa solamente nella misura in cui la terra non si muove. È ciò che aveva ben compreso Edmund Husserl, il padre della fenomenologia: se si considerano i concetti a partire dal loro suolo, e cioè prima della loro astrazione logica, nella loro genesi vivente, bisogna ammettere che la nostra nozione di movimento si è potuta liberare solo a partire dall'esperienza di un sistema di riferimento immobile, e che questo sistema di riferimento immobile, quello di nostri primi passi e delle nostre prime cadute, è la terra nel suo sostegno discreto, sempre già dato e vissuto.

Si può indovinare, allora, a quale profondità un sisma possa ferire la fiducia che abbiamo nel mondo. L'esperienza attraversata da quelli svegliati nel mezzo del loro sonno dalle prime scosse nella loro casa di Amatrice, alle 3 e 38 della mattina (ora alla quale si è fermato l'orologio del campanile della chiesa Sant'Agostino), non può essere descritto, ancora una volta, perché le nostre descrizioni sono quelle di uno spettatore in levitazione, smemorato del suolo che qui lo sostiene, e che laggiù, precisamente, faceva improvvisamente difetto.

Il terremoto di Lisbona del 1755, il giorno di Ognissanti, propagò le sue onde d'urto fin dentro alla filosofia illuminista. La catastrofe non era certo inedita: nell'ottobre del 1639 per esempio, un sisma aveva già colpito Amatrice, distruggendo in parte il palazzo Orsini così come la maggior parte delle abitazioni e delle chiese.

Ciò che c'era di nuovo, oltre all'ampiezza della catastrofe e alla sua data simbolica, era lo stato d'animo con cui era percepita. Da una parte l'uomo non era più ritenuto una semplice parte del cosmo: si proclamava la sua dignità e la sua autonomia, e, di conseguenza, non si poteva più dire, come gli stoici di una volta che la distruzione di questa parte era trascurabile perché operata a favore del tutto.

D'altra parte, ci si era messi a credere al progresso e più ancora all'autoredenzione dell'umanità, sia per gli sviluppi della tecnologia nascente che per il rigetto dell'ordine vecchio, civile o religioso – rigetto che avrebbe permesso di ritornare alla verità dalla Natura, sempre buona e generosa: se sono le cattive istituzioni dei nostri padri a essere la causa del male, come ammettere che un male così terribile potesse accadere da parte della Natura che era immaginata come un rifugio infallibile o una risorsa inesauribile?

Così Voltaire scrive la suo magnifica Poesia sul disastro di Lisbona: «Squallidi calcolatori delle miserie umane, anziché consolarmi, le mie pene rendete ancor più amare; e in voi non vedo che lo sforzo impotente di indomito ferito che vuol dirsi contento». Critica la teodicea. Ma non va fino a ricusare l'esistenza di Dio stessa: esige solamente che si lasci un posto al grido un grido irriducibile che non può essere soffocato dalla teologia.

Il Marchese de Sade si spinse oltre. Aveva quindici anni all'epoca del terremoto. Ma ne sentì certamente ancora parlare nel seguito poiché un parente di sua moglie era morto annegato nel maremoto che ne seguì e che portò via anche il nipote del grande tragediografo Racine. In ogni caso, de Sade, all'opposto di Rousseau, si mise a concepire la Natura non come una buona madre generosa, ma come un matrigna malvagia che non smette di generare viventi per torturarli e farli morire. Tutta la sua filosofia si riduce a questo stoicismo invertito: diventare noi stessi un terremoto, imitare questa Natura violenta e crudele, per rendersi impassibili alle sue crudeltà

Questa posizione estrema, sebbene sia molto discutibile, ha il vantaggio di mostrarci che un'ecologia lucida non può basarsi su di una semplice religione di nostra Madre Terra. Perché questa madre è piuttosto nostra sorella, ferita anche lei da qualche colpa originaria: ne trema talvolta, e si trasforma in megera assassina. Allo stesso tempo, l'orrore stesso del sisma ci svela fino a che punto questa terra è il nostro primo sostegno, e quanto grande sia il compito di prendercene cura.