Perché la chiesa viene chiamata Santa nel Simbolo di fede (da Joseph Ratzinger)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /05 /2007 - 23:20 pm | Permalink | Homepage
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Perché la chiesa viene chiamata Santa nel Simbolo di fede,
da Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger, Queriniana, Brescia, 1979, pp.281-285


Nel Simbolo, la chiesa vien chiamata ‘santa’ non perché i suoi membri siano degli uomini collettivamente e individualmente santi, immuni dal peccato: questo pio sogno, che rispunta infallibilmente in ogni secolo, non trova assolutamente posto nel vigile mondo del nostro testo, per quanto esprima in maniera commovente un anelito dell’uomo, che non l’abbandonerà mai sinché un nuovo cielo e una nuova terra non sopravverranno a dargli realmente ciò che il tempo presente non gli concederà mai.

Già a questo punto potremmo quindi affermare che i più spietati critici della chiesa dell’epoca nostra si nutrono sotto sotto proprio di questo sogno, e, siccome lo trovano deludente, se ne vanno sbattendo la porta di casa e denunziandolo come ingannatore.

Ma torniamo al nostro assunto: la santità della chiesa consiste in quel potere di santificazione, che Dio esercita in essa malgrado la peccaminosità umana. C’imbattiamo qui proprio nella nota tipica della ‘nuova Alleanza’: in Cristo, Dio si è spontaneamente alleato agli uomini, lasciandosi vincolare da loro. La nuova Alleanza non poggia più sulla mutua osservanza del patto stipulato, ma viene accordata da Dio sotto forma di grazia, che continua a sostenersi anche a dispetto dell’infedeltà dell’uomo.

E’ l’espressione dell’amore di Dio, che non si lascia mai vincere dall’inettitudine dell’uomo, ma continua nonostante tutto ad esser buono nei suoi confronti, non cessando mai di accoglierlo proprio nella sua misera veste di peccatore, chinandosi affettuosamente su di lui per santificarlo ed amarlo. In virtù della non mai ritrattata dedizione del Signore, la chiesa resta e resterà sempre la società da lui santificata, in cui si rende presente fra gli uomini la santità del Signore. Ma è sempre realmente la santità del Signore che aleggia qui in mezzo a noi, scegliendosi sistematicamente e con un amore quasi paradossale ed eccipiente della sua presenza le sudice mani degli uomini. E’ sempre la santità di Cristo, che lascia filtrare la sua radiosa luce pur attraverso il peccato di cui è impastata la chiesa.

Questa è la figura paradossale della chiesa: un’entità in cui il divino si presenta tanto spesso offerto da mani indegne, rimanendovi perennemente presente in forma di ‘nonostante tutto’, costituendo per i fedeli un segno incontrovertibile che attesta il ‘nonostante tutto’ del sempre più eccelso amor di Dio. L’eccitante intreccio di fedeltà di Dio e d’infedeltà dell’uomo che caratterizza la struttura della chiesa, incarna quasi la drammatica figura della grazia, tramite la quale la realtà intrinseca di questo dono gratuito si rende continuamente presente e visibile, come celeste benedizione di coloro che di per sé ne sono assolutamente indegni.

Di conseguenza, si potrebbe dire addirittura che la chiesa, proprio nella sua paradossale struttura composta di santità e di miseria, sia la configurazione assunta dalla grazia in questo nostro mondo.

Facciamo ora un passo innnanzi. Nel sogno umano d’un mondo ormai giunto alla salvezza, la santità viene immaginata come immunizzazione dal peccato e dal male, come una qualità esente da qualsiasi commistione con essi; ora, in tale idea, continua in certo qual modo ad estrinsecarsi un pensiero imperniato sul netto contrasto bianco-nero, che esclude e rigetta inesorabilmente ogni corrispondente forma di negativo (che logicamente può venire concepita in maniera assai diversa). Nell’odierna critica sociale e nelle azioni in cui essa si scarica, questo tratto spietato che sin troppo sovente affligge gli ideali umani, si manifesta quanto mai accentuato e virulento.

Il lato scandaloso della santità di Cristo era quindi costituito, già agli occhi dei suoi contemporanei, dal fatto che ad essa mancava del tutto questa nota impietosa e giudicatrice: non la si apprezzava perché non piombava il fuoco sugli infedeli; né era permesso agli zelanti di strappare dal campo la zizzania che vi vedevano crescere. Per contro, questa santità si manifestava proprio nell’intenzionale frammischiarsi del maestro coi peccatori, che Gesù attirava a sé; si estrinsecava in una commistione spinta tanto avanti, da portare lui stesso a trasformarsi ‘in peccato’, accollandosi la maledizione della legge nel supplizio capitale: piena comunanza di destino coi perduti (cfr. 2Cor5,21; Gal3,13).

Egli si è sobbarcato il peccato, trasformandolo in una sua quota-parte e rivelando così che cosa sia la vera ‘santità’: non isolamento, bensì unione; non giudizio, bensì amore redentivo. Orbene: la chiesa non è forse una semplice prosecuzione di questo abbandonarsi che Iddio fa alla miseria umana? Non è forse una continuazione della comunione conviviale di Gesù coi peccatori, della sua commistione col travaglio del peccato, spinta così innanzi da farlo sembrare affondare in esso?

Nella ben poco santa santità della chiesa, che si contrappone all’umana attesa di assoluta purezza, non si rivela forse la vera santità di Dio che è amore, un amore però il quale non si mantiene arroccato nel nobile distacco dell’intangibile e asettica pulizia, ma s’immerge invece nella sporcizia del mondo per ripulirla a fondo?

Tenendo presente questo, la santità della chiesa potrà mai essere qualcosa di diverso dalla vicendevole sopportazione, che ovviamente scaturisce dal fatto che tutti vengono sopportati da Cristo? Ve lo confesso apertamente: per me, proprio la ben poco santa santità della chiesa racchiude in sé qualcosa d’infinitamente consolante. Infatti, come non si dovrebbe perdersi d’animo di fronte ad una santità che si presentasse assolutamente incontaminata, agendo su di noi solo con piglio giudicatore e fiato rovente? E chi mai potrebbe affermare di non dover esser sopportato, anzi addirittura sorretto dagli altri? Ora, come potrebbe rifiutare la sopportazione uno che vive di sopportazione da parte degli altri? Essa non è forse l’unico contraccambio che egli sia in grado di dare, l’unica consolazione che gli resta adattandosi a sopportare così come egli stesso viene sopportato?

In effetti, la santità sussistente nella chiesa comincia col sopportare, per giungere poi a sorreggere; ma qualora il sopportare non esista più, cessa di esistere anche il sorreggere, sicché l’esistenza, privata di qualsiasi base d’appoggio, finisce per precipitare nel vuoto. Si può tranquillamente affermare che, in queste parole, si esprime senza mezzi termini un’esistenza debole e vacillante; ma rientra proprio nell’essenza del cristianesimo l’impossibilità dell’autarchia e il dovere di accettare in santa pace la debolezza soggettiva.

In fondo in fondo, è sempre all’opera un malcelato orgoglio, quando la critica fatta alla chiesa assume quel tono di atrabiliare amarezza, che oggi incomincia ormai a diventare un gergo usuale. Ad essa, purtroppo si aggiunge poi sin troppo sovente un vuoto spirituale, in cui non si scorge assolutamente più la vera essenza della chiesa, sicché essa viene ormai considerata soltanto come una mera formazione politica interessata; la sua organizzazione viene sentita come miseranda o brutale, a seconda dei punti di vista, quasi che la peculiarità della chiesa non stesse ben oltre la mera organizzazione nella consolazione della parola e dei sacramenti che essa distribuisce a larga mano nei giorni lieti e tristi.

Gli autentici credenti non danno mai eccessivo peso alla lotta per la riorganizzazione delle forme ecclesiali. Essi vivono attingendo la linfa alla natura perenne della chiesa. E quando si voglia sapere che cosa realmente sia la chiesa, bisogna recarsi da loro. La chiesa infatti non fa sentire al massimo la sua presenza là dove si organizza, si riforma, si reagisce e si dirige; si fa sentire invece in coloro che credono con tutta semplicità, ricevendo in essa il dono della fede che diviene per loro fonte di vita. Solo chi ha sperimentato come la chiesa, prescindendo dal cambiamento dei suoi servitori e delle sue forme, rinfranchi gli uomini, accordando loro una patria e una speranza, una patria che è una speranza, vale a dire una via atta a condurre alla vita eterna, solo costui – ripeto – sa veramente cosa sia la chiesa: cosa sia stata in passato e cosa sia tutt’oggi.

Ciò non vuol dire ovviamente dire che bisogni lasciar sempre tutto allo “statu quo” sopportandolo perennemente così com’è. La sopportazione invece può essere anche un processo altamente attivo, un lottare accanitamente per far sì che la chiesa diventi sempre più una entità davvero portante e sopportante. La chiesa infatti non vive altro che in noi; vive della lotta ingaggiata dai non-santi per conseguire la santità, come del resto tale lotta vive a sua volta del dono di Dio, senza il quale la santa battaglia non potrebbe nemmeno aver luogo.

Ma la lotta risulterà fruttuosa, costruttiva, soltanto allorché sarà animata dallo spirito di sopportazione, da un autentico e reale amore. Eccoci così arrivati anche al criterio, in base al quale deve sistematicamente lasciarsi misurare la lotta critica per una migliore santità della chiesa: lotta – questa – che non solo non è in contrasto con la sopportazione, ma è positivamente esigita da essa. Questo parametro è precisamente l’azione costruttiva. Una critica amara, capace solo di distruggere, si condanna da sé. Una porta violentemente sbattuta può sì assurgere a segnale che scuote dal sonno coloro che sono chiusi dentro. Ma l’illusione che nell’isolamento si possa costruire di più che in collaborazione, resta appunto una illusione, esattamente come l’idea d’una chiesa dei 'santi' invece d’una 'santa chiesa', la quale è davvero santa perché il Signore elargisce munificamente in essa il dono della santità senza alcun merito da parte nostra.