Un pellegrinaggio in Turchia: note su san Paolo ed i suoi viaggi, sull’evangelista Giovanni e sui primi sette concili ecumenici, da Efeso alla Cappadocia, da Iconio ad Ankara, fino ad İstanbul/Costantinopoli,
di Andrea Lonardo

I testi che vengono qui presentati sono la collazione di appunti presi nel corso delle meditazioni tenute da mons. Andrea Lonardo nel corso del pellegrinaggio organizzato dalla parrocchia di San Marco evangelista in Roma dal 30 giugno al 9 luglio 2008. Alcuni testi di carattere più storico sono stati ritoccati, per fornire indicazioni più precise a futuri pellegrini e visitatori. Data l’origine e la natura di questi testi, non bisogna dimenticare che essi non possono che offrire una prospettiva parziale, dato che la descrizione dei singoli monumenti visitati e la narrazione della storia della Turchia ottomana e moderna erano affidate, come di consueto, alla guida turca che accompagnava il viaggio. Emergono invece i tratti della storia cristiana della Turchia, poiché questo aspetto era quello espressamente richiesto all’autore. Per alcuni luoghi non inseriti in questo pellegrinaggio – Honaz/Colosse, İzmir/Smirne, Alaşehir/Filadelfia, Sardi, Aphrodisias, Akhisar/Tiàtira, Bergama/Pergamo, İznik/Nicea, ulteriori luoghi di İstanbul/Costantinopoli - cfr. su questo stesso sito Turchia e Patmos: itinerario paolino, giovanneo, patristico e bizantino, sempre a cura di Andrea Lonardo. Il presente testo, ovviamente aggiorna e precisa il precedente.
Per immagini dei luoghi descritti in questo file, vedi, su questo stesso sito, la Gallery Pellegrinaggio in Turchia nell’anno paolino

Il Centro culturale Gli scritti 13/4/2009


Indice


Efeso/Selçuk

I tappa: subito dopo l’entrata nel sito[1]

Paolo arriva la seconda volta ad Efeso scendendo dall’altopiano (At 19), cioè entrando dalla porta di Magnesia, la porta superiore della città che è subito fuori l’ingresso odierno del sito, vicino al Ginnasio (nella sua prima venuta ad Efeso Paolo era invece giunto via nave al porto, provenendo da Atene, Corinto - dove aveva incontrato Gallione - e Cencre).
La porta di Magnesia era poco fuori l’attuale ingresso alto del sito, da dove tutti i gruppi abitualmente cominciano la visita. Si possono aiutare le persone ad immaginare l’arrivo di san Paolo per questa porta e la sua permanenza in Efeso, nella certezza che nei quasi tre anni di permanenza in città avrà più volte percorso tutte le sue vie principali.

In questa I tappa è stato commentato innanzitutto il passo degli Atti che tratta del battesimo di quegli efesini che erano seguaci di Giovanni Battista e non avevano ancora nemmeno sentito dire che esistesse lo Spirito Santo (At 19,1-7, con un’attualizzazione sullo Spirito e la vera gioia che manca al cuore dell’uomo e sul significato del termine ‘spirituale’ nella fede cristiana – “per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo”). San Paolo chiama nelle sue lettere lo Spirito Santo ‘lo Spirito del Signore Gesù’.
Si è passati poi ai versetti che narrano dell’insegnamento dell’apostolo presso la scuola di Tiranno. Infine si è fatto riferimento al brano che racconta dei 7 esorcisti giudei, figli del sacerdote Sceva, che vengono quasi uccisi dallo spirito cattivo perché lo affrontano pronunciando il nome di Cristo, ma senza credere in Lui (At 19,11-20, con un’attualizzazione sul maligno come colui che è “persona nella forma della non persona”).

II tappa: dinanzi al tempio di Domiziano, svoltando a sinistra, presso l’arco della fontana di Domiziano

Il Tempio di Domiziano, del quale è possibile ammirare le imponenti rovine, è probabilmente il tempio che è stato all’origine della stesura dell’Apocalisse (cfr. su questo l’articolo Il tempio e la statua che provocarono la composizione dell’Apocalisse, del prof.Giancarlo Biguzzi). In Ap 13,14 si parla, infatti, della seconda bestia che dice agli abitanti di erigere una statua alla prima bestia che, a sua volta, aveva ricevuto il potere dal drago. Il tempio di Domiziano è un tempio voluto dall’imperatore per la divinizzazione della dinastia Flavia. Il museo di Efeso custodisce i resti (la testa ed un braccio) di una colossale statua che era stata identificata come rappresentazione di Domiziano stesso, mentre ora si propende a considerarla come immagine del fratello Tito. L’autore dell’Apocalisse sarà esiliato a Patmos, che si trova non lontano da Efeso, proprio a motivo del suo insegnamento; l’isola appartiene oggi alla Grecia.

In questa II tappa sono state date alcune chiavi di lettura sul simbolismo dell’Apocalisse ed, in questo modo, sul significato dell’intero libro. La seconda bestia è simbolizzata dal numero 666: tale numero, per l’Apocalisse, è un numero fallimentare, perché 6 è la metà di 12, il numero della chiesa che viene salvata. Inoltre l’Apocalisse aggiunge che tale numero “rappresenta un nome d’uomo” (Ap 13,18). Chi porta quel numero, cioè, non ha la forza di Dio, ma morirà come tutti gli uomini ed il suo potere è temporaneo (cfr. su questo l’articolo Dare i numeri nell’Apocalisse, di Andrea Lonardo).
L’Apocalisse è, insomma, un libro cristiano; esso rivela che, dinanzi al non senso della storia, solo l’agnello “immolato e ritto in piedi”, cioè il Cristo che offre la vita per poi risorgere, è in grado di manifestare il significato della vita umana (Ap 5). Per comprendere la verità di questa domanda si è fatto riferimento al film di Ingmar Bergman Il Settimo sigillo (da leggere in parallelo con Il posto delle fragole, girato solo un anno dopo) nel quale il regista svedese pone in forma poetica la grande domanda: a cosa serve vivere? Protagonista del film è il cavaliere che, giocando a scacchi con la morte, si domanda come si debba vivere, quale azioni sia necessario portare a compimento perché la vita sia degna di tale nome. Nel protagonista de Il settimo sigillo, il regista offre un’immagine potente della domanda se all’uomo sia destinata una speranza o se l’intera esistenza si chiuda, in fondo, senza alcun significato.
Il termine “apocalisse” vuol dire “rivelazione”: l’ultimo libro della Bibbia annuncia così che la vittoria definitiva appartiene non al male, ma al Cristo ed alla Chiesa da Lui salvata. L’Apocalisse, se da un lato insegna che il male esiste e non è solo apparenza, ma ben più radicalmente è inimicizia verso Dio e verso l’uomo sua creatura, d’altro canto annuncia che il male non avrà l’ultima parola, poiché gli è stata strappata dall’amore del Cristo. L’uomo può e deve vincere la paura del male, perché appartiene a Cristo. Proprio il numero dei 144.000 (12 tribù d’Israele per 12 apostoli per 1000 generazioni, cioè per tutta la storia) rappresenta tutti i cristiani di ogni generazione, la Chiesa nella sua interezza, tutti coloro che sono radicati nell’antica e nella nuova alleanza: dal Cristo è nata e raggiungerà la sua pienezza la Gerusalemme celeste.

III tappa: dinanzi alla biblioteca di Celso.

La biblioteca è tomba e monumento che il figlio Giulio Aquila volle erigere alla memoria del padre, Giulio Celso Polimeno, che fu proconsole dell’Asia nell’anno 106/107 d.C. Le quattro statue raffigurano la Sophia, l’Areté, l’Ennoia e l’Episteme. Sulla destra la porta che da accesso all’Agorà eretta nell’anno 3 a.C. dai due liberti Mazzeo e Mitridate in onore dell’imperatore Augusto, di sua moglie Livia, di Agrippa e di Giulia. San Paolo vide la porta, ma non la biblioteca che è successiva. Nel pellegrinaggio si è scelto questo luogo per presentare la lettera agli Efesini, a motivo del suo valore di simbolo della bellezza della cultura classica.

In questa III tappa è stata così presentata la lettera agli Efesini, immaginando i cristiani di questa città che la leggevano in una delle liturgie celebrate nelle case dove si riunivano. In particolare, ci si è soffermati sul termine “mistero” che san Paolo utilizza nelle sue lettere e, specialmente, nella lettera agli Efesini. ‘Mistero’ non è da intendersi qui come sinonimo di ‘irrazionale’, ‘impossibile da comprendere perché fuori da ogni logica’. Proprio dinanzi ad una biblioteca antica, segno della ricerca di sapienza dell’uomo, è importante affermare invece che il cristianesimo non ha mai rifiutato la ricerca della ragione. È stato letto un testo di Benedetto XVI in proposito:
«L’uomo vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio... alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c). In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d’uscita da desideri non appagati; l’hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che è Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l’interrogarsi della ragione sul Dio più grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell’essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosità, ma faceva parte dell’essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera» (dalla Lectio che Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere per l'Inaugurazione dell'anno accademico dell'Università La Sapienza di Roma il 17 gennaio 2008).
In Paolo il termine ‘mistero’ è sempre accompagnato da verbi come ‘manifestare’, ‘rivelare’, ‘far conoscere’: «Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà» (Ef 1,9). Il ‘mistero’ è stato rivelato da Dio in Cristo. Paolo vuole spiegare che ciò che l’uomo con le sue sole forze non avrebbe mai potuto raggiungere e conoscere ora ha invece ricevuto per rivelazione in Cristo. Si afferma così, da un lato, l’inaccessibilità di Dio da parte delle sole forze umane, ma, dall’altro, la possibilità di raggiungere la conoscenza di Dio ed, ancor più, la comunione con Lui per l’opera di Cristo. La Dei Verbum sintetizza splendidamente tutto questo dicendo: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso ed il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito hanno acceso al Padre e sono resi partecipi della divina natura» (DV 2).
È stata utilizzata l’immagine del ‘mistero’ che caratterizza la stessa persona umana. Ognuno è un mistero perché l’altro non ha accesso diretto all’intimità dell’altro. Nessuno può dire di conoscere il segreto del nostro cuore, se noi non decidiamo di farci conoscere intimamente. Se invece, nella fiducia, decidiamo di raccontarci all’altro, solo allora l’altro può avere accesso al nostro mistero. La conoscenza di noi stessi e del nostro cuore può essere offerta all’altro solo per una nostra libera decisione interiore. Non si ha accesso al cuore dell’uomo dall’esterno, con la violenza, ma solo a partire da una rivelazione che si decide liberamente di offrire. A maggior ragione questo vale per Dio. Solo per il dono di Cristo, l’uomo ha potuto contemplare il volto di Dio (cfr. su questo l’articolo “So a chi ho creduto” (1 Tm 1, 12): che cosa significa ‘mistero’ nella fede cristiana? di Andrea Lonardo)

IV tappa: sulla Via di marmo, subito prima dell’ingresso nel teatro.

Il teatro è il luogo dove si sono radunati gli argentieri in rivolta, contro Paolo (At 19,23-20,1).
In questa IV tappa è stato ricordato che è ad Efeso che si è manifestato per la prima volta il desiderio di Paolo di vedere Roma (At 19,21-22). In At 23,11, mentre Paolo è custodito nella fortezza Antonia, è Gesù stesso che gli dice: «È necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma». È il Cristo risorto a parlare a Paolo di Roma: non è solo un pio desiderio dell’apostolo! Ma questo desiderio matura in Paolo proprio ad Efeso, prima di essere confermato dal Signore stesso.
In questa tappa si è approfondito con i pellegrini il tema della verità. L’apostolo è accusato da Demetrio, capo della rivolta degli argentieri che fabbricavano le statuette della dea Artemide degli efesini, con queste parole: «Paolo ha convinto e sviato una massa di gente, non solo di Efeso ma si può dire di tutta l’Asia, affermando che non sono dèi quelli fabbricati da mani d’uomo» (At 19,26). Si manifesta qui l’esigenza di verità che è caratteristica dell’uomo ed, in particolare, della fede cristiana. Per Paolo non è assolutamente vero che tutte le religioni sono uguali. Proprio la dignità dell’uomo e la grandezza della sua ricerca esige che si dica la verità su Dio. Paolo ha creduto in Cristo perché ne ha colto la verità; e, corrispettivamente, in Cristo l’apostolo ha compreso ancor più la falsità degli idoli. Dio non è, in verità, come lo rappresentavano i fedeli di Artemide. Solo in Gesù Cristo risplende al mondo il vero volto di Dio.
Si è fatto poi cenno al fatto che la I lettera ai Corinti, la lettera ai Galati e, probabilmente anche la lettera ai Filippesi, sono state scritte ad Efeso e spedite da questa città (l’altro possibile luogo di origine delle lettere dalla prigionia è Roma).
Infine si è ricordato che Paolo volle che Timoteo, il suo più fedele collaboratore, divenisse vescovo ad Efeso. Le due lettere pastorali a Timoteo ci mostrano una chiesa nella quale ci sono cristiani già da tre generazioni (la nonna Lòide, la madre Eunìce ed il figlio Timoteo; 2 Tim 1,5); si chiede a Timoteo di istruire discepoli capaci di insegnare a loro volta alle nuove generazioni (2 Tim 2,1-2). Timoteo è stato formato come cristiano fin da bambino («Fin dall’infanzia conosci le Sacre Scritture», 2 Tim 3,15). Già si coglie l’importanza della catechesi e dell’educazione cristiana dei bambini nelle famiglie cristiane, compito per nulla inferiore a quello dell’annunzio ai non credenti adulti (cfr su questo l’articolo Educare le nuove generazioni: uno sguardo sull’età apostolica offerto dalle lettere di Paolo a Timoteo, di Andrea Lonardo).

V tappa: nella basilica di Maria Madre di Dio detta anche basilica del Concilio di Efeso

In questa chiesa si radunarono i Padri a discutere la tesi di Nestorio che negava si potesse definire Maria Theotokos, cioè ‘madre di Dio’.

In questa V tappa ci si è soffermati a spiegare che è proprio della fede cristiana esigere una continua chiarificazione di ciò che si crede. Proprio perché la fede nasce come risposta alla rivelazione ed alla sua bellezza. Così l’esigenza di una chiarificazione del dogma è divenuto nei secoli uno straordinario stimolo per la ragione. I Concili sono stati momenti chiarificatori nei quali tutte le energie intellettuali, teologiche e spirituali sono state adoperate per comprendere e dire la verità su Dio, una verità che è esigenza di amore. Più volte gli imperatori antichi (così già Costantino) pensarono di bloccare le discussioni teologiche, vietando di pronunciarsi in pubblico sulle questioni della cristologia, ma si sbagliavano. La fede cristiana esigeva questo e pian piano gli stessi imperatori dovettero arrendersi a questa evidenza.
Il Concilio di Efeso nacque come necessità di prendere posizione sulle affermazioni di Nestorio, allora patriarca di Costantinopoli. Egli diceva che Dio non può avere una madre, perché Egli è il principio ed il padre di tutto. Invece la fede della chiesa usava da tempo l’invocazione ‘theotokos’, Madre di Dio, riferita a Maria, poiché lei sola era la madre di Cristo. Ci si è soffermati a sottolineare l’apparente plausibilità di cui dovettero godere allora le tesi nestoriane: per persone provenienti dal paganesimo e che non avevano ancora fede nell’incarnazione, infatti, è veramente un assurdo affermare che esista una ‘madre di Dio’, poiché Egli è l’unico e l’ingenerato. Tutto cambia, però, con la venuta di Cristo, il Dio fattosi uomo, poiché una donna lo ha realmente partorito in terra.
Il concilio di Efeso, nel 431, confermò che l’uso del termine ‘Theotokos’ era profondamente conforme al vangelo, perché in Gesù l’umanità e la divinità erano pienamente unite. Maria, generando Gesù in terra, lo aveva generato nella carne come uomo e come Dio. Questo non voleva dire, chiaramente, che Maria era all’origine della divinità del Figlio nell’eternità, perché questa discendeva solamente dal Padre. Cirillo di Alessandria fu il grande protagonista del Concilio di Efeso.
Un anno dopo, nel 432, iniziò la costruzione in Roma di Santa Maria Maggiore, la basilica edificata per celebrare nell’urbe il Concilio di Efeso.
Nella basilica efesina si tenne, nel 449, una seconda assise di vescovi che è passata alla storia come il ‘latrocinio di Efeso’. Per immaginare ciò che successe in questa circostanza, basti ricordare solo che Ilaro, il legato del papa, dovette scappare per non essere ucciso, poiché rifiutava la dottrina monofisita che si voleva sostenere, rifugiandosi nella basilica di San Giovanni evangelista. Divenuto papa, fece erigere una cappella nel battistero lateranense dedicata appunto al suo protettore, l’evangelista, a cui si era rivolto come intercessore per salvarsi da morte.
Infine, il concilio di Calcedonia, nel 451, rifiutò come contrario alla fede cattolica ciò che era stato affermato due anni prima, dando ragione ad Ilaro.
A Paolo VI fu concesso di celebrare la messa, durante il suo pellegrinaggio in Turchia, proprio qui, nella basilica del Concilio di Efeso. La targa che ricordava l’evento, nell’abside, è stata misteriosamente asportata e ne resta solo il sostegno in ferro.

VI tappa, in autobus

In autobus è stato letto un brano dell’Omelia tenuta durante il concilio di Efeso da san Cirillo d’Alessandria, vescovo. L’approvazione dei suoi scritti, che contenevano il termine Theotokos, fu momento determinante del Concilio di Efeso del 431.

Dall'omelia pronunciata da Cirillo di Alessandria:
Vedo qui la lieta e alacre assemblea dei santi che, invitato dalla beata e sempre Vergine Madre di Dio, sono accorsi con prontezza. Perciò, quantunque oppresso da grave tristezza, tuttavia il vedere qui questi santi padri mi ha recato grande letizia. Ora si è adempiuta presso di noi quella dolce parola del salmista Davide: Ecco quanto è bello e giocondo che i fratelli vivano insieme (Sal 132,1).
Ti salutiamo, perciò, o santa mistica Trinità, che ci hai riuniti tutti in questa chiesa della santa Madre di Dio, Maria.
Ti salutiamo, o Maria, Madre di Dio, venerabile tesoro di tutta la terra, lampada inestinguibile, corona della verginità, scettro della retta dottrina, tempio indistruttibile, abitacolo di colui che non può essere circoscritto da nessun luogo, madre vergine insieme per la quale nei santi vangeli è chiamato ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’ (Mt 21,9).
Salve, o tu che hai accolto nel tuo grembo verginale colui che è immenso e infinito. Per te la santa Trinità è glorificata e adorata. Per te gli angeli e gli arcangeli si allietano. Per te i demoni sono messi in fuga. Per te il diavolo tentatore è precipitato dal cielo. Per te la creatura decaduta è innalzata al cielo. Per te tutto il genere umano, schiavo dell’idolatria, è giunto alla conoscenza della verità. Per te i credenti arrivano alla grazia del santo battesimo. Per te viene l’olio della letizia. Per te sono state fondate le chiese in tutto l’universo.
Per te le genti sono condotte alla penitenza.
E che dire di più? Per te l’unigenito Figlio di Dio risplendette quale luce a coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra della morte (Lc 1,79).
Per te i profeti hanno vaticinato. Per te gli apostoli hanno predicato al mondo la salvezza. Per te i morti sono risuscitati. Per te i re regnano nel nome della santa Trinità.
E qual uomo potrebbe celebrare in modo adeguato Maria, degna di ogni lode? Ella è madre e vergine. O meraviglia! Questo miracolo mi porta allo stupore. Chi ha mai sentito che al costruttore sia stato proibito di abitare nel tempio, che egli stesso ha edificato? Chi può essere biasimato per il fatto che chiama la propria serva ad essergli madre?
Ecco dunque che ogni cosa è nella gioia. Possa toccare a noi di venerare e adorare la divina Unità, di temere e servire l’indivisa Trinità celebrando con lodi la sempre Vergine Maria, che è il santo tempio di Dio e il suo Figlio e sposo senza macchia, poiché a lui va la gloria nei secoli dei secoli. Amen.
(Omelie, 4; PG 77, 991. 995-996).

Si noti che l’appellativo dato da Cirillo a Maria ‘abitacolo di colui che non può essere circoscritto da nessun luogo’ è lo stesso che si troverà nella chiesa di san Salvatore in Chora, dove Maria è detta Chora tou achoretou (da cui il nome della chiesa).

VII tappa: nella casa di “Maria madre”, Meryem Ana Evi

Per informazioni sulla casa di Maria, Meryem Ana Evi vedi il breve articolo di p. Ignace de la Potterie, Maria è stata ad Efeso?

Durante la messa sono stati commentato i testi di Gv 2, 1-12 e Gv 19, 25-27.

VIII tappa, al pomeriggio, nella basilica di San Giovanni

Il gruppo è stato innanzitutto invitato ad immaginare Giovanni ed i suoi discepoli nelle vie di Efeso. Non c’è altra rivendicazione da parte di alcuna chiesa antica della duratura presenza giovannea se non ad Efeso e tutti gli studiosi la accettano senza problemi.

Per aiutare a meditare sulla figura dell’evangelista Giovanni, si è fatto un rapido cenno alla questione degli scritti giovannei, che mostrano delle differenze di linguaggio, ma, al contempo, una grande unità (si è fatto riferimento, in particolare a Gv 21,24: «Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera», dove è evidente che c’è un “noi”, una “scuola” di discepoli di Giovanni ).
Ci si è soffermati a mostrare come questo non costituisce un problema, dato che ciò che la chiesa afferma con sicurezza è l’ “origine apostolica” (DV 18) del Nuovo Testamento, ed in particolare, dei vangeli, senza pronunciarsi sulla paternità di ogni singolo scritto o versetto. Con il termine “origine apostolica” la Dei Verbum ha voluto affermare che, poiché gli scritti neotestamentari erano proclamati pubblicamente nelle liturgie della chiesa primitiva, non vi è alcun dubbio che se avessero contenuto affermazioni in contrasto con la predicazione che i cristiani avevano ascoltato dalla viva voce degli apostoli e dei loro primi successori sarebbero stati rifiutati. Le prime generazioni cristiane riconoscevano, invece, che ciò che era scritto in quei testi era pienamente conforme alla parola di coloro che avevano vissuto con Gesù.

In particolare, è stato citato un passaggio di un articolo di Albert Vanhoye che dice: «[Nella lettera ai Galati] la fede si fonda sull’affidabilità “del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me”. [...] La chiave del mistero viene data da un’altra novità ancora: l’iniziativa travolgente di Cristo è stata una manifestazione di amore. I vangeli sinottici non esplicitano mai questo aspetto. Paolo lo esplicita. Il quarto vangelo vi insiste molto».

Giovanni, esplicitando in maniera chiarissima il tema dell’amore, non cambia i connotati della vita reale di Gesù, ma legge ancora più in profondità questo aspetto che è ovviamente presente anche negli altri vangeli. Forse è proprio per questo che era il “discepolo che Gesù amava”, perché il Signore si rendeva conto di quanto proprio quel discepolo lo capisse in profondità. Anche a noi capita di capire talvolta in profondità alcune persone, i loro desideri, le loro intenzioni profonde, mentre altri si fermano più in superficie.

Si è fatto riferimento alla radicale incomprensione del romanzetto Il Codice da Vinci di Dan Brown, nel quale viene presentato un Gesù che non muore in croce, che non muore per amore, non offre nell’ultima cena la vita prima di donarla poi sul Calvario, ma è, invece, concentrato su tematiche pseudo-matrimoniali!

Nei testi evangelici, invece, sia Giovanni che la Maddalena comprendono di essere in presenza dell’amore di Dio che si manifesta per la prima volta nella storia del mondo come “amore non amato”, come amore che dinanzi al peccato ed al rifiuto dell’uomo amerà ancora di più, caricandosi del male del mondo.

Il recente libro di J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, indica come, pur nella differenza delle sottolineature, tutti gli scritti neotestamentari concordino sull’essenziale nel presentare la figura di Gesù. La figliolanza divina del Cristo è affermata, ad esempio, con chiarezza da Giovanni che coglie come l’amore che si manifesta in Gesù è realmente l’amore del Padre che lo ha inviato, ma lo stesso si può dire dell’inno dei Filippesi nel quale Gesù è della stessa “condizione” di Dio e si spoglia della sua gloria per amore. Similmente l’inno di giubilo dei sinottici, che proviene addirittura dalla cosiddetta fonte Q, testimonia che nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare.

Sulla radicale incomprensione di Gesù (e di Leonardo da Vinci!) di Dan Brown, vedi l’articolo Dal Codice da Vinci di Dan Brown ad una più rispettosa lettura iconografica del Cenacolo di Leonardo di Andrea Lonardo

Sul Gesù storico nel volume di J.Ratzinger-Benedetto XVI, vedi Gesù è il Signore di Andrea Lonardo

IX tappa, in autobus: sulla persecuzione e la resurrezione

Un ulteriore brano paolino che può essere consegnato, per la lettura personale, di ritorno da Efeso, è una riflessione sul versetto di 1 Cor 15,32: «Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo». Paolo fa riferimento al pericolo che dovette correre a motivo della rivolta degli argentieri che fabbricavano le statuette di Artemide efesina. Ecco il testo, tratto dallo splendido volume di Franco Manzi, Paolo apostolo del risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pp. 137-141:

Soltanto quando si ama a tal punto la vita e la terra
da pensare che con la loro fine tutto è perduto
si può credere alla risurrezione dei morti
e a un mondo nuovo.
Dietrich Bonhoeffer

Ma «se non esistesse risurrezione dai morti?» (1 Cor 15,13): anche Paolo si è lasciato provocare da questo dubbio sorto tra i cristiani di Corinto. E ripensando, alla luce di questa ipotesi alla sua instancabile attività apostolica, si è chiesto nella Prima Lettera ai Corinzi (15,30-32): «Perché noi [apostoli] ci esponiamo di continuo al pericolo? Io, ogni giorno, affronto la morte [...]! Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Efeso contro le belve, a che mi gioverebbe?» Poi, però, con uno sguardo lucido e disincantato, l’apostolo tira le fila di questo ragionamento ipotetico – per lui comunque inaccettabile -, scrivendo: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!» (15,30b). Senza dubbio fa bene alla nostra fede non dare per scontata la risposta all’interrogativo sulla morte, perché esso è paradossalmente l’interrogativo della vita: «Se non esistesse risurrezione dai morti, che ne sarebbe di me, alla fine? Che ne sarebbe delle persone a me più care? Che senso avrebbero i sacrifici che faccio, il bene che voglio, le energie che spendo per raggiungere nella vita determinate mete? Ma che senso avrebbe la vita in quanto tale?». Verosimilmente, se non ci fosse risurrezione dai morti, l’esistenza terrena potrebbe continuare ad avere anche tanti significati: ciascuno potrebbe comunque individuare i propri scopi da perseguire e i propri valori su cui scommettere per vivere felice. Sarebbero però significati sempre e soltanto parziali e provvisori, in quanto esclusivamente “terreni”. Ma non è che significati sempre e soltanto parziali e provvisori finiscano, prima o poi, per causare nell’uomo la «nausea» di «essere di troppo» sulla faccia della terra, come confessava il filosofo esistenzialista ateo Jean-Paul Sartre (1905-1980)? Non è che il desiderio di felicità infinita sperimentato da ogni essere umano a lungo andare si ammali, se viene sempre e soltanto sottoalimentato da gioie limitate e passeggere? La “malattia mortale” del desiderio non è dovuta al fatto che queste gioie siano già ingrigite a priori dalla prospettiva inesorabile della loro fine nel baratro del nulla? È vero: tante persone preferiscono scantonare abilmente dal pensiero della morte e i modi per farlo sono molti. Denunciando la «chiacchiera» come una delle maniere più consuete di rapportarsi in maniera inautentica alla morte dell’«Esserci», cioè dell’uomo, il filosofo esistenzialista Martin Heidegger (1889-1976), in Essere e tempo (Sein und Zeit, 1927), scrive: «La morte è concepita come qualcosa di indeterminato che, certamente, un giorno o l’altro, finirà per accadere, ma che, per intanto, non è ancora presente e quindi non ci minaccia. Il “si muore” diffonde la convinzione che la morte riguarda il Si anonimo. L’interpretazione pubblica dell’Esserci [=l’uomo] dice: “Si muore”; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma del Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. Il “morire” è in tal modo livellato a un evento che certamente riguarda l’Esserci, ma non concerne nessuno in proprio. Mai come in questo discorso intorno alla morte si fa chiaro che alla chiacchiera si accompagna sempre l’equivoco. Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si» (§ 51). D’altra parte, c’è chi cerca di razionalizzare la morte: visto che nessuno può sfuggirle, tanto vale rassegnarvisi! Per farlo, ci si accontenta persino del giochetto logico del filosofo greco Epicuro (341-271 a.C.): «Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Essa non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono più» (Epistola a Meneceo, 124-127,1). Ragionamenti del genere non sono banali escamotage che lasciano il tempo che trovano? Alla fine rimane il dramma del non credente che percepisce come tutto ciò che di bello, di buono e di vero si dischiude nella manciata di anni inquieti di una vita sia destinato a scivolare inesorabilmente nel nulla.
Dunque, al di là di ragionamenti leziosi e vacui sull'inesistenza della morte genericamente intesa, resta il dato nudo e crudo del mio morire, ossia del mio giungere, prima o poi, alla fine della vita: «Gli anni della nostra vita - riconosce con realismo il salmista - sono settanta, ottanta per i più robusti, ma quasi tutti sono fatica, dolore; passano presto e noi ci dileguiamo» (Sal 90,10). La previsione del mio morire ripropone l'interrogativo inquietante: se davvero, dopo alcuni decenni di vita - faticosi o gioiosi che siano -, ci si dileguasse nell'oceano del nulla, che senso avrebbe vivere? Che senso avrebbe agitarsi senza requie per il presente, per il futuro, per le persone amate o generate? «Finito io, finito tutto!». In realtà, non è vero - con buona pace di Epicuro e dei suoi seguaci - che «la morte non c'è». L'esperienza quotidiana ci sbatte in faccia il dato inoppugnabile che le persone muoiono: talvolta, ce lo fa percepire in maniera brutale; più spesso, in modo discreto e quasi inavvertibile; sempre, sotto la forma del morire altrui. Ma il morire di altri è già un'amara pregustazione del nostro finire nella morte, che ci attende al varco. Il morire c’è e fa male... E fa male a tutti! Fa male anzitutto a chi sta morendo. Per rendersene conto, basta iniziare a considerare il fatto che nelle società post-moderne la morte è diventata tabù. Un velo di silenzioso riserbo è fatto calare di frequente sul malato terminale e sul morente, che i parenti più stretti, sia pure senza un’esplicita intenzione di abbandono, finiscono non di rado per affidare e confinare in strutture ospedaliere o in case di cura...
Il morire altrui fa male anche a chi continua a vivere, perché va a colpire i suoi legami d’affetto con il morente, che precedentemente alimentavano il desiderio di felicità di entrambi. Questi legami sono progressivamente ma inesorabilmente sfilacciati, in maniera più o meno lenta e dolorosa, dall’insieme di situazioni connesse al deperimento psico-fisico che conduce la persona amata alla morte, finché vengono strappati del tutto nell’istante del decesso...
Già i credenti dell’Antico Testamento, per lo meno fino al II secolo a.C., non essendo ancora illuminati dalla speranza nella risurrezione dai morti, erano consapevoli di essere «come l’erba dei tetti», che, «prima che sia strappata, dissecca» (Sal 129,6). Perciò chiedevano a Dio stesso d’insegnare loro a contare i giorni della vita, così da giungere alla sapienza del cuore (Sal 90,12).

Da parte sua Paolo, già da fariseo, coltivava, con la maggior parte dei Giudei dei suoi tempi, un'intensa speranza nella risurrezione universale dai morti (At 23,6). Questa speranza si era rafforzata e precisata in lui alla "luce" di Cristo risorto, che gli si era rivelato sulla strada di Damasco. Ben differente era la situazione dei cristiani di Corinto, provenienti da una tradizione culturale e religiosa incline piuttosto a rifiutare la risurrezione dai morti. Per aiutarli a maturare nella fede cristiana, l'apostolo accetta, nella Prima Lettera al Corinzi, di ragionare a partire dalle loro convinzioni erronee. Considerando, soltanto per ipotesi, il dramma di un'esistenza destinata inesorabilmente alla morte, senza la speranza di risorgere con Cristo, Paolo non esita a far prendere loro coscienza di un dato di fatto inoppugnabile: «Se Cristo non fosse risorto», tutto sarebbe vano: la sua predicazione, la loro fede; «e – aggiunge - anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini!» (1 Cor 15,14.17.18-19). Finito tutto! Anzi, oltre il danno, la beffa!

Priene: la stoà sacra

Nella nona camera della Stoà sacra di Priene, probabilmente un Tempio dedicato ad Augusto, è stata rinvenuta dagli archeologi la famosa iscrizione che testimonia della decisione di far iniziare l’anno nel giorno del compleanno dell’imperatore, poiché la nascita di Augusto fa scomparire “il pentimento di essere nati”!

Durante la visita l’iscrizione è stata letta e commentata facendo riferimento alla presenza in essa per due volte del termine ‘vangelo’ riferito alle decisioni, cariche di effetto, dell’imperatore. Ecco il testo, nella traduzione del prof. Romano Penna:

(dall’Iscrizione di Priene, OGIS 458)
…[Inizio mutilo] se il giorno natale (genéthlios) del divinissimo Cesare (toû theiotàtou Kaìsaros [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pántōn archē)… (10) Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (archēn toû bíou kaì tês zōês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati. E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (eutychoûs) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis tēn archēn eisódou), (15)… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» (riga 44) a nome della città] che tutte le comunità (politeíōn) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (sōtêra charisaménē) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia pántōn), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio (hē genéthlios hēméra toû theoû) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (hêrxen dè tô-i kósmō-i tôn di’autòn euaggelíōn)…

Il volume Gesù di Nazaret di J. Ratzinger - Benedetto XVI (pp. 69-70) così commenta, senza citare direttamente l’iscrizione, questo utilizzo del termine ‘vangelo’ nel linguaggio imperiale romano e le conseguenze che ne derivano nella comprensione del suo utilizzo da parte di Gesù e degli evangelisti:

Di recente la parola «vangelo» è stata tradotta con l’espressione «buona novella». Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola «vangelo». Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano «vangeli», indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene.
Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del «Vangelo di Dio»: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente.

Mileto/Balat

A Mileto è stato letto innanzitutto il brano che racconta del saluto di Paolo agli anziani di Efeso:

(At 20,17-38) Da Milèto Paolo mandò a chiamare subito ad Efeso gli anziani della Chiesa. Quando essi giunsero disse loro: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime e tra le prove che mi hanno procurato le insidie dei Giudei. Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di convertirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù. Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà. So soltanto che lo Spirito Santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni. Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio.
Ecco, ora so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunziando il regno di Dio. Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdessero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi.
Ed ora vi affido al Signore e alla parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere l'eredità con tutti i santificati. Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: Vi è più gioia nel dare che nel ricevere!».
Detto questo, si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in un gran pianto e gettandosi al collo di Paolo lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave.

Il brano di Atti 20 è inserito fra le cosiddette “sezioni-noi” degli Atti, cioè quelle nelle quali l’autore degli Atti, cioè Luca, è fisicamente al fianco di Paolo.
È stato sottolineato come la consapevolezza di essere giunti all’ultimo incontro derivava dalla coscienza del martirio di Paolo che si avvicinava. La prospettiva del martirio di Paolo non giungeva come un fulmine a ciel sereno, ma era stato preparata da moltissime prove e fatiche:

(2Cor 11,24-33) Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani.

Ma tutte queste circostanze non sono mai state motivo di scoraggiamento per l’apostolo, anzi in ogni circostanza le prove gli hanno permesso di vivere una piena obbedienza a Dio, con i frutti e la fecondità che ne conseguivano:

(2Cor 6,4-10) In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!

Si è fatto riferimento al fatto che la famosa “spina nella carne”, dalla quale Paolo prega di essere liberato, non è probabilmente né una malattia dalla quale voleva essere guarito, né un peccato che non riusciva a superare, ma proprio la continua opposizione che incontrava la sua predicazione (cfr. su questo il testo del prof. Ugo Vanni Perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne).
La meditazione ha allora invitato ognuno a non esagerare i propri problemi e le avversità che incontra, ma a saper convivere serenamente con essi, poiché è il Signore che chiama ad offrire la vita per gli altri. Quella della prova è la condizione abituale e non l’eccezione nella vita cristiana:

(1Pt 5, 9) Resistetegli [al diavolo] saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi.

Paolo, dinanzi agli anziani di Mileto, insiste ancora sulle parole di Gesù: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere!». La persecuzione diventa così occasione provvidenziale per un nuovo annuncio, per giungere fino a Roma.
Uscendo dal teatro ci si è diretti verso il Monumento commemorativo della vittoria di Ottaviano ad Azio, che era presso uno dei porti di Mileto ora immerso nel verde della campagna, per immaginare gli efesini che accompagnano Paolo all’imbarco.

Gerapoli (Hierapolis)/Pamukkale

A Gerapoli, durante la visita agli scavi, è stato approfondito il tema della Tradizione. Infatti, non solo a Gerapoli si ha testimonianza del passaggio degli apostoli - Paolo attraversò la Frigia in direzione della Galazia nel II viaggio apostolico (cfr. At 16,6) e nel III viaggio, provenendo questa volta dalla Galazia (cfr. At 18,23), mentre il colossese Èpafra, discepolo e collaboratore di Paolo, si prodigò molto per Gerapoli (cfr. Col 4,13) e Giovanni o almeno suoi discepoli debbono aver abitato e insegnato nella città - ma anche del ministero dei loro successori.

Si è preso spunto, per presentare la tradizione che continua la trasmissione del vangelo iniziata dagli apostoli, innanzitutto dal martirion di S.Filippo (la basilica ottagonale del V secolo che potrebbe essere stata originariamente dedicata sia all’apostolo Filippo o, poiché in Eusebio si parla delle sue figlie, al diacono Filippo ricordato in At 6,5; 8,5-40; 21,8-14). Poi ci si è soffermati sulla figura di Papia di Gerapoli che fu vescovo di questa città (una sua opera, la Spiegazione dei detti del Signore, della quale sono superstiti alcuni frammenti dovrebbe essere stata composta verso il 130/140 d.C.). Papia è contemporaneo del vescovo Policarpo di Smirne.

Figure come quella di Papia permettono di toccare con mano la trasmissione del vangelo di generazione in generazione. Filippo è, comunque, della prima generazione cristiana, Papia –potremmo dire - della terza. Papia afferma, infatti, di aver conosciuto i discepoli di quelli che hanno conosciuto il Signore ed, in particolare di aver ascoltato i discepoli di Giovanni (la critica discute se si tratti qui dell’evangelista o di Giovanni ‘il presbitero’).

Eusebio di Cesarea racconta, infatti, in un frammento (Historia Ecclesiastica, III, 39, 1-16):

«Lo stesso Papia, nel proemio dei suoi discorsi, rivela di non esser stato affatto uditore e spettatore dei santi Apostoli; ma insegna d’avere appreso le cose che riguardano la fede dai loro familiari. Ecco come egli si esprime:
"Non esiterò ad aggiungere alle [mie] spiegazioni ciò che un giorno appresi bene dai presbiteri e che ricordo bene, per confermare la verità di queste [mie spiegazioni]. Poiché io non mi dilettavo, come fanno i più, di coloro che dicono molte cose, ma di coloro che insegnano cose vere; non di quelli che riferiscono precetti di altri, ma di quelli che insegnano i precetti dati dal Signore alla [nostra] fede e sgorgati dalla stessa verità.
Che se in qualche luogo m’imbattevo in qualcuno che avesse convissuto con i presbiteri, io cercavo di conoscere i discorsi dei presbiteri: che cosa disse Andrea o che cosa Pietro o che cosa Filippo o che cosa Tommaso o Giacomo o che cosa Giovanni o Matteo o alcun altro dei discepoli del Signore; e ciò che dicono Aristione ed il presbitero Giovanni , discepoli del Signore.
Poiché io ero persuaso che ciò che potevo ricavare dai libri non mi avrebbe giovato tanto, quanto quello che udivo dalla viva voce ancora superstite"».

È stato sottolineato come Gesù sia all’origine della tradizione viva degli apostoli, prima ancora che del Nuovo Testamento. Egli parla nella viva voce della chiesa (si pensi, in maniera paradigmatica, alla parola pronunciata nei sacramenti: «Questo è il mio corpo che è dato per voi», «Io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» - che è parola pronunciata “in persona Christi”, cioè è realmente parola vivente dello stesso Cristo risorto che la pronuncia oggi attraverso il sacerdote).

La Sacra Scrittura è appunto la messa per iscritto della viva tradizione ed il testo scritto viene dopo la vita vivente della chiesa. Anche il canone delle Scritture è opera della Tradizione della chiesa che riconosce se stessa proprio in quelle Scritture.

Gesù ha voluto essere incontrato nella viva voce della chiesa che trasmette di generazione in generazione “tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede” (Dei Verbum, 8). Per questo le parole del Cristo non sono state: «Scrivete il Nuovo Testamento», ma piuttosto: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo, battezzando e insegnando ad osservare tutto ciò che vi ho comandato».

Durante l’episcopato di Claudio Apollinare, che fu vescovo durante l’impero di Marco Aurelio (161-180), si raccolse a Gerapoli un sinodo che scomunicò ed espulse dalla chiesa Montano ed i suoi discepoli Massimilla e Teodoto; per notizie sul montanismo vedi la spiegazione tenuta a Laodicea, nella tappa successiva del viaggio).

A Gerapoli è stata anche ritrovata l’iscrizione di Abercio, che è della fine del II secolo o degli inizi del III, voluta dallo stesso Abercio, vescovo di Gerapoli. Su di lui esisteva una leggenda del IV secolo, riportata da codici medievali ma ritenuta in passato falsa, come l’iscrizione greca in versi ivi contenuta. Nel 1883 l’archeologo scozzese William Ramsay rinvenne, incastrati nelle mura delle terme dell’antica Gerapoli, due frammenti originali di tale epitaffio, perfettamente corrispondenti al testo fino allora conosciuto. L’iscrizione di Abercio, i cui frammenti vennero poi donati al papa Leone XIII, è oggi la più antica iscrizione cristiana sicuramente databile. Vi si notano i molti riferimenti ad immagini bibliche (Gesù è il “casto pastore”), all’eucarestia, come pure l’esplicito richiamo alle Scritture “degne di fede” ed alla figura di Paolo, “compagno di viaggio” (sia per le lettere che evidentemente Abercio leggeva nei suoi viaggi, sia perché lo aveva preceduto nelle città nelle quali passava).

Ecco la traduzione dell’iscrizione di Abercio, ora custodita nei Musei vaticani (tra parentesi quadre i versi integrati):
[Cittadino di eletta città, mi sono fatto questo monumento da vivo, per avere qui nobile sepoltura del mio corpo: io di nome Abercio, discepolo del casto Pastore che pascola greggi di pecore per monti e pianure, che ha grandi occhi, che dall’alto guardano dovunque. Egli infatti mi istruì in Scritture degne di fede e] mi inviò a Roma a contemplare il regno e vedere la regina in aurea veste ed aurei calzari. Vidi là un popolo che porta uno splendido sigillo. Visitai anche la pianura e tutte le città della Siria e, passato l’Eufrate, Nisibi. E ovunque trovai compagni, avendo Paolo compagno di viaggio. Dappertutto mi guidava la fede e m’imbandì per cibo dovunque un pesce di fonte immenso, puro, che la casta vergine prende e porge a mangiare agli amici ogni giorno, [avendo un vino eccellente, che ci mesceva insieme col pane. Queste cose ho fatto scrivere qui io Abercio in mia presenza, mentre avevo in verità settantadue anni. Chiunque comprende queste cose e sente come me, preghi per Abercio. Nessuno poi metta altro nel mio sepolcro: se no, pagherà all’erario dei Romani duemila aurei e all’ottima patria Gerapoli mille].

Laodicea/Ladik

A Laodicea, prima di leggere la lettera dell’Apocalisse rivolta a questa chiesa, sono state fornite alcune indicazioni sull’ultimo libro della Bibbia, completando il discorso già iniziato ad Efeso. Proprio nell’Apocalisse troviamo l’imperativo di scrivere, comando che è successivo cronologicamente a quello dell’invio in missione degli apostoli: «Scrivi le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo» dice il Signore a Giovanni (Ap 1,19).

Si è riflettuto su come la visione della storia manifestata dall’Apocalisse, nella quale Dio ed il suo Cristo guidano le vicende umane, si contrapponga ad una visione puramente materialista, nella quale niente avrebbe senso, poiché nessuno disegno guiderebbe il tempo. Se non ci fosse alcun Dio si dovrebbe ammettere che solo casualmente la materia avrebbe generato sia la libertà, sia l’amore, sia la ragione, realtà che sarebbero così destinate a scomparire una volta che l’entropia abbia fatto il suo corso. L’uomo sarebbe destinato a scomparire, se non ci fosse la presenza di Dio prima ed al di sopra della materia.

Ma, d’altro canto, la visione dell’Apocalisse si contrappone anche ad un puro spiritualismo, poiché presenta la forza devastante del male, alla quale si contrappone con forza il Dio fatto carne che opera efficacemente nella storia e conduce la chiesa alla salvezza. Si è tornati sul capitolo quinto dell’Apocalisse, già commentato ad Efeso, al tempio di Domiziano, per parlare del pianto dinanzi alla storia ed alla vita che sembrano incomprensibili, finché l’Agnello non si asside sul trono divino e viene proclamato che egli è l’unico capace di aprire il libro della storia, il volume sigillato dai 7 sigilli (è cioè l’unico capace di mostrarne il senso).

Si è sottolineato come, nei ritmi settenari dell’Apocalisse, non conti il settimo elemento, ma, piuttosto, è importante che gli elementi siano sette. Il libro della storia è sigillato con sette sigilli: questo vuol dire che è sigillato in maniera totale, assoluta, completa.

Dopo il capitolo quinto, si susseguono gli interventi di Dio al ritmo dei 7 sigilli, delle 7 trombe, dei 7 flagelli, delle 7 coppe: questo vuol dire che l’azione di Dio è totalmente efficace. Si chiede a Giovanni di scrivere lettere alle 7 chiese: questo vuol dire che quelle lettere sono scritte non solo a 7 chiese particolari, ma alla totalità della chiesa.

Cristo appare in mezzo ai 7 candelabri, che rappresentano le 7 chiese: l’Apocalisse vuole così dire che Cristo è realmente presente sempre in mezzo alla sua chiesa ed è ormai inseparabile da lei.

L’Apocalisse si radica nell’Antico Testamento, mostrando l’unità della Bibbia e della storia della salvezza (si pensi al fatto che molti studiosi affermano che ci sono almeno 300 citazioni o allusioni veterotestamentarie nell’Ap, ma altri arrivano a vederne addirittura 700) ed insieme apre questa storia al suo compimento, quando la Gerusalemme celeste scenderà dal cielo, dopo il giudizio e la distruzione di Babilonia: in essa ci sarà nuovamente l’albero della vita (che era presente in Gen 2 e 3) e non ci sarà alcun tempio, perché l’Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio (Ap 21,22), perché la comunione con Dio sarà piena.

È stata poi letta la lettera alla chiesa di Laodicea, con i suoi famosi passaggi sulla tiepidezza (Ap 3,14-22). Nel commentarla si è fatto riferimento anche al rischio opposto del rigorismo che fu proposto proprio qui in Frigia da Montano e dai suoi seguaci (a Gerapoli Montano fu scomunicato). Il montanismo si presentò inizialmente come uno scisma senza eresia, ma pian piano rivelò il suo vero volto. Montano disprezzava il matrimonio, invitando tutti al celibato ed alla verginità. Inoltre rifiutava la penitenza: chi aveva peccato non poteva più essere assolto e veniva considerato non più degno della chiesa. Dal rigorismo si passava ad una concezione elitaria della chiesa, nella quale potevano permanere solo i puri.

Sappiamo dall’Adversu Praxean di Tertulliano che Prassea era accusato anche di negare lo Spirito oltre al Figlio (Prassea era un eretico che negava la personalità del Figlio), perché rifiutava la dottrina di Montano; Montano, infatti, si riteneva la voce del Paraclito e asseriva che tutto ciò che proponeva insieme alle due profetesse che lo seguivano, Massimilla e Priscilla, veniva direttamente dallo Spirito Santo. Essi negavano così la presenza dello Spirito nell’istituzione della chiesa e se ne arrogavano le prerogative. Il rifiuto della gerarchia era in realtà correlativo al ruolo che si autoaccordavano, ritenendosi le vere ed uniche guide spirituali della chiesa.

Si è, infine, accennato alla chiesa di Colosse. La città non è stata ancora riportata alla luce dagli archeologi con scavi sistematici, ma i suoi resti sono sepolti in una piccola collina vicinissima a Laodicea e Geraopoli, presso l’odierna Honaz. A quella comunità è rivolta la lettera ai Colossesi, che riceve l’invito di far leggere la lettera anche ai cristiani di Laodicea e di leggere la lettera rivolta ai laodicesi (che è, invece, perduta), cfr. Col 4,16. La lettera ai Colossesi è un ulteriore testo che parla del ‘mistero’ di Dio rivelato in Cristo (se ne è già parlato ad Efeso) ed in essa troviamo la straordinaria espressione che condensa tutto il cristianesimo: «In Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). La gnosi che rifiuterà la materia ed il corpo si scaglierà contro il cristianesimo proprio perché non accetterà la corporeità di Gesù come il luogo della presenza piena di Dio.

Antiochia di Pisidia/Yalvaç

Nella basilica di San Paolo in Antiochia di Pisidia (oggi Yalvaç), che potrebbe essere stata edificata sui resti o nei pressi della sinagoga nella quale predicò Paolo, è stato letto il testo di At 13, 13-52.
Antiochia di Pisidia non è da confondere con Antiochia sull’Oronte, città storicamente ben più importante che fu la ‘base’ di partenza e di arrivo dei viaggi paolini. Quest’ultima, fra l’altro, è il luogo nel quale per la prima volta i discepoli di Gesù furono chiamati ‘cristiani’ ed è la base di partenza e di arrivo dei primi viaggi paolini.

Nella riflessione, a partire dalla predicazione di Paolo ad Antiochia di Pisidia secondo il racconto degli Atti, si è riflettuto sull’identità di Paolo. Ad Antiochia Paolo raccontò innanzitutto la storia della salvezza operata da Dio per il popolo ebraico; egli dice che Dio è il Dio ‘di questo popolo Israele’. È evidente qui la radice ebraica dell’apostolo. Ma, al contempo, una volta che la sua predicazione del vangelo non fu accolta, egli dichiarò: «Ecco noi ci rivolgiamo ai pagani». Tutta l’apertura universale di Paolo è qui presente, e, conseguentemente, la sua attenzione alla grecità di allora.

Ma Paolo si caratterizza ben più profondamente per qualche cosa d’altro: egli è un cristiano! Chi cerca di definirlo solo a partire dalla sua ebraicità o dal suo ellenismo non capisce niente di lui. L’evento dell’incontro sulla via di Damasco con il Signore risorto ha cambiato tutto della sua vita. Alcuni autori hanno voluto, con una lettura molto superficiale del pensiero paolino, definirlo come il “secondo fondatore del cristianesimo”. È vero, invece, proprio l’opposto: è il Cristo colui che rifonda la vita di Paolo e lo obbliga a vedere in maniera diversa sia l’ebraismo sia la grecità. Da quel momento in poi egli non rinnega né l’uno, né l’altra, ma li vede a partire da Cristo.

Proprio la predicazione ad Antiochia di Pisidia manifesta questo: agli Ebrei Paolo annunzia che dalla discendenza di Davide «Dio trasse per Israele un salvatore», ai pagani si rivolge ed «abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna». Per tutti è venuto il Cristo e tutti sono chiamati ad avere fede in lui.

Nella meditazione, ognuno è stato allora invitato a considerare quanto si definisca a partire da Cristo, quanto la fede sia all’origine dello sguardo con cui abbraccia ogni realtà.

La rappresentazione iconografica ha voluto aggiungere al racconto della conversione di Paolo la sua caduta da cavallo. Si è accennato allo straordinario valore simbolico di questa rappresentazione, motivata dal fatto che il cavallo è sempre stato l’immagine del potere, della stabilità, della forza: l’uomo ha amato farsi rappresentare a cavallo per dire una statura maggiore, una altezza ed un equilibrio più grandi della reale dimensione umana. Paolo è disarcionato da tutto questo. Per un approfondimento su questo, vedi Il cavallo nell’iconografia della conversione di san Paolo apostolo: segno superfluo o espressivo? di Andrea Lonardo

Questo il testo di At 13,13-52:

Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia. Giovanni si separò da loro e ritornò a Gerusalemme. Essi invece proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia di Pisidia ed entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, si sedettero. Dopo la lettura della Legge e dei Profeti, i capi della sinagoga mandarono a dire loro: «Fratelli, se avete qualche parola di esortazione per il popolo, parlate!».
Si alzò Paolo e fatto cenno con la mano disse: «Uomini di Israele e voi timorati di Dio, ascoltate. Il Dio di questo popolo d'Israele scelse i nostri padri ed esaltò il popolo durante il suo esilio in terra d'Egitto, e con braccio potente li condusse via di là. Quindi, dopo essersi preso cura di loro per circa quarant'anni nel deserto, distrusse sette popoli nel paese di Canaan e concesse loro in eredità quelle terre, per circa quattrocentocinquanta anni. Dopo questo diede loro dei Giudici, fino al profeta Samuele. Allora essi chiesero un re e Dio diede loro Saul, figlio di Cis, della tribù di Beniamino, per quaranta anni. E, dopo averlo rimosso dal regno, suscitò per loro come re Davide, al quale rese questa testimonianza: Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri.
Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di penitenza a tutto il popolo d'Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: Io non sono ciò che voi pensate che io sia! Ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di sciogliere i sandali.
Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata questa parola di salvezza. Gli abitanti di Gerusalemme infatti e i loro capi non l'hanno riconosciuto e condannandolo hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato; e, pur non avendo trovato in lui nessun motivo di condanna a morte, chiesero a Pilato che fosse ucciso. Dopo aver compiuto tutto quanto era stato scritto di lui, lo deposero dalla croce e lo misero nel sepolcro. Ma Dio lo ha risuscitato dai morti ed egli è apparso per molti giorni a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme, e questi ora sono i suoi testimoni davanti al popolo.
E noi vi annunziamo la buona novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo:
Mio figlio sei tu, oggi ti ho generato.
E che Dio lo ha risuscitato dai morti, in modo che non abbia mai più a tornare alla corruzione, è quanto ha dichiarato:
Darò a voi le cose sante promesse a Davide, quelle
sicure.
Per questo anche in un altro luogo dice:
Non permetterai che il tuo santo subisca la
corruzione. Ora Davide, dopo aver eseguito il volere di Dio nella sua generazione, morì e fu unito ai suoi padri e subì la corruzione. Ma colui che Dio ha risuscitato, non ha subìto la corruzione. Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera di lui vi viene annunziata la remissione dei peccati e che per lui chiunque crede riceve giustificazione da tutto ciò da cui non vi fu possibile essere giustificati mediante la legge di Mosè. Guardate dunque che non avvenga su di voi ciò che è detto nei Profeti:
Mirate, beffardi,
stupite e nascondetevi,
poiché un'opera io compio ai vostri giorni,
un'opera che non credereste, se vi fosse
raccontata!».
E, mentre uscivano, li pregavano di esporre ancora queste cose nel prossimo sabato. Sciolta poi l'assemblea, molti Giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba ed essi, intrattenendosi con loro, li esortavano a perseverare nella grazia di Dio.

Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola di Dio. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono pieni di gelosia e contraddicevano le affermazioni di Paolo, bestemmiando. Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore:
Io ti ho posto come luce per le genti,
perché tu porti la salvezza sino all'estremità della
terra».
Nell'udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le donne pie di alto rango e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li scacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio, mentre i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.

Konya/Iconio

Ad Iconio è stata celebrata la messa nella chiesa di San Paolo, l’ultima rimasta delle molte che erano presenti in città. Su di essa vedi le pagine web curate in italiano ed in turco dalla comunità cristiana di Konya nella quale fanno servizio due sorelle provenienti dalla diocesi di Trento: Chiesa di San Paolo di Konya

È stato letto e commentato il brano di At 14,1-28, nel quale si narra della presenza di Paolo ad Iconio, allora capitale della Licaonia, durante il suo primo viaggio apostolico. In particolare è stato sottolineato come Paolo venne qui lapidato e si salvò solo perché fu creduto morto. Una volta riavutosi, subito prese lui stesso a “rianimare” i fratelli.

Timoteo, il suo più fidato discepolo e compagno (è presente nelle titolature di moltissime delle lettere paoline), era originario di Listra (At 16,1), l’odierna Hatunsaray, che è a circa quaranta chilometri da Iconio. Si unì a Paolo durante il secondo viaggio apostolico, quando Paolo non ebbe paura di passare nuovamente in Licaonia. La sopportazione della persecuzione si tramutò così in uno dei momenti più fecondi dell’apostolato paolino, proprio a motivo della chiamata di Timoteo, che proseguirà l’opera dell’apostolo.

Si è sottolineato come Iconio sia un invito a vincere la paura che blocca la possibilità di vivere il vangelo e di annunciarlo. Quante volte la paura di ciò che gli altri pensano, il timore di perdere qualcosa, la fatica di essere pazienti nel cammino, l’incapacità di sopportare le avversità, paralizzano l’uomo!

Si è fatto riferimento ad un passaggio di un omelia del cardinal Ruini nella quale egli così commentava, a partire dalla testimonianza di Stefan Wyszyński e di Giovanni Paolo II la necessità di vincere la paura:

«Dice Gesù ai suoi discepoli: “Non temete gli uomini,… non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto Colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. Pertanto, “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti”. Un commento esistenziale a questo testo, da parte di un Vescovo, lo ha offerto Giovanni Paolo II nel suo libro Alzatevi, Andiamo!, nel capitolo intitolato “Dio e il coraggio”. Egli cita le parole pronunciate in tempi difficili dal Cardinale Primate di Polonia Stefan Wyszyński: “Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l’inizio della sconfitta. Può continuare a essere apostolo? Per un apostolo, infatti, è essenziale la testimonianza resa alla Verità! E questo esige sempre la fortezza”, e ancora “La più grande mancanza dell’apostolo è la paura. A destare la paura è la mancanza di fiducia nella potenza del Maestro; è questa che opprime il cuore e stringe la gola”».

Questo il brano di At 14,1-28, che racconta i fatti paolini di questa città:

Anche ad Icònio essi entrarono nella sinagoga dei Giudei e vi parlarono in modo tale che un gran numero di Giudei e di Greci divennero credenti. Ma i Giudei rimasti increduli eccitarono e inasprirono gli animi dei pagani contro i fratelli. Rimasero tuttavia colà per un certo tempo e parlavano fiduciosi nel Signore, che rendeva testimonianza alla predicazione della sua grazia e concedeva che per mano loro si operassero segni e prodigi. E la popolazione della città si divise, schierandosi gli uni dalla parte dei Giudei, gli altri dalla parte degli apostoli. Ma quando ci fu un tentativo dei pagani e dei Giudei con i loro capi per maltrattarli e lapidarli, essi se ne accorsero e fuggirono nelle città della Licaònia, Listra e Derbe e nei dintorni, e là continuavano a predicare il vangelo.

C'era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce: «Alzati diritto in piedi!». Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente allora, al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse: «Gli dei sono scesi tra di noi in figura umana!». E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.

Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all'ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: «Cittadini, perché fate questo? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi il cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori». E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall'offrire loro un sacrificio.

Ma giunsero da Antiochia e da Icònio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe.

Dopo aver predicato il vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia, rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede poiché, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio. Costituirono quindi per loro in ogni comunità alcuni anziani e dopo avere pregato e digiunato li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisidia, raggiunsero la Panfilia e dopo avere predicato la parola di Dio a Perge, scesero ad Attalìa; di qui fecero vela per Antiochia là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l'impresa che avevano compiuto.
Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. E si fermarono per non poco tempo insieme ai discepoli.

Cappadocia

Cappadocia, I tappa: valle di Ihlara (Ihlara vadisi o valle di Peristrema) percorsa dal Melendiz Suyu: dinanzi alla Ağaçaltı Kilisesi (o chiesa sotto l’albero)

La Cappadocia è stata abitata da cristiani greci ortodossi fino alla guerra fra la Grecia e la Turchia che culminò con la sconfitta della Grecia nel 1922. Allora molti fuggirono; i pochi che rimasero furono costretti ad abbandonare la Turchia con lo spostamento forzato delle popolazioni che fu deciso nel 1923: i turchi rimasti in Grecia ed i greci rimasti in Turchia dovettero abbandonare il paese nel quale vivevano da secoli. Se sono evidenti gli oltraggi alle chiese della Cappadocia ed i danni agli affreschi che furono perpetrati nel 1923, si registrano, però, anche testimonianze di turchi che salutavano piangendo i loro amici greci che lasciavano per sempre la Turchia.

Prima di parlare dei padri cappadoci (sarà fatto il giorno successivo) dinanzi alla Ağaçaltı Kilisesi è stato introdotto il tema del senso della vita monastica e, più in generale, dell’importanza degli “stati di vita” nella fede cristiana.
Fin dalle origini il cristianesimo ha capito dalle parole del Signore che non bastava scegliere la fede, ma che questo andava coniugato con una scelta di vita che lo concretizzasse. Gesù ha dato un valore nuovo al matrimonio (è lui l’annunciatore dell’indissolubilità del matrimonio ed è lui che conferisce sacramentalità alla vita degli sposati), ma ha al contempo proclamato che Dio può chiamare anche alla verginità ed al celibato. S. Paolo, in 1Cor 7, ha approfondito per primo la nuova proposta del Signore. La scelta di non sposarsi acquista un valore di prefigurazione dei tempi escatologici, quando avremo pienamente con noi lo sposo Cristo Gesù. Anche il celibato si manifesta così come una scelta di amore. Celibato e verginità sono pieni dell’amore per Dio e per Cristo e non avrebbero senso senza questo amore. Tutti gli stati di vita cristiani non possono essere interpretati altrimenti che come scelte di amore. Solo nella definitività dello stato di vita, l’amore diviene reale e completo, poiché la vita viene offerta nell’amore per sempre. È estremamente interessante anche la riflessione paolina sulla vedovanza: Paolo, per la prima volta nella storia, conferisce una grande rilevanza alla condizione vedovile, ma invita anche le vedove ad una scelta che sia definitiva. Esse possono risposarsi, oppure ‘consacrarsi’ al Signore, ma le comunità sono invitate da Paolo a non accogliere nel novero delle vedove quelle che aspirano a rinunciare alla loro condizione vedovile, cioè a risposarsi, non avendo accolto come definitiva la loro vedovanza.
La tradizione monastica che si sviluppa in Egitto, in Palestina, in Occidente ed anche in Cappadocia riprende con vigore, al termine del periodo delle persecuzioni, la proposta della vita celibataria e verginale per il regno di Dio.
‘Monaco’ viene da ‘monos’ che in greco vuol dire ‘solo’ ed indica la persona che sceglie il celibato (o la verginità) per una chiamata del Signore. Basilio è autore di una regola monastica nella quale invita i monaci alla vita cenobitica (da koinos bios, in greco vita comune), cioè alla vita di comunità. Infatti, anche la vita di chi è ‘solo’ non è una vita senza amore verso i fratelli, anzi egli è chiamato a condividere pienamente la sua fede con i fratelli della sua comunità monastica. Il monachesimo dei padri cappadoci ha sempre affermato che anche chi fosse chiamato alla vita eremitica deve sempre prima mettersi alla prova in un lungo periodo di vita comunitaria, per maturare lungamente e concretamente l’amore per i fratelli.
Il monachesimo della Cappadocia avrà come caratteristiche originarie anche quella di essere profondamente legato alla vita diocesana ed, insieme, alla carità verso i più poveri.
Un’attualizzazione sul rapporto fra opzione fondamentale, scelta dello stato di vita e scelte particolari che preparano ed accompagnano le altre due opzioni ha concluso la riflessione.

Cappadocia, II tappa: Aynalı Kilise (celebrazione della messa)

Durante la celebrazione della messa, i pellegrini sono stati aiutati a comprendere qualcosa della teologia trinitaria, nella prospettiva dei padri cappadoci che in questi luoghi hanno approfondito la loro riflessione sulle tre persone della Trinità.

La riflessione è partita dall’inno di giubilo presente in Lc 10,21-22 (e parallelamente in Mt) che è stato proclamato durante la messa. In queste parole di Gesù è evidente come la sua figliolanza divina e la sua affermazione di essere stato inviato dal Padre come unico e definitivo rivelatore del volto di Dio non siano una tardiva interpretazione giovannea, ma siano già enunziate nei sinottici ed addirittura in questi versetti che sono della cosiddetta fonte Q, rimandando al Gesù storico. Tutto il NT annuncia la relazione unica fra il Padre ed il Figlio.

I padri cappadoci hanno preparato il Concilio Costantinopolitano I, nel quale venne canonizzata la forma finale del Simbolo che recitiamo ogni domenica nella liturgia domenicale, il Simbolo niceno-costantinopolitano.

Nella meditazione si è poi mostrato come la Sacra Scrittura ed il Simbolo di fede (il dogma) non siano due cose diverse, ma esprimano l’unica realtà divina in due forme diverse, entrambe necessarie alla fede.

Si è fatto riferimento ad uno straordinario passaggio del Direttorio generale per la catechesi, che al numero 128, afferma: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede. La Sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica debbono ispirare tanto la catechesi biblica quanto la catechesi dottrinale, che veicolano questo contenuto della parola di Dio».

Il Simbolo di fede mostra l’intima armonia, la sintesi di tutto ciò che la Scrittura narra. Permette di avere una visione d’insieme di ciò che è essenziale. La Bibbia presenta la ricchezza di tutte le sfumature e di ogni particolare, ma se mancasse la visione sintetica che la fede fornisce, la Bibbia risulterebbe solo una massa disarticolata ed incomprensibile.

Ciò che Luca e Matteo raccontano nell’inno di giubilo, il Simbolo niceno-costantinopolitano lo sintetizza nella sua struttura trinitaria.

I tre grandi cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa[2], hanno contribuito alla definitiva stesura del Credo. Dio è Trinità, è amore, prima ancora di creare l’universo e l’uomo, perché è amore in se stesso. Dio non comincia ad amare dal momento in cui crea l’uomo, ma è da sempre amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. I cappadoci hanno accolto ed approfondito, in questa prospettiva, il termine ‘persona’, già utilizzato da Origene in greco e da Tertulliano in latino, per indicare le tre persone nella Trinità[3].

Il termine ‘persona’ esprime nella teologia trinitaria la relazione d’amore che esiste in Dio. Se da sempre il Padre non avesse amato il Figlio, ciò significherebbe che egli non sarebbe stato sempre Padre. Egli può essere Padre solo perché genera ed ama il Figlio.

La teologia sottolineerà che il Padre è dono totale: non c’è niente che egli sia che non abbia donato al Figlio. Ed il Figlio è accoglienza perfetta: non c’è niente che il Figlio sia che non abbia ricevuto dal Padre. Ma questo amore non si chiude in se stesso, bensì è fecondo. Il Padre non solo ama il Figlio ed il Figlio il Padre, ma essi amano insieme: e questo amore fecondo è lo Spirito Santo. I padri cappadoci hanno molto riflettuto e scritto sullo Spirito Santo, sul suo procedere dal Padre, sul suo essere adorato e conglorificato con il Padre ed il Figlio.

Tutta la riflessione moderna sulla persona discende da questa riflessione trinitaria sulle persone divine. Ognuno è persona – si afferma in antropologia - non tanto perché è individuo, ma perché ama, perché è relazione. Se si vuole sapere chi è una persona, basta che gli si domandi a chi vuole bene, per chi vive, chi ha nel cuore. L’uomo è persona, perché è relazione. In questo consiste essenzialmente l’antico annuncio di Genesi che ogni uomo è fatto ad immagine di Dio.

Cappadocia III tappa: Camini di fata, vicino Paşabag (detta anche valle dei monaci)

In questo luogo si trova l’antica Chiesa di San Simeone lo Stilita con affreschi ascrivibili al X secolo, molto rovinati: il santo visse ad Antiochia sull’Oronte e poi sulla famosa colonna, nell’odierna Siria. Si può ricordare qui che anche Roma vide la presenza di monaci stiliti; è accertato – vedi i recenti studi di Marco Valenti "Trasformazione dell'edilizia privata e pubblica in edifici di culto cristiani a Roma tra IV e IX secolo, III cap" - che uno stilita visse sulla colonna Traiana, nei fori imperiali. La tesi è interamente disponibile al link: Trasformazione dell'edilizia privata e pubblica in edifici di culto cristiani a Roma tra IV e IX secolo.

È stato qui ricordato che la Cappadocia è nominata nella prima Lettera di Pietro (1 Pt 1,1). In quella lettera sono citate molte regioni dell’antica Asia romana, l’odierna Turchia. Pietro – od un suo discepolo – si rivolge così alle prime comunità cristiane dell’Anatolia e ci attesta che il vangelo era giunto in Cappadocia già in età apostolica.

Cappadocia, IV tappa: valle di Zelve

Nella valle di Zelve si è tornati a presentare la figura dei tre padri cappadoci, di Basilio, di suo fratello minore Gregorio di Nissa, di Gregorio di Nazianzo.

Si è fatto cenno, innanzitutto, a come essi abbiano coniugato il Logos e l’Agape. Loro desiderio fu sempre quello di presentare la fede cristiana anche alle persone colte del tempo, di mostrare come la fede non richiedesse la morte del pensiero e dell’intelligenza, ma, anzi, esaltasse la ragione umana, valorizzandola. Al contempo essi vissero orientati a quella carità che è la suprema sapienza. In particolare la vita monastica da loro vissuta e promossa si strutturò in aiuto dei più poveri e Basilio è famoso anche per avere fondato in Cesarea, città nella quale era vescovo, vari ospizi per i bisognosi. Lo storico Sozomeno chiama l’insieme di questi luoghi di carità la Basiliade, quasi una città della misericordia.

Si è poi fatto riferimento al tema dell’amicizia. Sono state lette le famose parole con le quali
Gregorio di Nazianzo parla del suo rapporto di amicizia con Basilio:

«Eravamo ad Atene, partiti dalla stessa patria, divisi, come il corso di un fiume, in diverse regioni per brama d'imparare, e di nuovo insieme, come per un accordo, ma in realtà per disposizione divina. Allora non solo io mi sentivo preso da venerazione verso il mio grande Basilio per la serietà dei suoi costumi e per la maturità e saggezza dei suoi discorsi, ma inducevo a fare altrettanto anche altri che ancora non lo conoscevano. Molti però già lo stimavano grandemente, avendolo ben conosciuto e ascoltato in precedenza. Che cosa ne seguiva? Che quasi lui solo, fra tutti coloro che per studio arrivavano ad Atene, era considerato fuori dell'ordine comune, avendo raggiunto una stima che lo metteva ben al di sopra dei semplici discepoli. Questo l'inizio della nostra amicizia; di qui l'incentivo al nostro stretto rapporto; così ci sentimmo presi da mutuo affetto. Quando, con il passare del tempo, ci manifestammo vicendevolmente le nostre intenzioni e capimmo che l'amore della sapienza era ciò che ambedue cercavamo, allora diventammo tutti e due l'uno per l'altro: compagni, commensali, fratelli. Aspiravamo a un medesimo bene e coltivavamo ogni giorno più fervidamente e intimamente il nostro comune ideale, Ci guidava la stessa ansia di sapere, cosa fra tutte eccitatrice d'invidia; eppure fra noi nessuna invidia, si apprezzava invece l'emulazione. Questa era la nostra gara: non chi fosse il primo, ma chi permettesse all'altro di esserlo. Sembrava che avessimo un'unica anima in due corpi. Se non si deve assolutamente prestar fede a coloro che affermano che tutto è in tutti, a noi si deve credere senza esitazione, perché realmente l'uno era nell'altro e con l'altro. L'occupazione e la brama unica per ambedue, era la virtù, e vivere tesi alle future speranze e comportarci come se fossimo esuli da questo mondo, prima ancora d'essere usciti dalla presente vita. Tale era il nostro sogno. Ecco perché indirizzavamo la nostra vita e la nostra condotta sulla via dei comandamenti divini e ci animavamo a vicenda all'amore della virtù. E non ci si addebiti a presunzione se dico che eravamo l'uno all'altro norma e regola per distinguere il bene dal male. E mentre altri ricevono i loro titoli dai genitori, o se li procurano essi stessi dalle attività e imprese della loro vita, per noi invece era grande realtà e grande onore essere e chiamarci cristiani».
(dai Discorsi di san Gregorio Nazianzeno, vescovo; Disc. 43, 15. 16-17, 19-21; PG 36, 514-523)

Si rivela qui tutta la ricchezza dell’amicizia che, se è vera, unisce due persone, ma non le chiude in un rapporto a due, anzi le apre a Dio e ad un rapporto ancora più generoso con tutti.

Si è accennato poi al servizio della parola che, in questa ottica, fu così importante nella vita dei padri cappadoci. Così scrive ancora Gregorio di Nazianzo:

«Servo della Parola, io aderisco al ministero della Parola; che io non acconsenta mai di trascurare questo bene. Questa vocazione io l’apprezzo e la gradisco, ne traggo più gioia che da tutte le altre cose messe insieme» (Discorso 6,5; cfr anche Discorso 4,10).

La dignità della vita umana emerge in questo rapporto con Dio, come scrive Gregorio di Nazianzo:

«Hai un compito, anima mia, / un grande compito, se vuoi. / Scruta seriamente te stessa, / il tuo essere, il tuo destino; / donde vieni e dove dovrai posarti; / cerca di conoscere se è vita quella che vivi / o se c’è qualcosa di più. / Hai un compito, anima mia, / purifica, perciò, la tua vita: / considera, per favore, Dio e i suoi misteri, / indaga cosa c’era prima di questo universo / e che cosa esso è per te, / da dove è venuto, e quale sarà il suo destino. / Ecco il tuo compito, / anima mia, / purifica, perciò, la tua vita» (Poesie [storiche] 2,1,78).

E ancora, rivolgendosi a Cristo, poiché solo lui può accompagnare l’uomo a ritrovare continuamente questa dignità:

«Sono stato deluso, o mio Cristo, / per il mio troppo presumere: / dalle altezze sono caduto molto in basso. / Ma rialzami di nuovo ora, poiché vedo / che da me stesso mi sono ingannato; / se troppo ancora confiderò in me stesso, / subito cadrò, e la caduta sarà fatale» (ibid., 2,1,67).

Un ulteriore passo molto bello del Nazianzieno era caro a d. Luigi Giussani, il fondatore di CL, che lo citava spesso:

«Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita» (Poesie II,1,74).

Sullo stesso tema dell’altissima dignità dell’uomo così si esprime Gregorio di Nissa:

«Non il cielo è stato fatto a immagine di Dio, non la luna, non il sole, non la bellezza delle stelle, nessun’altra delle cose che appaiono nella creazione. Solo tu [anima umana] sei stata resa immagine della natura che sovrasta ogni intelletto, somiglianza della bellezza incorruttibile, impronta della vera divinità, ricettacolo della vita beata, immagine della vera luce, guardando la quale tu diventi quello che Egli è, perché per mezzo del raggio riflesso proveniente dalla tua purezza tu imiti Colui che brilla in te. Nessuna cosa che esiste è così grande da essere commisurata alla tua grandezza» (Om. sul Cantico 2).

Ma l’uomo realizza la propria vocazione non semplicemente scrutando se stesso, bensì rivolgendosi a Dio:
«Se, con un tenore di vita diligente e attento, laverai le brutture che si sono depositate sul tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza ... Contemplando te stesso, vedrai in te Colui che è il desiderio del tuo cuore, e sarai beato» (Le Beatitudini 6).

Per l'anima, infatti, «si tratta non di conoscere qualcosa di Dio, ma di avere in sé Dio» (Le Beatitudini 6: PG 44,1269c).

Ankara e la regione della Galazia: la lettera ai Galati

Il luogo ideale per una meditazione sulla lettera ai Galati potrebbe essere la Cittadella, salendo sulle mura, oppure, per una celebrazione, la cappella S. Teresa di Lisieux dei padri gesuiti. Per ragioni di tempo la riflessione è stata tenuta, invece, in autobus.

Paolo attraversa la Galazia due volte. Una prima volta nel secondo viaggio apostolico, prima di passare da Troade in Europa (At 16,6: Attraversarono la Frigia e la regione della Galazia), una seconda volta, all’inizio del terzo viaggio (At 18,23: Partì di nuovo percorrendo le regioni della Galazia e della Frigia, confermando nella fede tutti i discepoli). Dal testo di At 18,23 risulta evidente come egli conosca bene i cristiani di quelle regioni.

Gli studiosi si dividono nell’identificare quali luoghi Paolo abbia effettivamente visitato e a quali città concrete della Galazia invii la sua lettera: esiste, infatti, una ipotesi sud-galatica, che privilegia le regioni a sud di Ankara ed una teoria, più accreditata, nord-galatica che include l’antica Ancira.
Questa città (oggi Ankara, capitale della Turchia) era il capoluogo della Galazia. Paolo sempre si recava nelle città nel corso dei suoi spostamenti e la nostra ipotesi – che accoglie le teorie della maggioranza degli esegeti – è che effettivamente abbia soggiornato in Ancira.

La Lettera ai Galati è un testo importantissimo, innanzitutto per toccare con mano la storicità del Nuovo Testamento. Paolo racconta di aver incontrato Cefa, Giacomo ‘il fratello del Signore’ e Giovanni. Con Cefa, nella stessa lettera, racconta anche di avere avuto un successivo litigio ad Antiochia. Egli racconta di questi incontri per dare la dimostrazione che il vangelo che annunziava era lo stesso di quello annunziato dagli apostoli. Il vangelo, infatti, non può essere corrotto, ma deve restare inalterato: “Se qualcuno vi predica un vangelo diverso da quello che avete ricevuto sia anatema” (Gal 1,9). La lettera ai Galati ci riporta, insomma, ad un momento nel quale gli apostoli erano ancora vivi e ci mostra che il loro annuncio sul Cristo era pienamente conforme alla predicazione che troviamo nei vangeli redatti successivamente.

Il secondo motivo della grande importanza della Lettera ai Galati (che deve essere letta, per questo, insieme alla lettera ai Romani) è la chiarezza con la quale viene affrontato il tema della ‘grazia’.

Nella meditazione si è sottolineato come sia facile, troppo facile, avere una visione dell’uomo nella quale sia predominante l’attenzione alle sue capacità, alle sue azioni, alle sue scelte, dimenticando che l’uomo è innanzitutto colui che riceve un dono che non ha meritato e che, in realtà, neanche conosce, finché non gli viene fatto. Paolo sottolinea nella lettera ai Galati che la giustificazione viene dalla fede in Cristo e non dalle opere dell’uomo (Gal 2,15-21). Parlando della grazia, Paolo parla del “Figlio di Dio che mi ha amato e che ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Proprio l’amore aiuta a comprendere cosa significhi la grazia: l’amore di un altro – ed, in particolare l’amore di Dio per noi - non viene ‘fabbricato’ da noi, ma dipende dalla libertà dell’altro che ci ama. Nessuno può pretendere l’amore. Esso, dice von Baltahsar, è sempre e solo un miracolo che non posso dedurre dalle mie personali doti, altrimenti toglierei all’altro la libertà di amarmi. Eliminerei così l’amore stesso, perché l’amore o è libero o non è tale.

Paolo afferma che l’amore di Dio e la croce di Cristo non sono deducibili da noi, ma possiamo solo accoglierli. Un testo lucano è stato utilizzato nella meditazione per aiutare ulteriormente nella riflessione: la parabola del padre misericordioso e dei suoi due figli. Proprio questa parabola è una parabola della grazia. I due figli – una studiosa francese li definì il ‘figlio del piacere’, il minore che ha come criterio il suo personale pallino al quale tutto sottopone, ed il ‘figlio del dovere’, il maggiore che obbedisce in tutto, ma non conosce la grazia e l’amore - si ritrovano nella parabola, prima dell’intervento del padre, ad aver vissuto, in fondo, come dei servi. Il minore dice: “Tornerò e dirò a mio padre: Trattami come uno dei tuoi servi”. Il maggiore abita la stessa casa del padre, ma non gli parla, non è un figlio che ha intimità con lui. La parabola lo presenta come uno che si sente servo e non parla con il padre, ma solo con gli altri servi. Ed anche egli dice: “Ti ho servito e non ho mai trasgredito uno solo dei tuoi comandi”. Nessuno dei due ama ancora il padre, perché non ha ancora compreso di esserne amato. Il padre esce dalla sua casa per chiamare entrambi: corre incontro al minore e si precipita dal maggiore per invitarlo alla festa. La parabola non ci dice se i due figli abbiano compreso ed accolto l’amore, ma certo annuncia che il cuore del passaggio dalla servitù alla figliolanza consiste nell’amore del Padre. Solo chi capisce il suo cuore, diviene capace di fare festa ogni volta che viene ritrovato un figlio.

La parabola è, inoltre, una parabola con una forte connotazione cristologica. Gesù la utilizza per mostrare che il Padre si sta rivelando per la prima volta in pienezza al mondo proprio attraverso di lui: infatti, Gesù mangia con i peccatori (rappresentati nella parabola dal secondogenito), ma insieme invita anche i farisei (rappresentati nella parabola dal primogenito) a sedersi al banchetto. Gesù non è così un cantastorie, un inventore di bellissime storie mai raccontate, ma è piuttosto colui che annuncia che la parabola sta divenendo realtà perché egli è nel mondo l’inviato definitivo del Padre che viene a far passare dalla servitù alla figliolanza.

I due figli possono ben rappresentare il popolo eletto – il figlio maggiore - ed i pagani – il figlio minore. Come dice la lettera ai Romani, sia gli ebrei, sia i pagani sono nel peccato e non possono uscirne da soli. Ma Dio ha mandato il suo Figlio perché entrambi, per la grazia e la fede, possano essere salvati.

İstanbul/Costantinopoli

İstanbul/Costantinopoli, Palazzo di Topkapı, dinanzi alla Chiesa della S. Irene: il I concilio di Costantinopoli

La Chiesa della S. Irene che abbiamo davanti è stata costruita prima dell’attuale S. Sofia che è del periodo di Giustiniano. Anche S. Irene è stata trasformata in edificio statale, laico, come è accaduto a S. Sofia che è ora un Museo. All’interno di S. Irene è proibito celebrare qualsiasi liturgia. La si utilizza per concerti ed esposizioni.

S. Irene è dedicata non alla santa di nome Irene, ma allaDivina Pace, alla santa “pace”, “eirene”, alla pace che Dio è, che Dio dona. Per questo non è corretto chiamarla Chiesa di S. Irene, ma la traduzione appropriata è piuttosto Chiesa “della Santa Eirene”, “della santa pace”. Mi viene in mente un parallelo che può essere forse appropriato: come Augusto costruì l’Ara Pacis, l’Altare della Pace, ad indicare che con il suo avvento al potere era terminata un’era di lotte fratricide, così Costantino – riteniamo che due siano le chiese di fondazione costantiniana a Costantinopoli, quella dei Santi Apostoli e appunto S. Irene, anche se S. Irene potrebbe essere immediatamente successiva – volle edificare una Chiesa alla Pace donata da Cristo, attraverso l’opera pacificatrice dell’imperatore.

Da documenti che si sono conservati – come la Storia ecclesiastica di Socrate - risulta chiaramente che quest’ultima è stata la chiesa del vescovo della città, prima dell’edificazione di S. Sofia. È la chiesa nella quale si è celebrato il primo Concilio di Costantinopoli, che è il secondo Concilio ecumenico, svoltosi nel 381. Il Concilio fu iniziato nelle sale del Palazzo Imperiale e si svolse poi in questa chiesa. Il Palazzo imperiale è andato quasi completamente distrutto; è possibile osservarne alcuni resti nel Museo dei Mosaici e nel Palazzo di Bucoleone, vicino alle mura a sud della città, mentre scavi recenti sono in corso in altre zone di questo grande complesso.

Le definizioni dogmatiche del Concilio Costantinopolitano I sono molto importanti e riguardano vari aspetti che cercheremo di vedere insieme. Esse confluirono tutte nel Credo che oggi chiamiamo Niceno-Costantinopolitano, appunto perché proclamato in questo Concilio, ma a partire da quello di Nicea, svoltosi nell’antica città di Nicea, oggi İznik.

Ecco il Simbolo di fede del Concilio costantinopolitano, nella sua versione originale, leggermente differente da quella che utilizziamo nella messa. È subito da notare che il Simbolo di fede niceno-costantinopolitano sceglie il verbo al plurale: noi crediamo. Questo ci ricorda che certo la professione di fede è personale, ma che essa è anche ecclesiale. Noi crediamo la fede della Chiesa, non inventiamo noi la fede cristiana, ma la professiamo insieme a tutta la Chiesa.

Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente,
Creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
Ed in un solo Signore, Gesù Cristo,
Unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della sostanza del Padre;
per mezzo di Lui tutte le cose
sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza
discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato
morì e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato,
secondo le Scritture,
è salito al cielo, siede alla destra del Padre.
E di nuovo verrà, nella gloria
per giudicare i vivi e i morti
e il suo regno non avrà fine.
Crediamo nello Spirito Santo,
che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre.
Con il Padre e il Figlio
è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti.
Crediamo la Chiesa,
una santa cattolica e apostolica.
Professiamo un solo Battesimo
per il perdono dei peccati.
Aspettiamo la risurrezione dei morti
e la vita del mondo che verrà.
Amen

Vediamo innanzitutto la divinità dello Spirito Santo – parleremo invece del famoso Filioque presso il patriarcato di Costantinopoli. Il Credo di Nicea diceva già tutto, ma lo diceva in forma estremamente sintetica: “Crediamo allo Spirito Santo”. Non c’era altra aggiunta o spiegazione. Ecco che alcuni, che vengono chiamati dagli storici pneumatomachi (“combattenti contro lo Spirito”) o macedoniani (Macedonio era stato patriarca a Costantinopoli alcuni decenni prima, ma non sappiamo cosa pensasse esattamente dello Spirito), affermavano che lo Spirito era inferiore per dignità a Cristo, poiché non era Dio, ma era solo un ministro o un interprete o un angelo. I Padri, riunitisi nel concilio, rifiutarono questa dottrina come eretica e proclamarono che veramente lo Spirito è Dio, come il Padre e come il Figlio. Comprendiamo immediatamente alcune espressioni del Credo Niceno-Costantinopolitano proprio in questa chiave. È “Signore”, insieme al Padre ed al Figlio, “dà la vita”, cioè è creatore e salvatore insieme al Padre ed al Figlio.

Vorrei, però, sottolinearvi un’ulteriore espressione a cui talvolta non diamo peso: “Con il Padre ed il Figlio è adorato e conglorificato”. Questa affermazione vuole indicare che tutta la gloria che è del Padre e del Figlio è giustamente anche dello Spirito. La Trinità riceve insieme lo stesso onore, la stessa gloria. Ma, se ci spingiamo ancora un passo avanti, comprendiamo che la lode, la dossologia (il glorificare Dio) è veramente l’unico atteggiamento adatto dinanzi a Dio, perché Dio è così grande, è così sconfinato nella sua bellezza e nel suo mistero, che non si tratta tanto di comprenderlo, quanto di lodarlo, di adorarlo, di essere continuamente dinanzi a Lui in atteggiamento di meraviglia e stupore.

Come ha scritto Olivier Clément: «Nella formula sullo Spirito Santo che ‘procede dal Padre, è adorato e glorificato con il Padre e il Figlio’, si può individuare in primo luogo un approccio apofatico e dossologico orientato a ciò che vi è di inesauribile nella persona». Affermare che lo Spirito è mistero dinanzi al quale non si può che tacere e cadere in adorazione è un modo orante di dire che lo Spirito è Dio.

Altre due questioni affrontate a Costantinopoli voglio presentarvele come due facce simmetriche del mistero cristiano. Una volta divenuto ancor più chiaro, a Nicea, ciò che i cristiani avevano sempre creduto, cioè che Gesù Cristo era Dio, si ponevano appunto due problemi ai teologi ed ai pastori: in primo luogo come in Cristo si uniscono l’umanità e la divinità, come si relazionano, come con-vivono ed, in secondo luogo, poiché il Cristo è Dio e poiché lo Spirito è Dio, chi è allora il Dio unico, come parlare dell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito?

Per quel che riguarda la prima questione il Concilio confutò la proposta fatta da Apollinare di Laodicea. Vedremo come questa questione continuerà in forme diverse fino al III Concilio di Costantinopoli. In essa, infatti – come d’altronde nell’altra! – possiamo scorgere tutta l’originalità e la bellezza del cristianesimo. Sarebbe molto più facile tenere distinti l’uomo e Dio, come in effetti è sempre stato fatto in tutta la storia del pensiero e delle religioni dell’umanità. Il materialismo ha scelto l’uomo, lo spiritualismo ha scelto Dio, ma sempre in una logica di opposizione: o l’uno o l’altro, perché l’uno è il nemico dell’altro. Se privilegio Dio, perdo la terra; se scelgo la terra, debbo dimenticare Dio.

Le forme più diverse di mediazione nelle diverse religioni dell’umanità hanno, sì, scelto la via di una qualche comunicazione fra Dio e l’uomo, ma conservando l’infinito abisso che separa l’uno dall’altro: un abisso incolmabile. Il cristianesimo ha coscienza di questa infinita differenza – vedi appunto la dossologia della Trinità – ma annuncia che Dio stesso si è abbassato fino a far abitare in Cristo corporalmente, “la divinità tutta intera” (Col 2,9)! A chi critica la fede cristiana dicendo che non è possibile che Dio si faccia uomo - perché Dio è onnipotente, mentre l’uomo non lo è - la Chiesa risponde dicendo proprio che è questa affermazione a negare l’onnipotenza di Dio, decidendo troppo umanamente ciò che è impossibile a Dio, senza credere nella sconfinata potenza della sua onnipotenza che può anche, solo che lo voglia, abbassarsi all’uomo! Ecco tutto il cristianesimo: Cristo vero Dio e vero uomo.

Apollinare di Laodicea (non Laodicea di Frigia, ma Laodicea di Siria) propose allora uno schema che oggi gli studiosi definiscono come “Logos-sarx”, “Logos-carne”. Come è possibile in Gesù l’unione della divinità e dell’umanità? Apollinare rispondeva che non c’era una umanità completa nel Cristo, ma in Lui c’era solo la carne umana, senza l’anima, senza le facoltà superiori, intellettuali, umane. Ciò che è l’anima in ogni uomo, è il Figlio di Dio nel Cristo incarnato. Il Figlio di Dio avrebbe così vivificato un corpo umano, altrimenti senza vita. I padri di Costantinopoli risposero che questo era inaccettabile. Il mistero cristiano è che Dio ha assunto tutto l’uomo, un uomo composto non solo di corpo, ma anche di anima e di facoltà superiori. Questo ha, fra l’altro, delle conseguenze spirituali straordinarie: apre la via alla possibilità che veramente Dio abiti nel cuore dell’uomo, nella sua vita, senza distruggere la sua anima, la sua intelligenza, il suo cuore, la sua stessa vita, ma, piuttosto, riempiendo tutto interamente della presenza divina! Così afferma la definizione del primo concilio di Costantinopoli, su questo punto:

Riteniamo anche, intatta, la dottrina dell'incarnazione del Signore; non accettiamo, cioè l'assunzione di una carne senz'anima, senza intelligenza, imperfetta, ben sapendo che il Verbo di Dio, perfetto prima dei secoli, è divenuto perfetto uomo negli ultimi tempi per la nostra salvezza.

Veniamo all’ultimo, importantissimo, aspetto dogmatico. È la problematica simmetrica alla quale abbiamo già accennato: poiché il Figlio di Dio è Dio – e lo è anche lo Spirito - allora come pensare l’unità e l’unicità di Dio? Come evitare il rischio di un triteismo? Come può lo stesso Dio dell’Antico Testamento che è chiaramente uno, essere anche Padre, Figlio e Spirito?

Il Concilio formulò così la fede della Chiesa, esprimendo nuovamente ciò che implicitamente era stato sempre creduto fin dai testi neotestamentari, ma esprimendolo in termini nuovi: “Una sola divinità, potenza, sostanza, in tre ipostasi, in tre persone”. Così il passaggio integrale della definizione di Costantinopoli:

Questa fede, infatti, deve essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all'increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza.

Il Concilio si servì così dell’espressione “ipostasi”, che sarà tradotta in latino con “persona”. Questo termine era già stato usato da Origene, ad Alessandria, ma, ai suoi tempi, “ipostasi” rischiava ancora di dare l’idea dell’esistenza di tre diverse divinità. Come si è detto in Cappadocia, fu il lavoro teologico dei tre grandi Padri CappadociBasilio, Gregorio di Nissa, suo fratello, e Gregorio di Nazianzo che fu studente ad Atene con Basilio e che divenne suo grandissimo amico – a spianare la strada[4]. Proprio Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo parteciparono al Concilio e, durante il Concilio, il Nazianzieno fu eletto patriarca di Costantinopoli (precedentemente predicava in città, nella piccola chiesa dell’Anastasis), ma, dopo pochi mesi, si dimise dall’incarico. Anche l’imperatore Teodosio partecipò ai lavori del Concilio e vi parteciparono altre importanti figure del tempo come Cirillo di Gerusalemme e Diodoro di Tarso. Possiamo immaginarli tutti qui, in questo luogo, se torniamo con l’immaginazione indietro nel tempo.

Dunque lo straordinario lavoro intellettuale e spirituale dei Cappadoci fu quello di comprendere e mostrare come il Padre, il Figlio e lo Spirito siano relazioni d’amore. Se uno solo è Dio, se una sola e unica è la sostanza divina, perché allora Gesù ci ha rivelato di essere il Figlio del Padre? Cosa significa affermare che Dio è Padre e Figlio e che lo Spirito li unisce?

Perché Dio è amore non solo dal momento in cui decide di creare il mondo e l’uomo per amore, ma è amore ab aeterno, è continuo dono d’amore che le tre persone divine si scambiano. Il Padre è Dio ed è Padre in quanto dona tutta la divinità, senza nulla trattenere, al Figlio ed allo Spirito. Ed il Figlio è tutta la divinità, ma in quanto ricevuta filialmente nell’amore dal Padre per poterla a sua volta ridonare. E non solo questo: il Padre ed il Figlio non solo si amano, ma amano insieme e questa è la realtà dello Spirito Santo. È come un balbettio ciò che dico, ma penso che qualcosa possiamo intuire, nella nostra umanità, del mistero dell’eterno amore trinitario.

Tutto il movimenti di fede e di pensiero che ha portato a questo Concilio è all’origine delle successive riflessioni sul concetto di “persona” in prospettiva antropologica. L’uomo è “persona” perché esiste per la relazione, esiste per l’amore. Ciò che ci rende persone non è il chiuderci; all’opposto noi siamo persone a motivo delle relazioni dalle quali siamo costituiti e nelle quali ci doniamo agli altri. Vi ho preparato in fotocopia una bellissima meditazione di J. Ratzinger (dal suo volume Introduzione al cristianesimo), che ci introduce proprio a questo, oltre ad un breve testo di G. K. Chesterton. Potete leggerli poi con calma.

Se nell’esperienza umana, al fine di essere noi stessi, noi tendiamo ad incontrare l’altro e ad amarlo, desiderando di diventare uno con lui, in Dio questo è pienezza di realtà. In Lui veramente l’amore è differenza e insieme unità nell’amore. Il Padre non sarebbe Padre senza il Figlio. Ed il Padre è stato sempre Padre, non lo è divenuto con la creazione del primo uomo. Ed il Padre ed il Figlio sono due persone e lo sono sempre state ma, come dice Gesù, “Io e il Padre siamo uno, una sola cosa”.

Pensate alla rivelazione del mistero. Noi crediamo non solo che Dio ci rivela cosa vuole da noi – questo è ammesso da molte religioni. Il cuore della rivelazione cristiana non sta nel fatto che Dio ci dice la sua volontà, ma nel fatto che realmente, per quanto a noi è possibile, Dio si fa conoscere nella sua identità. È questo lo scandalo del cristianesimo: Dio si fa conoscere in sé stesso!
Vi leggo a questo proposito un brano di uno dei più grandi studiosi contemporanei dell’Islam, un padre bianco del PISAI, p. Maurice Borrmans (questo breve testo è tratto dall’articolo Ragione e fede nei pensatori arabi musulmani, in La filosofia e l’Islam, a cura di Gregorio Piaia, Gregoriana Libreria Editrice, 1996, pp. 56-57), che ci aiuta a focalizzare la peculiarità del cristianesimo:

Ci si accorge che nell’Islam Allah non propone nel Corano una autorivelazione di se stesso (che sfuggirebbe alla ragione) ma una rivelazione della sua volontà sull’uomo, e cioè come l’uomo lo debba nominare ed adorare e come l’uomo debba trattare se stesso e gli altri uomini per realizzare perfettamente la volontà di Dio. Questa rivelazione (che non sembra sovrannaturale nel suo contenuto) corrisponderebbe, tutto sommato, all’insieme delle verità che il filosofo raggiunge con la sua ragione e con grande fatica e che il profeta riceve e trasmette tramite la rivelazione e senza fatica. Il “rivelato” rimane estrinseco al “rivelatore”, e questo spiega forse perché fede e ragione sembrano spesso gemellate. Come confessa, nella sua autobiografia, Mons. Mulla Zadé (1881-1959), convertitosi a Gesù Cristo dall’Islam turco della sua infanzia: “Dal monoteismo unipersonale dell’Islam, dal suo Dio storico ma solitario, si scende facilmente ed inevitabilmente a un “deismo” multiforme, razionalista o idealista o monista o agnostico, con un Dio lontano e indifferente, oppure immanente e diffuso... L’evoluzione della teologia, della filosofia e della mistica musulmana è la prova di questa legge di degradazione e di entropia crescente”. A lui parve che il Dio dell’Islam fosse un Dio che, dopo aver rivelato la Sua unicità trascendente (ma ci vuole davvero una rivelazione per questo?), sembra non avere una vita intima da comunicare. Sarebbe dunque opportuno, in un dibattito approfondito sulle religioni “rivelate”, sviluppare studi comparatistici per quanto riguarda la “rivelazione” stessa..

Ma proprio da questa autorivelazione divina, scaturisce la vera identità dell’uomo. Alla eterna domanda in cosa consista l’essere dell’uomo “ad immagine di Dio” (domanda intorno alla quale tanti pensatori si sono affaticati, indicando ora la ragione, ora la libertà, ora l’efficacia storica come l’elemento che accomuna essenzialmente Dio e l’uomo) il cristianesimo risponde: è nell’essere relazione, è nell’esigenza ineludibile d’amore, di essere dono e di vivere del dono ricevuto, che consiste la somiglianza fra Dio e l’uomo. L’uomo è esigenza d’amore, perché ad immagine di Dio, che è amore e relazione, l’uomo è stato pensato e creato. E all’uomo è necessaria la fecondità, perché all’uomo non basta amare ed essere riamato! L’uomo cerca l’amore di un altro essere con il quale dare ancora la vita ad altri (pensiamo solo al legame essenziale che esiste fra l’amore dell’uomo e della sua donna ed il desiderio di fecondità, di attesa per i figli che nasceranno). Come il Padre ed il Figlio non solo si amano, ma amando pure l’uno insieme all’altro, spirano lo Spirito Santo. Solo in chiave evocativa vi cito una famosa frase di Saint-Exupéry che, cercando di comprendere l’essenziale dell’amore umano, scriveva in Terra degli uomini: “Amare non è guardarsi negli occhi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione”. Senza fecondità, senza un terzo che è amato, senza amore per la vita, non si dà vero amore fra due persone!

Vi dicevo che in S. Irene non è oggi possibile celebrare. Dopo la conquista turca la chiesa divenne arsenale dei giannizzeri, fino al 1874. Fu poi trasformata in museo militare e solo nel 1946 riportata alle sue linee originarie. Le sue fondazioni poggiano su due antichi templi dedicati ad Apollo ed Afrodite. All’interno è possibile vedere, nell’abside, un mosaico del periodo iconoclasta, una semplice croce su di un podio a tre gradini.

Ecco di seguito il testo di Ratzinger, citato precedentemente:

Le ‘tre persone’ sussistenti in Dio, costituiscono la realtà della parola e dell’amore nella loro mutua circuminsessione. Non sono sostanze, personalità intese nel senso moderno, bensì una correlazione, la cui pura attualità (‘pacchetto d’onde!’) non distrugge l’unità dell’Essere supremo, ma ce la spiega.
S. Agostino ha trasfuso questo pensiero nella seguente formula: “Egli viene chiamato Padre non in relazione a sé, ma solo in relazione al Figlio; considerato in se stesso, egli è semplicemente Dio”. Qui sì che viene bene in luce il fatto decisivo. ‘Padre’ è un puro concetto di relazione. Solo nella sua contrapposizione all’Altro, egli è Padre; nel suo essere in sé, egli è semplicemente Dio. La persona, dice puramente un rapporto di correlazione, non altro. In lui però, la correlazione non è qualcosa che venga ad aggiungersi alla persona, come avviene in noi, ove essa sussiste solo in linea di possibilità di rapporto.
Espresso con le immagini classiche della tradizione cristiana, ciò significa questo: la prima persona non genera il Figlio come se alla persona finita venisse ad aggiungersi l’atto del generare, ma è invece il fatto stesso del generare, dell’abbandonarsi, del fluire. Essa si identifica con l’atto di abbandono. Solo in quanto atto siffatto è persona; per cui non è l’essere che si dona, bensì l’atto stesso di donazione; è ‘onda’, non ‘corpuscolo’... Con quest’idea di correlazione esprimentesi nella parola e nell’amore, indipendente dal concetto di ‘sostanza’ e non catalogabile fra gli ‘accidenti’, il pensiero cristiano ha trovato il nucleo centrale del concetto di ‘persona’, che dice qualcosa di ben diverso e infinitamente più alto della semplice idea di ‘individuo’. Ascoltiamo ancora una volta S. Agostino: “In Dio non si danno accidenti, ma solo... sostanza e relazione”. In questa semplice ammissione, si cela un’autentica rivoluzione del quadro del mondo: la supremazia assoluta del pensiero accentrato sulla sostanza viene scardinata, in quanto la relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente del reale. Si rende così possibile il superamento di ciò che noi chiamiamo oggi ‘pensiero oggettivante’, e si affaccia alla ribalta un nuovo piano dell’essere. Con ogni probabilità bisognerà anche dire che il compito derivante al pensiero filosofico da queste circostanze di fatto è ancora ben lungi dall’esser stato eseguito, quantunque il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non sarebbe nemmeno immaginabile.
Nel vangelo di Giovanni, Cristo dice di sé: “Il Figlio non può far nulla da sé” (Gv 5,19-30). Ciò sembra denotare la destituzione da ogni potere cui soggiace il Figlio, egli non ha nulla di proprio, ma è tuttavia presente come Figlio, per cui può agire unicamente attingendo a colui dal quale trae l’essere. Balza quindi subito agli occhi come il concetto di ‘figlio’ sia un’idea di relazione. Chiamandolo ‘Figlio’, Giovanni designa il Signore in una maniera che addita perennemente un principio che sta fuori e sopra di lui; impiega quindi un’espressione che sottintende essenzialmente una correlazione. Viene così a collocare l’intera sua cristologia nel contesto dell’idea di relazione. Formule come quella da noi testé citata non fanno che sottolinearlo; si limitano soltanto quasi a dedurre in modo esplicito ciò che sta racchiuso nel termine ‘figlio’; la relatività che esso implica. Apparentemente, questo sta in contraddizione con quanto lo stesso Cristo dice poi di se stesso, sempre ancora in Giovanni: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Chi però osserva le due affermazioni a distanza ravvicinata, potrà subito rilevare come esse in realtà si richiamino e si postulino a vicenda. Mentre Gesù viene chiamato Figlio, e quindi collocato in posizione ‘relativa’ col Padre, mentre si sviluppa la cristologia sotto forma di dottrina impostata sulla relazione, fluisce automaticamente la totale riconnessione di Cristo al Padre. E proprio perché egli non sta a sé; sta invece in lui, formando così una perenne unità con lui...
Quale importanza rivesta tutto ciò, oltre che per la cristologia, anche per lumeggiare il significato e l’idea dell’esistenza cristiana in genere, viene chiaramente in luce quando Giovanni estende questo pensiero ai cristiani, ossia a coloro che discendono da Cristo. Qui risulta evidente come egli spieghi con la cristologia la posizione tipica del cristiano. A questo proposito, c’imbattiamo nello stesso intrecciarsi delle due serie di asserti che abbiamo notato prima. Parallelamente alla formula “Il Figlio non può far nulla da sé”, che spiega la cristologia come dottrina della relatività partendo dal concetto di ‘figlio’, si dice parlando degli adepti di Cristo, dei suoi discepoli: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). In tal modo, l’esistenza cristiana vissuta assieme a Cristo viene incasellata nella categoria della relazione. E parallelamente alla conseguenza che porta Cristo a dire “Io e il Padre siamo una cosa sola”, sgorga dalle sue labbra la preghiera: “affinché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola” (Gv 17,11-22). La rilevante differenza che stacca quest’ultima impostazione dalla cristologia, viene messa a fuoco dal fatto che l’unione dei cristiani fra loro non viene espressa all’indicativo come un’affermazione tassativa, ma in forma ottativa di preghiera. Vediamo ora di analizzare brevissimamente il tracciato sciorinatoci sotto gli occhi, esaminandolo nei suoi importanti riflessi. Il Figlio in quanto tale non sussiste affatto isolatamente, per conto suo, ma è invece una cosa sola col Padre; siccome non sussiste affatto accanto a lui, non rivendicando nulla di proprio perché sarebbe soltanto lui, non contrapponendo al Padre nulla di esclusivamente suo, non riservandosi alcuno spazio a titolo di pura proprietà sua, egli è ovviamente uguale e identico al Padre. La logica è stringente: se nulla c’è per cui egli sussista meramente a sé, se nella sua esistenza non si dà alcuna vita privata a parte, egli coincide ovviamente con lui, formando “una cosa sola”. Ora, è appunto questa totalitaria fusione tra i due Esseri, che intende esprimere la parola ‘figlio’. Per Giovanni, il termine ‘figlio’ denota un ‘essere-in-derivazione dall’altro’; con tale vocabolo, egli definisce quindi l’essere di questo Uomo come un derivare dall’Altro ed essere polarizzato su di lui, come un essere completamente aperto da entrambi i lati che non conosce alcuno spazio chiuso, riservato al solo ‘io’. Se in tal modo appare chiaro che l’essere di Gesù in quanto Cristo è un essere totalmente aperto, un essere ‘derivante’ e ‘protendentesi’, che non poggia mai su se stesso né sussiste mai per conto suo, è al contempo tanto ovvio che tale essere è pura relazione (non sostanzialità), ed essendo pura relazione è anche pura unità. Ora, ciò che per principio si dice di Cristo, assurge simultaneamente – come già abbiamo visto – ad interpretazione dell’esistenza cristiana. Per Giovanni evangelista, essere cristiani vuol dire essere come il Figlio, diventar figli, e quindi non sussistere in sé e per sé, ma vivere invece in posizione completamente aperta, in ‘derivazione’ e in ‘protensione’. Per il seguace di Cristo, in quanto ‘cristiano’, ciò mantiene tutto il suo valore. E di fronte a tali asserzioni d’altissima portata, egli avvertirà chiaramente quanto poco sia davvero cristiano.

Ed ecco il testo di G. K. Chesterton (da L’uomo eterno, Rubbettino 2008, pp. 281-282):

Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: Egli è amore? La sola giustificazione di tale mistero è la mistica concezione che nella Sua stessa natura c’era qualche cosa di analogo all’autoespressione; qualche cosa che genera, e che contempla quel che ha generato. Senza tale idea, è illogico complicare la estrema essenza della divinità con un’idea come l’amore. Se i moderni realmente abbisognano di una semplice religione di amore, devono cercarla nel Credo atanasiano. La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici.

İstanbul-Costantinopoli, Palazzo di Topkapı, dinanzi al mare, avendo di fronte, sulla sponda asiatica, il quartiere di Kadiköy-Calcedonia: il Concilio di Calcedonia del 451

Il quartiere che porta oggi il nome di Kadiköy, è l’antica Calcedonia. Il nome antico è di origine fenicia e vuol dire “nuova città”, Karkhi Don. Il nome odierno, Kadiköy, è invece parola turca che significa “villaggio del giudice”, perché Maometto II, conquistatore di Costantinopoli, la diede al primo cadı o giudice di Istanbul.

Sappiamo che il Concilio di Calcedonia si svolse, nel 451, nella importantissima Chiesa di S. Eufemia, vergine e martire della persecuzione di Diocleziano, morta nel 303. La Chiesa che era una Chiesa martiriale e che conservava il corpo della santa, venne distrutta negli anni che seguirono l’arrivo dei Turchi e, a tutt’oggi, non si è sicuri della precisa ubicazione. Forse una Chiesa armena ne conserva oggi l’antica localizzazione. Il corpo della santa riposa ora nella Chiesa del Patriarcato Ecumenico al Fener.

Come sempre, ci interessa soprattutto conoscere i testi, subito dopo averli ambientati geograficamente.

Leggiamo un brano della Dichiarazione di Calcedonia:

Questo santo, grande e universale Sinodo, riunito per grazia di Dio e per volontà dei piissimi e cristianissimi imperatori nostri, gli augusti Valentiniano e Marciano, nella metropoli di Calcedonia in Bitinia, nel tempio della santa vincitrice e martire Eufemia, definisce quanto segue...
[Questo concilio], infatti, si oppone a coloro che tentano di separare in due figli il mistero della divina economia; espelle dal sacro consesso quelli che osano dichiarare passibile la divinità dell'Unigenito; resiste a coloro che pensano ad una mescolanza o confusione delle due nature di Cristo; e scaccia quelli che affermano, da pazzi, essere stata o celeste, o di qualche altra sostanza, quella forma umana di servo che Egli assunse da noi; e scomunica, infine, coloro che favoleggiano di due nature del Signore prima dell'unione, ma ne concepiscono una sola dopo l'unione.
Seguendo, quindi, i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l'umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha trasmesso il simbolo dei padri.

Quali tensioni e discussioni avevano preceduto il concilio? Solo a prima vista le questioni teologiche possono sembrare a noi lontanissime. Sono, invece, di una importanza enorme e determinano tutta la nostra spiritualità e la nostra visione cristiana, come cercherò ancora di mostrarvi. Torniamo indietro nel tempo: il concilio di Nicea aveva confermato tutti i cristiani nella fede che Gesù è veramente Dio ed il primo Concilio di Costantinopoli, come abbiamo già visto, aveva affermato che era corretto e necessario chiamare il Figlio “persona”, come il Padre e come lo Spirito: nell’unità di Dio, la Trinità delle persone, la loro comunione di amore. Si andava, però, ponendo un altro problema: poiché il Cristo è Dio, come è unita la sua divinità alla sua umanità? Il Figlio di Dio è persona ed è natura divina – e questo da sempre, ab aeterno – ma come può, allora, assumere una natura umana?

Alcuni teologi del tempo usavano una terminologia che correva il rischio di dare l’idea che divinità ed umanità, in Cristo, fossero così irriducibili l’una all’altra da esserci, di fatto, solo giustapposizione. Dalle loro parole traspariva quasi come se, nel Figlio di Dio incarnato, ci fossero due persone distinte, che si muovevano in simultaneità! È proprio per questo che, prima del concilio di Efeso, Nestorio aveva detto: Maria non può essere detta la Madre di Dio, ma solo la Madre di Gesù – e così facendo aveva come diviso in due Gesù. Il Concilio aveva risposto che, proprio per l’unità del Figlio Incarnato, se Maria era la madre di Gesù, poteva benissimo essere detta – e doveva essere detta – Madre di Dio. Cercate di intuire come, dietro queste affermazioni, si chiarifica proprio la straordinaria novità della fede cristiana. Prima – e al di fuori – del cristianesimo non è data reale comunicazione e comunione fra Dio e l’uomo. Se si afferma l’uno, si perde l’altro, e viceversa. La straordinaria bellezza del cristianesimo sta proprio nell’affermazione che tutta la divinità abita corporalmente in Cristo! Se Efeso aveva escluso l’incomunicabilità fra divinità ed umanità in Cristo, un’altra possibilità era stata avanzata: il Figlio di Dio si fa uomo ma, una volta avvenuta l’incarnazione, l’umanità di Cristo non è più piena umanità, ma è qualcosa di diverso, perché l’umanità non è degna di Dio.

Se era stata rifiutata la cristologia di Apollinare di Laodicea che affermava che in Cristo non c’era la parte umana spirituale, ma solo il corpo, come abbiamo già visto parlando del Costantinopolitano I, negli anni che precedettero il concilio di Calcedonia Eutiche, un monaco costantinopolitano, cominciò ad affermare – siamo nel 448 - che in Gesù, dopo l’Incarnazione, c’era una sola natura (da qui il termine che contraddistingue la sua dottrina: “monofisismo”, da “monos”, “una” e “fusis”, “natura”), quella divina. La divinità, unendosi all’umanità, la modificava, la modificava al punto che non era più vera umanità, ma solo divinità. Gli storici tendono a dire che Eutiche era, forse, più “ignorante” che eretico – non era un vero teologo ed usava i termini teologici in maniera grossolana. Certo è, però, che, volendo tenersi lontano dalle posizioni di Nestorio condannate ad Efeso, volendo cioè giustamente difendere l’unità di Gesù, lo faceva sacrificando la vera, piena e totale umanità del Cristo. Le sue posizioni non del tutto chiare si avvicinavano sia a quelle di Apollinare, sia a quelle dello gnostico Valentino che aveva affermato che, non potendo esserci vera comunione fra Dio e uomo, l’umanità di Cristo era solo “apparenza” (questa dottrina era indicata con il nome di docetismo, da “dokein”, “apparire”). Il Figlio di Dio, secondo la gnosi di Valentino, appare in terra come uomo, sembra uomo, ma in realtà è solamente Dio e mantiene una distanza infinità dall’umanità, non essendo possibile nell’umanità una reale presenza di Dio. Eutiche – questa era la sua terminologia – non riconosceva in Cristo due nature, quella divina e quella umana; piuttosto difendeva la tesi secondo la quale Cristo non era “della stessa sostanza dell’uomo”, perché una volta avvenuta l’Incarnazione delle due nature – che tali erano prima dell’unione - ne era risultata una sola, quella divina.

Calcedonia risponde che l’unione piena del divino e dell’umano, che non è possibile per la sola opera dell’uomo, è invece possibile e reale nell’opera divina dell’Incarnazione. Veramente Cristo è “della stessa natura dell’uomo”, pur essendo insieme “della stessa natura di Dio”! “Il Signore Gesù Cristo è perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo”. La sua persona è divina – qui il Concilio riprende il termine di “ipostasis”, “persona” dal primo Concilio di Costantinopoli – ma questa persona divina sussistente si esprime perfettamente nella natura divina e nella natura umana, oramai non più dissolubili e scindibili.

I cristiani di alcune regioni dell’Impero – in particolare i Copti, cioè i cristiani dell’Egitto, gli Armeni, i Siri, gli Assiri - si separarono dalla comunione ecclesiale e non accettarono le dichiarazioni del concilio. Furono per questo chiamati, per secoli, monofisiti o non-calcedonesi.
Non possiamo, però, non richiamare qui due fatti decisivi per valutare bene ciò che allora successe. Innanzitutto il fatto che, nel loro rifiuto, molto pesò allora il desiderio di una autonomia dalla crescente importanza del patriarcato costantinopolitano e dalla sede imperiale a cui esso era legato. Fra l’altro questa scissione si rivelò poi rovinosa quando, all’epoca dell’invasione araba, nel VII secolo, i cristiani di queste chiese non formarono un fronte unico con Bisanzio, ma, senza comprendere pienamente ciò che stava accadendo e le conseguenze che nei secoli sarebbero seguite sul piano della libertà dell’evangelizzazione, accolsero senza resistenza i conquistatori provenienti dalla penisola arabica.

Il secondo evento che getta una nuova luce sul passato è la presente stagione ecumenica. Tutti i patriarcati di queste chiese (Copte, Sire, Assire, Etiopi, Armene) hanno sottoscritto delle dichiarazioni cristologiche unitamente ai Papi Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi nelle quali si afferma congiuntamente che la fede in Cristo, vero Dio e vero uomo, è assolutamente identica per tutti. Da questo punto di vista, allora, lo scisma con queste Chiese appare veramente superato e non appare più opportuno usare il termine “monofisita” per indicare la loro fede che è, invece, pienamente cattolica. Potete leggere, per approfondire questo, tutti i testi di queste dichiarazioni sul nostro sito www.gliscritti.it alla sezione La Bibbia ed i documenti della Chiesa, l’articolo Cristiani Copti, Siri, Etiopi, Assiri, Armeni Una comune fede cristologica con la Chiesa Cattolica, dopo le incomprensioni del Concilio di Calcedonia. Come per la Chiesa ortodossa, il principale ostacolo alla piena unità resta la questione del Papato.

Interessanti sono poi i canoni disciplinari del Concilio. Vedremo poi al Patriarcato del Fener, il famoso Canone 28, che parla del ruolo della Sede di Costantinopoli, con tutte le conseguenze che ne seguiranno. Vorrei leggervi ora, invece, rapidamente, alcuni canoni che parlano del clero. Evidentemente cominciavano ad esserci preti che giravano da una parte all’altra – e già Nicea si era posto questo problema - senza avere un incarico preciso, senza una obbedienza chiara ad un vescovo, senza una reale appartenenza ad una Diocesi o ad un monastero. Il Concilio nega allora, contro costoro, le ordinazioni dette “assolute”, cioè sciolte da legami ecclesiali. Non è solo una questione giuridica: è la riaffermazione che la vita cristiana si vive nella comunione. E come la vita familiare vive della comunione dell’uomo e della donna, così la vita sacerdotale e religiosa vive dell’obbedienza al vescovo od all’abate e della comunione con i confratelli nel ministero.
Leggiamo alcuni canoni:

V.
Un chierico non deve passare da una chiesa ad un'altra.
Quanto ai vescovi e chierici che passano da una città ad un'altra, si è deciso che conservino tutto il loro vigore quei canoni che sono stati stabiliti dai santi padri su questo argomento.

VI.
Nessun chierico deve essere ordinato assolutamente.
Nessuno dev'essere ordinato sacerdote, o diacono, o costituito in qualsiasi funzione ecclesiastica, in modo assoluto. Chi viene ordinato, invece, dev'essere assegnato ad una chiesa della città o del paese, o alla cappella di un martire, o a un monastero. Il santo Sinodo comanda che una ordinazione assoluta sia nulla, e che l'ordinato non possa esercitare in alcun luogo a vergogna dì chi l'ha ordinato.

X.
Non è lecito ad un chierico servire in due chiese di due diverse città.
Non è lecito che un chierico presti il suo servizio nello stesso tempo in due città, in quella, cioè, nella quale fu ordinato, e in quella, nella quale fuggì, credendola migliore, per desiderio di vana gloria. Quelli che facessero così, devono essere richiamati alla propria chiesa, nella quale da principio furono ordinati, ed ivi prestare il loro servizio liturgico. Se, però, qualcuno, si fosse già trasferito da una chiesa ad un'altra, non interferisca in nessun modo negli affari dell'altra chiesa, né nei santuari, negli ospizi per i poveri, nelle case per forestieri che sono sotto di essa. Chi osasse, dopo questa disposizione di questo grande e universale concilio, fare alcunché di quanto è stato proibito, questo santo sinodo stabilisce che decada dal proprio grado.

XIII.
I chierici non possono esercitare il servizio liturgico in altre città senza lettere commendatizie.
I chierici e i lettori forestieri non devono assolutamente compiere un servizio liturgico in un'altra città senza le lettere commendatizie del proprio vescovo.

İstanbul-Costantinopoli, Palazzo di Topkapı, dinanzi ai resti degli edifici bizantini, sparsi qua e là nel palazzo (dinanzi al fonte battesimale che è conservato nel III cortile): appunti sulla Lettera a Diogneto

Il manoscritto dell’A Diogneto fu scoperto casualmente nel 1436 a Costantinopoli, pochi anni prima della caduta della capitale dell’impero bizantino. Il Codice che conteneva l’A Diogneto fu notato in una pescheria, ove era adibito a carta da imballaggio (così S. Zincone, nell’Introduzione alla sua traduzione dell’A Diogneto, Borla, Roma, 1977, p. 7).

Il manoscritto cartaceo di 260 pagine, che si suole designare con la lettera F, conteneva 22 scritti di genere apologetico, di epoche diverse; i primi 5 erano attribuiti dal copista a Giustino filosofo e di questi l’ultimo è l’A Diogneto. L’erronea attribuzione fece sì che, per un certo tempo, l’A Diogneto fosse attribuita a Giustino stesso. L’editio princeps è del 1592. Dopo varie peripezie il documento arrivò nella Biblioteca municipale di Strasburgo dove fu distrutto nel 1870 in seguito ad un bombardamento dell’artiglieria prussiana.

Non si tratta, in realtà, di una lettera, ma di un breve trattato apologetico che presenta la fede cristiana ai pagani, in specie ad un personaggio di nome Diogneto. Gli studiosi non sono d’accordo sul luogo di origine dello scritto (si pensa all’ambiente alessandrino, ma anche a quello asiatico o a Roma), né sulla datazione (si ipotizza la fine del II secolo o anche il III secolo, ma c’è anche chi anticipa la data di composizione).
Il testo critica prima gli idoli degli dèi pagani come opera dell’uomo, secondo uno schema conosciuto anche da altri autori cristiani; passa poi a criticare la religione ebraica che, pur affermando l’unicità di Dio, pretende di adorarlo con sacrifici animali, con leggi alimentari e con la differenziazione dei giorni sacri del calendario:

I. 1. Vedo, ottimo Diogneto, che tu ti accingi ad apprendere la religione dei cristiani e con molta saggezza e cura cerchi di sapere di loro. A quale Dio essi credono e come lo venerano, perché tutti disdegnano il mondo e disprezzano la morte, non considerano quelli che i greci ritengono dèi, non osservano la superstizione degli ebrei, quale amore si portano tra loro, e perché questa nuova stirpe e maniera di vivere siano comparsi al mondo ora e non prima. [...]

III. 1. Inoltre, credo che tu piuttosto desideri sapere perché essi non adorano Dio secondo gli ebrei. [...] 5. Quelli che con sangue, grasso e olocausti credono di fargli sacrifici e con questi atti venerarlo, non mi pare che differiscano da coloro che tributano riverenza ad oggetti sordi che non possono partecipare al culto. Immaginarsi poi di fare le offerte a chi non ha bisogno di nulla! [...]

IV. 2. Non è ingiusto accettare alcuna delle cose create da Dio ad uso degli uomini, come bellamente create e ricusarne altre come inutili e superflue? 3. Non è empietà mentire intorno a Dio come di chi impedisce di fare il bene di sabato? 4. Non è degno di scherno vantarsi della mutilazione del corpo, come si fosse particolarmente amati da Dio? 5. Chi non crederebbe prova di follia e non di devozione inseguire le stelle e la luna per calcolare i mesi e gli anni, per distinguere le disposizioni divine e dividere i cambiamenti delle stagioni secondo i desideri, alcuni per le feste, altri per il dolore? [...]

Segue la parte più bella e giustamente famosa, nella quale si descrive come la fede cristiana non consista in alcuna differenziazione esteriore, ma nell’amore di Dio e nella conversione del cuore all’amore dei fratelli:

V. 1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. 5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell'odio.

Il capitolo VI paragona la presenza dei cristiani nel mondo all’azione dell’anima nel corpo:

VI. 1. A dirla in breve, come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. 2. L'anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. 3. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile. 5. La carne odia l'anima e la combatte pur non avendo ricevuto ingiuria, perché impedisce di prendersi dei piaceri; il mondo che pur non ha avuto ingiustizia dai cristiani li odia perché si oppongono ai piaceri. 6. L'anima ama la carne che la odia e le membra; anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7. L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. 8. L'anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l'incorruttibilità nei cieli. 9. Maltrattata nei cibi e nelle bevande l'anima si raffina; anche i cristiani maltrattati, ogni giorno più si moltiplicano. 10. Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare.

Si passa poi al cuore dell’annunzio, alla piena conoscenza divina che, impossibile da raggiungere da parte dell’uomo, fu invece donata da Dio tramite il suo Figlio:

VII. 1. Infatti, come ebbi a dire, non è una scoperta terrena da loro tramandata, né stimano di custodire con tanta cura un pensiero terreno né credono all'economia dei misteri umani. 2. Ma quello che è veramente signore e creatore di tutto e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo, tra gli uomini, la verità, la parola santa e incomprensibile e l'ha riposta nei loro cuori. Non già mandando, come qualcuno potrebbe pensare, qualche suo servo o angelo o principe o uno di coloro che sono preposti alle cose terrene o abitano nei cieli, ma mandando lo stesso artefice e fattore di tutte le cose, per cui creò i cieli e chiuse il mare nelle sue sponde e per cui tutti gli elementi fedelmente custodiscono i misteri. [...]
3. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, lo inviò per la tirannide, il timore e la prostrazione? 4. No certo. Ma nella mitezza e nella bontà come un re manda suo figlio, lo inviò come Dio e come uomo per gli uomini; lo mandò come chi salva, per persuadere, non per far violenza. A Dio non si addice la violenza. 5. Lo mandò per chiamare non per perseguitare; lo mandò per amore non per giudicare. 6. Lo manderà a giudicare, e chi potrà sostenere la sua presenza? [...]

VIII. 5. Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. 6. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. 7. Dio, signore e creatore dell'universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. 8. Tale fu sempre, è e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono. 9. Avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. 10. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. 11. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall'inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe aspettato? [...]

Il piano di Dio, l'economia divina, rivela in Cristo tutto il mistero della storia:

IX. 6. Egli, che prima ci convinse dell'impotenza della nostra natura per avere la vita, ora ci mostra il salvatore capace di salvare anche l'impossibile. Con queste due cose ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita, senza preoccuparsi del vestito e del cibo. [...]

La carità è il cuore di tutto il cristianesimo:

X. 3. Una volta conosciutolo, hai idea di qual gioia sarai colmato? Come non amerai colui che tanto ti ha amato? 4. Ad amarlo diventerai imitatore della sua bontà, e non ti meravigliare se un uomo può diventare imitatore di Dio: lo può volendolo lui (l'uomo). 5. Non si è felici nell'opprimere il prossimo, nel voler ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori. In questo nessuno può imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! 6. Ma chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l'inferiore; chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio. [...]

Il testo si conclude con una meditazione sull’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male nel libro della Genesi. Il testo è ormai illuminato dalla fede cristiana e rivela la vera essenza del peccato:

XII. 1. Attendendo e ascoltando con cura, conoscerete quali cose Dio prepara a quelli che lo amano rettamente. Diventano un paradiso di delizie e producono in se stessi, ornati di frutti vari, un albero fruttuoso e rigoglioso. 2. In questo luogo, infatti, fu piantato l'albero della scienza e l'albero della vita; non l'albero della scienza, ma la disubbidienza uccide. 3. Non è oscuro ciò che fu scritto: che Dio da principio piantò in mezzo al paradiso l'albero della scienza e l'albero della vita, indicando la vita con la scienza. Quelli che da principio non la usarono con chiarezza, per l'inganno del serpente furono denudati. 4. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino. 5. L'apostolo, comprendendo questa forza e biasimando la scienza che si esercita sulla vita senza la norma della verità, dice: «La scienza gonfia, la carità, invece, edifica». 6. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita. Lui, invece, con timore conosce e cerca la vita, pianta nella speranza aspettando il frutto. 7. La scienza sia il tuo cuore e la vita la parola vera recepita. 8. Portandone l'albero e cogliendone il frutto abbonderai sempre delle cose che si desiderano davanti a Dio, che il serpente non tocca e l'inganno non avvince; Eva non è corrotta ma è riconosciuta vergine. Si addita la salvezza, gli apostoli comprendono, la Pasqua del Signore si avvicina, si compiono i tempi e si dispongono in ordine, e il Verbo che ammaestra i santi si rallegra. Per lui il Padre è glorificato; a lui la gloria nei secoli. Amen.

İstanbul/Costantinopoli: l’ippodromo

Dinanzi all’obelisco di Teodosio
Siamo nella piazza che ripete, più o meno, il tracciato dell’antico “circo” di Costantinopoli, eretto proprio davanti al palazzo imperiale. Possiamo immaginare, dove è ora la Moschea blu – che porta il nome di Sultan Ahmet Camii – l’antico kathisma, o palco imperiale, dal quale l’imperatore assisteva alle gare. È possibile vedere raffigurato questo palco proprio sul basamento dell’obelisco che Teodosio fece erigere intorno all’anno 390 d.C. sulla spina centrale dell’ippodromo. Vedete Teodosio raffigurato quattro volte sul basamento dell’obelisco. Tutte e quattro le volte vi appare l’imperatore, una prima volta con i suoi familiari, poi mentre riceve l’omaggio dei nemici vinti (e sotto queste due raffigurazioni simmetriche sta l’iscrizione in greco ed in latino, ad indicare che si tratta ancora dell’impero romano!), mentre sugli altre due lati si vede l’imperatore che assiste proprio all’erezione dell’obelisco e che incorona i vincitori della corsa delle quadrighe.
I quattro famosissimi cavalli di San Marco a Venezia erano situati sopra il kathisma e furono depredati nel 1204 dai crociati, aizzati dalla repubblica di Venezia, che ottenne così le preziose statue equestri oltre a molti altri oggetti trafugati.

Vedete che, nel lato dell’obelisco dove è la raffigurazione del circo con le quadrighe, si vedono chiaramente quattro squadre. Due erano, però, i demi, cioè le squadre, più famose, quella degli azzurri e quella dei verdi; in alcune età dell’impero se ne sono però contate quattro, a imitazione delle quattro del Circo Massimo di Roma. Non erano solo squadre per le quali si tifava, ma erano anche veri e propri gruppi di influenza politica e di orientamento del sentire delle masse della capitale.
Proprio su questa piazza si svolse un famoso episodio che ci fa percepire l’importanza di questi giochi nell’antichità. Nell’anno 532, mentre era imperatore Giustiniano, si accordarono i due demi degli azzurri e dei verdi, scontenti della politica imperiale, e si ribellarono a lui in questa piazza ed elessero un nuovo imperatore al grido di Nika (“vinci”!) che era il grido con il quale avveniva l’incitamento e l’acclamazione nelle corse – l’episodio è, infatti, passato alla storia come la “rivolta di Nika”. Giustiniano si vide perduto e stava per fuggire; fu solamente la moglie Teodora a trattenerlo ed a fargli coraggio. Nel frattempo Narsete riuscì a ricucire l’alleanza con gli azzurri e Belisario si presentò nell’ippodromo con i soldati fedeli all’imperatore (sono i due grandi e famosi personaggi che conoscete per le vicende italiane, di Ravenna e Roma in particolare). Ci fu una strage di migliaia di rivoltosi ad opera delle truppe imperiali ed, infine, Giustiniano riuscì a riprendere in mano la situazione e salvò il suo regno. Nella rivolta si sviluppò anche un incendio che distrusse Santa Sofia e portò, poi, alla costruzione dell’attuale, avvenuta appunto durante il regno di Giustiniano.

Vogliamo però soffermarci su di un episodio molto importante per la storia del cristianesimo che si svolse proprio in questo ippodromo nel VII secolo d.C. e che precedette il Concilio Costantinopolitano III, del quale parleremo in Santa Sofia. Quel Concilio proclamò la presenza in Cristo di due volontà, quella umana e quella divina, in perfetto accordo fra di loro. Prima del Concilio (689-681), già alla metà del VII secolo, Roma difendeva questa tesi, mentre l’imperatore era schierato a favore della tesi teologica che voleva che in Cristo ci fosse solo la volontà divina (era, cioè, sostenitore della dottrina “monotelita”, come vedremo meglio). Non riuscendo ad avere ragione del pontefice, l’imperatore si risolse ad imporre l’obbligo per tutti di tacere su questa discussione teologica, affermando che solo questo avrebbe permesso la concordia all’interno dell’impero. La politica voleva sottomettere a sé la teologia ed usare la religione in funzione della salvaguardia della tranquillità degli animi.

Già Costantino imperatore si era illuso di rapportarsi alla fede cristiana così come i suoi predecessori si erano rapportati alla religione pagana: dopo un primo momento nel quale aveva convocato il concilio di Nicea ed accettato la condanna di Ario, aveva cercato poi di farlo riammettere nella comunione ecclesiale, invocando la tranquillitas imperii. Non comprendeva che l’esigenza di verità era insita nella fede cristiana, proprio a motivo della rivelazione divina avvenuta nell’incarnazione di Cristo.

Vi ho distribuito un breve testo di Manlio Simonetti che è estremamente illuminante in materia:

(da M. Simonetti, Costantino e la chiesa, in Costantino il grande. La civiltà antica al bivio traOccidente e Oriente, A. Donati – G. Gentili (a cura di ), SilvanaEditoriale, Milano, 2005, pp. 56-63)
«Se infatti Costantino, quando si autoelesse capo della chiesa, aveva pensato di assumersi un incarico privo di complicazioni, quale era la funzione di pontefice massimo, aveva fatto male i suoi calcoli, in quanto aveva sottovalutato una caratteristica forte, che specificava la chiesa cristiana nei confronti delle religioni pagane, vale a dire la grande litigiosità interna. A differenza di quelle religioni, quella cristiana aveva alle spalle una sua storia e continuava a viverla giorno per giorno, storia tormentata, a volte convulsa, perché fatta in gran parte di contrasti e polemiche, rivolte non solo all'esterno, nel confronto con pagani e giudei, ma anche, e addirittura soprattutto, all'interno, per motivazioni di carattere sia dottrinale sia anche disciplinare.
Quanto a Costantino, e al figlio Costanzo che avrebbe seguito, in sostanza, la politica paterna, il fallimento sarebbe stato dovuto al rifiuto, da parte della maggior parte degli interessati, anche se non di tutti, di distinguere tra forma e sostanza, tra l'accettazione soltanto esteriore di una professione di fede e l'adesione intima a un'altra. Il patrimonio di dottrina, che specificava la religione cristiana di fronte a quella pagana, che ne era priva, e anche a quella giudaica, dove era di entità molto più ridotta e di significato molto meno vincolante, era sentito come componente essenziale del deposito di fede e perciò tale da imporre un'osservanza in cui sostanza e forma s'identificassero, perciò senza distinzione tra adesione esterna e interna. La rabies theologorum era perciò destinata ad avere la meglio sulla moderazione di una politica di compromesso. Tale stato di cose complicava di molto l'esercizio del potere dell'imperatore sulla chiesa, in quanto lo sollecitava o a forzare eccessivamente la mano nel tentativo di imporre la soluzione di compromesso ovvero di addentrarsi addirittura nell'aspetto tecnico del contenzioso in esame alla ricerca di una soluzione non soltanto formale, col rischio di concedere troppo, per ovvia necessità, ai teologi di professione e di trovarsi in difficoltà nell'arginare la loro invadenza. Nell'un caso e nell'altro l'inevitabile interferenza del potere politico in questioni di specifico interesse religioso non poteva non generare uno stato di disagio e provocare reazioni».

Come ai tempi di Costantino così si comportò anche ora, dinanzi alle discussioni monotelite, l’imperatore. Costante II, infatti, emanò un editto, noto come Typos, che vietava ogni discussione in merito. Papa Martino I, per tutta risposta, non appena eletto convocò un sinodo a Roma, per affermare che in Cristo erano presenti le due volontà, quella umana e quella divina.

Costante II, allora, inviò un primo esarca a mettere a tacere il papa, ma questi non vi riuscì. Allora ne inviò un secondo che si insediò nel palazzo imperiale del Palatino. Papa Martino I, che era malato, si fece porre con il suo letto dinanzi all’altare della cattedrale di S. Giovanni in Laterano. L’esarca aspettò che passasse la domenica e nella notte successiva entrò con i soldati in S. Giovanni ed arrestò Martino I. Fece aprire le porte della città e condusse in esilio il pontefice. Un monaco costantinopolitano, che si chiamava Teodoro Spudeo, di Santa Sofia, ha scritto dei documenti che ci informano su ciò che avvenne. Il papa fu condotto a Costantinopoli e, durante il viaggio, gli fu addirittura impedito di lavarsi per 47 giorni. Giunto nella capitale dovette aspettare 93 giorni per essere interrogato. Infine, il processo si rivelò una farsa. Fu condotto qui all’ippodromo ed accusato davanti alla popolazione di aver tradito l’impero. Fu condannato a morte e, dinanzi a tutti, gli vennero strappate le vesti sacerdotali. L’imperatore, dal kathisma, tramutò la condanna a morte in esilio ed egli fu inviato in Crimea, dove morì di stenti pochi anni dopo. La stessa sorte dovette subire il monaco Massimo il Confessore che difendeva le stesse tesi del papa.

Martino I viene ricordato come confessor fidei, perché, pur non essendo stato ucciso direttamente, ha pagato con l’esilio e con la morte di stenti la difesa della fede cattolica: senza una piena volontà umana, Cristo non sarebbe stato vero uomo, ma solo un corpo nelle mani della divinità.

İstanbul-Costantinopoli, Chiesa della Santa Sofia: il II ed il III concilio di Costantinopoli

Eccoci dinanzi all’edificio più bello di İstanbul, la chiesa della Santa Sofia. Innanzitutto una breve spiegazione, che a me pare importantissima, del nome stesso. Come per la Chiesa della Santa Irene, della Santa Pace – e non di Santa Irene! – così qui la corretta traduzione è: Chiesa della Divina Sapienza, della Santa Sofia. E non di Santa Sofia! La Santa Sofia, la Santa Sapienza divina è il Verbo, il Logos incarnato, è Gesù! Santa Sofia è una Chiesa dedicata a Gesù in quanto Sapienza di Dio. Nella sua Storia ecclesiastica Socrate scrive che la Grande Chiesa di Costantinopoli è dedicata a Cristo chiamato, “sulla scorta di Salomone, Sapienza di Dio”. Ecco la lettura cristiana dell’Antico Testamento e l’unità delle Scritture che ci appare e ci rivela l’unità del progetto divino! Quando Salomone – a lui la tradizione attribuisce i più tardivi libri sapienziali della Bibbia – ci parla dell’esistenza della “sapienza”, di “Colei che giocava con Dio prima della creazione del mondo”, di “Colei che deve essere amata e cercata al di sopra di ogni bene terreno e della stessa salute e bellezza”, il grande re sapiente profetizzava ed annunciava, secondo il sensus plenior delle Scritture, la realtà del Figlio di Dio da sempre presente accanto al Padre. La “sapienza” è così la pre-figurazione di Colui “per mezzo del quale tutto ciò che esiste è stato fatto” (Gv 1).

Anche se talvolta troviamo l’attribuzione della fondazione di questa chiesa allo stesso Costantino, dagli studi recenti appare chiaramente che la chiesa fu voluta e poi consacrata nel 360 da suo figlio Costanzo II. Quasi nulla sappiamo della sua architettura originaria. Sappiamo però che la Chiesa fu data alle fiamme e distrutta nel 404, quando una rivolta popolare fu scatenata dagli ambienti di corte contro il patriarca S. Giovanni Crisostomo che, invece, era amatissimo dal popolo. Giovanni – che sarà poi detto Crisostomo, cioè “bocca d’oro”, per la bellezza della sua predicazione – arrivò a Bisanzio da Antiochia, dove era vescovo, alla morte del patriarca di Costantinopoli, convocato dalla Corte imperiale senza che gli fosse comunicato il motivo: era stato designato per essere patriarca. Giunto alle porte della capitale, ebbe la comunicazione della decisione: era ormai troppo tardi per tornare indietro e fu costretto ad accettare. Fu consacrato vescovo nel 398. La sua predicazione, però, che censurava i costumi della Corte stessa, del clero, dei monaci, provocò amori ed odi crescenti, fino al punto che cadde in disgrazia presso la stessa imperatrice Eudossia, presso le Dame di Corte e parte degli ambienti monastici e clericali, pur essendo amatissimo da parte del popolo. Venne deposto. Venne però poi riammesso alla carica patriarcale. Ma, nella notte di Pasqua del 404, la folla, spinta segretamente dai suoi nemici, invase le Chiese e le profanò – e, appunto, venne data alla fiamme la Chiesa della Santa Sofia. L’imperatore decise allora l’esilio del Crisostomo[5]. L’esilio durerà tre anni e Giovanni sarà spinto sempre più lontano da Costantinopoli, prima a Cucusa, in Armenia, poi a Pityus sul Mar Nero, poi verso Comana, nella Colchide – e durante quest’ultimo viaggio morirà, stremato dalla fatica. Gli saranno di conforto solo le lettere che scambierà con gli amici: ci sono rimaste le Lettere ad Olimpiade, “diaconessa” di Costantinopoli, che aveva parteggiato per lui, la Lettera dall’esilio e la Lettera sulla Provvidenza divina.

L’imperatore Teodosio II ricostruì allora Santa Sofia, ma anche questa seconda costruzione fu distrutta nella rivolta detta di “Nike”, scoppiata nel 532, nel quinto anno dell’imperatore Giustiniano, della quale abbiamo già parlato. Alcuni resti di questa costruzione teodosiana sono tuttora visibili, dinanzi all’attuale ingresso della Chiesa. Potete vedere la trabeazione del portico di questa “seconda” Santa Sofia, con i bassorilievi dei 12 apostoli, rappresentati da altrettante pecorelle – e simbolo della Chiesa intera.

L’attuale S. Sofia è allora la terza costruzione, che Giustiniano fece erigere sulle precedenti, ma, questa volta, con un impianto architettonico unico al mondo: una navata sulla quale insiste la cupola. La costruzione è talmente ardita che fu necessario più volte porre mano alla cupola per i crolli successivi di parte di essa. Ma è veramente una meraviglia.

Proprio sotto Giustiniano, in una sala annessa alla Chiesa della Santa Sofia, si celebrò il V concilio ecumenico, detto secondo concilio di Costantinopoli, nel 553, il quinto concilio ecumenico. Il Concilio nacque dal desidero di fare un passo di conciliazione verso i monofisiti, che si erano separati con Calcedonia. Nel corso del secondo concilio di Costantinopoli vennero condannate le dottrine di tre autori già morti, Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa – appartenevano tutti alla cosiddetta “scuola di Antiochia” – che erano ritenuti gli ispiratori delle posizioni eretiche di Nestorio, contro le quali si era levato Eutiche, condannato a sua volta. Le posizioni da rifiutare, essendo legate a tre autori, vennero chiamate allora i “Tre Capitoli”. Papa Vigilio fu fatto venire da Roma e, dopo lunghe esitazioni, firmò anch’egli la condanna dei Tre Capitoli.

Ma, soprattutto, le Dichiarazioni conciliari insistettero sulla linea di Calcedonia, sull’unità dell’unica persona divina di Cristo, pur nelle sue due nature: e, nuovamente, nel dogma cristiano è veramente espressa la meraviglia della fede. È l’unica persona divina, è l’unico Figlio di Dio, che, nella carne umana, ha sofferto la croce. Non c’è un secondo soggetto, una seconda persona che avrebbe sofferto nell’umanità, lasciando fuori la persona stessa del Figlio o sostituendosi ad essa nel momento della passione! “Unus de Trinitate passus”, è la formula di Costantinopoli II. Si vuole evitare ogni rischio che si pensi a due persone in Gesù: c’è un’unica persona in due nature. La natura umana di Cristo non è un’altra persona che sta a fianco della persona divina, ma c’è un’unica persona in Cristo. Meglio: Cristo è un’unica persona. Questa è la fede cristiana. Leggiamo allora alcune delle definizioni del Concilio:

III. Se qualcuno afferma che il Verbo di Dio che opera miracoli non è lo stesso Cristo che ha sofferto, o anche che il Dio Verbo si è unito col Cristo nato dalla donna, o che egli è in lui come uno in un altro; e non confessa invece, un solo e medesimo signore nostro Gesù Cristo, Verbo di Dio, che si è incarnato e fatto uomo, al quale appartengono sia le meraviglie che le sofferenze che volontariamente ha sopportato nella sua carne, costui sia anatema.
IV. Se qualcuno dice che l'unione del Verbo di Dio con l'uomo è avvenuta solo nell'ordine della grazia, o in quello dell'operazione, o in quello dell'uguaglianza di onore, o nell'ordine dell'autorità, o della relazione, o dell'affetto, o della virtù; o anche secondo il beneplacito, quasi che il Verbo di Dio si sia compiaciuto dell'uomo, perché lo aveva ben giudicato, come asserisce il pazzo Teodoro; ovvero secondo l'omonimia per cui i Nestoriani, chiamando il Dio Verbo col nome di Gesù e di Cristo, e poi, separatamente, l'uomo, "Cristo e Figlio", parlano evidentemente di due persone, anche se fingono di ammettere una sola persona e un solo Cristo, solo di nome, e secondo l'onore, e la dignità e l'adorazione; egli non ammette, invece, che l'unione del Verbo di Dio con la carne animata da anima razionale e intelligente, sia avvenuta per composizione, cioè secondo l'ipostasi, come hanno insegnato i santi padri; e quindi nega una sola persona in lui, e cioè il Signore Gesù Cristo, uno della santa Trinità, costui sia scomunicato. Poiché, infatti, l'unità si può concepire in diversi modi, gli uni, seguendo l'empietà di Apollinare e di Eutiche, e ammettendo l'annullamento degli elementi che formano l'unità, parlano di un'unione per confusione; gli altri, seguendo le idee di Teodoro e di Nestorio, si compiacciono della separazione, e parlano di una unione di relazione. La santa chiesa di Dio, rigettando l'empietà dell'una e dell'altra eresia, confessa l'unione di Dio Verbo con la carne secondo la composizione, ossia secondo l'ipostasi. Questa unione secondo la composizione nel mistero di Cristo, salvaguarda dalla confusione degli elementi che concorrono all'unità, ma non ammette la loro divisione.

Purtroppo il Concilio non riuscì lo stesso a ricucire lo strappo che a Calcedonia si era verificato con i cristiani dell’Egitto, della Siria, dell’Armenia, cioè con i cosiddetti monofisiti (abbiamo già visto, parlando di Calcedonia, come le recenti dichiarazioni cristologiche firmate da Paolo VI e Giovanni Paolo II con i patriarchi di queste chiese abbiano condotto, invece, oggi alla certezza che la fede in Cristo è comune e che non c’è alcuna differenza teologica in questo campo fra i cattolici ed i cristiani di quelle chiese, perché veramente anche per loro Cristo è vero Dio e vero uomo, nell’unità della sua persona divina).

Voglio parlarvi qui anche del VI concilio ecumenico, il terzo Concilio di Costantinopoli, che si svolse qui vicino a noi, nella sala a cupola (detta appunto “trullos”) del Palazzo imperiale o Palazzo Magnaura. È per questo che il concilio viene anche chiamato “Concilio trulliano”. Essendo stato distrutto il Palazzo dai Turchi, dopo la caduta di Costantinopoli, non possiamo localizzare con certezza dove si trovasse questa sala, ma certo era nell’area che è qui intorno a noi.
Il terzo concilio di Costantinopoli è il Concilio che vide trionfatrice la posizione che era stata di Martino I, di cui già abbiamo parlato all’Ippodromo. Per affermare la presenza in Cristo, oltre della volontà divina, anche della piena volontà umana, fu deportato e morì di stenti in esilio, come abbiamo visto.

Vediamo meglio la riflessione teologica che portò a questo concilio. La questione del rapporto fra la divinità e l’umanità in Cristo è così importante che anche questo sesto concilio ecumenico torna, da un nuovo punto di vista – quello della “volontà” - sulla stessa questione: la divinità e l’umanità di Cristo. Ma non è questa la questione decisiva della vita dell’uomo? Quale rapporto c’è fra il tempo e l’eterno, fra Dio e l’uomo, fra il Salvatore e la nostra vicenda umana? La chiesa sa – ed i Concili lo testimoniano – che i rapporti fra il tempo e l’eternità, fra il peccato e la salvezza, non si giocano in teorie filosofiche, ma nella vicenda personale dell’Incarnazione, della Croce e della Resurrezione del Signore. È in Cristo la chiave di volta di tutta la vita!

Dunque il problema della “volontà” in Cristo. La corrente monofisita affermava ora - siamo nel VII secolo - che nella persona di Cristo non c’era stata una volontà umana. In Lui era Dio a volere e l’umanità di Gesù era una umanità senza volontà. L’argomento che essi portavano nasceva ancora una volta dal desiderio di differenziarsi dalle posizioni di Nestorio: se Cristo avesse “voluto” come uomo, se avesse avuto una “volontà umana”, ci sarebbero state in Lui – dicevano - come due persone, come due vite parallele, senza contatto, simultanee, ma indipendenti. In Cristo, allora, solo Dio voleva. I difensori di queste posizioni vennero chiamati “monoenergeti” (coloro che affermavano “una sola attività” in Cristo) e successivamente, negli sviluppi della disputa, “monoteliti (coloro che sostenevano esserci in Cristo “una sola volontà”)

I Padri del III Concilio di Costantinopoli si riunirono allora negli anni 680-681 – il Concilio fu convocato dall’imperatore Costantino IV, ma sulla linea proposta già da Martino I e poi dal Papa S. Agatone – e scrissero questa Dichiarazione conciliare:

Predichiamo, in Cristo, due volontà naturali e due operazioni naturali, indivisibilmente, immutabilmente, inseparabilmente, inconfusamente, secondo l'insegnamento dei santi padri. Due volontà naturali che non sono in contrasto fra loro (non sia mai detto!), come dicono gli empi eretici, ma tali che la volontà umana segua, senza opposizione o riluttanza, o meglio, sia sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente. Era necessario, infatti, che la volontà della carne fosse mossa e sottomessa al volere divino, secondo il sapientissimo Atanasio. Come, infatti, la sua carne si dice ed è carne del Verbo di Dio, così la naturale volontà della carne si dice ed è volontà propria del Verbo di Dio, secondo quanto egli stesso dice: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato, intendendo per propria volontà quella della carne, poiché anche la carne divenne sua propria: come, infatti la sua santissima, immacolata e animata carne, sebbene deificata, non fu distrutta, ma rimase nel proprio stato e nel proprio modo d'essere, così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu annullata, ma piuttosto salvata, secondo quanto Gregorio, divinamente ispirato, dice: "Quel volere, che noi riscontriamo nel Salvatore, non è contrario a Dio, ma anzi è trasformato completamente in Dio"...
Ammettiamo, inoltre, nello stesso signore nostro Gesù Cristo, nostro vero Dio, due naturali operazioni, senza divisioni di sorta, senza mutazioni, separazioni, confusioni; e cioè: un'operazione divina e un'operazione umana,

I Padri del Costantinopolitano III affermarono così che se Cristo non avesse avuto una volontà umana non sarebbe stato vero uomo, non sarebbe stato della nostra stessa natura umana. In maniera molto chiara – e bella – il Catechismo della Chiesa Cattolica così sintetizza l’affermazione del Concilio: “Cristo ha due volontà e due operazioni, divine ed umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza. La volontà umana di Cristo segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina ed onnipotente”.

Non solo non c’è opposizione, ma la realtà meravigliosa dell’Incarnazione è che Cristo desideri umanamente quella che è la volontà di Dio; la bellezza del cristianesimo è proprio che il Cristo umanamente “faccia tutto ciò che ha visto fare al Padre”!

Si apre qui anche il vertiginoso cammino della sequela cristiana, la convinzione radicata nella fede che è bene seguire la sua volontà, che “in sua voluntade è nostra pace” (come scrisse Dante). Ma questa via ci è aperta perché in Cristo pienamente la volontà umana si è piegata con gioia e fiducia a quella divina. Ci tornano in mente le parole della lettera agli Ebrei che non ci stancheremo mai di meditare: “Imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8).

Così anche il III Concilio di Costantinopoli ci mette dinanzi al mistero; non per decisione umana la volontà divina e quella umana si accordano, anzi l’uomo non riesce neppure a pensare questo, balbetta dinanzi a questo! Il cristiano si accorge, però, dinanzi a questo mistero che ben poca cosa sarebbe stata una salvezza compiuta da Dio abrogando la volontà umana. Se, nella condizione di peccato, la volontà umana e quella divina si oppongono e confliggono - l’uomo nel peccato sospetta della volontà di Dio, come vediamo nel peccato di origine - nel dono dell’Incarnazione l’umanità non ha più alcuna riluttanza, anzi ama che la volontà divina divenga forma della volontà umana. Il destino della volontà umana si manifesta allora essere proprio quello della fiducia piena nella volontà divina.

Se vogliamo, a questo punto, riassumere i primi sette concili ecumenici – mi piacerebbe li imparaste quasi a memoria – possiamo dire:

Parleremo ancora della storia della Chiesa della Divina Sapienza, commentando i mosaici che si sono conservati all’interno.

İstanbul-Costantinopoli, Chiesa della Santa Sofia: i mosaici

Solo alcune parole sui mosaici che via via ammiriamo. I crolli hanno fatto la loro parte nel deterioramento delle immagini, ma, come vedremo a San Salvatore in Chora, parlando del patrimonio bizantino di Costantinopoli, c’è stato un sistematico lavoro teso a far sparire le immagini, nella conversione delle Chiese in moschee, per il rifiuto delle immagini nella tradizione islamica. Ma torneremo a parlarne a San Salvatore. Qui ricordiamo solo che il sultano Mehmed II (Maometto II) entrando il 29 maggio 1453 in Santa Sofia, fece subito recitare in essa la preghiera islamica “Non esiste altro Dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” e trasformò così – ipso facto - la Chiesa in una moschea. Da quel momento in poi Santa Sofia sarà la moschea Aya Sofya. Differentemente si era comportato il sultano Omar, quando aveva voluto pregare, appena conquistata Gerusalemme nel 614, al di fuori del Santo Sepolcro, conservandogli così la dignità di Chiesa. Secondo la tradizione disse: “Se avessi pregato nella Chiesa, essa sarebbe stata persa per voi, poiché i credenti l’avrebbero presa dicendo: Qui ha pregato Omar”. La Turchia laica di Atatürk decise poi di trasformare la moschea Aya Sofya in Museo, rendendo oggi impossibile qualsiasi preghiera - sia essa islamica che cristiana – al suo interno.

Ma vediamo ora ciò che qui si è salvato della decorazione musiva che, un tempo, ricopriva interamente tutte le pareti (possiamo averne una immagine pensando a S. Marco a Venezia, per intuire con quale splendore doveva presentarsi l’interno della Chiesa, prima della conquista turca).
Entriamo per la Porta Imperiale, la porta per la quale entravano gli imperatori. Potete vedere il superstite mosaico nella lunetta. Al centro sta il Cristo Pantocratore (cioè onnipotente, “che tutto comanda”) con la mano benedicente e, nell’altra, il libro aperto con l’iscrizione: “Pace a voi. Io sono la luce del mondo”. Al suo fianco la Vergine e l’Angelo, cioè l’Annunciazione che è la porta della salvezza. Attraverso l’Incarnazione, come attraverso una porta, noi veniamo introdotti nel “mistero” di Dio.

Così, già questa immagine ci introduce alla Divina Sapienza, a Cristo. Egli, luce da luce, vera luce divina, governa l’universo, essendo sia la sapienza attraverso la quale tutto è stato creato (“tutto è stato creato per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”, Prologo di Giovanni), sia il mistero infine rivelato che, nel sacrifico della croce, ha salvato l’universo, destinato altrimenti a perdizione.

Ai piedi del Cristo sta in atteggiamento di adorazione l’imperatore Leone VI (886-912), detto Leone il Saggio. Di Leone VI, grandissimo imperatore, si è impadronita la leggenda che ne ha fatto, già vivente, un profeta, un mago, un astrologo, tanto vasta era la sua preparazione e l’influenza della sua personalità. Sono famosi i suoi testi giuridici, che continuano la tradizione di grande attenzione al diritto inaugurata da Giustiniano: la Basilika e le Novellae, testi che faranno scuola nei secoli successivi. Con lui l’impero bizantino si accentrò ancora più nella persona dell’imperatore, protettore, ma non capo della Chiesa. È famosa la questione matrimoniale che riguardò Leone VI: non riuscendo ad avere un erede maschio, si sposò 4 volte alla morte delle precedenti mogli, finché al quarto matrimonio gli fu interdetto dal patriarca l’ingresso a Santa Sofia – infatti, il diritto canonico orientale non permette un terzo matrimonio di un vedovo. Leone VI si rivolse allora alla sede di Roma, poiché in questo la legislazione latina è meno rigida, ed ottenne così il riconoscimento papale della sua discendenza.

Entriamo ora in Santa Sofia. Vedremo poi i capitelli che ci ricordano, con i monogrammi di Giustiniano e della moglie Teodora, la nuova fondazione della Chiesa, dopo la distruzione causata dalla rivolta di Nike.
Rivolgiamo, invece, subito il nostro sguardo all’abside, dove ci appare il mosaico della Madre di Dio, con il Bambino sulle ginocchia. È lì dove si concentra il nostro sguardo ed è lì che l’iconografia pone il soggetto più importante a cui guardare: è il Bambino Gesù, ma è la Divina Sapienza che governa l’universo!
Vediamo la Vergine, secondo l’iconografia orientale, con le tre stelle o croci, sul capo e sulle spalle che simbolizzano la verginità “prima, durante e dopo il parto”. Come ben sapete tale verginità non è solo segno della non ordinarietà della nascita di Gesù e della purezza della Madre, ma, anzitutto, il corrispettivo dogmatico mariano della verità cristologica: Gesù è il Figlio di Dio e Giuseppe non ha parte alcuna al suo concepimento. La Divina Sapienza, il Cristo, è Figlio ab aeterno del Padre che è nei cieli: questa Sapienza è il Bambino che si incarna per volontà del Padre nel grembo di Maria che, nell’abside, lo porta sulle ginocchia. Il sì di Maria a Dio, permette il concepimento del Bambino nel mondo. Come penso sapete, anche nel Corano Maria è vergine, ma lì Gesù è solo uomo, creato direttamente da Dio nel grembo della Vergine.
Il trono sul quale la Madre ed il Figlio sono seduti indica che il Figlio incarnato, la Sapienza Incarnata, veramente governa il mondo e che tutto è nelle sue mani. La Madre stessa è qui rappresentata come il Trono di Cristo; essa non è qui considerata, nell’iconografia, in se stessa, ma nel suo servizio al Figlio che regna. Non è, insomma, l’aspetto affettivo che conta, ma quello dogmatico.

Il naós, l’aula liturgica, doveva essere interamente coperta di mosaici. L’architettura della chiesa riprende l’idea dell’universo in senso simbolico (conoscevano bene la scienza!): c’è la forma quadrata, che rappresenta i 4 punti cardinali, la terra creta nel suo insieme, e, sopra del quadrato, la calotta sferica, che rappresenta il divino. I serafini che sorreggono la cupola, come se tutto fosse tenuto dall’alto, ad esprimere che ciò che avviene in terra ha significato a partire da Dio. Nella cupola doveva esserci il Cristo pantocratore, cioè il Cristo che tutto governa, il Cristo sole nella luce. Notate ancora che i 4 angeli hanno il volto coperto. In Cristo avviene sì la rivelazione, ma essa è tanto grande che supera tutto ciò che noi comprendiamo. Noi vediamo, ma, insieme, continuiamo a non vedere. È straordinario che il Concilio di Calcedonia, nell’affermare realmente le due nature, quella umana e divina di Cristo, si esprima poi con quattro negazioni per esprimere il loro rapporto: senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili.

Dei mosaici del naós si sono salvati solamente le figure di tre grandi santi vescovi: S. Ignazio di Antiochia, S. Giovanni Crisostomo e S. Ignazio il giovane (è solo frammentaria la figura di S. Atanasio). S.Ignazio, vescovo di Antiochia, è qui indicato con il soprannome di Teoforo, “portatore di Dio”, una delle espressioni con cui ama chiamarsi, nelle sue lettere, ad indicare proprio che il suo viaggio verso il martirio è in realtà un itinerario di testimonianza e di evangelizzazione. S.Giovanni Crisostomo è il grande patriarca che proprio qui a Santa Sofia ebbe la sua cattedra. Infine S. Ignazio, detto il “giovane” per differenziarlo appunto dal vescovo di Antiochia, anche lui patriarca qui a Costantinopoli. La sua storia si intrecciò con quella famosa di Fozio. Infatti, Ignazio di Costantinopoli patriarca dall’842, figlio dell’imperatore Michele Rangabe, fu cacciato e sostituito da Fozio, ma dopo 9 anni richiamato. Solo alla sua morte Fozio fu nuovamente insediato come patriarca per essere poi definitivamente esiliato.
La venerazione dei santi che queste immagini ci richiamano, ci riporta ad un brano del libro della Sapienza: “Sebbene unica, la sapienza può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti. Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la sapienza” (Sap 7,27-28). È l’opera di Cristo, Sapienza che rimane in se stessa, che tuttavia dà forma e vita al suo corpo che è la Chiesa, la pienezza di Colui che si realizza pienamente in tutte le cose.

Siamo saliti ora nella Galleria meridionale della Chiesa della Divina Sapienza. Qui possiamo contemplare più da vicino alcuni mosaici. Innanzitutto la famosissima Deesis. È una delle immagini più ricorrenti nell’Oriente: Giovanni Battista (qui chiamato “prodromos”, “il precursore”) e Maria, la Madre di Dio. Vediamo le abbreviazioni del suo nome e del suo titolo; l’accento circonflesso è indicativo che le due lettere sono la prima e l’ultima del nome indicato (ad esempio theta+upsilon, con il circonflesso equivalgono a “Theou”, “di Dio”). La bellezza di quest’opera - notate i volti dei personaggi, con le tessere finissime per dare naturalezza e non fissità – hanno fatto parlare di un “Rinascimento” dell’arte bizantina. La parola Rinascimento è un termine tecnico della storia dell’arte occidentale – e badate bene che il Rinascimento è profondamente cristiano ed è solo pretestuosa l’opposizione Dio-uomo, Medioevo-Umanesimo/Rinascimento che talvolta banalmente sentiamo affermare. Gli studi moderni si stanno accorgendo che, come nell’arte occidentale c’è stata una evoluzione verso una raffigurazione più attenta al realismo, alla natura ed all’umanità, così anche in Oriente questo è avvenuto – e l’evoluzione sarebbe continuata ed avrebbe portato chissà a quali cambiamenti se non fosse stata bruscamente interrotta dalla decadenza bizantina e dalla conquista turca che hanno impedito la fioritura di questi germi. A volte chi inneggia alla fissità ed al simbolismo dell’arte delle icone, non si accorge del rischio di una esagerazione di questi canoni estetici, che sono dovuti anche alla situazione di non più piena libertà che ha obbligato gli artisti dei secoli seguenti a conservare, nell’impossibilità ormai di innovare. La datazione di questo mosaico oscilla fra il XII secolo ed il XIII.
Per farvi solo un altro esempio di questo Rinascimento bizantino, mi viene in mente la Chiesa di Boyana, in Bulgaria, affrescata nel 1259. È straordinaria l’innovazione pittorica che distacca gli affreschi di questa piccola Chiesa, che pure resta un edificio prettamente orientale, dai canoni estetici che noi chiamiamo orientali.

Proseguiamo nella galleria meridionale e arriviamo fino alla parete di fondo. Qui possiamo vedere ancora due mosaici che ci fanno incontrare altre figure imperiali bizantine. Voglio attirare l’attenzione sul mosaico di sinistra, che raffigura l’imperatore Costantino IX (1042-1055), che è l’imperatore dello scisma del 1054. Il mosaico potrebbe essere – non ne siamo sicuri – immediatamente precedente o immediatamente successivo al giorno in cui il cardinale Umberto di Silva Candida depose proprio sull’altare di Santa Sofia – era qui sotto di noi, ma fu poi demolito quando S. Sofia fu trasformata in moschea - la scomunica di Cerulario. Le scritte recitano: “Il sovrano credente dei Romani, il servo di Gesù di Dio, Costantino Monomaco” e “La pia Augusta Zoè” (Costantino fu il terzo marito di Zoè). Notate l’appellativo con cui l’imperatore si fa raffigurare: “Re dei Romani”. È la coscienza di essere eredi dell’impero di Roma. L’espressione “impero bizantino” è successiva: gli imperatori si sentivano imperatori romani.

Nel mosaico di destra vediamo invece Giovanni Comneno II (1118-1143) con la moglie Irene, figlia del re dell’Ungheria, ed il figlio Alessio che morirà giovane (è evidente sul suo viso la malattia). Giovanni è, probabilmente, il più grande dei Comneni. Lottò contro l’Armenia minore, conquistandola, e contro il principato di Antiochia, che era ai suoi tempi un Regno franco, nato dalla crociata. Siamo, infatti, nel periodo delle crociate, ma prima di quella del 1204.

Usciamo ora dalla Chiesa, per la porta Sud. Volgendoci indietro vediamo, nella lunetta, un ultimo mosaico. Viene datato al regno di Basilio II (976-1025) – siamo nel periodo dello splendore più grande dell’impero bizantino. Al centro sta la Vergine con il Bambino. Alla sua destra, Costantino imperatore, il fondatore di Costantinopoli, che offre alla Vergine ed al suo Figlio la città. Alla sinistra sta, invece, Giustiniano, che offre proprio la Chiesa della Divina Sapienza. La scritta a fianco di Costantino dice: “Costantino fra i santi, gran Re”. Nella Chiesa bizantina Costantino è, infatti, ritenuto santo. Fu lui, ne parleremo a San Salvatore in Chora, a volere qui a Costantinopoli una Chiesa dedicata ai Dodici Apostoli, come suo sepolcro, volendo che la sua opera fosse vista come continuazione dell’opera apostolica. Il suo titolo fu quello di “uguale agli apostoli” “isapostolos”. Esso divenne abituale a partire dal V secolo, ma lo troviamo già in Eusebio di Cesarea (e probabilmente lo stesso imperatore non deve essere stato estraneo alla incentivazione di questa venerazione).
Anche Giustiniano ha l’aureola. È, infatti, considerato anche lui santo, fin dalla tradizione bizantina antica. Nel Sinassario di Costantinopoli ne troviamo la motivazione: “Fu promotore della fede ortodossa, emanò nuove norme in favore della Chiesa, realizzò opere filantropiche, fece edificare Santa Sofia e altri luoghi di culto in Oriente, nel Mezzogiorno ed in Occidente, e stabilì la festa dell’Ipapante (la Presentazione di Gesù al Tempio, il 2 febbraio)”.

I primi sette concili ecumenici

Questo testo è stato pensato per riassumere i dogmi cristologici proclamati dai sette concili ecumenici del primo millennio. Salvo dove diversamente indicato, i testi sono tratti dal Catechismo degli adulti della Conferenza Episcopale Italiana, La verità vi farà liberi, e dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC). I Concili sono citati nel CCC secondo l’Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum di H. Denzinger e A. Schönmetzer edd. (abbreviato con Denz. -Schönm.).

Dal Catechismo degli Adulti, La verità vi farà liberi, nn. 307-311

I primi sette concili ecumenici difendono e spiegano le verità centrali della fede riguardo a Dio e a Cristo. Ancora oggi il loro insegnamento è patrimonio comune di quasi tutti i cristiani, d’oriente e d’occidente.

Concilio di Nicea (325)
Il primo concilio di Nicea, celebrato nell’anno 325, proclama che Gesù Cristo è il Figlio unigenito di Dio, generato non creato, consustanziale al Padre, eterno e immutabile. Respinge l’arianesimo, la dottrina secondo cui il Verbo sarebbe la prima e più perfetta delle creature, strumento per la creazione di tutte le altre.

Concilio di Costantinopoli I (381)
Il primo concilio di Costantinopoli, dell’anno 381, condanna gli pneumatòmachi, che negano la divinità dello Spirito Santo, e gli apollinaristi, che non riconoscono in Gesù un’anima umana, in quanto al suo posto ci sarebbe il Verbo. Insegna che lo Spirito Santo è persona divina, consustanziale al Padre e al Figlio, e che il Verbo si è fatto uomo vero, completo di anima e di corpo.
(N.B. de Gli scritti: il Concilio ha definito anche l’unica sostanza, in greco ousia, di Dio e le tre persone, in greco ipostasi, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Il Credo niceno-costantinopolitano non contiene queste espressioni, ma esse erano presenti nel Tomus conciliare, che è andato perduto, come risulta dalle formulazioni ripetute in un documento dell’anno successivo, il 382 d.C.; su questo vedi più sotto CCC 251-252)

Concilio di Efeso (431)
Il concilio di Efeso, dell’anno 431, rifiuta la dottrina nestoriana, secondo cui in Cristo ci sarebbero due soggetti, uniti moralmente: il Verbo e l’uomo Gesù. Afferma che il Verbo non ha unito a sé la persona di un uomo, ma si è fatto uomo e nella sua umanità è nato da Maria, ha sofferto, è risorto; perciò una sola persona, un solo e medesimo Figlio di Dio è vero Dio e vero uomo, e Maria è vera madre di Dio.

Concilio di Calcedonia (451)
Il concilio di Calcedonia, dell’anno 451, condanna i monofisiti, i quali sostengono che nell’incarnazione la natura umana viene assorbita in quella divina e quindi ammettono in Cristo una umanità solo apparente. Il concilio formula una professione di fede, molto precisa nel linguaggio e destinata ad avere una grande importanza storica: «Noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo,[composto]di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre per la divinità e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l’umanità, uno e medesimo Cristo Figlio Signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipòstasi; egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo». [...] Conferme e precisazioni a questa formula sono venute già nell’antichità dai tre concili successivi.

Concilio di Costantinopoli II (553)
Il secondo concilio di Costantinopoli, dell’anno 553, ribadisce la condanna di alcune interpretazioni dualiste, vicine a quella nestoriana.

Concilio di Costantinopoli III (680-681)
Il terzo concilio di Costantinopoli, degli anni 680-681, condanna il monoenergismo e il monotelismo, ultimi rigurgiti del monofisismo, che pongono in Cristo una sola attività e una sola volontà; riconosce invece l’esistenza di due attività naturali, divina e umana, e in particolare due volontà in armonia tra loro.

Concilio di Nicea II (787)
Il secondo concilio di Nicea, dell’anno 787, definisce che è conforme alla verità dell’incarnazione raffigurare il Cristo nelle opere d’arte e tributare culto alle sacre immagini, perché l’onore in definitiva è rivolto alla persona rappresentata.

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

Concilio di Nicea (325)
CCC 465
Le prime eresie più che la divinità di Cristo hanno negato la sua vera umanità (docetismo gnostico). Fin dall'epoca apostolica la fede cristiana ha insistito sulla vera Incarnazione del Figlio di Dio “venuto nella carne” (Cf 1Gv 4,2-3; 2Gv 1,7). Ma nel terzo secolo, la Chiesa ha dovuto affermare contro Paolo di Samosata, in un Concilio riunito ad Antiochia, che Gesù Cristo è Figlio di Dio per natura e non per adozione.
Il primo Concilio Ecumenico di Nicea nel 325 professò nel suo Credo che il Figlio di Dio è “generato, non creato, della stessa sostanza ("homousios") del Padre”, e condannò Ario, il quale sosteneva che “il Figlio di Dio veniva dal nulla” [Concilio di Nicea I: Denz. -Schönm., 130] e che sarebbe “di un'altra sostanza o di un'altra essenza rispetto al Padre” [Concilio di Nicea I: Denz. -Schönm., 130].

Concilio di Costantinopoli I (381)
CCC 242
[...] Seguendo la Tradizione Apostolica, la Chiesa nel 325, nel primo Concilio Ecumenico di Nicea, ha confessato che il Figlio è “consustanziale” al Padre, cioè un solo Dio con lui. Il secondo Concilio Ecumenico, riunito a Costantinopoli nel 381, ha conservato tale espressione nella sua formulazione del Credo di Nicea ed ha confessato “il Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre” [Denz. -Schönm., 150].

CCC 243
Prima della sua Pasqua, Gesù annunzia l'invio di un “altro Paraclito” (Difensore), lo Spirito Santo. Lo Spirito che opera fin dalla creazione, [Cf Gen 1,2] che già aveva “parlato per mezzo dei profeti” (Simbolo di Nicea-Costantinopoli), dimorerà presso i discepoli e sarà in loro, (Cf Gv 14,17) per insegnare loro ogni cosa (Cf Gv 14,26) e guidarli “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Lo Spirito Santo è in tal modo rivelato come un'altra Persona divina in rapporto a Gesù e al Padre.

CCC 245
La fede apostolica riguardante lo Spirito è stata confessata dal secondo Concilio Ecumenico nel 381 a Costantinopoli: “Crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita; che procede dal Padre” [Denz. -Schönm., 150]. Così la Chiesa riconosce il Padre come “la fonte e l'origine di tutta la divinità” [Concilio di Toledo VI (638): Denz. -Schönm., 490]. L'origine eterna dello Spirito Santo non è tuttavia senza legame con quella del Figlio: “Lo Spirito Santo, che è la Terza Persona della Trinità, è Dio, uno e uguale al Padre e al Figlio, della stessa sostanza e anche della stessa natura... Tuttavia, non si dice che Egli è soltanto lo Spirito del Padre, ma che è, ad un tempo, lo Spirito del Padre e del Figlio” [Concilio di Toledo XI (675): Denz. -Schönm., 527]. Il Credo del Concilio di Costantinopoli della Chiesa confessa: “Con il Padre e con il Figlio è adorato e glorificato” [Denz.-Schönm., 150].

CCC 251
Per la formulazione del dogma della Trinità, la Chiesa ha dovuto sviluppare una terminologia propria ricorrendo a nozioni di origine filosofica: “sostanza”, “persona” o “ipostasi”, “relazione”, ecc. Così facendo, non ha sottoposto la fede ad una sapienza umana, ma ha dato un significato nuovo, insolito a questi termini assunti ora a significare anche un Mistero inesprimibile, “infinitamente al di là di tutto ciò che possiamo concepire a misura d'uomo” [Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 2].

CCC 252
La Chiesa adopera il termine “sostanza” (reso talvolta anche con “essenza” o “natura”) per designare l'Essere divino nella sua unità, il termine “persona” o “ipostasi” per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca, il termine “relazione” per designare il fatto che la distinzione tra le Persone divine sta nel riferimento delle une alle altre.

Concilio di Efeso (431)
CCC 466
L'eresia nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiunta alla Persona divina del Figlio di Dio. In contrapposizione ad essa san Cirillo di Alessandria e il terzo Concilio Ecumenico riunito a Efeso nel 431 hanno confessato che “il Verbo, unendo a se stesso ipostaticamente una carne animata da un'anima razionale, si fece uomo” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250]. L'umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l'ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Per questo il Concilio di Efeso ha proclamato nel 431 che Maria in tutta verità è divenuta Madre di Dio per il concepimento umano del Figlio di Dio nel suo seno; “Madre di Dio. . . non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250].

Concilio di Calcedonia (451)
CCC 467
I monofisiti affermavano che la natura umana come tale aveva cessato di esistere in Cristo, essendo stata assunta dalla Persona divina del Figlio di Dio. Opponendosi a questa eresia, il quarto Concilio Ecumenico, a Calcedonia, nel 451, ha confessato:

«Seguendo i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l'umanità.
Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi» [Concilio di Calcedonia: Denz. -Schönm., 301-302].

Concilio di Costantinopoli II (553)
CCC 468
Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è “una sola ipostasi [o Persona].. ., cioè il Signore nostro Gesù Cristo, Uno della Trinità ” [Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424]. Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto proprio, [Cf già Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 255] non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424] e così pure la morte: “Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della Santa Trinità” [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz.- Schönm., 424].

Concilio di Costantinopoli III (680-681)
CCC 475
Parallelamente, la Chiesa nel sesto Concilio Ecumenico [Concilio di Costantinopoli III (681)] ha dichiarato che Cristo ha due volontà e due operazioni naturali, divine e umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza [Cf Concilio di Costantinopoli III (681): Denz. -Schönm., 556-559]. La volontà umana di Cristo “segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente” [Cf Concilio di Costantinopoli III (681): Denz. -Schönm., 556-559].

Concilio di Nicea II (787)
CCC 476
Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il Corpo di Cristo era delimitato [Cf Concilio Lateranense (649): Denz. -Schönm., 504]. Perciò l'aspetto umano di Cristo può essere “rappresentato” (Gal 3,1). Nel settimo Concilio Ecumenico la Chiesa ha riconosciuto legittimo che venga raffigurato mediante “venerande e sante immagini” [Concilio di Nicea II (787): Denz.-Schönm., 600-603].

CCC 477
Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel Corpo di Gesù il “Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne” [Messale Romano, Prefazio di Natale II]. In realtà, le caratteristiche individuali del Corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i lineamenti del suo Corpo umano che, dipinti in una santa immagine, possono essere venerati, perché il credente che venera “l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto” [Concilio di Nicea II (787): Denz. -Schönm., 601].

San Salvatore in Chora-Kariye Camii

Innanzitutto il nome. In turco questo luogo viene chiamato Kariye Camii, cioè Moschea di Chora, poiché la stragrande maggioranza delle Chiese bizantine sono state trasformate in moschee, subito dopo la conquista turca di Costantinopoli. Questa trasformazione ha portato alla distruzione di tutto il patrimonio artistico dei mosaici e degli affreschi contenuti in queste chiese. Pensate che questa chiesa è l’unica ancora esistente che abbia conservato gran parte della decorazione iconografica originaria.

Vi ho consegnato una scheda che segnala le chiese più importanti che esistevano prima della caduta di Costantinopoli. Gli studiosi calcolano che c’erano qui a Bisanzio, nel periodo di massimo splendore, 450 Chiese e 340 monasteri circa, tutti completamente affrescati o con mosaici. Di questi si sono conservati solo le immagini di San Salvatore in Chora, i pochi mosaici che abbiamo visitato in Santa Sofia ed alcuni superstiti nella Chiesa della Theotokos Pammakaristos (“la Madre di Dio in tutto beatissima”), detta in turco Moschea Fethiye, Fethiye Camii. Di tutto il resto non si è conservato praticamente nulla, poiché nella trasformazione in Moschee – a motivo del rifiuto delle immagini caratteristico dell’Islam – tutte le raffigurazioni cristiane sono state cancellate. Qui a San Salvatore in Chora esse si sono conservate, perché tutto era stato ricoperto di intonaco e, una volta che lo Stato ha acquisito questo edificio e lo ha trasformato in Museo, è stato possibile riportare alla luce tutta la bellezza di queste immagini che sono davanti ai vostri occhi. Anche qui, come a S. Irene ed a S. Sofia è proibito celebrare.

Ma cosa vuol dire “in Chora”? Sentirete qualcuno che collegherà questo nome con la dislocazione dell’edificio ai margini della città, vicino alla campagna: è segno che non conosce bene questa chiesa, nella quale il nome “chora”, in senso teologico, ricorre così tante volte nei mosaici, che non si capisce come si possa ignorare questo fatto.

Vogliamo iniziare la visita di questa chiesa, proprio a partire dai mosaici nei quali appare il nome “chora”; ne visiteremo così innanzitutto l’asse verticale. Vediamo innanzitutto le lunette delle due porte che si susseguono, per entrare nel naòs, cioè nella chiesa vera e propria. Vedete che Cristo è chiamato due volte η χωρα των ζωντων (chora ton zonton), cioé “dimora dei viventi”.

Quando saremo entrati nel naòs, troveremo, fra i pochi mosaici rimasti della chiesa vera e propria, alla sinistra dell’abside ancora una volta l’immagine del Cristo, questa volta intera, con il libro aperto sul quale è scritta la frase evangelica: “Venite a me voi tutti che siete affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò”.

Ecco il significato di chora! Cristo è la Chora, la dimora, la casa, dove ogni uomo abita e trova riposo. Dov’è il nostro posto? È in Cristo! Solo lì troviamo la vita, la difesa, il senso, l’amore del Padre, insomma tutto! Tornano in mente le parole del vangelo di Giovanni: «Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre». È la nostra casa, perché noi siamo “figli del Padre”. È la nostra identità più vera. E non abbiamo altra casa, altro luogo dove dimorare. Anche gli apostoli, appena conosciuto Gesù, gli domandano, nel vangelo di Giovanni: «Maestro, dove abiti?» E - continua il testo - «quel giorno si fermarono presso di lui». È il tema che già abbiamo meditato tante volte del “dimorare” in Gesù.

Ma il termine chora non ricorre in questa chiesa solo in relazione al Cristo. Se vi voltate indietro, vedete in alto, proprio sulla porta di ingresso dell’esonartece, un mosaico di Maria con il Bambino con l’iscrizione che si riferisce questa volta alla Vergine Maria η χωρα του αχωρητου (chora tou achoretou), cioè “Dimora dell’Incontenibile”.

Dio è incontenibile, nessuno può fargli una dimora, una casa, un tempio dove farlo abitare, perché egli è infinitamente più grande di qualsiasi “casa” l’uomo possa anche solo pensare. Ma è Dio stesso a degnarsi di farsi piccolo, di farsi carne e di abitare nel grembo di Maria, Lui che è, di per sé, incontenibile. È stata Maria la “dimora” di Dio in terra.

Maria, chora tou achoretou, è raffigurata sulla porta di ingresso, proprio perché lei è la porta dell’incarnazione: Dio viene ad abitare nel mondo attraverso di lei. Ma, attraverso di lei, ci è concesso di passare poi per la porta che è il Cristo, la dimora di Dio fra gli uomini, per poter anche noi, credenti e viventi, abitare presso di lui.

Anche l’iscrizione chora tou achoretou relativa a Maria si ripete: la ritroviamo nella Deesis nell’endonartece ed, ancora, nell’immagine di Maria a figura piena che è nel naòs, alla destra dell’abside.

Nella cupola del naòs doveva essere rappresentato il Cristo pantocratore, come è abituale nelle chiese bizantine. All’interno del naòs è rappresentata sulla porta d’uscita la kòimesis o dormitio Mariae a ricordare, a coloro che uscivano dalla liturgia il futuro di gloria che attende i cristiani.

Se ci spostiamo ora, sempre in linea verticale, all’altezza del secondo ingresso vediamo il Cristo “dimora dei viventi” ed, ai suoi piedi, un personaggio che gli offre il modellino della chiesa di S. Salvatore in Chora. È Teodoro Metochites, colui che ha curato il rinnovamento della chiesa stessa. L’iscrizione dice di lui: «Il fondatore, Logoteta del Genikon, Teodoro Metochites». Logoteta era l’importantissima carica imperiale di controllore del tesoro bizantino e, perciò, di primo ministro.

Il padre di Teodoro, Giorgio, era stato un fautore della riunificazione della Chiesa latina e della Chiesa greca: tale riunificazione era finalmente avvenuta al II Concilio di Lione, nel 1274. Erano stati, da un lato, l’imperatore di Costantinopoli Michele VIII - che non vedeva altra possibilità di salvezza dal pericolo turco per l’impero bizantino se non una nuova alleanza con il papa ed il mondo latino - ed il papa Gregorio X, dall’altro, a volere questa unione, con il concorso del re di Francia, poi proclamato Santo, Luigi IX. Gli intenti dei Papi del tempo erano, fondamentalmente, quelli della liberazione della Terra Santa e del ristabilimento della pace religiosa con l’Oriente cristiano, dopo lo scisma del 1054 e la crociata del 1204. Per un certo tempo questo atteggiamento riuscì a frenare Carlo d’Angiò che, invece, voleva marciare su Costantinopoli e farne un suo possesso. Il Concilio di Lione, purtroppo, pur giungendo a buon fine con le firme di unione del Gran Logoteta a nome dell’Imperatore e dei rappresentanti del Patriarcato di Costantinopoli, in realtà fu subito avversato in Oriente, perché era ormai forte il risentimento anti-latino. Ma anche in Occidente, quando morì l’italiano Gregorio X e gli succedette Martino IV, che era francese, cambiò presto l’atteggiamento verso l’Oriente poiché il nuovo pontefice sembrò schierarsi apertamente con le posizioni angioine. Così coloro che erano stati favorevoli all’unione furono esiliati e, fra di essi, anche Giorgio, insieme a suo figlio Teodoro Metochites.

Solo nel 1290, l’imperatore Andronico II si risollevarono le sorti di Teodoro. L’imperatore lo scelse come proprio funzionario, nonostante le posizioni filo-latine del padre. Teodoro divenne Gran Logoteta nel 1321 e resse la carica fino al 1328 quando l’avvento al trono di Andronico III, avversario di Andronico II, portò alla confisca dei suoi beni e, nuovamente, all’esilio. Due anni dopo gli fu concesso di tornare nella capitale, come monaco. Visse così in San Salvatore in Chora, dove morì e fu sepolto nel 1332.

Vedete che ai lati della porta che dall’endonartece permette l’accesso al naòs sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, patroni di Roma. Mi permetto di proporre un’ipotesi: la presenza iconografica dei SS. Pietro e Paolo, sotto la lunetta che raffigura Teodoro dinanzi al Cristo, potrebbe essere un segno di questo legame profondo con Roma, sostenuto dalla famiglia del Logoteta.

Per completare l’asse di lettura iconografica verticale, vediamo anche che nell’esonartece sono raffigurate, proprio nella campata centrale, le nozze di Cana e la moltiplicazione dei pani. Sono immagini che richiamano il sacrificio eucaristico, il motivo per il quale si entra nella chiesa, e sono, insieme, immagini di Cristo che da il cibo, nella sua dimora, perché vi si possa vivere ed abitare.

Ad insistere, ulteriormente, sullo stesso concetto, ci aiuta anche la campata centrale dell’endonartece dove troviamo la raffigurazione dell’angelo che dà da mangiare il pane a Maria, secondo gli apocrifi.

Questi mosaici fanno parte di due distinti cicli su cui ora ci soffermeremo, anche se solo per accenni. L’esonartece racconta iconograficamente la vita di Gesù, facendo coincidere proprio i miracoli del pane e del vino con la porta di accesso. Per seguire il ciclo, secondo le intenzioni degli autori degli stessi, dobbiamo cominciare dalla lunetta della campata che è in fondo a sinistra dell’esonartece. A partire da quella lunetta il ciclo segue il senso orario per passare poi alle cupole da sinistra verso destra.

La prima lunetta in fondo a sinistra rappresenta il Sogno di Giuseppe ed il viaggio verso Betlemme. Seguono poi:

Si passa poi alle cupole dell’esonartece

Il ciclo continua poi nell’endonartece nella cupola con il Cristo ed i suoi antenati, sotto la quale sono raffigurati altri miracoli di Cristo.

La cupola – quella di destra - ha Cristo al centro e poi, disposti in due cerchi concentrici, nella zona superiore la discendenza da Adamo a Noè (Gen 5), Adamo, Abele, Set, Enos, Kenan, Maalaleèl, Iared, Enoch, Lamech, poi da Noè a Terach, padre di Abramo (Gen 11,10ss), Sem, Iafet, Arpacsad, Peleg, Reu, Serug, Nacor, Terach (vi ho dato i nomi secondo la più comune traduzione di Genesi della CEI, per noi italiani; i nomi sono leggermente diversi in Lc 3,34-38, inoltre alcuni nomi sono omessi), infine i nomi dei tre patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Nella zona inferiore, invece, la discendenza di Giacobbe con i suoi 12 figli (Gen 35,23-26: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Zabulon, Issacar, Dan, Gad, Aser, Neftali, Giuseppe, Beniamino) ed altri antenati.

Notiamo almeno una particolarità, che ci ricorda che siamo in Oriente: è Adamo e non Eva/Maria a schiacciare con il suo piede il serpente, avendo in mano l’albero della vita. Nella versione greca dei LXX non c’è il famoso pronome “illa” della versione di Girolamo, la Vulgata – “lei ti schiaccerà la testa” – che ha portato la tradizione latina a leggere in Gen 3, la profezia di Maria. È la stirpe di Adamo a cui viene annunziata la vittoria sul male (ma certo essa si compirà solo in Maria e nel suo Figlio Unigenito!) ed è così Adamo a lottare con il serpente.

Nell’altra cupola, all’altro estremo dell’endonartece, vediamo invece la discendenza regale di Gesù. Al centro la Madre di Dio, con il suo Bambino e, nella zona superiore, i re della casa di Davide, da Davide a Salatiel (Mt 1,6-12) fino alla distruzione di Gerusalemme: Davide, Salomone, Roboamo, Abia, Asaf, Giosafat, Ioram, Ozia, Ioatam, Acaz, Ezechia, Manasse, Amos, Giosia, Ieconia, Salatiel. Nella zona inferiore sono invece rappresentati coloro che hanno profetizzato e prefigurato l’Incarnazione: Melchisedek, Mosè, Aronne e Cur, Giosuè, Samuele, Anania, Azaria e Misaele, Daniele, Giobbe.

Partendo proprio da questa cupola, possiamo ora seguire nei mosaici delle diverse campate, la storia di Maria:

Molti episodi sono conosciutissimi anche in Occidente, poiché risalgono a ai vangeli apocrifi (per una presentazione dei vangeli apocrifi, cfr. su questo stesso sito, la sezione Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento), in Percorsi tematici. L’antichità rifiutava i vangeli apocrifi che erano eretici, come quelli gnostici, ma faceva uso, anche se solo nell’iconografia e mai nella lettura liturgica, degli altri apocrifi che raccontavano in forma narrativa le vicende meravigliose dell’infanzia di Maria e Gesù, arricchendole di aneddoti miracolistici.
Viene qui descritta innanzitutto la vicenda dei genitori di Maria, Gioacchino ed Anna, la loro sterilità e la loro preghiera per avere un figlio – anche nella Cappella degli Scrovegni di Giotto, a Padova, abbiamo la stessa sequenza narrativa. Segue poi la nascita miracolosa e la vita di Maria bambina nel Tempio e, poi, la storia del matrimonio della Vergine con l’episodio del sorteggio delle verghe che porterà alla designazione di Giuseppe.

Alcuni episodi sono caratteristici della tradizione bizantina come la prima annunciazione a Maria, che avviene al pozzo di Nazareth – la tradizione ortodossa divide in due momenti l’annunciazione, immaginando un primo incontro con l’angelo alla fontana del villaggio ed un secondo nella casa della Madonna.

È tipicamente bizantina la presenza dei primi quattro figli di Giuseppe, nati da un suo primo matrimonio, conclusosi con la morte della moglie e la vedovanza di Giuseppe. È questa la spiegazione orientale ai brani evangelici che fanno riferimento ai fratelli di Gesù. La tradizione latina privilegia, invece, l’interpretazione dell’espressione “fratelli” come semplice designazione dei parenti prossimi di Gesù, come è usuale in molti passi dell’Antico Testamento (ad esempio, Lot, nipote di Abramo, è chiamato “fratello”). Entrambe le tradizioni fanno così salva, con due diverse possibili ricostruzioni, la filiazione unigenita di Maria, affermata dalla fede cristiana.


Se ci spostiamo ora a destra, possiamo entrare nel Parekklesion (“cappella a fianco della chiesa”), costruzione che è stata certamente rinnovata da Teodoro Metochites. Egli deve aver effettivamente pensato al Parekklesion come luogo della propria sepoltura che deve aver avuto luogo qui. Ma non dobbiamo dimenticare che la Chiesa, che preesisteva a Teodoro, era nota come custode delle reliquie di grandi santi che erano qui venerati.

La tradizione vuole, infatti, che il monastero di San Salvatore in Chora sia stato il rifugio ed il luogo di accoglienza dei monaci della regione palestinese che venivano a Costantinopoli, da quando, per primo, vi fu ospitato San Saba (439-532), il fondatore di Mar Saba nel deserto di Giuda. San Salvatore in Chora divenne poi uno dei punti di riferimento dei sostenitori delle icone, durante la crisi iconoclasta, quando vi fu confinato il Patriarca Germano I (715-730) ed, un secolo dopo, quando si trasferirono qui gli iconoduli (coloro che veneravano le immagini ed erano contrari all’iconoclastia) palestinesi Michele Sincello ed i suoi discepoli, Teofane e Teodoro “hoi Graptoi” (cioè “gli iscritti”, per via dei dodici trimetri ingiuriosi, composti di pugno dall’Imperatore Teofilo da essi sbugiardato in una disputa dottrinale, che erano stati marchiati a fuoco sulla loro fronte). Le reliquie di S. Teofane Graptos qui custodite furono preda dei crociati, dopo il 1204, e se ne persero le tracce.

Tutta l’iconografia delParekklesion, pensato come luogo di sepoltura dei santi e dello stesso Teodoro Metochites, ci parla di resurrezione e vita eterna. Nell’abside vediamo la discesa di Gesù agli Inferi, secondo la tipica rappresentazione bizantina. Aperte e calpestate le porte degli inferi che impedivano la resurrezione e gettate via le chiavi con le quali i morti erano imprigionati, legato e gettato a terra ormai impotente il Maligno, Cristo può prendere per mano Adamo ed Eva – e con essi tutti i morti – e condurli alla resurrezione. Tutti gli uomini delle generazioni precedenti sono rappresentati: santi, re, profeti, con in testa, a sinistra, Giovanni Battista ed, a destra, Abele, il primo dei morti nella storia biblica.
Subito vicino vediamo le raffigurazioni degli episodi evangelici che prefigurano la resurrezione finale: la resurrezione della figlia di Giairo e la resurrezione di Lazzaro.

Sotto la discesa agli Inferi di Cristo nell’abside, i santi fanno corona: troviamo le splendide figure di 6 padri della Chiesa: S. Atanasio, S. Giovanni Crisostomo, S. Basilio, S. Gregorio il Teologo (Gregorio di Nazianzo), S. Cirillo d’Alessandria (colui che preparò il Concilio di Efeso e spalancò così anche le successive affermazioni di Calcedonia affermando la Theotokos e l’unità secondo l’ipostasi); l’ultimo a sinistra, che non è possibile identificare con certezza, dovrebbe essere S. Nicola.

Se facciamo qualche passo indietro vediamo nella volta gli affreschi dedicati al Giudizio universale, che completano quello dell’anastasis. Ecco il tempo della storia che finisce – vediamo il cielo che viene arrotolato, secondo il testo di Ap 6,14: «Il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto». Il tempo, come dice S. Paolo, ha ormai “ammainato le vele”, è giunto in porto, ha raggiunto la sua meta finale e scompare per lasciare il posto all’eternità. Vediamo, nei pennacchi, il mendicante Lazzaro nel grembo di Abramo e l’uomo ricco (“epulone”) tra le fiamme dell’inferno. Nella lunetta di sinistra si vedono i beati che entrano in paradiso. Un serafino è vicino alla porta del Paradiso per custodirla e, attraverso di essa, primo dopo il Cristo, è già passato il “buon ladrone”, mezzo nudo, con la sua croce in spalla. Al centro della volta, verso l’abside, il Cristo in trono ed, in basso, il trono dell’Etimasia, con gli strumenti della passione. A destra, i dannati che si dirigono verso l’inferno. Nei pennacchi verso l’uscita, si vedono la terra ed il mare che restituiscono i morti – affresco molto rovinato – e, dall’altro lato, un anima protetta da un angelo.

La campata con la cupola è tutta dedicata a Maria. La vediamo in gloria con il Bambino, insieme agli angeli nella cupola. Sotto di lei, negli spicchi, sono affrescati quattro innografi, cioè quattro padri che hanno composto inni sacri: S. Teofane Grapto, del quale abbiamo già parlato, S. Cosma il Melode (sec.VIII), S. Giovanni Damasceno, anche lui di Mar Saba, come S. Saba, S. Giuseppe l’Innografo (sec. IX)[6].

Nelle lunette sono narrati episodi dell’Antico Testamento che sono visti come prefigurazioni di Maria e della futura venuta del Cristo: Giacobbe in lotta con l’angelo e l’episodio della scala che tocca il cielo. Si vedono, in cima alla scala, Maria con il Bambino. È con lei che cielo e terra si toccano.

A fianco, Mosè dinanzi al roveto ardente, immagine della verginità e della maternità divina di Maria: si vede Maria ed il bambino all’interno del roveto.

Altre immagini si riferiscono all’arca dell’alleanza, vista anch’essa come prefigurazione della vera arca dell’alleanza, che è Maria che porta in sé il Figlio di Dio. Altre ancora al Tempio di Gerusalemme – vediamo Aronne ed i suoi figli e l’angelo che assicura ad Isaia che Gerusalemme sarà protetta da Dio.

Possiamo concludere, citando alcune parole di S. Cirillo d’Alessandria, che abbiamo visto raffigurato nell’abside del Parekklesion e che canta Maria proprio con i termini caratteristici di questa chiesa, “dimora dell’incontenibile”:

«Ti saluto, Maria, tempio che accoglie; Ti saluto, Maria,
tesoro della terra; ti saluto, Maria, colomba immacolata;
Ti saluto, Maria, lampada che non si spegne;
da te infatti è nato il sole di giustizia.
Ti saluto, Maria, dimora dell’Incontenibile che hai accolto l’unigenito Verbo Dio, che hai fatto germogliare, senza aratro e senza seme, la spiga che non marcisce».


Note

[1] Solo a scopo puramente orientativo, viene qui riportata la scansione oraria della visita di Efeso, che merita almeno una intera giornata:

[2] I tre padri cappadoci sono indicati con il luogo del quale furono vescovi. L’antica Cesarea di Cappadocia corrisponde all’attuale Kayserı, Nazianzo corrisponde all’attuale Bekarlar, Nissa non è stata identificata con precisione, ma gli studiosi sono propensi a situarla nei presso dell’attuale Kirşheir.

[3] Uno dei testi più noti di questa riflessione teologica è la Lettera CXXV di Basilio di Cesarea, scritta nell’anno 373, che contiene la Copia della Confessione di Fede proposta dal Santissimo Basilio e sottoscritta dal Vescovo Eustazio di Sebaste:
«Coloro che o hanno prima abbracciato un’altra confessione di fede e desiderano ritornare all’unità dell’ortodossia, o desiderano, ora per la prima volta, pervenire al possesso della dottrina della verità, devono essere istruiti nella fede scritta dai beati Padri nel Concilio tenutosi a suo tempo a Nicea. Questo sarebbe utile anche contro coloro che si aspettano di avversare la sana dottrina, e che nascondono sotto le loro speciose scappatoie il senso del loro cattivo pensiero.
Anche per costoro basta la confessione di fede qui contenuta: infatti, o possono correggere la loro malattia occulta, o, se la nasconderanno nel profondo, saranno loro a essere incriminati di falsità, mentre a noi renderanno facile la difesa, nel giorno del giudizio, quando il Signore rivelerà le cose occulte delle tenebre e farà apparire i disegni dei cuori. Conviene, dunque, accogliere costoro, purché confessino che la loro fede è conforme alle parole espresse dai nostri Padri a Nicea e al pensiero chiaramente indicato da queste parole. Vi sono, infatti, taluni che anche in questa professione di fede falsificano la dottrina della verità e distorcono a loro arbitrio il senso delle parole in essa contenute. Così anche Marcello osò, oltre a essere empio riguardo all’ipostasi del nostro Signore Gesù Cristo e ad interpretarlo come pura “parola”, prendere il pretesto di dedurre altri principi, male interpretando il senso di “consustanziale”.
Altri, seguaci della setta che professa l’empietà del libico Sabellio, supponendo che “ipostasi” e “sostanza” siano la stessa cosa, ne traggono il pretesto per costruire la loro dottrina blasfema, dato che nella professione di fede sta scritto: “Se qualcuno dice che il Figlio è di un’altra sostanza o ipostasi, la chiesa cattolica lo colpisce con l’anatema”. Infatti, non si afferma, in quel punto, che l’essenza e l’ipostasi siano la medesima cosa. Se le due parole indicassero un unico e medesimo concetto, quale necessità vi sarebbe di usarle tutte e due? Ma è chiaro che, dal momento che alcuni negavano che il Figlio sia dell’essenza del Padre, e altri sostenevano che non è della sostanza del Padre, ma di qualche altra ipostasi, i Padri respinsero ambedue le interpretazioni come estranee al pensiero della chiesa.
Perciò, quando mostrarono il loro pensiero, dissero che il Figlio è dell’essenza del Padre, senza aggiungere le parole: “dell’ipostasi”.
Quindi l’espressione sta lì per respingere ogni interpretazione errata: essa dimostra la dottrina di salvezza. Bisogna, dunque, confessare che il Figlio è consustanziale al Padre, secondo come sta scritto, ma confessare anche che il Padre esiste nella sua ipostasi particolare, il Figlio nella sua particolare, secondo che essi hanno chiaramente esposto. Hanno, infatti, sufficientemente e chiaramente indicato, col dire “luce da luce” che non c’è una luce che genera e un’altra che è generata, ma invece “luce da luce”: cosicché una sola e identica è la realtà dell’essenza.
Ma citiamo, dunque, quella stessa professione di fede che fu scritta a Nicea.
Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose, sia visibili che invisibili. E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato come unigenito dal Padre, cioè della essenza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto; consustanziale con il Padre, per mezzo del quale tutte le cose sono state create, sia in cielo che sulla terra. Il quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese, si incarnò, si fece uomo, patì e risuscitò al terzo giorno, ritornò nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E nello Spirito Santo”.
La chiesa cattolica e apostolica colpisce con l’anatema coloro che dicono: “Ci fu un tempo in cui non esisteva, e prima di essere generato non esisteva, e, poiché nacque da cose non esistenti – dicono – il Figlio di Dio o è mutabile o alterabile o è di un’altra ipostasi o di un’altra essenza”.
Dunque, in questa professione di fede tutti gli altri punti sono stati definiti in modo sufficiente e accurato, gli uni a correzione di ciò che era stato falsato, gli altri per prevenire gli errori che ci si poteva aspettare che nascessero.
Invece, la dottrina sullo Spirito Santo è esposta di sfuggita, poiché non si ritenne che richiedesse alcun chiarimento, per il fatto che allora non era ancora stato agitato questo problema e la dottrina su di lui non era ancora insidiata nell’animo di coloro che avevano fede in lui. Ma i mali semi dell’empietà (che furono gettati prima da Ario, iniziatore di questa eresia, e poi da coloro che sciaguratamente accolsero la sua dottrina ), progredendo a poco a poco, crebbero a danno della chiesa e, per naturale conseguenza, l’empietà giunse a bestemmiare contro lo Spirito Santo. Per coloro che non risparmiano sé stessi, o che non vedono già fin d’ora l’inevitabile minaccia che nostro Signore ha preparato contro coloro che bestemmiano lo Spirito Santo, è necessario dunque mettere davanti agli occhi che occorre colpire con l’anatema coloro che sostengono che lo Spirito Santo è una creatura e coloro che pensano così; e coloro che non ammettono che egli sia santo per natura, come per natura è santo il Padre, e per natura santo il Figlio, ma che lo estraniamo alla natura divina e beata. Prova di retta opinione è, invece, non separarlo dal Padre e dal Figlio (bisogna infatti che noi siamo battezzati secondo che ci è stato tramandato; che crediamo secondo che siamo stati battezzati; che glorifichiamo secondo che abbiamo imparato a credere, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo) e allontanarsi dalla comunione di coloro che dicono che lo Spirito Santo è una creatura, come di gente palesemente blasfema. Infatti è cosa acquisita (e questa aggiunta alla dimostrazione è necessaria a causa dei delatori) che noi diciamo che lo Spirito Santo è ingenerato: sappiamo, infatti, che uno solo è ingenerato ed è unico principio degli esseri, cioè il Padre del Signore nostro Gesù Cristo; e non diciamo neppure che egli sia generato: abbiamo infatti appreso dalla tradizione della fede che uno solo è l’unigenito. Una volta che abbiamo appreso che lo Spirito della verità procede dal Padre, dobbiamo confessare che egli è da Dio senza essere creato.
Colpiamo poi di anatema anche coloro che dicono che lo Spirito Santo ha la funzione di servitore, poiché con questa espressione lo abbassano al rango di creatura. Infatti, la Scrittura ci ha tramandato che gli spiriti servili sono creature. Essa dice infatti: “Tutti sono spiriti servili, inviati per servire” (Eb 1,14). Perciò, per coloro che confondono ogni cosa e che non custodiscono la dottrina contenuta nei Vangeli, è necessario aggiungere anche questa specificazione, che cioè bisogna rifuggire anche da coloro che mutano l’ordine che ci ha lasciato il Signore, come da uomini che contrastano apertamente la fede e che antepongono il Figlio al Padre e collocano lo Spirito Santo davanti al Figlio.
Bisogna, infatti, conservare come irremovibile e inviolabile l’ordine che abbiamo ricevuto dalla voce stessa del Signore, che disse: “Andate, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”».

LA FIRMA DEL VESCOVO EUSTAZIO
«Io, vescovo Eustazio, dopo averlo letto dinanzi a te, Basilio, ho riconosciuto e approvato quanto sopra è scritto. Ho firmato alla presenza dei fratelli, del nostro Frontone e del caro vescovo Severo e di alcuni altri chierici».

[4] Gli studiosi, in particolare, fanno riferimento alla famosa lettera 125 dell’Epistolario di Basilio nella quale egli afferma, in una professione di fede che fece sottoscrivere ad Eustazio di Sebaste: «Bisogna confessare che il Figlio è consustanziale al Padre, secondo come sta scritto, ma confessare anche che il Padre esiste nella sua ipostasi particolare, il Figlio nella sua particolare, secondo che essi [i padri di Nicea] hanno chiaramente esposto. Hanno, infatti, sufficientemente e chiaramente indicato, col dire “luce da luce”: cosicché una sola e identica è la realtà dell’essenza».

[5] Ecco, dall'Ufficio delle letture della festa del Crisostomo, il 13 settembre, un brano dell'omelia pronunciata prima dell'esilio:
(dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo, Prima dell’esilio, nn. 1-3; PG 52, 427-430)
Molti marosi e minacciose tempeste ci sovrastano, ma non abbiamo paura di essere sommersi, perché siamo fondati sulla roccia. Infuri pure il mare, non potrà sgretolare la roccia. S’innalzino pure le onde, non potranno affondare la navicella di Gesù. Cosa, dunque, dovremmo temere? La morte? «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Allora l’esilio? «Del Signore è la terra e quanto contiene» (Sal 23,1). La confisca dei beni? «Non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via» (1 Tm 6,7). Disprezzo le potenze di questo mondo e i suoi beni mi fanno ridere. Non temo la povertà, non bramo ricchezze non temo la morte, né desidero vivere, se non per il vostro bene. È per questo motivo che ricordo le vicende attuali e vi prego di non perdere la fiducia. Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18,20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la sua Scrittura, leggo, la sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) - Cristo è con me, di chi avrò paura? Anche se si alzano contro di me i cavalloni di tutti i mari o il furore dei principi, tutto questo per me vale di meno di semplici ragnatele. Se la vostra carità non mi avesse trattenuto, non avrei indugiato un istante a partire per altra destinazione oggi stesso. Ripeto sempre: «Signore, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42). Farò quello che vuoi tu, non quello che vuole il tale o il tal altro. Questa è la mia torre, questa la pietra inamovibile, il bastone del mio sicuro appoggio. Se Dio vuole questo, bene! Se vuole ch’io rimanga, lo ringrazio. Dovunque mi vorrà, gli rendo grazie. Dove sono io, là ci siete anche voi. Dove siete voi, ci sono anch’io. Noi siamo un solo corpo e non si separa il capo dal corpo, né il corpo dal capo. Anche se siamo distanti, siamo uniti dalla carità; anzi neppure la morte ci può separare. Il corpo morrà, l’anima tuttavia vivrà e si ricorderà del popolo. Voi siete i miei concittadini, i miei genitori, i miei fratelli, i miei figli, le mie membra, il mio corpo, la mia luce, più amabile della luce del giorno. Il raggio solare può recarmi qualcosa di più giocondo della vostra carità? Il raggio mi è utile nella vita presente, ma la vostra carità mi intreccia la corona per la vita futura.
Un ulteriore brano, fra i tanti che possono essere letti, per conoscere la figura di san Giovanni Crisostomo, riguarda la sua predicazione a favore dei poveri che sono tempio di Cristo. Il testo è tratto dalle omelie su Matteo pronunciate nel 390, quando Giovanni non era ancora patriarca, ma semplice sacerdote di Antiochia.
(dalle "Omelie sul vangelo di Matteo" di san Giovanni Crisostomo, vescovo, Om. 50, 3-4; PG 58, 508-509)
«Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare (cfr. Mt 25,42), e: Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l'avete fatto neppure a me (cfr. Mt 25,45). Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi. Anche Pietro credeva di onorarlo impedendo a lui di lavargli i piedi. Questo non era onore, ma vera scortesia. Così anche tu rendigli quell'onore che egli ha comandato, fa' che i poveri beneficino delle tue ricchezze. Dio non ha bisogno di vasi d'oro, ma di anime d'oro. Con questo non intendo certo proibirvi di fare doni alla chiesa. No. Ma vi scongiuro di elargire, con questi e prima di questi, l'elemosina. Dio infatti accetta i doni alla sua casa terrena, ma gradisce molto di più il soccorso dato ai poveri. Nel primo caso ne ricava vantaggio solo chi offre, nel secondo invece anche chi riceve. Là il dono potrebbe essere occasione di ostentazione; qui invece è elemosina e amore. Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai un calice d'oro e non gli darai un bicchiere d'acqua? Che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? Che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe o piuttosto non si infurierebbe contro di te? E se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce? Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offrire, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò mentre adorni l'ambiente del culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questi è un tempio vivo più prezioso di quello».

[6] Gli innografi sono qui scelti come cantori della Madonna, ma sono importantissimi anche per altri aspetti della storia del cristianesimo. In particolare S. Giovanni Damasceno (660-750 ca.) fu grande difensore delle immagini, delle icone, durante il primo periodo iconoclasta. Fu anche il primo cristiano del quale si siano conservate considerazioni scritte sull’islam. Figlio di una famiglia che fu al servizio del califfo del tempo, con grandi responsabilità, lavorò come suo amministratore fino al 725, quindi si ritirò in monastero. Giovanni Damasceno descrive l’islam in un grande capitolo della sua opera De Aeresibus, definendolo “un’eresia simile a quella ariana” (Gesù non è Dio, ma è solo uomo), e chiamando i musulmani “figli di Agar” e non figli di Abramo, poiché è dalla schiava di questi che nacque Ismaele. Giovanni commenta poi Gal 4,21-31, affermando che non è sufficiente essere figli di Abramo, ma bisogna arrivare a riconoscere il Cristo.


[I luoghi della Bibbia]