Inferno e Paradiso. Roberto Benigni recita Dante.
Paolo e Francesca, Il canto di Ulisse, Il conte Ugolino, Il canto XXXIII del Paradiso (tpfs*)

Presentiamo on-line una trascrizione delle Lecturae Dantis tenute da Roberto Benigni in diverse università italiane e presentate in versione cinematografica da La Melampo Cinematografica, con il titolo Inferno e Paradiso. Roberto Benigni recita Dante, prodotto da Gianluigi Braschi, montaggio di Simona Paggi, delegati alla produzione Alessia Iannece e Francesco Venzi, direttore della fotografia Roberto Forges Davanzati, 2001.
Gli interventi di Benigni furono tenuti nella Scuola Normale di Pisa, nell’Università La Sapienza di Roma, nell’Università di Padova, nell’Università di Bologna.
La trascrizione è stata curata per L’Areopago da Giulia Balzerani e non rivista dall’autore.
Il testo, nascendo dalla viva voce dell’autore, conserva lo stile orale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione, se la sua messa a disposizione on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago


Indice


1. Inferno, Canto V
Paolo e Francesca

(Sale in piedi sulla sedia)
Qui non si può stare, vero?
Dunque... volevo venire qua in questo giro che abbiamo fatto delle università, che mi hanno arricchito veramente... nel senso - vero - spirituale del termine, e fare un incontro con gli studenti, poi il Magnifico Rettore mi ha detto “Ma vieni a fare una bella lectura Dantis”, e così dicendo ha invitato la lepre a correre! Anche perché non ho mai fatto un vero e proprio incontro, lezione, o come si vuole dire, o chiarificazione, perché a me quando si parla di Dante mi si rigira subito il corpo e l’anima, mi va bene tutto. Ci tengo a dire che il mio è un contributo; quello che dico ovviamente non ha carattere scientifico, ma personale. Qualsiasi cosa si dice su Dante va sempre bene, perché è un contributo che diamo alla poesia, all’altezza, alla bellezza e alla gioia del mondo e del vivere.

Dante Alighieri ci ha lasciato l’apice di tutte le letterature. Io sono un uomo di spettacolo e gli uomini di spettacolo vengono dalla narrazione perché devono saper raccontare. Quindi sono anche un uomo di lettere, se vogliamo buttare là, e anche uno piuttosto esigente, nel senso che quando leggo mi piace proprio godere della lettura, il piacere della lettura. Quando dico perciò che la Divina Commedia è veramente la vetta delle letterature, lo dico proprio per il piacere della lettura e per il fatto di non respingere un amante straordinario come Dante Alighieri, il quale ci ha regalato una cosa così bella che, come dice il poeta, “chissà cosa abbiamo fatto di straordinario, di cui ci siamo dimenticati, per esserci meritati un dono così bello come la Divina Commedia”. E’ come se Dio avesse detto: “Sono stati talmente bravi, boni, che li voglio premiare, gli do uno che gli scrive la Divina Commedia”. Questo è una cosa spettacolare, forse ce ne siamo dimenticati. Quindi c’è anche il canto, la musicalità, c’è il racconto e, naturalmente, la poesia.

E la poesia, come si sa, va detta ad alta voce, perché viene dalla tradizione orale. Addirittura mi ricordo di un passo di Sant’Agostino che mi ha colpito. Si dice che lui per la prima volta è rimasto colpito quando è andato a Milano, da Sant’Ambrogio e ha visto che leggeva mentalmente. Era la prima volta che accadeva nella storia, che qualcuno leggesse mentalmente e Sant’Agostino è rimasto stralunato da questa cosa. In ebraico addirittura leggere e gridare si dice nella stessa maniera. Quindi tutta la grande poesia deve essere letta ad alta voce. La poesia che non regge ad essere letta ad alta voce, vuol dire che non è una grande poesia. E’ una delle regole - la più antica del mondo - il fatto che sia cantata.

Ora Dante è stato a fare un viaggio nell’aldilà; noi dobbiamo credere che c’è stato veramente. Io non ho mai avuto dubbi che Dante sia stato nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso. Ci si buttò dentro. Ci dice delle cose precise, quando parte “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Ci dice esattamente che c’ha 35 anni. Poi dice: “Mi ritrovai per una selva oscura”, e allora dice: “Come era a cena da amici e ha perso la strada di casa? Si è trovato in un bosco? Come è andata?” Uno la può leggere anche così oppure capisce subito che comincia l’allegoria, perché la selva oscura addirittura un grande poeta americano, Pinsky, che è un grande traduttore della Divina Commedia ha detto proprio che Dante in quel momento si trovava in una depressione. Uno che è depresso, che sta proprio per morire, che sta male... quindi comincia l’allegoria. Ha scritto questa cosa proprio per ergersi e tornare alla vita. Queste sono tutte letture che vengono in seguito.

Ma come mai quest’opera dura tanto? Un’opera per dura’ tanto o è erotica o è religiosa. Guardate la Bibbia, volevo dire, più erotica e mistica della Bibbia credo non ci sia opera. Ed è il libro più venduto e più letto da tutti, anche perché, volevo dire, quando si sanno i gusti dei lettori... La Bibbia è anche l’unico libro e l’unico esempio in cui l’autore del libro è anche l’autore dei lettori, quindi sa esattamente quello che.. è andato preciso. E’ un fatto...

La Divina Commedia è erotica, estremamente erotica, ma più che erotica è sensuale. La sensualità di Dante, il verso! Qualcuno di voi ricorderà il famoso sonetto, proprio trovato nel tavolo di un notaio bolognese, quello che comincia: No me poriano giamai fare menda, dove ammenda fa rima con Garisenda. Ha fatto questo sonetto che è proprio a firma Dante Alighieri, si dice. Poi è stato riportato, la firma non l’ha mai vista nessuno però oramai è dato per suo, dove Dante Alighieri, guardando la Garisenda che non aveva mai visto, dice che vorrebbe accecare i suoi occhi e proprio fracassarli perché mentre guardava la Garisenda dietro di lui gli è passata, gli hanno detto, la più bella donna di Bologna, e lui non l’ha vista perché stava guardando ‘sta Garisenda. E s’è talmente arrabbiato di questo che ci ha scritto un sonetto. Vai a ripigliarla, perché allora trovare le donne non era facile come ora. Come ora, è sempre difficile intendiamo, però... Lui aveva questa sorta di... e comunque sulla sensualità di Dante ne sono state dette tante, ma la Divina Commedia ce ne dice di più.

Ci dice che lui all’inizio non voleva fare questo viaggio ultramondano. Si trova in questa selva, ci sono le tre belve, che sono belle anche così come sono, senza metafore. Si trova una lonza, un leone e una lupa che li ferma. Uno c’ha paura. E’ una cosa spettacolare senza la metafora, l’allegoria, i segni. Ad un certo punto arriva Virgilio che è il suo poeta preferito. Le sue prime parole sono: “Pietà, miserere me”. C’ha paura, una paura tremenda e Virgilio lo deve convincere, gli dice che lui è stato insignito, che deve fare ‘sto viaggio, che deve scrivere... e lui non vuole andare in nessuna maniera, finché Virgilio lo convince. Lui decide di andare e dopo si riferma: “Non voglio venire”. Proprio non vuole andare. Finché Virgilio per convincerlo gli dice che è stato chiamato da Beatrice, Santa Lucia e la Madonna. Tre donne che lo chiamano e vogliono per forza che lui faccia questo viaggio. Quando Dante sente che tre donne l’hanno chiamato c’è quel... ve lo vorrei leggere perché c’è un... non è che la so proprio tutta tutta a memoria, ci sono dei versi che... Nel II canto c’è una delle similitudini più belle della Divina Commedia, quella dei fioretti, lui sentendo dire che tre donne lo chiamano dice:

Quali fioretti dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtute stanca

Ma pensa che... è proprio un’immagine, come si può dire, ci si può ricavare, ora non voglio fare facili allusioni, ma è una cosa proprio di una potenza, teologica, virile, umana, carnale, animosa, animalosa, creaturale e si potrebbe trovare dei termini novi. Lui è convinto a andare là dal richiamo, diciamo, della potenza femminile. E’ la potenza femminile che lo fa andare. E’ un libro tutto al femminile la Divina Commedia, è un libro tutto sull’amore, basato tutto sull’amore. Ora, quando parla di Paolo e Francesca, che sono i passi più famosi, sentiamo che è il primo dannato con il quale parla, Francesca. E per la prima volta nella storia - un’invenzione di lui, uomo del Medio Evo - per descrivere tutto un personaggio, prende un momento della sua vita. Questa è un’idea che mi ha sempre affascinato. Prende un solo momento della sua vita e quel personaggio è scolpito per l’eternità. E’ un’invenzione di Dante Alighieri. Per Paolo e Francesca prende il momento in cui loro due non sapevano di essere innamorati e vengono trafitti dall’amore e quel momento rimarrà scolpito per sempre. Lui sceglie quel momento e sarà il momento dell’eternità. Mentre noi sentiamo Francesca che parla e piange e dice, soffriamo.

Mentre che l'uno spirto questo disse,
l'altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com'io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Ma quando si sente: l’altro piangea, il cuore sobbalza, e quel verso che dice quando hanno scoperto... Dante vuol sapere come hanno fatto a capire che erano innamorati. Gli interessa a lui personalmente, è proprio la sua domanda: come accadde che voi vi scopriste innamorati? E lei dice:

Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

Ma queste son cose che uno... come applaude? Qui si spoglia e fa l’amore con un tavolo dalla bellezza. Viene voglia di violentare un tavolo minorenne!
Sono versi che lasciano... (applauso)

Siamo nel primo girone dell’Inferno - il primo, vero - dove Dante ci ha messo (non a caso in quello dove si soffre meno, per modo di dire) quelli che sono morti per amore, i lussuriosi, ma anche quelli che sono morti per amore perché si amavano l’uno con l’altro. Proprio perché lui stesso c’aveva paura di andarci: “Meglio che faccio un posto un po’ meno sofferente!” Quindi in questo canto si parla di questa storia. Di questi due amanti che so’ stati presi mentre stavano leggendo una storia che li riguardava - erano quasi loro - un libro. La storia di Paolo e Francesca la sapete tutti, insomma che... lei doveva sposare Gianciotto Malatesta e naturalmente era bruttissimo, era anche zoppo. Gli è arrivato brutto e zoppo, ma brutto, una personaccia! Gli portò la cosa di matrimonio il su’ fratello che era bellissimo. Lei pensava fosse quello suo marito. Pensate quando è arrivato quell’altro, che era cattivo, brutto e zoppo, ma proprio ignorante come una capra e quindi... Non è che poi l’ha tradito, solamente che il primo afflato d’amore con il primo che vedi... magari se vedeva prima quell’altro si sarebbe innamorata. Ha visto prima quello, allora... Aspettava l’amore. Quando aspetti l’amore non si vede più niente, diventa tutto meraviglioso.

Questo afflato d’amore, Dante gli chiede, vuol sapere da loro come fecero a ‘nnamorarsi. Perché a Dante gli interessa come si fa a ‘nnamorarsi: “Voglio sapere come scatta questo mistero dell’universo dell’amore”, che può scattare tra chiunque, con chiunque e in qualsiasi momento. E quella è una cosa che dentro ci sono... c’è Semiramide, che era una talmente lussuriosa che aveva fatto un editto dove imponeva a tutti di fare all’amore per la strada dalla mattina alla sera, di modo che anche lei fosse normale. Siccome questa Semiramide faceva all’amore dalla mattina alla sera con tutti, ha fatto un editto... E’ come se anche qui in Italia si dovesse tutti... Non facciamo riferimenti che è sempre brutto e terribile...
C’è Minosse in questo canto, con tutte le similitudini... “Vabbè Benigni, abbiamo capito, facci ‘sto canto”.

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia

3 e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;

6 giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;

9 e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte

12 quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,

15 dicono e odono e poi son giù volte.
"O tu che vieni al doloroso ospizio",
disse Minòs a me quando mi vide,

18 lasciando l’atto di cotanto offizio,
"guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!".

21 E ’l duca mio a lui: "Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote

24 ciò che si vuole, e più non dimandare".
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto

27 là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,

30 se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;

33 voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;

36 bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,

39 che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

42 così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,

45 non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,

48 così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
per ch’i’ dissi: "Maestro, chi son quelle

51 genti che l’aura nera sì gastiga?".
"La prima di color di cui novelle
tu vuo’ saper", mi disse quelli allotta,

54 "fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,

57 per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:

60 tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;

63 poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,

66 che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano"; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,

69 ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,

72 pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: "Poeta, volontieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,

75 e paion sì al vento esser leggeri".
Ed elli a me: "Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega

78 per quello amor che i mena, ed ei verranno".
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: "O anime affannate,

81 venite a noi parlar, s’altri nol niega!".
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido

84 vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,

87 sì forte fu l’affettüoso grido.
"O animal grazïoso e benigno
che visitando vai per l’aere perso

90 noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,

93 poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,

96 mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende

99 per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona

102 che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,

105 che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense".

108 Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,

111 fin che ’l poeta mi disse: "Che pense?".
Quando rispuosi, cominciai: "Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio

114 menò costoro al doloroso passo!".
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: "Francesca, i tuoi martìri

117 a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore

120 che conosceste i dubbiosi disiri?".
E quella a me: "Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice

123 ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,

126 dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;

129 soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;

132 ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,

135 questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:

138 quel giorno più non vi leggemmo avante".
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade

141 io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

2. Inferno, Canto XXVI
Il canto di Ulisse

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: "Quando

Senti? Lui ha messo... questo si chiama, come tutti sapete, l’enjambement, quando finisce un verso e la frase non è compiuta e ricomincia a metà dall’altro. E in questo canto deborda. E’ come se ci fosse un’alluvione, come se volesse sapere talmente tanto che il canto... mentre lo si recita o lo si legge, è impossibile rimanere fermi. Si corre come un treno che accelera, per arrivare alla fine di Ulisse, che è la fine di tutti noi, che è la fine... Quando dice che non voleva restare con Penelope, con suo padre e sua madre, ma voleva conoscere il valore e i vizi umani:

ma misi me per l’alto mare aperto

Non dice “mi misi”, ma dice “misi me”. Sentite la forza. Basta cambiare una lettera! S’immagina come se stesso gigantesco, lo spirito dell’uomo che si prende e si mette: “Devi sta’ qua!” E’ una cosa... sembra proprio l’uomo che diventa Dio e gli dice: “Questo è il tuo cammino, sei la cosa più... sei Dio”. Ecco, in un’immagine...

Sapete che rileggendo - stavo facendo il film “La vita è bella” e ho letto e riletto Primo Levi - Se questo è un uomo, e mi sono meravigliato, che non solo lui, ma anche un grande poeta russo, Mandel’stam, quando era nei campi di lavoro in Siberia, nello stesso momento entrambi, nel luogo più basso dove l’uomo era arrivato, i campi di sterminio - ci sarà una cosa più bassa? - che hanno preso il posto dell’Inferno di Dante nella nostra immaginazione, in quel momento entrambi hanno pensato... Uno ha scritto un saggio critico sull’Ulisse, e Primo Levi cercava di spiegarlo a un cuoco, praticamente a un lavapiatti del campo di sterminio il canto dell’Ulisse. Proprio perché sentivano che loro erano quello, non erano solo quello che vedevano lì.

L’uomo, l’umanità, non è solo quello, ma è anche questo. Come nel cinema. Avete visto nel racconto, quando alla fine si arriva... c’è un giallo, non si capisce cosa è accaduto e improvvisamente parte la dissolvenza e dice: “Quella sera mi trovavo lì”. Si vede il protagonista che si muove e ci fa vedere esattamente quello che è accaduto. E’ una goduria! E così fa Dante. Ma se lo inventa, così come è. Nessuno lo sa, però lui ce lo fa sembrare vero. Perché ciò che è bello diventa vero! La grandezza di Dante è che in cento canti non viene mai meno l’intensità. Non ho mai letto niente, nemmeno Shakespeare - cioè qualche volta, forse nel Macbeth - c’è un’intensità dall’inizio alla fine così potente come c’è Dante. Ma in Dante, in ogni verso, in ogni canto, c’è un’intensità che non viene mai meno. E’ un libro che si volta pagina e si applaude. Ci sono delle pagine che uno da sé solo comincia ad applaudire. Non si capisce.... Io mi son trovato in camera a dire “Bravo!” così, al libro. Poi mi son guardato intorno: “Ecco, ora se veniva sant’Agostino vedeva l’urlata, vero... invece di leggere a bassa voce”. L’influenza dantesca si sente, ma non solo in Europa, si sente negli americani. Moby Dick, se voi pensate a Moby Dick, Melville, che è la centralità della letteratura americana, come fa Melville a non aver letto l’Ulisse? Infatti l’aveva letto Melville nella traduzione del Longfellow che è quella classica americana, che tutti sappiamo che era spettacolare. Un po’ barocca, però strepitosa. E quando in Moby Dick muore il capitano Achab è uguale al finale dell’Ulisse di Dante.

Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

Senti, senti che bellezza! (il pubblico applaude)
Con Dante è facile piglia’ gli applausi! Non ci si può neanche scherzare perché Dante alla fine prende la mano e diventa tutto lui. Nella figura d’Ulisse ci ha messo quest’immagine meravigliosa dell’uomo che va alla ricerca del valore di cos’è l’umanità. E sfida Dio. Che rivede un po’ se stesso perché Dante sta giudicando proprio tutti i suoi contemporanei, quindi anche lui sta sfidando Dio. E c’è questo lungo monologo di Ulisse in cui Dante si scancella e parte questa sfida. E se me lo ricordo bene, può darsi che io mi fermi, che ci fermiamo un po’, io ve lo recito. Siamo nell’ottava bolgia, appunto, e ci sono tutte le fiamme che vengono su e Dante chiede chi sono. Beh, ora a dirvi tutto il canto ci vuole un’ora, ve lo faccio.

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,

3 e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,

6 e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,

9 di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ei, da che pur esser dee!

12 ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Noi ci partimmo, e su per le scalee
che n’avean fatto iborni a scender pria,

15 rimontò ’l duca mio e trasse mee;
e proseguendo la solinga via,
tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio

18 lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,

21 e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa

24 m’ha dato ’l ben, ch’io stesso nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara

27 la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,

30 forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi

33 tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,

36 quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,

39 sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,

42 e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,

45 caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: "Dentro dai fuochi son li spirti;

48 catun si fascia di quel ch’elli è inceso".
"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso

51 che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira

54 dov’Eteòcle col fratel fu miso?".
Rispuose a me: "Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme

57 a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta

60 onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,

63 e del Palladio pena vi si porta".
"S’ei posson dentro da quelle faville
parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego

66 e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;

69 vedi che del disio ver’ lei mi piego!".
Ed elli a me: "La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;

72 ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,

75 perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto".
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,

78 in questa forma lui parlare audivi:
"O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,

81 s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica

84 dove, per lui, perduto a morir gissi".
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,

87 pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,

90 gittò voce di fuori, e disse: "Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,

93 prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore

96 lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

99 e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna

102 picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,

105 e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta

108 dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,

111 da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,

114 a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,

117 di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,

120 ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,

123 che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,

126 sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,

129 che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,

132 poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto

135 quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque

138 e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso

141 e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso".

(Il pubblico applaude)
Grazie, grazie.

3. Inferno, Canto XXXIII
Il conte Ugolino

Ora naturalmente una romanza così famosa, la più famosa di tutte, andare a di’ due parole di presentazione mi vergogno, perché mi sembrerebbe... posso solo dire questo mio amore per Dante. Nel senso che Dante me lo facevano conoscere da piccino. Qua in Toscana abbiamo avuto la fortuna che da ogni parte c’è una donna di Dante, dove Dante ha fatto la pipì, dove Dante ha stretto la mano ad uno. Ogni luogo è dantesco, quindi si vive. Specialmente in Dante c’è il senso della paura che è uno dei sensi più sani, è naturale che viene spesso dimenticato. Il senso della paura.

Il fatto di saperla a memoria era una cosa che qualche verso lo sapevano tutti, da casa mia, parenti, baristi. Lo sanno tutti, anzi per la memoria la mi’ mamma mi diceva: “Leggi Dante e imparalo a memoria che lui ‘mparava a memoria le poesie di quegli altri, vedi com’era intelligente. Ha’ capito?” Quand’era nel sasso di Dante, s’andò uno da lui a dirgli, all’improvviso fecero una scommessa e gli disse a Dante: “Qual è il miglior boccone?” E Dante gli disse: “L’ovo”. Dopo un anno ripassò la stessa persona e gli disse a Dante: “Con che?”. E lui disse: “Col sale”.
Lui si ricordava tutti, perché sapeva le cose a memoria Dante! “E devi impara’ anche te a memoria. Voglio vede’ se tra un anno ti dico una cosa se te la ricordi!”
Allora la mi’ mamma soprattutto voleva che io imparassi a memoria delle cose perché dice: “Oh, ti scorderai mica!” Allora voleva che ‘mparassi a memoria. Poi il mi’ babbo mi montò su un palcoscenico a improvvisare perché era affascinato dal mistero dell’improvvisazione. Allora questo Dante naturalmente mi so’ messo a leggerlo per vedere quelle parole. L’80% delle parole so’ quelle di oggi. Anche nel Chisciotte c’è scritto basta sapere un’ottava in toscano per capire tutto l’Ariosto, quindi. Anche Dante. So’ rimaste... son dei versi uguali ad oggi da “la bocca mi basciò tutta tremante”, uguali identici.

E’ un libro di una scandalosa bellezza. Chi non ha letto questo canto lo ‘nvidio perché il XXXIII del conte Ugolino fa piangere e fa godere come dei rospi chiunque... è una soddisfazione! Ora noi si va a leggere proprio quello più tremendo dove voi sapete che Ugolino... la fame e quindi la cosa un po’ antropofaga che si mangia. Il famoso verso “poscia più che il dolor poté il digiuno” uno lo può anche intendere “poté il digiuno” nel senso che morì di fame, non che si mangiò i figlioli, anche se dotte interpretazioni giustamente, poi quando uno la legge tante volte s’accorge che c’aveva ragione perché tutto il canto è sul masticamento, addirittura c’è l’ultima cena, l’Eucaristia, c’è proprio!

Nella seconda parte c’è un’altra idea di Dante, ma dove le trovava! Dove c’è quelle anime che, siccome voleva la soddisfazione di mettere all’inferno qualcuno che era ancora vivo. Ha trovato l’espediente di dire: “E’ talmente cattivo che la sua anima va già all’inferno” e lui sta ancora vivo di sopra. Pensa che trovata! Per metterci... se io ci volessi mettere un so’, uno vivo là dentro, un facciamo nomi nella parte più tremenda, già mi viene una sfilza come l’arca di Noè! Allora si era inventato l’espediente... che la Chiesa cattolica poi ha detto no e allora...

Ora senza por tempo in mezzo vi faccio il conte Ugolino. Chiedo scusa se mi blocco e mi fermo, perché a dirlo a mente a volte ci si blocca. Siamo nel XXXIII canto, in uno dei gironi che dopo c’è il diavolo in persona. Peggio di così si more! C’è i traditori di quattro specie che sono traditori dei parenti, traditori politici, traditori dei benefattori - peggio di tutti - e traditori degli ospiti. Qui ci troviamo... Vabbè Benigni abbiamo capito, la conosciamo la cosa, facci conte Ugolino. Chiedo scusa. Il canto prima finisce che lui inciampa sulla testa di uno prima che gli dice un sacco di... e poi è stupito perché vede uno che mangia proprio la testa ad un altro e allora va a vedere chi è, lo vuol sapere. Sarebbero du’ canti che vanno fatti insieme perché come gli ultimi due del paradiso finisce quello prima addirittura con du’ punti quindi è chiaro che i du’ canti son legati. Anche questi due sono abbastanza legati.

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli

3 del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme

6 già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,

9 parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino

12 mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:

15 or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso

18 e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,

21 udirai, e saprai s’e’ m’ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,

24 e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno

27 che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte

30 per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi

33 s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane

36 mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli

39 ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;

42 e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,

45 e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai

48 nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio

51 disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò non lacrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,

54 infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi

57 per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia

60 di manicar, di sùbito levorsi
e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti

63 queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta’mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;

66 ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,

69 dicendo: "Padre mio, ché non m’aiuti?".
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno

72 tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.

75 Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno".
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,

78 che furo a l’osso, come d’un can, forti.
Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ’l sì suona,

81 poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,

84 sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
Ché se ’l conte Ugolino aveva voce
d’aver tradita te de le castella,

87 non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea l’età novella,
novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata

90 e li altri due che ’l canto suso appella.
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata
ruvidamente un’altra gente fascia,

93 non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo,

96 si volge in entro a far crescer l’ambascia;
ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,

99 rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che, sì come d’un callo,
per la freddura ciascun sentimento

102 cessato avesse del mio viso stallo,
già mi parea sentire alquanto vento;
per ch’io: "Maestro mio, questo chi move?

105 non è qua giù ogne vapore spento?".
Ond’elli a me: "Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l’occhio la risposta,

108 veggendo la cagion che ’l fiato piove".
E un de’ tristi de la fredda crosta
gridò a noi: "O anime crudeli

111 tanto che data v’è l’ultima posta,
levatemi dal viso i duri veli,
sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna,

114 un poco, pria che ’l pianto si raggeli".
Per ch’io a lui: "Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna,
dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo,

117 al fondo de la ghiaccia ir mi convegna".
Rispuose adunque: "I’ son frate Alberigo;
i’ son quel da le frutta del mal orto,

120 che qui riprendo dattero per figo".
"Oh!", diss’io lui, "or se’ tu ancor morto?".
Ed elli a me: "Come ’l mio corpo stea

123 nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l’anima ci cade

126 innanzi ch’Atropòs mossa le dea.
E perché tu più volentier mi rade
le ’nvetrïate lagrime dal volto,

129 sappie che, tosto che l’anima trade
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa

132 mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso

135 de l’ombra che di qua dietro mi verna.
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni

138 poscia passati ch’el fu sì racchiuso".
"Io credo", diss’io lui, "che tu m’inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,

141 e mangia e bee e dorme e veste panni".
"Nel fosso sù", diss’el, "de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,

144 non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano

147 che ’l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi". E io non gliel’apersi;

150 e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,

153 perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra

156 in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra.

4. Paradiso, Canto XXXIII

Dante nell’ultimo canto del Paradiso ci vuol dire come è fatto Dio. La grandezza è che ce lo descrive. La cosa che fa venire male nel corpo e nell’anima è che Dante ci dice esattamente come è fatto Dio. Ci dice come è vestita la Madonna, che odore ha la Madonna! Ci dice in che rapporto stanno tutti i santi e tutti i beati del Paradiso e tutti noi. Vede negli occhi di Cristo i miei, i tuoi, i suoi, tutti i nostri occhi. Non è come quando si vede un film, dice: “Orca se alla fine non mi fanno vedere chi è...”. Lui ce lo dice, dicendoci continuamente che non lo può dire, e alla fine ce lo descrive. E’ un regalo spettacolare. Ora voi sentite che cosa Dante ha pensato perché vuole che S.Bernardo dica alla Madonna, proprio come un avvocato - il famoso “doctor mellifluus”, S.Bernardo da Chiaravalle - come un avvocato gli dice Dante: “Scusa glielo dici te alla Madonna se posso guardare Dio per un secondo? Fammelo vedere un secondo. Non è che sono cattivo, ma ormai son qui!” Come se gli dicesse: “Come fo’ a dirglielo io alla Madonna? Diglielo te”. E S.Bernardo è come se uno dice: “Va bene, guarda, c’è questo mio amico, ha fatto un viaggio, ora non te lo sto a raccontare, vorrebbe vede’ Dio un secondo. Scusa è, ma è proprio per poterlo dire a tutti gli uomini che ne hanno bisogno, poi lui è uno che scrive bene, ci pensa lui guarda. Se glielo potessi far vedere, Madonna”. Ma alla Madonna lui gli deve dire quanto è bella. E’ come uno che è gentile con una donna, e gli dice: “Signora, lei è una persona straordinaria”. Ecco, uno lo direbbe così. Invece di dire è una persona straordinaria, S.Bernardo alla Madonna gli fa una captatio benevolentiae, che io stupiva, direbbe Gadda. Quando si leggono questi versi.

"Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

e vanno avanti, vanno avanti, non finisce mai. Una bellezza che fa girare la testa, si cominciano a capire... ma chi l’ha messe in bocca queste cose? Come fa una persona a dirgli di no, quando uno gli dice delle cose così? La Madonna dovrebbe dire: “E no, così non si fa”. Ora quando Dante s’accorge - perché Bernardo guarda Dante alla fine della preghiera alla Madonna - s’accorge Bernardo che la Madonna accetterà, allora Bernardo guarda Dante e sorride e gli fa... “Ci siamo, secondo me te lo fa vedere!” Perché Dante dice:

Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:

Figurati, Dante aveva capito prima di S.Bernardo, sarà mica più scemo. Come ha capito che lo vedeva, Dante si era subito montato. “Figurati, me lo fanno vedere!” Vedere Dio. Ora quando vede Dio ci sono tre momenti straordinari

Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,

Avete visto quando ci svegliamo e ci s’ha la sensazione di aver sognato, non ci si ricorda le immagini, però l’emozione si ricorda. Pensate che bella similitudine, è come se Dante sognasse qualcuno che ha sognato d’aver visto Dio. Questo sembra Borges proprio, sembra una cosa! Quando dice l’oblio è la parte più profonda della memoria! C’è dentro le Mille e una notte, ci sono tutti i libri dell’umanità, è una cosa spettacolare. E poi dice che non si ricorda nulla e sentite che terzina veramente che fa paura dalla bellezza, quando dice che ancora sente nel core la bellezza di quell’immagine della quale ci può dire solo un nonnulla e di quel nonnulla non si ricorda nulla. Dice così:

Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.


Che spavento, sono di una bellezza! E poi comincia a descrivere, diciamo così, Dio, e dice che ha visto tre cerchi

e l’un da l’altro come iri da iri (arcobaleno da arcobaleno)
parea reflesso

Cioè ci sono tre cerchi che bisogna immaginarseli, ma proprio perché inimmaginabili, proprio perché Dio, non li può far vedere. Li dovete sentire con un senso che ancora non abbiamo, ma che sforzandoci potremmo avere. Sono tre cerchi, tre sfere, è come la quadratura del cerchio. Tre sfere uguali e distinte, sovrapposte e tutte nello stesso punto. Dice così:

e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri

Cioè lo Spirito Santo è il respiro del Padre e del Figlio, ma sta nello stesso punto del Padre e del Figlio. E poi

A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

Cioè Dio che rimette tutto a posto, perché S.Bernardo, quando dice alla Madonna di fargli vedere Dio, gli dice anche:

Vinca tua guardia i movimenti umani:

Nel senso che non si può guardare Dio e torna’ giù e dire: “Sì, l’ho visto, è fatto così, insomma, abbastanza bello...” Quando si guarda Dio si rimane squinternati. Cioè a dire, S.Bernardo prega la Madonna che lo faccia rimanere in senno, che non riscimunisca. Perché non è che si può guardare Dio da cristiani, da viventi, e rimanere normali. Quindi glielo fa vedere quel momento infinito, eterno, ma temporaneo, quell’attimo eterno, perché lui... e gli fa rimanere sane tutte le facoltà intellettive, umane e corporali. Perché non si può guardare Dio e poi voltarsi: “Ah, l’ho visto, grazie, vi ringrazio a tutti!”, dà la mano e se ne va. E’ una cosa che non si dà.
E dentro, quello che lui vede dentro. Vede

sustanze e accidenti e lor costume

vede dentro tutto l’universo che è perpetuo, è contemporaneo a Dante, e dentro vede la sua figura. Cioè, nel secondo cerchio della Trinità, in quello del Cristo, Dante vede i suoi occhi, vede se stesso. Ecco l’immagine di Dio! Dentro a questa inintelligibilità - ecco l’ho detta esattamente, anche la parola lunga! E’ una cosa che fa uscire di senno, e non riesce a dirlo e non si dà pace e si tormenta. Finché alla fine Dio gli fa venire dentro la percezione di quello che ha visto. In questo canto c’è tutto il cammino dell’umanità. Non va letto solo teologicamente, ma anche corporalmente. Dobbiamo vedere Dante fisicamente con il suo corpo, con la sua puzza, con i suoi occhi, con i suoi nervi, con i suoi polsi, che sta lì, davanti a Dio e davanti alla Madonna.

"Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,

3 termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore

6 non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace

9 così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,

12 se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,

15 sua disïanza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate

18 liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna

21 quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute

24 le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi

27 più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi

30 ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,

33 sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,

36 dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati

39 per li miei prieghi ti chiudon le mani!".
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro

42 quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii

45 per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’i disii
appropinquava, sì com’io dovea,

48 l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’io guardassi suso; ma io era

51 già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio

54 de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,

57 e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa

60 rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla

63 nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi

66 si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente

69 ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria

72 possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,

75 più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,

78 se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi

81 l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,

84 tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,

87 ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo

90 che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,

93 dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa

96 che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.
Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,

99 e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto

102 è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella

105 è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante

108 che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,

111 che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,

114 mutandom’io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri

117 di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco

120 che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

123 è tanto, che non basta a dicer "poco".
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta

126 e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,

129 da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:

132 per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,

135 pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne

138 l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa

141 da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

144 sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

Questo è uno dei canti ritenuti più ostici, in fondo nella sua semplicità, se vogliamo chiamarla così, commovente, perché si sente lo sforzo e questo immaginarsi di bambino. Una lallazione, proprio uno schioccare. Lo dice, che non si può parlare di Dio se non tornando bambini, quando dice:

Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella

E’ un bambino che succhia la mammella della vita, di Dio, dell’universo, di se stesso, del Padre, del Figlio... e si può descrivere Dio e vedere Dio solo con la lingua di un bambino. E non vorrei andare anche nella più frusta convenzione a parlare del mito della creazione, di chi sa che c’è. E’ anche una cosa di una semplicità e di una quotidianità estrema. Questo canto ci fa sentire che non ci ha tradito Dante, alla fine non ci ha tradito. Ha sognato per noi. E’ qualcuno che ha sognato per noi. Il suo sogno durerà più di tutte le nostre notti e di tutti i nostri sonni. E’ qualcuno che noi sogniamo e siccome facciamo sempre capolino ai sogni quando si vuol spiegare qualcosa, diciamo che non ci sta male pensare che tutto quello che viviamo è un sogno, per tornare nella retorica più frusta e che anche quest’incontro è stato un sogno.
Io ora vado avanti così perché mi sono un po’ emozionato a fare il canto, quasi quasi lo vorrei ripetere perché m’è piaciuto tanto ed è la prima volta che faccio il Paradiso. Sono contento, è stata una festa meravigliosa, quindi non so come concludere. Era meglio se finivo con il canto, ora mi sono messo nei guai da solo, ma volevo, non so quanto devo rimanere.
A questo punto il Magnifico Rettore voleva farvi quattro canti dall’Orlando furioso che si era preparato (applausi).
Volevo solo dirvi che questo incontro, quando... con Dante Alighieri... Questa prima veglia, diciamo, che abbiamo fatto, mi piacerebbe tornare, proprio come una volta si faceva, alle veglie, a parlare di Dante, dei demoni, della paura, ci sarà il diavolo, come sarà fatto... C’è qualcuno che lo ha sognato per noi, gli sono grato per tutta la vita, così come sono grato a voi che siete stati ad ascoltarmi, vi abbraccio uno per uno, non tutti insieme, con tutto l’amore del mondo.
Grazie.


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Roberto Benigni. L’ultimo del Paradiso.
Lettura e commento del XXXIII canto del Paradiso (RAI uno, 23 dicembre 2002 ore 21.00)

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Dante a settecento anni dal viaggio della “Commedia”
Paolo VI, "Il signore dell'altissimo canto": Dante Alighieri
Il cristianesimo di Dante


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