Teologia fondamentale. Una introduzione alla Dei Verbum. “In religioso ascolto della Parola di Dio”
di don Andrea Lonardo

Mettiamo a disposizione on-line le lezioni tenute da d.Andrea Lonardo il 7 ed il 21 novembre ed il 5 dicembre 2005, all’interno del Corso di formazione dei catechisti della XXVII Prefettura, organizzato a nome dell’Ufficio catechistico della Diocesi di Roma


Indice


Introduzione al corso dei Catechisti

Lettura di 2Tim1,1-5;2,1:
Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù, al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.
Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno; mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te...
Tu dunque, figlio mio, attingi sempre forza nella grazia che è in Cristo Gesù e le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri.

Nella 2Tm 1,5 si parla di una nonna e di una mamma, Lòide ed Eunìce: Timoteo è figlio e nipote. E’ a lui che Paolo scrive dicendogli che deve annunziare il vangelo ad altre persone perché a loro volta siano capaci di insegnarle ancora ad altri. In pochi versetti si parla di cinque generazioni di persone, dai più anziani fino a coloro che forse devono ancora nascere. E’ il mistero della trasmissione della fede.

Essere catechisti è come essere padri e madri. Noi da piccoli chiediamo sempre amore, vogliamo che tutti ci vogliano bene, andiamo su tutte le furie se non ci vogliono bene o ci mettiamo a piangere, battiamo i pugni, ecc. Essere catechisti è come passare dall’altra parte della barricata, come dire a se stessi: adesso amare tocca a te, adesso testimoniare la fede tocca a te. L’amore ti è stato donato, ne hai ricevuto tanto, tante persone ti hanno voluto bene, adesso sei tu responsabile di altri, a te viene chiesto conto di altre persone. In questa trasmissione della fede addirittura ti viene chiesto di curare delle persone perché a loro volta siano capaci di amare altri. Credo che, così come per un genitore, una delle cose più belle è vedere un figlio che ama a sua volta altri bambini, cioè non solo amarlo ma amare che lui ami la vita di altri, così nella trasmissione spirituale della fede, avere un figlio spirituale vuol dire desiderare che lui a sua volta sia padre e madre di altre persone nella fede, cioè abbia questo dono di trasmissione, questa grandezza di doni.

Non dimenticate mai che tanti genitori, tanti bambini, solo voi potete incontrarli, solo un catechista ha l’occasione di incontrarli. Spesso un prete non può seguire da solo tutti i genitori, tutti i gruppi della catechesi. Allora quel genitore è affidato proprio a te, quel bambino lo conosci solo tu. Se tu gli fai una telefonata, quel genitore riceverà una telefonata, se tu quella telefonata non la fai non la riceverà da nessuno. Gli altri non hanno proprio il tempo e, se l’avessero, non hanno quel rapporto personale che hai tu, avendo nel gruppo quel bambino. Tu, come catechista, sei l’occasione perché quel papà di quel bambino, o quella mamma, o quel bambino stesso, ricevano una parola di gioia o di speranza, se c’è una malattia o un problema in casa, se c’è una separazione. Tu sei talmente necessario che solo tu puoi fare quella cosa. Ecco San Paolo dice a Timoteo: “Tu stai diventando responsabile di persone che a loro volta saranno responsabili di altre persone”.

Ognuno di noi, preti, suore, laici, a volte si sente stanco come catechista, ha i suoi fallimenti, i suoi successi. Vivere insieme allora momenti come questo di un corso di formazione è anche bello perché ci accorgiamo che facciamo tutti la stessa fatica. Il dire che la fatica che faccio io la fanno anche tutti gli altri, un po’ ci relativizza, però ci fa anche bene. Ci fa scoprire che, in effetti, quella sofferenza che io porto, la portano anche gli altri. Diventa un motivo per sentire che siamo il popolo di Dio che cammina annunziando la fede.

Anche ritrovarci in tanti a questo corso è una riscoperta di questa realtà della Chiesa.
L’esperienza di trovarci insieme, provenendo da parrocchie di tutta la Prefettura, ci aiuta fin da adesso a capire come l’essere catechisti non è mai essere liberi battitori. Non esiste il cane sciolto, il catechista svolge il suo compito a nome della Chiesa, lo fa a nome del suo vescovo, dei preti, a nome delle famiglie, delle suore. Quindi lo fa sempre e solo nella comunione ecclesiale. Non può esserci un catechista che non è legato agli altri. Non esiste una voce della Chiesa che parli solo attraverso lui.

Ecco vederci qui oggi vuol dire anche questo: scegliere la fatica di formarci di più, per sentire ancora di più che noi stiamo facendo qualcosa a nome di tutti quanti gli altri, a nome del nostro vescovo. Qui a Roma poi il nostro vescovo è il Papa e ancora di più sentiamo di essere la sua voce, la sua presenza.

Ecco vogliamo allora affidare con la preghiera del Padre Nostro e dell’Ave Maria questo cammino che viviamo insieme e anche le responsabilità che già abbiamo e anche quelle che negli anni ci saranno affidate. E invochiamo anche l’aiuto di Maria. Veniamo proprio dai giorni dei santi e dei morti ed abbiamo così celebrato la certezza che la Chiesa del cielo ci accompagna. Non siamo mai noi soli ad annunziare la fede, ma realmente la Trinità, lo Spirito Santo, tutti i santi accompagnano il cammino della Chiesa che è ancora sulla terra, in attesa di quell’unione piena che sarà poi il Paradiso, il Regno dei Cieli.

I incontro

Il tema che tocca a me trattare, è un tema che amo molto, la Teologia Fondamentale soprattutto in chiave catechetica.

Cos’è la teologia fondamentale

La Teologia Fondamentale affronta due questioni, si suddivide in due ambiti, che indichiamo subito:

  1. Da un lato si occupa dei “fondamenti”, di quelle basi dalle quali deriva poi tutto quello che noi crediamo: la cristologia, la Trinità, la morale, la visione dell’uomo, il peccato, ecc. Possiamo già definire questo con una parola: la Rivelazione. La Teologia fondamentale vuole riflettere sul fatto che Dio si rivela, si fa conoscere.
  2. Dall’altro la Teologia Fondamentale si occupa del perché noi crediamo, dei motivi della nostra fede. Parlando dei fondamenti della fede noi arriviamo sempre a porci la domanda: “Cosa rispondi ad un altro che ti chiede perché credi? Come sai spiegare con la tua mente, col tuo pensiero, con le tue parole, il motivo per cui credi?” E’ il tema della credibilità del cristianesimo.

Per questo studio ci è di aiuto il bellissimo documento, che si chiama Dei Verbum che è una delle costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II.

I documenti conciliari, come tutti i documenti del magistero, vengono citati con le prime due parole in latino e, di solito, l’estensore sceglie proprio due parole significative del documento per porle all’inizio in modo che si capisca subito di cosa si parlerà in quel testo. Come quando uno vuole dire all’inizio di una lettera la cosa più importante e sceglie le parole con cui cominciare. Allora Dei Verbum: la Parola di Dio. E’ un documento che vuole parlare della Rivelazione, di Dio che parla. I documenti si abbreviano, ulteriormente, con le iniziali di queste prime due parole. Perciò Dei Verbum si abbrevierà con DV.

Il proemio della Dei Verbum

Leggiamo il testo:

Il Concilio intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.

Questa frase riprende un’espressione di un piccolo scritto di Sant’Agostino che si chiama De catechizandis rudibus (Dei principianti che debbono essere catechizzati). E’ una lettera con la quale Sant’Agostino voleva rincuorare i catechisti scoraggiati. C’era un diacono che era sempre un po’ depresso, un po’ triste, perché non riusciva nel suo incarico e gli aveva scritto chiedendogli lumi sul suo servizio di catechista. Allora Agostino gli scrive in risposta questa lettera. Il Concilio vuole cominciare la Dei Verbum proprio citando questa sequenza annunziare-ascoltare-credere-sperare-amare. Già questo è interessante - arriviamo poi subito alle sue valenze catechetiche. Sapete noi siamo in un contesto dove quando si parla del cristianesimo tutti dicono: “Basta amare”. Se si domanda chi è il cristiano, la risposta immediata che sentiamo è: “Colui che ama”. “Io amo, quindi sono cristiano”. L’amore sembra essere la chiave da cui tutto parte. Invece il procedimento che Sant’Agostino ci mostra in questa sequenza è diverso: c’è l’annunzio della salvezza, attraverso l’annunzio della salvezza si ascolta, attraverso l’ascolto si crede, attraverso la fede arriva la speranza e solo come ultimo passo la persona comincia ad amare. Chiaramente si potrebbe anche valorizzare immediatamente l’amore, ma questa successione di tappe è volutamente indicata dalla Dei Verbum.

Allora il Concilio comincia dicendo – potremmo dire – che è possibile banalizzare l’amore, se non lo comprendiamo in profondità. Qual è il rischio? Se io parto dall’amore poi in realtà chiamo amore quello che va a me. Invece per capire veramente la Rivelazione, per capire cos’è l’amore di Dio, per capire cos’è l’amore, io non posso partire da ciò che già ritengo essere amore, ma devo confrontare quello che io chiamo amore con tutto questo cammino che è fatto di annunzio, ascolto, fede, speranza, e alla fine l’amore risulterà in tutta la sua chiarezza. Debbo, insomma, partire non da me, ma dall’amore di Dio che si rivela e che viene annunziato.

Notate che già questo ci fa capire come il catechista non è mai uno che parla innanzi tutto di se stesso, ma un testimone che parla del Signore che viene annunziato. Questo fra l’altro ci dà consolazione! E’ una cosa che va sempre detta anche ai genitori. Non è perché un genitore ha peccato in qualcosa, che non può più essere annunziatore del Vangelo, perché un genitore anche se ha peccato, anche se fosse divorziato, lo stesso può, anzi deve parlare del Signore che è la salvezza. Se così non fosse, nella Chiesa potrebbe parlare soltanto Maria, tutti gli altri dovrebbero stare zitti. O potrebbero parlare soltanto i santi alla fine della loro vita.

La statura del credente, dell’annunziatore, del catechista dipende dal fatto che egli è testimone di un altro che viene annunziato, da cui tutto ha origine. E questo è realmente l’evento che sempre si compie nella catechesi. Sapete che la stessa parola “catechesi” viene dall’unione della preposizione greca “kata” con il verbo, sempre greco, “eco”. La nostra parola “eco”, un suono che riecheggia, viene proprio da questo verbo “eco”. E’ un’espressione che viene utilizzata anche dalla mitologia greca, dove troviamo la ninfa Eco che è legata al risentire la propria voce, che viene continuamente restituita.

Allora chi è il catechista? Il catechista è una persona che fa riecheggiare una voce che non è la sua. Il catechista ci mette anche tutta la sua creatività, ma la cosa più bella che si possa dire di lui è che è una persona normale: questo catechista è esattamente uguale a tutti i catechisti che ci sono stati prima di lui. E quando lui non ci sarà più in terra, quando sarà in Cielo, tutti quelli dopo di lui continueranno a ridire esattamente la stessa cosa. Questo è uno dei complimenti più belli che gli si può fare: è come tutti gli altri catechisti! Scherzando dico spesso: se di una parrocchia si dice che vi succedono cose normali, credo sia il complimento più bello che si possa farle. Non c’è nessuna ricetta particolare, nessuna pozione magica, nessuna boutade, necessaria per la riuscita di una parrocchia: l’importante è che vi si annunci il Vangelo che si annunzia in tutto quanto il mondo. il segreto della vita di una comunità parrocchiale è fare bene le cose ordinarie, le realtà che Dio ci ha affidato, e allora tutto va da sé! Allora questa origine della catechesi è riportare continuamente ogni persona a quell’unico evento che è l’evento della salvezza.

Ma questo evento diventa veramente anche la nostra vita, per cui il catechista è sì un testimone che parla di un altro ma è colui che dice con la sua vita: “Io sono la testimonianza vivente che accogliere il Vangelo è la gioia dell’uomo”. Allora il catechista consegna un altro, Gesù Cristo, ma essendo catechista consegna se stesso. Che cosa ti do come prova della bellezza del Vangelo, che veramente l’uomo può passare dall’annunzio, all’ascolto, alla fede, alla speranza, all’amore? Ti do me stesso. Il martire per eccellenza, colui che muore per il Vangelo, è colui che testimonia più di tutti gli altri che il Vangelo è vero. Tu puoi credere veramente questo perché io ci rimetto la vita per mostrarti che ci credo veramente e che è vero. Allora il catechista è colui che parla di un altro, ma è colui che ne parla tramite la propria gioia e la propria vita. Vedete che il brano citato subito prima dal Concilio è l’inizio della prima lettera di Giovanni. Giovanni dice:

Noi annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: noi vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.

La DV cita solo questa parte del testo giovanneo, ma il versetto successivo, il v.4, dice: “Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta”. Allora l’annunzio che viene fatto riceve poi una conferma, una testimonianza martiriale, quando il credente ha la gioia di condividere il Vangelo.

Voglio leggervi un piccolo testo di questo documento ai catechisti di Sant’Agostino, indirizzato a questo catechista, che si chiama Deogratias, un po’ scoraggiato:

Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro discorso vibra della gioia stessa che proviamo e riesce più facile e più gradito.

Qui è importante fare una piccola precisazione: la gioia cristiana, non è la gioia dei cretini che fanno sorrisi a tutti, che sono sempre dolciastri. Oggi in molte aziende si fanno corsi di marketing, corsi per imparare a vendere. Mi hanno raccontato che in questi corsi ti fanno parlare, ti riprendono in video e poi ti mostrano che la tua espressione non era abbastanza sorridente. Anche in politica bisogna sempre sorridere, essere ottimisti, a qualsiasi schieramento politico si appartenga.
Sant’Agostino invece dice: “Io voglio vedere se tu la gioia ce l’hai veramente dentro di te, se la tua gioia è quella di essere cristiano!” Il testo prosegue così:

La cosa difficile è raccomandare in quali modi si debba preparare la catechesi perché il catechista insegni con gioia.

Cioè tu parli di Cristo, ma tu devi mostrare che sei fiero di essere cristiano, che non c’è gioia più grande di quella che tu hai ricevuto e che trasmetti.

Allora non è un modo di presentarsi, una mera apparenza, ma è la realtà della vita di questo dono che viene fatto, di questo dono che viene portato agli altri. E l’altro lo percepisce benissimo. Guai se c’è un catechista triste, moscio, sempre disperato dei suoi ragazzi. E’ vero che i ragazzi possono essere disperanti, come i bambini, come le famiglie, ma la grande forza del credente è la convinzione che non c’è grazia più grande di aver ricevuto quella fede e di poterla donare ad altre persone.

Mi tornava in mente un’espressione del nostro Papa. L’allora cardinale Ratzinger, diceva in una conferenza tenuta insieme a Marcello Pera, una frase che mi sembra molto significativa. Spiegando qual è il problema dinanzi al quale il cristianesimo si trova oggi nel mondo, diceva:

La causa della crisi dell’evangelizzazione è stata introdotta da Nietzsche – il famoso filosofo tedesco di fine ‘800 - quando disse “il cristianesimo è stato sempre attaccato finora in un modo sbagliato: finché non si percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo è una cosa del tutto secondaria, finché non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”.

Quindi secondo Nietzsche, Marx e tanti altri il cristianesimo è sbagliato non solo perché è falso – è importante quest’aspetto della verità per demolire il cristianesimo, vedremo poi meglio come affrontare questo aspetto. Ma la critica radicale è sulle sue conseguenze. Se riesco a mostrare che chi è cristiano è un poveretto che non ha vita, che non ha desideri, che non ha interesse per il mondo, allora io ho distrutto il cristianesimo. Il cristianesimo è per le persone che non sanno vivere. Questa è la posizione di Nietzsche: “Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo mostrare che il cristianesimo è per i falliti”. Se noi riusciamo a mostrare che il cristianesimo è per i falliti, ecco che abbiamo mostrato che il cristianesimo non serve a niente.

Invece cosa dicono San Giovanni e la DV? Noi annunziamo che l’uomo, ascoltando l’annunzio ha la fede, attraverso la fede ha la speranza negli occhi, vive di questa speranza, vive costruendo il domani, vive gioendo, ecc. e in questa speranza trova la carità, trova l’amore, trova la capacità di amare. Questo è quello che è in gioco: e il credente appunto dà testimonianza attraverso la sua gioia. Pensate al nostro essere catechisti: noi diamo testimonianza della fierezza di essere cristiani. “Non c’è cosa più bella che mi sia capitata che essere cristiano!” Per questo io divento catechista, per questo io mi metto a disposizione dell’annuncio. Per questo l’amore è il termine di questa sequenza.

Dio rivela se stesso: il contenuto della rivelazione

Veniamo a quella frase del paragrafo 2, che dà il titolo al nostro corso:

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà.

L’espressione rivelarsi in persona nel testo latino recita “revelare se ipsum”. Potremmo tradurre rivelare se stesso. Dio ha voluto farsi conoscere, farsi amare, ha voluto dire a noi chi era.

Cerchiamo di approfondire la semplicità e la ricchezza enorme di queste parole. Questo testo comincia dicendo: “Piacque a Dio”. Si usa il verbo “piacere”, che è proprio il verbo che gli atei dicono non essere dei cristiani: i cristiani non sanno godere della vita, i cristiani non hanno piacere, i cristiani sono gli uomini del dovere, dell’ossessione. Invece di Dio stesso si dice, nella DV, che “ha piacere”. Notate è un verbo forte, che non siamo abituati a riferire a Dio. A volte la gente dice che Dio soffre, che Dio può essere adirato (o si domanda se sia possibile attribuire a Dio verbi e azioni come questi). La domanda molto più seria è: “Ma Dio può godere? Dio è una persona che gode?” E qui si dice una cosa straordinaria: Dio gode, gli piacque, di farsi conoscere.

Notate: in questo verbo è detta tutta la libertà di Dio. Se Dio decide perché gli piace qualcosa, si afferma automaticamente un evento straordinario: Dio ha la libertà, Dio è la libertà per eccellenza, molto più di quanto siamo liberi noi. Pensate a quanti dei nostri ragazzi portano il segno del tao. E’ un segno profondamente anticristiano. La gente lo porta come fosse una cosa senza significato, ma è esattamente il contrario del cristianesimo. Il segno del tao cosa significa? Ci sono una parte nera ed una parte bianca, sono coessenziali. Le tenebre e la luce, il male ed il bene, sono due cose che non si potranno mai separare, sono due eventi co-necessari, connaturali uno con l’altro, il male non viene dalla libertà, il bene non viene dalla libertà, se c’è uno per forza c’è anche l’altro, se togli uno finisce anche l’altro. Nella parte nera c’è una pallina bianca (in ogni male c’è anche un po’ di bene) e nella parte bianca c’è la pallina nera (in ogni bene c’è anche un po’ di male). Vedete questo segno è esattamente la negazione di Dio. Noi diciamo che in realtà c’è solamente Dio: Dio è l’unico che esiste e Dio non ha per niente dentro di sé il male. A Dio nella sua libertà piacque creare il mondo e quando il mondo liberamente peccò gli piacque salvarlo. E’ un’affermazione straordinaria dell’origine divina. Già solo su questa espressione “piacque a Dio”, si potrebbe fare una meditazione degli esercizi spirituali .

Allora noi come catechisti annunziamo la gioia di Dio di creare, la gioia di Dio prima ancora che esista il mondo. La gioia di Dio è di essere Trinità, di essere da sempre Padre, Figlio e Spirito Santo, la gioia di Dio è, poi, che esista il mondo. Pensate a quanto viene banalizzato San Francesco - è diventato una sorta di patrono del WWF, della natura. San Francesco è il grande lodatore del Creatore. Non è che a San Francesco piaccia il gatto, a San Francesco piace che a Dio sia piaciuta la natura. La “natura” è un termine che potrebbe usare un buddista, potrebbe usare un ateo. San Francesco, con il cristianesimo, preferisce la parola “creazione”, che indica la decisione libera del Creatore di dar vita all’universo. La meraviglia del Cantico delle Creature è la meraviglia che ci sia un Dio che faccia esistere dal niente ciò che prima non esisteva ed è la lode all’ “Altissimo, onnipotente, bon Signore. Tue so’ le laude, l’onore et onne benedictione. A Te solo Altissimo se confanno e nullo homo ene digno Te mentovare”.

E’ una lode che va dritta al cuore di Dio perché si è compreso che a Dio è piaciuto questo mondo, Dio ha fatto uscire dalle sue mani questo mondo.

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza.

Bontà e sapienza”: queste due parole vengono dall’AT e vengono riprese poi dal NT. Sono parole molto precise. Ogni parola di un documento conciliare è pesata. I vescovi l’avranno tolta, rimessa, limata; è il frutto di una grande riflessione. Dio, quello che ha fatto l’ha fatto con la bontà e con la sapienza. Pensate a livello umano quanto è facile essere buoni ma essere tonti o essere intelligenti ma essere cattivi. Il mistero di questa unione di bontà e sapienza è che in Dio c’è tutta la bontà - cioè Dio ama veramente - ma Dio non ama come uno sciocco, in maniera sconsiderata, in maniera vacua, ingenua, ma con la sapienza. Quando Dio ha creato il mondo lo amava, ma lo ha fatto con tutta la sua sapienza e tutta la sua sapienza l’ha messa al servizio della sua bontà. E’ qualcosa che esiste insieme e noi nella catechesi mostriamo continuamente tutto quanto questo.

Ed ecco arriviamo al cuore:

Piacque a Dio se ipsum revelare.

Allora qual è il cuore della catechesi? Il cuore della catechesi non è tanto dire cosa debbono fare gli altri, ma annunziare chi è Dio. Dio ha voluto farsi conoscere perché gli uomini potessero avere comunione con lui. Non è un farsi conoscere solo per mettersi in mostra, ma perché gli uomini potessero volergli bene, perché gli uomini potessero rispondergli. La Rivelazione è un evento che Dio compie perché si crei un legame di amore fra l’uomo e il suo Signore.

Questo revelare se ipsum non è una cosa scontata, anzi è tipicamente cristiana. Gli altri possono ridere quanto vogliono della Trinità, affermando che noi con la Trinità vogliamo solamente confondere. In realtà dicendo che Dio si rivela nel Figlio e il Figlio ci dona lo Spirito Santo, noi diciamo che il nostro Dio è l’unico Dio che si fa conoscere.

Se noi studiamo in maniera comparata le religioni, possiamo porre questa domanda: Dio è conoscibile, si rivela? Nell’islam la risposta è chiara: Dio è inconoscibile. Nel Corano non si dice chi è Dio, anzi viene presa a prova della vera fede proprio l’affermazione che nessun uomo potrà mai conoscere Dio. Dio è talmente diverso da te che tu non lo potrai mai conoscere. Dio non può dirti chi è, può solo dirti chi è l’uomo, chi sei tu e quale deve essere il tuo comportamento. Chi è, in questo contesto, il mistico? Colui che sa che di Dio non si può dire niente. Dire che Dio si fa conoscere è tipicamente cristiano, Dio non ti dice cosa devi fare tu, Dio non vuole innanzitutto darti una regola, ma Dio vuole che tu lo conosca: questo è l’evento straordinario del cristianesimo. Ed è ben per questo che noi siamo cristiani e non di un’altra religione! La posizione sottesa a molte spiritualità dell’Estremo Oriente è analoga: Dio non si può conoscere. Quando dite che Dio si conosce vuol dire che il vostro Dio è falso, perché come può un uomo conoscere Dio?

Alcuni filosofi cristiani hanno discusso con i teologi musulmani. Ho letto i testi di un filosofo cristiano, un musulmano turco convertitosi al cristianesimo che scriveva: “Per noi cristiani Dio è così onnipotente che proprio Lui che, di per sé, non potrebbe farsi conoscere - perché noi dobbiamo conservare la coscienza che Dio è così grande che noi mai potremmo giungere a Lui se Lui non discendesse a noi – si rende conoscibile. E’ chi dice che Dio non può essere conosciuto, neanche se lo volesse, che diminuisce l’onnipotenza di Dio!”. Noi dovremmo aver paura, avere il terrore di vedere Dio. E’ solamente perché lui decide di permetterci questo che noi possiamo conoscerlo.

Nell’ebraismo, analogamente, chi vede Dio muore. La Scrittura ripete questo più volte: la persona che vede Dio non può restare in vita. Mosè può vedere le spalle di Dio, ma tu Dio in viso non lo puoi vedere.

Sapete che Dante, nel famoso canto XXXIII del Paradiso, chiede a S.Bernardo di intercedere presso la Madonna perché gli permetta di vedere Dio. Roberto Benigni, che tante volte ha commentato questi versi, si sofferma dinanzi alla meraviglia dell’uomo che chiede di vedere Dio. Se riascoltate le sue spiegazioni dantesche (su questo stesso sito la trascrizione: Roberto Benigni. L'ultimo del Paradiso) si sofferma proprio su questa richiesta di Dante che chiede a S.Bernardo: “Ma me lo fai vedere per un attimo Dio?”. E’ la grande ansia dell’uomo, la sua grande nostalgia, la sua grande ricerca di poter vedere finalmente Dio. Questa è la cosa che è in gioco nella Rivelazione cristiana: poter vedere Dio negli occhi.

In un altro passaggio dello stesso commento sempre Benigni - ed è significativo anche se non è vero - dice che Satana commette il suo peccato perché Dio, almeno per una volta, si volti e lo guardi.
Questa digressione serve per spiegare che l’uomo, anche il mistico, non cristiano sa che Dio non si può conoscere. Solo la persona banale afferma con facilità: “Sì io Dio lo conosco, te ne parlo, ti faccio una catechesi su Dio”. In realtà quando l’uomo vede Dio muore, quando Isaia vede Dio deve dire dinanzi a Lui: “Io sono un peccatore, come posso stare al cospetto di Dio? Solamente se Dio mi tocca con i carboni ardenti le labbra, io posso stare al suo cospetto”. Allora voi capite cos’è l’evento della Rivelazione cristiana: la Rivelazione non è qualcosa che noi dobbiamo fare. Noi annunziamo ai bambini, ai ragazzi, ai genitori dei battesimi: “Noi siamo coloro che hanno visto Dio, che l’hanno incontrato”. Non perché noi siamo saliti a Dio, ma perché Dio si è reso visibile alla nostra vita, Dio ci ha rivelato se stesso, in Cristo. Potete vedere su queste cose anche l’antologia di testi dell’allora card.Ratzinger che tra poco sarà on-line, sempre in Approfondimenti su www.gliscritti.it nella quale il nostro Papa riflette sulla fortuna che riscuotono oggi le religioni del Dio non personale – come le chiama – cioè quelle che affermano l’inconoscibilità di Dio, disprezzando ogni fede che lo indichi invece come presenza di un “volto” e di un “nome”.

Il “mistero”

E per manifestare il mistero della sua volontà.

Piacque a Dio rivelare se stesso - la cosa più importante – ma piacque a Dio anche manifestare il mistero della sua volontà, per mezzo del quale gli uomini hanno accesso alla comunione con Dio.

In questo rivelarsi di Dio, in questo vederlo e conoscerlo, noi vediamo veramente qual è il nostro destino, nel senso più bello, più profondo, non nel senso magico, astrologico. Chi siamo noi, chi saremo noi nella vita eterna quando moriremo, chi siamo noi oggi, cos’è bene e cos’è male della vita nostra, della vita di uno dei nostri bambini del catechismo. Al Padre, a Dio, non piacque solo rivelarci se stesso, ma gli piacque rivelare il mistero di ciò che lui pensa di noi. La volontà di Dio è che cosa Dio pensa di noi. Cito di nuovo il XXXIII canto del Paradiso: c’è un momento in cui Dante vede Dio e vede se stesso in Dio e vede tutta l’umanità, cioè vede i morti, la chiesa, i vivi, i peccatori. Li vede in Dio, come Dio li vede. Pensate, possiamo domandarci dei nostri defunti: come fa un morto che sta in cielo a pregare per noi? Realmente i nostri morti sono con Cristo e in Cristo vedono noi, partecipano di questa comunione e ci vedono nel peccato che noi abbiamo, perché noi siamo nudi dinanzi all’eternità, ci vedono nel bene che noi facciamo, ma ci vedono con gli occhi della croce di Cristo e della sua misericordia. Allora a Dio non solo è piaciuto rivelare se stesso, ma ha voluto che in lui noi vedessimo chi siamo, come sono gli altri uomini, qual è il destino di mia moglie, di mio marito, del bambino di cui io faccio la cresima, del ragazzo che si prepara al matrimonio, della famiglia che mi porta un bambino. Dio ci rivela qual è la sua volontà, qual è il disegno che lui ha sugli uomini. E quindi c’è un doppio aspetto di questa rivelazione: ci rivela se stesso e ci rivela il mistero della sua volontà. L’aspetto primo e più importante è questa conoscenza di Dio, ma subito ne segue il suo desiderio di ammetterci alla comunione con sé.

E’ importante chiarire il significato della parola “mistero”, una parola bellissima che però nel contesto di oggi ha un valore diverso da quello che ha nel testo biblico. Nel brano di DV che stiamo leggendo c’è la citazione di Efesini 1,9. A Roma abbiamo un sacerdote, professore di Nuovo Testamento, che si chiama Romano Penna, grande esperto di San Paolo, che fece la sua tesi di laurea proprio sul “mysterion” in San Paolo. Esistono anche articoli più divulgativi su questo tema. Sul sito di Santa Melania, ad esempio, trovate un articolo di don Pino Pulcinelli, che è assistente del prof. Penna, che analizza tutte le volte in cui la parola “mistero” ricorre nel Nuovo Testamento con i testi e la spiegazione.

Sgombriamo subito il campo dagli equivoci. Nel linguaggio comune “mistero” significa tutto ciò di cui non si può venire a capo, che è impossibile capire - ci sono trasmissioni televisive che si chiamano segreti, misteri, con i casi impossibili da risolvere. ecc. ecc. Si dice “è un mistero”, per dire che non ci si capisce niente, che è impossibile per l’uomo arrivare ad una comprensione.

Nella DV “mistero” non vuol dire assolutamente niente di tutto questo, perché qui si dice che Dio il mistero ce lo ha fatto conoscere. La meraviglia di questo termine è che non si dice semplicemente che c’è un mistero, ma si dice piuttosto che Dio ci ha fatto conoscere il mistero. Ecco la tensione di queste due parole.
Il significato è totalmente diverso da quando chi non conosce il cristianesimo afferma: “Cos’è la Trinità? E’ un mistero perché non ci si capisce niente. Cos’è l’Immacolata Concezione? E’ un mistero perché non ci si capisce niente”. Noi diciamo invece: “Non è questo il significato”. Dire “mistero” nel cristianesimo vuol dire indicare qualcosa che Dio ci ha fatto conoscere, qualcosa che Dio nella sua bontà ci ha donato di partecipare. Un esempio che ci può aiutare è quello del rapporto di amore fra un uomo e una donna. Pensate ai vostri primi anni di fidanzamento: ci sono stati dei momenti nei quali voi non capivate il perché di una cosa fatta dall’altro – perché, ad esempio, è così triste quando si tocca quell’argomento. Ognuno di noi ha un mistero, un segreto di sé, che non svela subito all’altro. Ma non è qualcosa per cui non ci si capisce niente. Quando l’altro ha cominciato a raccontarci la sua storia, il suo passato, gli avvenimenti che lo hanno fatto soffrire e gioire, i motivi per cui è ciò che è, ecco che il mistero si svela. Quella cosa gli provocava dolore o gioia per quel motivo che ora ci ha raccontato. Ora lo comprendiamo. Ma possiamo comprenderlo solo se egli stesso si racconta. Mai avremmo potuto ricostruire la sua storia se lui stesso non ce l’avesse raccontata. All’opposto, se di uno non si capisce niente anche dopo vuol dire che è uno psicopatico, ma è un altro discorso. A volte noi non ci capiamo perché siamo confusi, avremmo bisogno di un po’ più di chiarezza, avremmo bisogno di chiarirci un po’ le idee, di dire più chiaramente cosa vogliamo: ma questa è un’altra cosa, è la confusione, non il “mistero”.
A me è capitato tante volte di incontrare una persona ed avvertivo che su un punto era sofferente; a volte una persona ci mette tanti anni a dirti una cosa, cosa gli è successo da bambino, da ragazzo, perché ha sofferto, perché quella cosa gli ricorda una tragedia. Ci sono delle cose che noi abbiamo raccontato a una, a due, a tre persone nella vita, a volte mai. L’altro si accorge che c’è un mistero, ma non capisce perché siamo così. Quando però noi gli raccontiamo - quando gli diciamo: “Vedi, mi è successa questa tragedia quando avevo sedici anni, oppure mio padre mi ha trattato in quel modo, o quella persona. ecc. ecc.” - tutto diventa chiaro.

Allora noi diciamo: “Ecco, ora ti capisco! Ora ti sei rivelato”. Ed è come una meraviglia, noi capiamo l’altro. Questo è un parallelo nelle relazioni umane per capire cos’è il “mistero” in teologia. Dio non è uno confuso, non è uno del quale non si capisce niente, ma è uno talmente grande, talmente ricco che finché Lui non ci dice chi è nessun uomo può arrivare a conoscerlo. Non è dall’uomo che si può salire a Dio. La fede annunzia che l’origine dello svelamento del “mistero” è discendente. E’ Dio che dice: “Ti racconto chi sono io, ma se io non te lo raccontassi tu a me non potresti arrivare mai, tu sei un uomo, sei una creatura, tu non puoi salire fino a me, se io non ti dico chi sono”. Però questo, ripeto, per altri aspetti vale anche per gli uomini. Noi a volte esasperiamo gli altri dicendo: “Dai, dimmi quella cosa”. Anche una mamma con il bambino fa così e più gli domanda una cosa, meno quello gliela dice - è ovvio. Perché tu quella porta non la puoi forzare con le domande. Se la persona non decide di aprire quella porta dall’interno, quella porta non si apre.
Dio si è fatto conoscere, perché la sua grandezza è tale che non possiamo noi aprire quella porta, se Lui non la apre per primo. Ecco voi capite ancora di più perché la catechesi è importante - ed è sciocco chi rifiuta la catechesi - perché se l’altro non ti annunzia Cristo, tu non puoi trovarlo. Per questo, nella sequenza iniziale della DV l’amore è l’ultima cosa. C’è l’annunzio, c’è l’ascolto, c’è la fede, c’è la speranza, c’è, infine, la carità. Perché tutto parte da qui, dall’annunzio che Dio stesso fa di sé. E’ qui che si apre la porta, non si apre perché l’uomo comincia a camminare. Se Cristo non fosse venuto in mezzo a noi, noi non potremmo camminare verso di lui. L’origine della fede, l’origine della catechesi è nel cuore di Dio.

Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà. Provate a vedere tutti i testi paolini in cui si dice il “mistero”. San Paolo dice sempre che Dio ci ha rivelato il mistero ed, in un passaggio della lettera ai Colossesi, arriva a dire: “Il mistero di Dio, cioè Cristo” (Col2,2). Cioè: il “mistero” non è una cosa segreta, è il Figlio di Dio che si è fatto carne in mezzo a noi.

Piccola annotazione tecnica: sapete che esistono le “concordanze”, dei testi che elencano le ricorrenze di una parola nella Bibbia. Esercitatevi, cercando la parola “mistero” nelle Concordanze e trovate di seguito tutti i versetti del NT, in particolare delle lettere di San Paolo, dove compare questa parola. Adesso con il computer è più facile. Provate a farlo, a cercare la parola mistero e ad elencare sul vostro quaderno tutte le citazioni in cui si vede in che maniera San Paolo usa la parola mistero.

Apro ora una piccola parentesi che però è significativa, su due aspetti che nella catechesi incontreremo sempre e che hanno relazione con quanto stiamo dicendo. Siccome tutto parte da Dio, ha origine in Lui, voi capite meglio, allora, perché la Chiesa - e noi dobbiamo sempre difendere questo - sostiene la grazia, la gratuità dei sacramenti. E’ un dilemma che troveremo sempre nella pastorale: ci incontreremo sempre con persone impreparate. Ogni volta che noi prepariamo un bambino alla comunione, ancora di più un ragazzo alla cresima, forse ancora di più una famiglia per il battesimo del figlio, o una coppia di fidanzati per il matrimonio, ci domandiamo: ma queste persone che cosa hanno capito del sacramento? E’ un problema che si pone sempre! E noi, da un lato, amando il sacramento, vorremmo che la persona ne fosse pienamente consapevole, ma, proprio per questo, ci accorgiamo di che voragine c’è talvolta dietro quella persona che lo chiede. C’è un punto però che è decisivo e che non dobbiamo mai dimenticare: nella fede cattolica i sacramenti sono espressione della grazia e quindi del primato di Dio. Allora nessuna persona sarà mai capace di meritare un sacramento, di esserne all’altezza. Un sacramento non è un diritto, non è un merito.

Se uno si presenta dicendo di averne diritto non ha capito niente. Se fosse un diritto non te lo potrei dare, io te lo posso dare paradossalmente proprio perché non è un diritto, perché è grazia. Questo è molto importante quando si spiega il battesimo: la Chiesa difende da sempre il battesimo ai bambini. Sant’Agostino lottava contro Pelagio che diceva che solo i cristiani maturi potevano ricevere il battesimo, nel medioevo c’erano i petrobrusiani e gli enriciani che dicevano che bisognava ribattezzare gli adulti perché il battesimo dei piccoli non aveva valore, ai tempi di Lutero c’erano gli anabattisti che dicevano che solo i maturi possono essere battezzati. La chiesa afferma, invece, che se tu pensi di essere maturo per ricevere il battesimo, anche ad ottanta anni, è esattamente il motivo per cui tu non lo puoi ricevere. Tu puoi ricevere il battesimo esattamente quando dici: “Io non sono pronto per riceverlo, è un dono di grazia con cui Dio mi supera, con cui Dio è più grande del mio male”.

Questo è fondamentale, anche se non vuol dire che non dobbiamo essere lo stesso esigenti, chiari, e forti. Ci sarà sempre una tensione tra la grazia e la preparazione di colui che chiede il sacramento. Non possiamo dire semplicemente: “No, costui non è preparato”, anzi noi dobbiamo dire con forza che il battesimo è un dono di grazia. Il battesimo si dà a un bambino perché è un regalo. Come non ha chiesto la vita, ma l’ha ricevuta in dono, così la fede lui non l’ha chiesta, ma gliela regaliamo. Non siamo mai noi all’altezza dello Spirito Santo, piuttosto lo riceviamo in eccedenza. La Chiesa ha sempre difeso il battesimo dei bambini perché difendendo il battesimo dei bambini ha annunziato al mondo che la grazia viene prima della nostra risposta. Se fosse il contrario, mi domando, ma chi sarebbe battezzato?

Questo primato della grazia vale per tutti i sacramenti. S.Francesco, tenace difensore del Papa, dei preti, dell’eucaristia, ce ne mostra un altro aspetto. A differenza dell’immagine che si è imposta che vede Francesco quasi come un “figlio dei fiori”, un ecologista ante litteram, la ricerca storica ce ne rivela i tratti di strenuo difensore della Chiesa: per lui era evidente che se un prete, fosse pure il più grande peccatore del mondo, adultero, ladro, celebra l’eucarestia, la sua eucarestia è vero Corpo di Cristo. Quell’eucaristia è vera, non per la santità del ministro, ma perché viene per grazia. Viene, dicono i latini, “ex opere operato”, non dalla qualità del ministro (che pure sarebbe bene ci fosse), ma viene per l’opera della grazia. S.Francesco diceva: “Io lascio tutto, metto da parte pure visioni di angeli, locuzioni divine, estasi e trasporto mistici, se in quel momento posso ricevere da un prete la comunione sacramentale”. Sapeva bene che solo il prete poteva dargli la comunione, e che nessun altro poteva dargli Cristo presente nell’eucaristia[1]. Questo è ciò che mi tiene unito a Cristo ed alla Chiesa.

Seconda considerazione sulla stessa linea. Come noi presentiamo la vita eterna? Quando parliamo ai bambini della vita eterna, cosa diciamo? Che siccome noi siamo monogami al posto di settanta vergini ne avremo una? Cos’è il paradiso? Noi rispondiamo che il Paradiso è la “visio Dei”, il Paradiso è stare con Dio. Cosa c’è di più straordinario? Per tutta la vita hai cercato di vedere questo benedetto Dio e finalmente ci stai in compagnia. Cosa fanno i miei cari che sono morti? Giocano coi bicchierini, giocano con le carte? I miei morti sono con Cristo e sono con tutti i santi in questa comunione di coloro che sono in questa volontà di Dio. La comunione dei santi, la visione di Dio, sono annunzi centrali della fede cristiana e sono il modo escatologico di vedere quella che è la Rivelazione di Dio. La vita cristiana oggi è accogliere la sua rivelazione, incontrare il Dio che rivela se stesso, la vita cristiana nell’eternità è vivere in perenne comunione con lo stesso Dio! Noi abbiamo sempre una dimensione teologale per parlare della vita eterna. La vita eterna non è semplicemente sopravvivere per sempre, la vita eterna è vivere al cospetto di Dio per l’eternità, poterlo vedere negli occhi, poterne essere amati e poterlo amare, poterlo amare insieme a tutti gli altri che lo amano ed a tutti gli altri che Dio ama insieme con noi.

Solo l’amore è credibile

Vediamo in sintesi tutto questo che abbiamo fin qui detto con un’espressione divenuta giustamente famosa, scelta dal grande teologo svizzero H.U. von Balthasar come titolo di una delle sue opere: “Solo l’amore è credibile”. Cosa si intende con questa frase: “Solo l’amore è credibile”? Non vuol dire, come noi leggeremmo solo superficialmente, che solamente quelli che amano sono credibili, che solo le parrocchie che fanno la carità, che hanno una buona Commissione Caritas, sono credibili, mentre le altre non lo sono.

Il significato è che l’amore di Dio è credibile in se stesso, si mostra a partire dalla sua libera iniziativa e non lo possiamo ricavare da altro. Noi crediamo perché lui ha incominciato ad amare, perché Lui ha amato per primo: questo è l’unico motivo di credibilità. Tutto nel cristianesimo nasce da questo. Noi crediamo a Dio perché lui ci ha amati per primo. Ricordate la prima lettera di Giovanni: “In questo sta l’amore, non noi per primi abbiamo amato Dio, ma Dio per primo ha amato noi”. Questo è l’amore: se uno non capisce questo, dell’amore non ha capito nulla. Questo è il fondamento di tutte le successive affermazioni cristiane. Balthasar è stato il grande difensore di questo: non importa che l’uomo abbia bisogno di Dio, se Dio non ama per primo tutto il resto non ci porta da nessuna parte. Non c’è altro fondamento che questo.

Balthasar, proprio nel suo libro “Solo l’amore è credibile”, fa due esempi di grande chiarezza che possiamo richiamare qui. Il primo è l’esperienza dell’innamoramento, di ciò che avviene nel rapporto di amore fra un uomo ed una donna. Se uno dei due dicesse: “Io sono amato perché sono amabile, perché sono bello, perché sono intelligente”, quella persona dell’amore non avrebbe capito nulla. Se io dico che l’altro mi ama perché sono amabile, vuol dire che l’altro non è libero, vuol dire che è necessitato a farlo, vuol dire, in fondo, che non mi ama affatto. Balthasar dice: “L’amore lo puoi capire sempre e solo come miracolo, perché l’amore non ha motivo che in sé”, non nel senso che l’amore è irrazionale, come dicono alcuni (ed è una grande sciocchezza), ma nel senso che l’amore ha come unico motivo il fatto che l’altro ha deciso di amarmi. L’amore ha origine in una libertà dell’altro. Se io non mi accorgo che l’altro liberamente mi ama, vuol dire che non lo amo, che penso di fare tutto io. Questo avviene anche in negativo! Quando una persona è convinta di venire scaricata sempre e soltanto per colpa sua - questo è tipico degli adolescenti – attribuisce sempre e soltanto a se stessa tutto ciò che avviene, anche se qui solo nella forma negativa: l’altro mi lascia perché io non sono amabile, perché io ho sbagliato, perché io non sono adatto, ecc. ecc. E se io fossi, invece, in gamba, ma l’altro decidesse lo stesso di lasciarmi? Tu puoi fare tutto bene e l’altro ti lascia lo stesso! Non è perché tu fai bene o fai male che l’altro ti ama o non ti ama (anche se essere in gamba, ovviamente ha il suo significato). Per amare veramente un altro devi riconoscere che c’è una parte che può fare solo lui, lì ti devi fermare. Allora Balthasar ragiona: “Se noi capiamo cos’è l’amore umano noi intravediamo cos’è l’amore di Dio”. Perché lui mi ama? Non perché io sono bello, ma perché lui ha deciso di amarmi liberamente. La catechesi annunzia questa libertà di Dio.

L’altro esempio molto bello, riguarda la musica. Balthasar è stato un grande musicista, grande amante della musica e della musica classica in particolare. Era un mozartiano, seguiva le partiture di un intero concerto, seguendo le notazioni musicali di tutti gli strumenti. Ci porta ad esempio un brano musicale che amava molto, l’ultimo movimento della sinfonia 41 di Mozart, che è la sinfonia Jupiter, un capolavoro della musica classica. Se Mozart non avesse scritto quel brano – dice Balthasar - nessun uomo lo potrebbe fare. Io posso gioire del fatto che esiste il quarto movimento della sinfonia 41 perché lui l’ha scritta ed oggi io posso ascoltarla. Ma non posso dedurre quella musica né dall’idea di musica in generale, né da ciò che conosco dell’intera opera mozartiana, né da altro. Conosco quel quarto movimento solo perché Mozart l’ha composto, non posso partire da altro. Non c’è altro motivo della mia gioia nell’ascoltarlo se non a partire dal fatto che lui l’ha composto. La musica di Mozart la ricevo come un dono. L’ascolto e dico: “Mamma mia, che meraviglia! Come è possibile che l’abbia scritta, che esista una cosa così bella?” Io non riesco a spiegarlo, eppure lui l’ha fatto. Chiaramente l’opera di Dio è molto più grande del quarto movimento però quest’immagine della creazione artistica ci aiuta a capire cosa vuol dire che solo Dio può svelarci il “mistero della sua volontà”. Balthasar dice: “La direzione della fede non è data dall’uomo che sale verso Dio, ma dalla meraviglia per Dio che compie la sua opera, sorprendendo l’uomo nella sua vita”[2]. Ecco la Rivelazione. Questo è il primato della grazia, la grazia che viene prima di qualsiasi altra realtà.

Ma questo primato di Dio non possiamo non comprenderlo se non come “amore”. Se Dio fa qualcosa per noi, lo fa a motivo e come espressione del suo amore. E’ la prima lettera di Giovanni a darci quella definizione sintetica e straordinaria della Rivelazione di Dio, come la comprendiamo in Cristo: “Dio è amore”. Perché Dio si rivela? Perché ci rivela non qualcosa, qualche verità, ma ci rivela se stesso? Perché non solo ci rivela se stesso, ma anche il suo disegno di benevolenza verso di noi? Perché Dio è amore! Possiamo comprendere meglio così come la Dv dica fin dall’inizio: “Piacque a Dio nella sua bontà... rivelare se stesso”. La Rivelazione cristiana accoglie il fatto dell’amore di Dio. Accoglie non una idea di Dio, ma l’evento del fatto che Egli ci ami e si faccia conoscere da noi e ci ammetta alla comunione con sé. Ecco la suprema sintesi della fede cristiana: Dio è amore. Ecco il significato della straordinaria espressione di Balthasar “solo l’amore è credibile”. Noi crediamo perché l’amore di Dio è credibile in se stesso. Non c’è altro che lo motivi, se non il fatto di essere amore!

La risposta della fede alla rivelazione

Capite subito come questa cosa richiama un altro elemento straordinario che è la gratitudine: se è vero che ciò che avviene avviene per grazia quale deve essere la risposta dell’uomo? Il paragrafo 5 della DV dice

A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo gli si abbandona tutto intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà.

Se realmente Dio è e si comporta come la Dei Verbum scrive, l’uomo cosa deve fare? L’uomo dice di sì a Dio. La fede è questa risposta per cui l’uomo si consegna a Dio. Qui non viene espresso, ma mi interessa farvelo notare in chiave catechetica, il grande tema del ringraziamento, del rendimento di grazie. Chi non ringrazia della fede non ha capito ancora l’essenziale, perché la gratitudine è proprio la scoperta della meraviglia di un’opera di Dio. Domandiamoci cos’è la gratitudine nella nostra vita per capire chi siamo noi. Se io ho gratitudine è segno che ho capito di essere amato. Se io sento sempre la mancanza e non il dono, è segno che non ho capito ancora l’amore dell’altro - o non c’è o non l’ho capito. La gratitudine è per eccellenza il corrispettivo del fatto che io sono stato amato, perché l’amore è libero da parte dell’altro. Sapete quanto è importante insegnare questo ai genitori dei bambini delle comunioni, sapete quanto è difficile che un adolescente dica grazie ai suoi genitori. Dire grazie significa ritenere che qualcuno ha fatto qualcosa per te, che non è una cosa scontata che la libertà operi il dono. I bambini all’inizio dicono grazie per buona educazione, si insegna loro a dire grazie, ma solamente l’uomo maturo, l’uomo adulto, dice: “Ma se non mi avessero dato la vita? Io sono contento di vivere e non dico grazie ai miei genitori? Tutto quello che io faccio lo debbo ad un altro”. La gratitudine del figlio avviene in un’età adulta, a volte ai trenta, ai quaranta anni. Essa richiede una grande maturità. I miei genitori saranno pure stupidi, saranno brutti, saranno cattivi, però senza il loro amore io non esisterei, qualcosa di buono l’hanno fatto per la mia vita! Allora la gratitudine è il corrispettivo umano, ma la fede è la relazione che l’uomo instaura in questo rendere grazie al Signore che ha operato tutto quanto questo.

Ancora una piccola annotazione che è importante a livello metodologico.C’è un punto che non è facile a livello catechetico, a livello spirituale, a livello pastorale, a livello teologico. Dio, rivelandosi, per essere vicino a noi, assume linguaggi, modi di dire, che sono i nostri, altrimenti noi non potremmo capirlo. Insieme, però, Dio è sempre infinitamente superiore a ciò che si dice di Lui. Voi dite bene e giustamente nella catechesi: Dio è padre. Perché alcune persone possono avere difficoltà ad accettare un annuncio così vero e bello che Dio è padre? A volte perché non credono, altre volte perché il loro padre è stato una figura così arida che dire Dio è padre non fa sobbalzare il loro cuore di gioia. Dinanzi alla loro esperienza di paternità umana conosciuta, dire “Dio è padre” può produrre una ferita. Non è una cosa scontata per ogni uomo il capire immediatamente che il dire che Dio è padre sia una cosa gioiosa: perché se mio padre non mi ha mai fatto un sorriso, non mi ha mai detto bravo, brava, non mi ha mai fatto i complimenti, un’affermazione come “Dio è padre” posso non comprenderla immediatamente. Noi facciamo questa operazione: Dio è padre, il mio padre umano è padre, Dio potrebbe comportarsi come il mio padre umano. Dobbiamo arrivare allora, da un lato, a comprendere che è vero che se io non avessi conosciuto in qualche modo l’esperienza della paternità io non potrei capire cosa vuol dire che Dio è padre. Quando Gesù dice Dio è padre, io devo pensare al fatto che io ho un padre, quindi è necessario che io abbia cognizione della paternità. Però, per un altro aspetto, è Dio Padre che dice come dovrebbe essere mio padre e che mi fa superare i problemi che quest’ultimo mi crea. E’ vedendo il rapporto fra il Padre ed il suo Figlio Gesù, che io comprendo cosa sia veramente la paternità. E’ un gioco continuo di rimandi dall’esperienza umana a quella di fede. Allora a volte il catechista deve stare attento ad usare l’esperienza, deve andarci con i piedi di piombo nel dire: “Vedi tuo padre, tua madre, tuo fratello... in loro tu puoi intravedere la realtà di chi è Dio, del suo amore”. Proprio perché la realtà ha ferito il bambino o il giovane, ma soprattutto perché Dio è infinitamente superiore alla realtà delle figure umane che noi conosciamo, anche se fossero le migliori. Nuovamente possiamo dire: “Solo l’amore di Dio è credibile”. In altri casi vale il contrario, proprio perché quella persona è stata straordinariamente bella come padre, tu puoi capire ancora di più cosa vuol dire che Dio è padre, cosa vuol dire la sua paternità, la sua creatività, la sua tenerezza.

La stessa cosa vale per l’immagine sponsale: Cristo è sposo, la chiesa è sposa, ma se la mia sposa mi ha fatto rizzare i capelli dal primo giorno del viaggio di nozze! C’è un gioco per cui il sacramento del matrimonio è l’evento che ricorda al mondo che Cristo ci ama di amore indissolubile. Cristo è veramente colui che muore per me, come il mio sposo - per i maschi e per le femmine - per la chiesa tutta insieme e per l’umanità, ma gli sposi mi ricordano questa cosa, sono come il sacramento, il mistero. Cristo è quello sposo che dà loro la forza di perdonare, di andare avanti. Il “mistero” – così lo chiama San Paolo, ancora una volta – è innanzitutto l’amore di Cristo e della Chiesa, ma di questo “mistero” è “sacramento” l’unione sponsale concreta che noi incontriamo sulla terra. E’ un gioco di rapporti non sempre facile. Noi dobbiamo sempre tenere in mente nella catechesi che queste parole non sono univoche, lo sono solo in Dio. Nel linguaggio umano sono un’analogia, perché poi Dio è al di sopra, Dio è ben più che sposo, è ben più che padre, è ben più che amico, ma nel “gioco” dell’annuncio, del sacramento, della catechesi, Dio ha voluto che noi ci servissimo di immagini umane, ben sapendo che dobbiamo essere molto attenti a non banalizzare mai Dio. San Paolo dice: “Ogni paternità in cielo e in terra viene dalla paternità di Dio”. Se un uomo può essere padre fisico, spirituale, è perché Dio è padre. L’uomo ha una potenzialità paterna, perché all’origine questo evento è in Dio. Se l’uomo può amare è perché Cristo è sposo, è perché la Chiesa è sposa. Quello è l’evento originario di cui la vita è sacramento, di cui la vita è segno che rimanda a quel “mistero”.

Tutta la Rivelazione avviene
per invitare gli uomini e ammetterli alla comunione con sé.

I testi del Concilio apparentemente sono molto aridi, ma se noi li comprendiamo sono dei testi meravigliosi. Che cosa Dio vuole fare? Dio vuole ammettere l’uomo ad avere comunione con lui, Dio ha fatto tutta la storia della salvezza, dalla creazione all’incarnazione, per invitare gli uomini. Notate l’espressione che noi ripetiamo a messa: “Beati gli invitati alla mensa del Signore”. Noi siamo degli invitati, è il Signore che dice ai nostri bambini delle comunioni: “Vieni, ti invito nella mia casa perché fra me e te ci sia la comunione, ci sia il dono della comunione, ci sia il dono dello scambio di amore che unisce il Cristo, il Padre, lo Spirito e unisce in questo amore tutti quanti gli uomini”. E’ l’evento personale che si compie ancora.

Eventi e parole

Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi.

Cosa vuol dire? Economia ovviamente non vuol dire il denaro. Siamo dinanzi ad un’altra parola di origine biblica, assunta dalla teologia per dire l’operato di Dio. Etimologicamente “economia” è una parola greca che significa “la legge della casa”. Per spiegarla potremmo dire: il dispiegarsi della volontà di Dio pensato e voluto[3]. L’“economia divina” è l’opera di Dio, pensata nella sua bontà e sapienza e pian piano realizzata nel tempo. Ognuno di noi se decide una cosa, la pensa, la ama, poi ci mette un sacco di tempo per realizzarla. Io voglio diventare un bravo professionista, devo iscrivermi all’università, devo fare gli esami, devo prepararmi. L’“economia” è tutto il tempo pensato, progettato, amato, donato per arrivare a quella comunione. Potremmo renderne così il significato: il dispiegarsi della storia della salvezza.

Questa storia della salvezza comprende eventi e parole intimamente connessi. Allora, qui c’è un altro punto semplice ma interessante da comprendere. Qui si afferma che questo dispiegarsi avviene nel tempo, attraverso eventi, fatti storici, e non solo attraverso affermazioni e verità filosofiche. Se non ci fosse il tempo e la sua verificabilità storica il cristianesimo sarebbe un’altra cosa. La vera critica al cristianesimo è la sua demolizione storica. Se un giorno, chiaramente questo non sarà mai, uno dicesse: “Ho trovato le ossa di Gesù Cristo perché stavano ancora nella tomba”, quel fatto storico contrario alla resurrezione di Cristo, negherebbe tutta la fede. Pensate all’espressione che noi usiamo nel Credo: “Patì sotto Ponzio Pilato”. La fede dice che questo evento, la croce di Cristo, è avvenuto sotto un preciso governatore romano di cui io conosco il titolo ed il nome. E’ un evento che è avvenuto. In questi giorni al Colosseo c’è una mostra sui “misteri”, sul culto di Mitra e sugli altri “culti misterici” antichi. E’ esposto un bassorilievo con il dio Mitra che uccide con un pugnale un toro, ma questo è un evento mitico, non ha a che fare con la storia. Può piacere ad alcuni - a me non piace per niente, e non capisco come possa piacere ad altri; mi hanno raccontato i guardiani del mitreo di Sutri, poi trasformato in Chiesa che c’è gente che va lì e vorrebbe dire oggi delle formule magiche nel mitreo! – ma è un fatto mitico, del quale non viene fornita nessuna coordinata storica. In che epoca il dio Mitra ha ucciso il toro, chi era l’imperatore o il governatore sotto il quale è avvenuto questo fatto? Sono domande che non hanno senso, nel mito.

Il cristianesimo, invece, è questo dispiegarsi storico. E’ importante, allora, che un catechista riesca a legare la storia della salvezza ad alcuni fatti storici che i bambini hanno studiato nella storia “profana”. Sarebbe auspicabile una collaborazione con i vari insegnanti della scuola. Ai bambini bisogna raccontare la storia della salvezza, non solo la “morale” di questa storia, con i fatti, le date, le cartine geografiche. Si deve spiegare ai bambini come si costruiva una casa allora, come era fatto il Tempio di Gerusalemme e perché era fatto così, ecc. ecc., perché a loro piace molto. Tutto questo dice la realtà di una cosa che è vera, che è legata ad una storia. Noi sappiamo bene che su alcuni avvenimenti, soprattutto dell’Antico Testamento, si può discutere, ma gli eventi fondanti neotestamentari sono reali, sono quelli. Gesù è nato sotto Augusto imperatore ed è morto sotto Tiberio, Ponzio Pilato era un governatore della Giudea di Tiberio, ecc. ecc.: non c’è dubbio su questo. Se non fosse così dovremmo chiudere tutte le parrocchie del mondo, questo fatto è la realtà del cristianesimo. La catechesi deve far “sentire” questi eventi, ridonarne lo spessore storico.

Avviene allora questa Rivelazione
con parole ed eventi intimamente connessi.

Quando si parla del cristianesimo spesso si focalizzano come due gruppi che sottolineano uno dei due aspetti a scapito dell’altro. Ci sono quelli che dicono: “Non bisogna parlare del cristianesimo, perché la testimonianza è la cosa più importante. Ciò che conta è l’evento della testimonianza, come è stato un evento la vita di Gesù. Se io nella mia famiglia vivo la carità, questo è sufficiente, io non devo dire niente”. Altri, all’opposto, dicono: “No, la cosa importante è la dottrina, bisogna spiegare, perché la parola dell’annunzio è ciò che serve” e poi hanno sempre il muso, sono sempre arrabbiati, sono sempre tristi e non danno testimonianza con la vita della gioia della fede.

Il mistero della Rivelazione cristiana afferma, invece, che Dio ha operato in modo che le parole e gli eventi fossero intimamente connessi. Guai se non c’è la parola, guai se non c’è la vita. Il Cristo è il Figlio di Dio, fatto carne, pure esso parla. A Cristo piaceva proprio parlare, parlava continuamente, raccontava le parabole, annunciava le beatitudini. La storia della salvezza è “storia”, ma è “storia” della quale Dio stesso ci fornisce, con le parole, con la sua Parola, la chiave di interpretazione, perché possiamo capirla.

In realtà, quindi, quello a cui dobbiamo tendere nella catechesi è una parola che spieghi la vita ed una vita che richieda continuamente una spiegazione. La catechesi è un cammino da proporre e, per essa, il catechista, deve pensare un intersecarsi delle parole da dire e delle esperienze da vivere insieme, mai le une senza le altre.

Se io sto lì un’ora e mezza, nella mia saletta di riunione con i miei bambini, ma poi non parlo mai con loro a tu per tu, non vado mai a casa dai loro genitori, non sto mai a giocare in oratorio con loro prima e dopo la riunione, non c’è mai un momento in cui io vivo qualcosa con loro, ecco che mancano gli eventi della condivisione della vita. Sono necessari gli eventi che creano la possibilità del dialogo, della parola, della comunione di vita. Però, allo stesso tempo, se la catechesi è solo una “caciarata”, è solo attività, recite, passatempi, ma mai spiegazione seria della fede, mai racconto e parola precisa, ecco che si perde l’altro aspetto dell’esperienza cristiana.

C’è un legame dell’evento e della parola dove le due realtà appartengono entrambe all’incarnazione di Cristo e ne sono espressione. Realmente Cristo si è fatto uomo e la sua vita è stata un intreccio di parole e di fatti, di eventi e spiegazioni. E’ vero che manca ai nostri giorni la testimonianza, come insegnò Paolo VI - se noi avessimo dei genitori più convinti, dei preti migliori, dei maestri che siano anche testimoni... - però non dimenticate mai che mancano anche dei veri maestri, delle persone capaci di manifestare tutta la ricchezza e la sapienza delle parole di Dio, della luce di comprensione che la verità della fede proietta sulla vita umana.

Voi sapete che tante persone fanno apparentemente mille esperienze ma si ritrovano a fare sempre gli stessi errori, perché nessuno glieli spiega mai. Un esempio che faccio spesso è quello di alcuni ragazzi o ragazze che hanno centinaia di ragazze o di ragazze, ma sono tutti uguali. Una ragazza che ha avuto sempre dei ragazzi inaffidabili, sempre dei ragazzi violenti, è vero che ne ha avuti cento ma non ha capito che deve cambiare lei per averne uno diverso. Non basta fare un’esperienza, bisogna poi capirla. E’ necessario che questa persona si dica: perché nella mia vita mi è successa questa cosa? Perché mi vado a cercare certe cose, perché vado sempre a finire in quella stessa situazione? E’ una cosa importante. L’esperienza va letta dalla parola. La parola è espressione della riflessione che faccio e che condivido con altri per capire il perché di un evento.
Cristo nel suo manifestarsi e tutta la Rivelazione sono un continuo intreccio di fatti e di parole, di parole e di fatti. A volte le parole profetizzano una cosa che deve ancora avvenire, a volte avviene un fatto e poi la parola spiega. E’ un continuo mescolarsi, perché questa è la vita, questo è l’uomo che vive e spiega quello che vive o annunzia quello che vive, lo realizza. Tutta l’esistenza umana è un continuo rimando di queste due realtà. Dio ha voluto servirsi della complessità della vita umana, parole e fatti, per narrarsi a noi.

Cristo, la pienezza della rivelazione

Arriviamo ora ad un passaggio fondamentale:

Cristo è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.

Parole semplici, ma di grandissimo valore. La DV vuole dire che la Rivelazione – ed in conseguenza, per noi, la catechesi - ha come annunzio centrale Cristo. Non la Bibbia! La Bibbia è uno strumento per arrivare a Cristo, la Parola di Dio non è innanzitutto la Bibbia.
Che cos’è la Parola di Dio? Se voi lo chiedete alle persone vedrete una grande confusione. Comunque alla fine, a volte dopo un’ora di tentativi di risposte, si arriva al massimo a dire che la Parola di Dio è la Bibbia, è la Sacra Scrittura. Non è vero: la Parola di Dio per eccellenza è Gesù Cristo. La Scrittura è Parola di Dio non con la stessa pienezza con la quale Cristo è la Parola di Dio. Cristo è il mediatore della Rivelazione di Dio, ma non solo è il mediatore, è anche la pienezza della Rivelazione.

Vediamo bene queste due parole. “Mediatore” è una parola importantissima, soprattutto in un tempo in cui noi vogliamo le cose immediate, senza mediazioni. “Io voglio Dio, però Cristo non lo voglio, io non voglio uno in mezzo fra me e Dio”: questo è un tipico atteggiamento del nostro tempo. Il fatto che ci sia uno in mezzo a me non sta bene. Io voglio che non ci sia un mediatore. Invece la fede cristiana dice che se Dio nel suo mistero ci manda Cristo, come possiamo noi arrivare a Dio senza colui che ci è stato mandato per giungere a Lui? Se Dio, nella sua libertà, ti ha parlato proprio in Cristo, se, nella sua libertà, ti ha rivelato se stesso in Gesù Cristo, allora rifiutare il mediatore è rifiutare Dio. Potete leggere un testo straordinario, che è un passo di un’efficacia straordinaria, nella II lettera di Giovanni. Tutti conoscono la I ma ci sono anche la seconda e la terza lettera di Giovanni che sono due piccolissimi biglietti. Vediamo 2Gv7-9, che dice così:

Poiché molti sono i seduttori che sono apparsi nel mondo, i quali non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo!

Io amo molto questi termini, la precisione di queste parole, nella loro intensità. Sapete che “anticristo” - la gente non ci pensa, ma è chiaro il rigore terribile di questa espressione - vuol dire “uno che è contro Cristo”, uno che gli si oppone e lo rifiuta. L’anticristo non è la guerra, l’anticristo è uno che non vuole Cristo. Infatti la parola “anticristo” è stata inventata dall’evangelista Giovanni, o comunque da un autore della sua scuola; non esisteva prima dell’evangelista, prima della venuta, appunto, di Cristo. Non si può essere contro il Cristo, se il Cristo non è ancora venuto! Giovanni è l’inventore della parola “anticristo”. Giovanni, in 2Gv7 spiega che anticristo è colui che nega che Gesù è venuto nella carne: ecco l’anticristo, ecco quello che ce l’ha con Cristo. L’anticristo “si incarna”, si concretizza allora, in qualsiasi sistema che non vuole dare la libertà alla chiesa, che non vuole che si predichi il Vangelo, che non vuole che si vada a messa, che si dica che bisogna pregare il Cristo, che bisogna amare Gesù, che il Cristo è la via per arrivare a Dio. L’anticristo è colui che ce l’ha con Cristo. Il problema è esattamente questo: io voglio arrivare a Dio, ma Cristo non mi interessa, non me ne parlate, leviamolo di mezzo!

E continua il testo di 2Gv:

Fate attenzione a voi stessi, perché non abbiate a perdere quello che avete conseguito, ma possiate ricevere una ricompensa piena. Chi va oltre e non si attiene alla dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi si attiene alla dottrina, possiede il Padre e il Figlio.

Giovanni, il discepolo prediletto, l’amico di Gesù, dice: chi perde Cristo, siccome Cristo è colui che il Padre ha mandato, perde anche Dio, perde il Padre. La grande affermazione è che c’è un mediatore. Tu non puoi arrivare a Dio se non passi per Cristo. Cristo, dice la DV, insieme a tutta la Tradizione cristiana, è il mediatore. C’è uno in mezzo fra me e il Padre, c’è il Figlio che lui ha mandato ed è un evento decisivo, è la Grazia. Se io rifiuto in lui la Grazia io resto fuori. E’ un grande dramma il restare fuori. Ma Cristo non è solo il mediatore, è anche - e questo qualifica ancora più precisamente il cristianesimo - la pienezza di tutta la rivelazione. Cristo è colui che sta in mezzo, il donatore, ma è anche il dono stesso. Quando io accolgo Cristo accolgo colui che media fra me e Dio, ma, ben più profondamente, accogliendo Cristo accolgo Dio.

Possiamo intravedere meglio questo con un confronto con la posizione islamica sulla Rivelazione. Alcuni dicono che si possono paragonare, che si possono mettere in parallelo, i due fondatori, Cristo e Maometto, ed i due libri sacri delle rispettive religioni, la Bibbia ed il Corano. Questa affermazione non rispecchia per niente ciò che le due religioni pensano di se stesse.
In realtà, se volessimo istituire un paragone, dovremmo piuttosto farlo fra Cristo ed il Corano, da un lato, e tra la Bibbia e Maometto, dall’altro. Maometto è sì “mediatore”: nella dottrina islamica, per sapere cosa Dio vuole, ho bisogno di Maometto, colui che ha ricevuto la Rivelazione di Dio, ma la Rivelazione di Dio non è Maometto. Maometto è uno che parla di una cosa che è altra da sé. Il Corano non è Maometto. Maometto è un servitore del Corano, è il mediatore per il quale la parola di Dio, il Corano, che è il vero e completo dono di Dio secondo la fede islamica, giunge agli uomini.

Nella fede cristiana, invece, Cristo è il vero dono di Dio, è la Parola vivente. Cristo non ci dona la Bibbia, ma ci dona se stesso. Il Padre, donandoci il suo Figlio, non ha niente di più grande e perfetto da darci. La Bibbia ha, invece, il ruolo di donatore; essa ci indica la via per arrivare a Cristo, ci permette di conoscerlo. Vedremo meglio poi in che senso la Bibbia è anch’essa Parola di Dio. Ma ciò che il Concilio afferma qui, prima di parlare della Bibbia, è che Cristo è la Rivelazione piena e perfetta: Cristo è sì il donatore, ma, soprattutto è il dono stesso. Dio ci rivela se stesso, donandoci il suo Figlio Gesù.

Per noi cristiani la Bibbia, nel Paradiso, non servirà più a niente. La Bibbia dobbiamo amarla in terra, ma in Paradiso noi non avremo la Bibbia! I biblisti non avranno più niente da fare in Paradiso - e lo dico da appassionato di studi biblici. Quando io sono in comunione con Cristo, allora sono nella salvezza e nella gioia. Ma se io ho la Bibbia e non ho Cristo che me ne faccio della Bibbia? La Bibbia è necessaria perché io abbia comunione con Cristo e tramite Cristo con il Padre. Per giungere a Cristo, dobbiamo passare dalla Scrittura - in realtà dobbiamo passare anche per i sacramenti, anche per la Chiesa - ma la Rivelazione piena è la persona viva di Gesù Cristo. Per tornare al raffronto precedente, il dono più grande che l’Islam possa ricevere, secondo la sua concezione, è la Rivelazione della volontà di Dio sull’uomo e ciò avviene appunto con la discesa del Corano; per la fede cristiana, il dono pieno è la possibilità di accogliere la presenza viva del Figlio che ci rivela il Dio che si fa conoscere e che ci fa entrare in comunione con Lui.

Proprio per questa stessa affermazione di Cristo come pienezza, noi abbiamo un’affinità profondissima con l’ebraismo, pur avendo delle grandissime differenze - e non c’è difficoltà a dirle, a dichiararle. Ma nonostante queste differenze, la Chiesa sente e sa che noi facciamo parte di una storia che è iniziata prima di arrivare al compimento. Dire che Cristo è la pienezza vuol dire anche affermare implicitamente che Cristo non è l’inizio. Noi cristiani diciamo che questa storia comincia prima dell’Incarnazione, perché il Padre attraverso la storia della salvezza e l’elezione del popolo ebraico ha preparato l’uomo ad accogliere la venuta di Gesù. Tutta la storia sacra è un anticipo di questo incontro pieno con Dio.

Proprio perché noi diciamo che Cristo è la pienezza di una storia che Dio ha cominciato nella storia della salvezza che precede il cristianesimo, noi non possiamo cambiare una virgola di quella storia. Voi sapete che noi dell’AT diamo un’interpretazione totalmente diversa da quella ebraica, ma non ne cambiamo una virgola, a differenza della dottrina islamica tradizionale che ritiene la Bibbia inutile, perché corrotta. Nessun islamico legge la Bibbia, perché la Bibbia non solo è inutile, ma è dannosa.

Come cristiani, siamo obbligati a seguire sempre di nuovo tutta la storia santa, per capire in che senso Cristo ne è la pienezza. Avere la pienezza non ci autorizza a percorrere scorciatoie che dimentichino ciò che ha preceduto la pienezza, come vedremo meglio poi. La Chiesa ha sempre affermato che se uno comincia solo da un certo punto, buttando a mare ciò che Dio già aveva fatto in precedenza, il suo atteggiamento tradisce il rifiuto dell’operato di Dio e della sua Rivelazione.
Siamo persone che hanno una storia dietro di loro, una storia che è opera di Dio, e non se ne deve cambiare né uno iota, né un apice. Certo la pienezza di Cristo ne fornisce la definitiva chiave di lettura, ne rivela tutto il suo significato nascosto, ma non la elimina. Cristo è il vero interprete dell’AT, ma dell’AT non si cambia una virgola. Il discorso cristiano è un compimento, ma non una negazione della storia precedente che viene preservata nella sua interezza.

Come poi vedremo meglio, lo stesso si può dire degli sviluppi successivi. C’è una continuità nella fede e nella tradizione della Chiesa. Uno che si alzi in un certo periodo storico e butti a mare tutto ciò che è stato detto e fatto nella Chiesa, nei secoli precedenti, volendo idealmente tornare al cristianesimo delle origini, per ciò stesso non si situerà nel solco della Chiesa Cattolica, ma ne uscirà fuori. Per la fede cattolica, se uno comincia “ad un certo punto”, senza continuità con tutto ciò che lo ha preceduto, nella sua esperienza c’è qualcosa che non va. E non è solo la mancanza di senso storico, ma è più profondamente la mancanza della fede in un Dio che non ha smesso di operare nella storia. Al di là delle singole dottrine e posizioni, ad esempio, la semplice affermazione che i Testimoni di Geova siano stati fondati alla fine dell’ ‘800 e che tutta la storia della Chiesa precedente non sia per loro elemento di continuità e di legame con la Chiesa degli apostoli è, a priori, indicazione di una deviazione dall’identità cristiana..

II Incontro

Facciamo una piccola sintesi dell’incontro precedente.

La parola “sintesi” è importante perché il catechista non è un annunziatore estemporaneo, ma deve possedere una sintesi (e se non la ha ancora, deve maturarla nel tempo). Una delle cose più difficili è avere un’idea “ordinata” in testa: un catechista deve imparare ad avere un ordine mentale: si comincia da A, si passa da B e si arriva a C. Poi i bambini, i ragazzi, faranno di tutto per scombussolare il tuo “ordine” - e fanno bene, fanno il loro mestiere - ma il catechista deve avere uno schema, un ordine di idee, che, pure buttato all’aria ogni giorno dagli imprevisti di una riunione che vanno vissuti fino in fondo, viene ripreso e fatto riemergere. Proprio questo disegno, che mentalmente viene dispiegato nel tempo, permette di non andare in ansia e di non voler dire tutto ogni volta, ma di sapere che un anno si approfondisce una cosa, l’anno successivo un’altra, e così via. Ogni dimensione del cristianesimo, ogni suo aspetto ha un suo posto preciso ed ineliminabile.
Se voi leggete i documenti di Giovanni Paolo II si dice chiaramente che la catechesi è un insegnamento sistematico[4], non è un insegnamento estemporaneo, pindarico, a volo di uccello, di qua di là, secondo l’ape Maja, ma è un insegnamento che tocca alcuni elementi fondamentali e li compone in una visione armonica.
Questo naturalmente richiede del tempo. Qualcuno di voi ha già una sintesi chiara di un progetto, di un’idea di catechesi, altri pian piano la formeranno anche attraverso questo corso ed il servizio da catechisti.

Possiamo riassumere l’incontro precedente in quattro brevi punti, ai quali ne aggiungiamo uno per una sottolineatura catechetica:

  1. C’è un contenuto della rivelazione. Infatti il titolo del capitolo che abbiamo letto è “La rivelazione”. Questo è molto importante. Potrebbe sembrare una banalità, ma è, invece, una di quelle affermazioni di fondo che aprono poi veramente le grandi porte: una catechesi senza contenuto, che non arriva a dire chi è Dio, corre il rischio di legare affettivamente le persone a noi, ma di non lasciarle mai libere dinanzi a Dio. Ci sono forme catechetiche che la chiesa non ama, solo affettive, sentimentali – “io ti amo, tu mi ami, mangiamo la pizza insieme, giochiamo a calcetto” – che poi crollano in un attimo al primo trasferimento di un viceparroco. Quando io sono solo, senza quel prete o quel catechista che amavo, non credo più; non c’è più il parroco che amavo, non c’è più il vice parroco, non c’è la mia catechista e allora io non vado più a messa. Il contenuto è fondamentale perché è la verità che è sopra il catechista e il catecumeno e sopra il loro rapporto ed a fondamento di esso. Le due persone, catechista e catecumeno, non si incontrano solo fra di loro ma si incontrano per una verità che è superiore a loro. Ecco allora questo primo elemento. Questo elemento è, fra l’altro, anche motivo della nostra serenità e gioia perché se il catechista, come ogni educatore, pecca – non dovrebbe farlo, dovrebbe cercare di testimoniare sempre il vangelo! – non cessa di essere un educatore, perché non parla di sé, ma annuncia che la verità che ci salva è Cristo. Il riportare tutto alla semplice coerenza diventa la morte dell’educazione! Un genitore che ha fatto un peccato grave non smette di essere genitore per questo! E’ una cosa fondamentale, con delle conseguenze importantissime: un catechista rispetta i genitori separati – anche se sa bene che non è l’ottimo - perché loro sono chiamati lo stesso ad annunziare Cristo. La loro situazione, pur essendo un problema, non significa la fine del loro essere cristiani, anzi il processo educativo resta vivo, perché ogni persona annunzia un contenuto della fede che non è lui stesso. Altrimenti al primo errore grave, nessuno potrebbe più parlare. Come ha detto il Signore: “Quello che vi dicono fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno”.
  1. Questo contenuto della rivelazione non è un contenuto di idee ma è un contenuto personale, è una rivelazione della persona di Dio. Quindi la DV dice con forza: Cristo non è venuto a dirci cosa dobbiamo fare, cos’è la verità, quali sono i comandamenti, come ci si rapporta dinanzi al problema della pillola abortiva, dell’embrione - anche questo è importante, è importantissimo poi lo vediamo - ma la cosa più importante, il motivo profondo della sua rivelazione, è che il Padre ha inviato Cristo per rivelarci se stesso. Cristo è venuto per raccontare al mondo la vita di Dio, perché noi potessimo scoprire l’amore che Dio ha per noi e l’amore che noi possiamo restituire a lui.
  1. In questo mistero della rivelazione personale c’è però anche il mistero del disegno di Dio sull’uomo. Dio non solo ci racconta di sé, della sua vita - e questo è unico, facevamo l’esempio dell’islam, dell’ebraismo che afferma che si muore vedendo Dio - ma ci manifesta il suo disegno di bene sulla vita dell’uomo. Anche questo è parte della rivelazione - quindi per questo rientra nell’annuncio e nel compito della catechesi anche la vita morale, anche il giudizio sulla pillola abortiva e così via. Dio rivela il bene dell’uomo, rivela il bene supremo che è Lui stesso, rivela il mistero della sua volontà di voler condurre tutti gli uomini alla partecipazione di questo Bene e rivela quale è la via per giungervi..
  1. Di questa rivelazione personale Cristo è la pienezza. La DV dice con forza - e noi lo annunziamo nella catechesi in ogni momento – che la pienezza della rivelazione non è la Bibbia, che noi amiamo alla follia, ma Gesù Cristo stesso, colui che noi amiamo più della Bibbia. Se uno ha la Bibbia, ma non ha Gesù Cristo, ha sbagliato tutto. Allora la pienezza della rivelazione è la persona di Cristo. Abbiamo concluso proprio con questo: Cristo è la pienezza della rivelazione, Cristo non parla di altre cose ma rivela se stesso, perché Cristo è l’uomo-Dio, è Dio che si è fatto uomo. Incontrando Cristo, l’uomo incontra Dio. Vedremo subito dopo che più di questo non è possibile: chi cerca qualcosa di più per ciò stesso sta uscendo dal cristianesimo. Il cristianesimo è definitivo: non c’è niente di più importante di questo.
  1. Aggiungiamo un quinto punto sintetico che ricolleghiamo a ciò che abbiamo detto. Siccome la rivelazione di Dio è personale, anche il catechista si consegna personalmente. Proprio perché questo è il modo di rivelarsi di Dio, il catechista – pur restando, come dicevamo prima, uno che dice: “Non sono io la tua salvezza, non sono io il tuo Dio, non sono io la tua salvezza, io ti parlo indicandoti il Cristo, indicandoti la Trinità, i sacramenti, la morale – non può esser tale se non consegnando se stesso a questa rivelazione: il catechista si consegna a Dio e si consegna a te bambino, a te ragazzo, perché tu possa credere. La catechesi è questa trasmissione di vita per la quale io metto me stesso in questo dialogo di amore. L’affermazione più grande che dovrebbe avere ogni catecumeno sul suo catechista dovrebbe essere: “Il mio catechista ci crede veramente a quello che dice, è veramente felice di essere cristiano, veramente quello che dice è la sua gioia, la sua vita, la sua convinzione”. Il catechista dà, alla fin fine, se stesso, come prova che tutto ciò che la fede annuncia è vero. “Come fai tu, bambino, giovane, ad arrivare alla fede? Hai Cristo ed hai tutta la chiesa ed hai me stesso, catechista, inviato apposta per te: io mi dono perché tu riceva l’annunzio della fede”. Prendiamo la vita adolescenziale: ogni adolescente vuole, pretende, che l’altro sia credibile. La domanda del non credente è: “Ma tu cristiano sei credibile?” E’ la grande domanda. La persona vuole sapere: “Chi sei veramente tu?” La catechesi fa parte della nostra identità, non è una professione. Non siamo delle persone che hanno come professione – o peggio come hobby – la catechesi, ma siamo coloro che rendono conto di cosa veramente abbiamo nel cuore e nella mente. Un prete, un catechista, un papà educatore, una mamma, tutti noi abbiamo il compito della catechesi perché crediamo e mettiamo noi stessi in gioco. A volte uno vuole sapere chissà che cosa di un’altra persona e non si accorge che c’è una cosa più importante da conoscere di quella persona: se ha creduto. La testimonianza – affermava mons. Fisichella in un bellissimo incontro con gli universitari di Roma che trovate sempre sul nostro sito - è la forma di comunicazione personale più profonda. Quando voi avete comunicato ad un altro che credete, se è vero questo, se è vero che voi credete, non c’è cosa più profonda che voi possiate dire. Non stiamo parlando di aria fritta, stiamo dicendo che io credo nel Signore e vivo per lui. Per questo il martire, colui che muore per Cristo, è il testimone per eccellenza. Cosa fa il martire? Testimonia che ha talmente creduto in ciò che dice che può morire per questo, per dimostrare, per dire, che è vero che tutto dipende da questo Signore. Tutta la vita io la rivedo a partire da questo Signore, posso anche lasciare questa vita, posso anche soffrire la morte, perché tu possa essere sicuro che questa è la mia vita. Questo è il dramma che sta vivendo la chiesa, anche in questo tempo come nei tempi antichi, in tanti paesi comunisti, islamici e così via, in luoghi in cui non si può essere cristiani e catechisti se non pagando di persona. Tu sei cristiano e ci rimetti le penne, ma il tuo martirio dice al mondo la tua certezza che Cristo è veramente la Rivelazione del Padre.

La storia della salvezza

Prima di passare al secondo capitolo della Dv che parla della Chiesa e della trasmissione della rivelazione – quello che affronteremo oggi - dobbiamo ancora accennare a qualcosa del primo capitolo.

Dopo aver detto, al paragrafo 2, che appunto Cristo è la pienezza, il testo torna concettualmente indietro. Prima ha indicato la “pienezza” in Cristo, poi si ferma un attimo e torna alla rivelazione divina che ha preceduto questo compimento supremo.

Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.

La parola di Dio non piena, non ancora completa, ma che prepara questa pienezza, la troviamo espressa, innanzitutto, nella riflessione della DV sul Dio che “crea e conserva”. Allora anche la creazione è parola di Dio! Il catechista annunzia che il mondo, la vita umana, le stelle, il mare, le galassie, l’evoluzione, i dinosauri, l’anima dell’uomo, sono parola di Dio. Dio parla perché è colui che crea. Pensate, di nuovo, quanto è più grande la Parola di Dio della semplice Bibbia, che pure è strumento eccelso. Il catechista legge le opere della creazione, apre le pagine del creato, indica questa parola importantissima del cosmo intero. La Dv afferma, inoltre, che Dio non solo crea, ma anche “conserva”, mantiene in vita. Vedremo meglio questo nel corso di Trinità, sul Dio creatore. Ma già un indicazione possiamo coglierla qui. “Creare e conservare” - non con i conservanti possibilmente! E’ una affermazione di grande spessore teologico: mentre nella mentalità della persona media Dio crea solo all’inizio, quando il mondo comincia ad esistere e poi il mondo va avanti come una pallina a cui si dà una schicchera e poi corre da sé, invece nella visione filosofica e teologica cattolica, Dio crea sempre, crea ininterrottamente e conserva in essere il creato, l’uomo. Dio crea quando per la prima volta esiste la materia, crea quando ci sono i dinosauri, crea quando nasce un figlio e gli dà l’anima... Dio è il creatore di ogni momento della vita umana, non è solamente l’iniziatore della creazione. Se qualcosa esiste in questo momento, esiste perché in questo momento Dio la pensa. Dio pensa a me, pensa al ragazzo della catechesi. Se Dio non pensasse, se Dio non conservasse nell’essere le creature, le creature tornerebbero nel nulla. Questo è un annunzio di enorme gioia: se noi viviamo e se i nostri morti vivono nel cielo è perché Dio li pensa. Dio pensa in questo momento a noi e ci tiene in vita, perché noi non abbiamo ragione di esistere in noi stessi, da soli, presi così come noi siamo, ma è sempre un altro che dà a noi la vita stessa. Qui ci sarebbe un discorso enorme da fare, ma non è possibile seguirlo compiutamente per ragioni di tempo; diciamo che è importante che un bambino sappia che quando lui è nato Dio era presente. Un uomo non nasce solo a motivo dell’evoluzione - è nato certo anche per questa trasmissione ininterrotta della vita, perché se uno avesse interrotto questa catena anche la vita si sarebbe arrestata - ma è nato anche perché Dio in quel momento ha detto: “Tu adesso esisti”. Sono due “cause” che si incontrano perché esista ogni uomo.

Secondo passaggio del testo di DV: i progenitori. Una catechesi non può non toccare, nell’arco di un periodo organico, il grande evento che si aggiunge alla creazione del mondo: l’esistenza dell’uomo, di Adamo ed Eva - come sapete non sono due esseri necessariamente esistiti con questi nomi propri, dato che in ebraico Adam vuol dire “uomo” ed Eva “colei che fa vivere”, la “partoriente”, potremmo dire. Non apriamo discussioni su questo, perché ci porterebbero lontano. Solo ricordatevi che i primi capitoli di Genesi non sono un racconto cronachistico dello svolgimento di ciò che Dio ha fatto: qui si afferma che l’uomo, nella sua diversità di uomo e di donna, è stato creato da Dio. Allora l’uomo esiste perché Dio l’ha creato, l’uomo è creatura di Dio e non è un evento del caso.

I progenitori sono “caduti”, altro evento costitutivo della fede e della catechesi. Nella catechesi dobbiamo affrontare il grande dramma del male. I non credenti spesso ironizzano sul peccato originale, noi continuiamo a ripetere che il peccato originale è una delle cose più serie e più reali della vita. Uno dei grandi maestri dell’illuminismo, I.Kant, scrisse la sua ultima opera proprio sul tema del “male radicale”, su questa tendenza a fare il male che è presente in ogni uomo – e che sempre sarà presente – pur non essendo necessaria alla natura dell’uomo! Il grande padre dell’età moderna, Kant, dedica la sua ultima opera al problema del “peccato originale”, che egli riconosce in maniera filosofica, tanto esso è centrale nella riflessione sull’essere dell’uomo! Io amo ripetere che ci sono solo due cose importanti nella vita: il peccato originale e la grazia. Saper parlare di queste due cose vuol dire essere dei bravi catechisti. Il problema della nostra vita è il rapporto fra il peccato che è in noi e la grazia nella quale Dio ci salva. tutto il resto è contorno. Quindi temi altissimi: il male, il peccato, la morte e così via. Tutto questo è parola di Dio.

“A suo tempo chiamò Abramo, i patriarchi, ecc.” Parola di Dio non è solo la creazione, non è solo il testo di Genesi 1-3, ma parola di Dio sono i patriarchi. Nei patriarchi Dio chiama per la prima volta delle persone singolarmente. Chiama Abramo, chiama Isacco, chiama Giacobbe, rifugge da Esaù. Ne sceglie uno, ne sceglie un altro, accetta una storia complicata di preferenze, ecc. ecc. Ecco che la catechesi annunzia la realtà della presenza di questa chiamata personale di Dio.

Poi trovate Mosè e con Mosè abbiamo il popolo. Non c’è più solo la vocazione personale, ma è il popolo che viene costituito per la prima volta. Già con l’ultimo dei patriarchi, con Giacobbe-Israele, viene costituito il popolo che finalmente incontra Dio. E’ l’elezione di Israele che è parola di Dio.

L’ultimo elemento a cui accenna questo brano di DV è il messaggio profetico. Attraverso i profeti il Signore ha parlato per preparare i tempi futuri, per rivelare la promessa. Questo è, nel paragrafo 3, la sintesi della storia della salvezza – prima evento e poi parola scritta – con la quale Dio ha preparato la pienezza. E’ il racconto di come Dio ha preparato il dono della pienezza, che è il suo Figlio: attraverso la parola della creazione, della conservazione del creato, dei progenitori, della risposta divina alla caduta, dei patriarchi, di Mosè e del popolo, dei profeti. Tutto questo è parola di Dio, è rivelazione di Dio.

Una annotazione importante: Dv ci conferma nella disposizione dei libri biblici scelta nella Bibbia cristiana che ha, in particolare, una singolare differenza dalla Bibbia ebraica, una differenza che non è nel testo stesso, ma nella disposizione dei libri. La Bibbia cristiana ha spostato, seguendo la LXX, i profeti alla fine dell’antico Testamento. Nella Bibbia ebraica l’ordine, invece, è: prima i cinque libri del Pentateuco (chiamati Torah, in ebraico), poi i profeti, poi i libri sapienziali. Cosa ha fatto la Bibbia cristiana? Ha spostato i profeti alla fine perché, mentre il centro della Bibbia ebraica è nell’evento del dono della Torah e tutto il resto è suo commento – e quindi la Bibbia ebraica guarda sempre all’inizio come al centro, pur protendendosi anche verso il domani - la lettura cristiana conserva integralmente la Bibbia, ma afferma che il cuore della Bibbia è nel Nuovo Testamento. Quindi qual è la parte più importante dell’Antico Testamento? Sono i profeti perché lanciano il ponte, promettendo qualcosa che ancora non si realizza. I profeti sono lo scritto più citato nel Nuovo Testamento: non è il Pentateuco, non è Mosè, la parte più citata nel Nuovo Testamento; è l’annuncio profetico, è Isaia (oltre al libro dei Salmi).

Alla fine, Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio

Paragrafo 4 della DV: se questa è la preparazione ecco che, citando la lettera agli Ebrei, “alla fine dei giorni nostri, Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio”.

Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2).

Compare questa espressione “alla fine”, che è straordinaria. “Alla fine” vuol dire - questo è il grande annunzio cristiano - che i tempi sono finiti. “Alla fine” vuol dire che siamo alla fine; noi viviamo già la fine dei tempi. Ma questo va capito e spiegato bene! Mentre altri hanno paura della fine dei tempi - l’asteroide che distruggerà la terra, la grande onda che sommergerà il mondo, film come Armageddon, ecc. ecc. - il cristianesimo dice che la fine, il fine, l’evento più importante della fine dei tempi è la venuta di Cristo. Tutto è stato fatto da Dio perché i tempi finissero con la presenza di Cristo; siccome tutta la storia deve incontrare Cristo, quando la storia incontra Cristo è finita. La fine non è la distruzione della storia, non è la catastrofe universale, ma è il compimento della storia, la possibilità della storia di incontrarsi con Dio, in Cristo. E’ l’eternità che entra nella storia ed il tempo che raggiunge l’eternità. Quindi il tempo successivo all’Incarnazione di Cristo, il tempo che noi viviamo, è dato da Dio al mondo perché ogni uomo, tutti gli uomini che Dio ha pensato nella sua volontà, possano conoscere la persona di Gesù. “Alla fine”, dopo aver parlato nella creazione, nei progenitori, nei patriarchi, ecc. ecc. Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio. Torniamo al tema del primo incontro, a Cristo non solo come mediatore, ma anche come pienezza della Rivelazione.

Quindi, Cristo porta a compimento l’opera della salvezza. Leggiamo ancora:

Cristo vedendo il quale si vede anche il Padre, col fatto stesso della sua presenza, con la manifestazione che fa di sé, con le parole, con le opere, con i segni e con i miracoli e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione dai morti e infine con l’invio dello Spirito Santo, compie e completa la rivelazione.

Nella teologia di alcuni decenni fa si diceva che la prova dell’esistenza di Dio, la prova che Cristo era Dio, era la risurrezione. Come facciamo a dire che Dio c’è: perché Cristo ha fatto un miracolo, soprattutto perché Cristo è risorto. La teologia della DV è molto più personale. La prova, meglio, il segno della presenza di Dio, è Gesù nella sua completezza, la sua persona, la sua presenza in mezzo a noi - e questo certo comporta la sua parola, la sua opera, i suoi miracoli, la sua morte, la sua risurrezione, soprattutto la morte e risurrezione! Tutto manifesta il Figlio in mezzo a noi. E’ il Figlio il grande motivo della nostra fede. Tutti i miracoli ed i segni ci riconducono a Lui, che è il segno per eccellenza per cui crediamo. Perché noi crediamo? Perché il Padre ci ha donato il suo Figlio.

Leggiamo la frase finale di questo paragrafo 4:

In quanto è alleanza nuova e definitiva, l’alleanza in Cristo non passerà mai e non è da aspettarsi alcun altra rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo.

Questa è una frase molto importante, lo capite subito, nella sua perentorietà. Proprio perché siamo alla fine, perché il Figlio è stato donato, il cristianesimo non passerà mai.

Il cristianesimo è definitivo; non ci sarà qualche cos’altro di più importante, perché non c’è più niente da aspettarsi. Vediamo le motivazioni e le implicazioni sottese a questa affermazione. Noi potremmo domandarci innanzitutto: “Perché io non devo aspettare a credere? E se mancasse qualcosa che mi farà capire meglio? Quali sono gli elementi che potrebbero mancare?” Proprio qui la catechesi arriva ad essere “provocatoria” (a chiamare alla fede). Dopo un po’ di tempo che incontra il catecumeno, la catechesi può e deve scuotere: “Cristo è arrivato, ti vuoi dare una mossa?” “Ma perché, non è meglio aspettare ancora qualcosa?” “No, non c’è da aspettarsi nient’altro e nessun altro!” Perché è stato dato tutto nel Figlio. Perché Dio si è donato totalmente. Allora non c’è da aspettarsi nient’altro non perché Dio si è come “arrabbiato” ed ha detto: “Vi ho dato mio Figlio, ora mi sono stufato, non vi do più niente - come si dice talvolta nelle famiglie - l’ho detto mille volte, ora non lo ripeto più”. Non è questo! E’ che una volta che Dio ha dato il suo Figlio non può darci niente di più importante, grande, prezioso. Non può darci di più, perché non ha più niente da darci, perché ci ha veramente dato tutto, non gli è rimasto più niente.

La rivelazione è finita non perché Dio è arrabbiato, ma perché più di ciò che ci ha rivelato e donato non esiste. Pensate a cosa può voler dire questa definitività che esclude un dopo. Non è solo l’esclusione di un dopo “cronologico”. Questa esclusione cronologica dipende dalla completezza e pienezza del dono: è il Figlio, è Dio stesso, non è un profeta, un messaggero, un messaggio. Dio ci ha donato se stesso! C’è altro, oltre Dio stesso?

Uno potrebbe dire: “Ma Maometto è venuto dopo, ma Russel e Rutherford, fondatori dei testimoni di Geova, sono venuti dopo (questi ultimi addirittura alla fine del 1800). E noi rispondiamo, ma con garbo: “E allora?” E’ chiaro che il tempo continua, ma quello che fa definitivo il dono è che non c’è niente di più importante del Figlio. Cosa Dio potrebbe donarci più importante di suo Figlio che è morto ed è risorto per noi? Tutto ciò che viene dopo, anche se è successivo, è inferiore, ha meno valore, non è la pienezza del dono e della rivelazione. La pienezza è lì ed, essendo pienezza, è definitiva; non c’è più niente da aspettare.

Provate a rispondere voi stessi alla domanda: “Che cosa ti deve dare di più Dio?” “Manca qualcosa perché tu lo possa amare?” “Ci sarà un motivo più grande per credere a Dio, del dono del suo Figlio?” Ecco vedete qui la sintesi suprema della teologia fondamentale: è la presenza di Cristo nel mondo il grande motivo della credibilità cristiana e della fede. Riecheggia ancora la domanda di Giovanni Battista nei vangeli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro?” A Lui ha fatto eco, in maniera ben più completa la domanda di Paolo, nella lettera ai Romani: “Se Dio ci ha donato il suo Figlio unigenito, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?”

E’ l’evento finale della rivelazione cristiana, perché più di questo non è possibile. E non possiamo non sottolineare che questa nostra comprensione, queste affermazioni della DV, si radicano nell’esperienza e nella vita di Cristo stesso. Gesù ha avuto chiara coscienza di questo! Se voi prendete la prima parabola che Gesù racconta nella sua predicazione nei cortili del Tempio di Gerusalemme incontrerete la sua coscienza di venire dopo i tanti inviati nella vigna: “Il padre aveva una vigna, mandò i suoi servi, mandò i suoi profeti, mandò tanti servitori. Alla fine gli era rimasto uno solo, gli era rimasto il suo unico figlio. Penso tra sé: Che cosa posso fare ora che mi è rimasto solo il mio figlio? Disse: Manderò lui, avranno rispetto di lui, di mio figlio”. La parabola raccontata da Gesù esprime la consapevolezza che ha avuto di essere il definitivo inviato, di essere anche lui inviato, ma non come tutti gli altri, bensì come il figlio unigenito, come il dono definitivo, come l’ultimo, perché di qualità diversa da tutti coloro che prima erano già stati mandati.

E non perché non saranno inviati ancora altri - perché i catechisti sono altri inviati successivi - ma perché essi saranno solo coloro che parleranno ancora del dono di quell’unico Figlio. Un catechista sarà da meno di Gesù, non da più di Gesù. Ma quando il Padre dice, nella parabola: “Chi manderò, mi è rimasto solo lui?”... è costui che ha mandato, è il dono definitivo. Un esempio che vi può aiutare è quello dei giovani in età di matrimonio. Quando, dopo dieci anni di fidanzamento, la fidanzata o il fidanzato dice: “Ti voglio sposare. Tu vuoi sposarmi?”, se l’altro risponde: “Dammi cinque anni per pensarci” noi capiamo subito che la sua risposta non è adeguata! L’altro ti sta dicendo: “Non c’è niente di più grande di ciò che ti dico oggi. Ti ho amato da fidanzato per tanti anni, tutto è stato una preparazione a questo giorno. Ci siamo conosciuti, ci siamo amati sempre più. Adesso, dopo dieci anni, arrivo a dirti che è il momento del mio dono, del mio volermi consegnare come sposo, come realtà definitiva e non più transitoria, non più solo preparatoria. Sei pronto?” E’ la domanda della definitività. “Non voglio donarti solo una parte di me stesso. E’ tutto me stesso che ti dono oggi. Non ci sarà dono più grande di questo”. E’ solo un esempio per dirvi che nella vita ci sono delle scelte - le vocazioni di stato di vita: il matrimonio, il sacerdozio, la vita religiosa - attraverso le quali una persona arriva al dono di sé. Cosa può dare di più, chi fa dono di se stesso all’altro? Ecco la Rivelazione.

La fede è un dono, perché la rivelazione di Cristo è un dono

Accenniamo brevemente ai punti 5 e 6:

A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede con la quale l’uomo gli si abbandona tutto intero e liberamente prestandogli il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà.

La DV presenta la fede non come il punto di partenza, ma come la risposta. Cos’è la fede dell’uomo? La fede dell’uomo è la conseguenza, il secondo momento: siccome Dio - dicevamo solo l’amore è credibile, tutto parte da Dio che si rivela, da Dio che racconta se stesso, da Dio che manda, da Dio che crea il mondo, da Dio che parla con i progenitori, con i patriarchi, da Dio che arriva a donare il suo Figlio – siccome Dio rivela se stesso, allora l’uomo, avendo incontrato la persona di Cristo, dice di sì, gli risponde con al fede, con la fiducia: “Io assento, io obbedisco, io dico di sì con la mia vita alla fede, io riconosco che veramente questa è la verità, che il Signore mi ha donato se stesso, mi ha donato di comprendere il mistero della sua vita. Per questo io accolgo quello che è il suo dono”.

Per spiegarvi la rilevanza di questo, basta accorgersi di quanto, invece, appare immotivata una fede non ancorata a Cristo, una fede che non è una risposta alla sua Rivelazione in Cristo, ma che è solo un moto che sorge direttamente da noi, dal nostro interno, come prima ed unica origine. Provate a chiedere a molti: “Perché credete?” I più risponderanno: “Io sento di credere, ma non ti so spiegare perché. Lo sento, è così, ma non ti so dare ragioni. La fede è un fatto irrazionale. Uno ce l’ha ed un altro no! E’ un dono di Dio”. O ancora: “Io sento perché sono stato in quel posto e ho provato una grande emozione, ho pianto, ho sentito il profumo, ecc. ecc.” Molti, per un cristianesimo superficiale che non è da buttare via ma certo da arricchire da parte dei catechisti, non sanno ancorare a qualcosa di serio la loro fede. Alcuni di loro dicono: “Credere è come buttarsi da un burrone, come buttarsi nel buio; ti devi buttare!” Ma manco per niente! Io in un burrone non mi ci butto manco per niente. Molte persone hanno un’idea della fede come di un evento irrazionale: più uno è irrazionale, più è credente. “Qual è la prova che uno crede?” – dicono – “Che uno è irrazionale” – cioè pazzo! Più uno è pazzo, più è credente. Guardate che è presente questa mentalità! La fede cristiana dice di no: la fede non è un evento irrazionale, l’uomo non deve essere irrazionale. Piuttosto la fede è una risposta ad un dono che viene fatto e qui sta la sua ragionevolezza. La fede è la risposta giusta, bella, commisurata, al dono di Cristo. Siccome il Padre ha mandato il Figlio Gesù Cristo, io mi abbandono a Lui. Non al nulla, non al burrone: io mi abbandono a Gesù Cristo. Per questo la fede dà le sue ragioni. Non dimostra, come la matematica, ma mostra i suoi motivi, mostra i segni della rivelazione di Dio in Cristo. La fede cristiana non è irrazionale, è ragionevole, afferma con forza la teologia fondamentale.

Provate allo stesso modo a domandare: “Tu credi?” Moltissimi risponderanno, per fortuna: “Sì, io credo”. Ma se voi subito dopo domandate: “Ma in chi credi?” ecco che si aprirà il baratro! Pochi sanno dire in che cosa credono. E’ paradossale: si crede senza porre la domanda di chi è colui in cui si crede, cosa so di colui in cui credo. Questa stessa irrazionalità la incontriamo, purtroppo, anche nel modo di vivere i sentimenti. Le persone dicono: “Io ti amo, perché io provo qualcosa per te, anche se non ti conosco ancora bene, se non so chi sei, se sei un farabutto od una persona onesta, se mi hai già cornificato sette volte... però io ti amo”. L’amore, invece, prende sul serio la vita dell’altro, perché l’amore non è una cosa che riguarda solo il mio sentire verso di te, ma è un evento che riguarda l’incontro di due persone. Ecco allora la definizione di fede che ci da la DV: la fede è l’obbedienza della fede che accoglie il dono di Dio.

Perché questa obbedienza si presti non basta che Dio si doni oggettivamente in Gesù Cristo, ma serve anche la grazia interiore. Dio agisce non solo dandomi la persona di Cristo, ma agisce dandomi lo Spirito Santo, la sua presenza in me, che mi fa vedere la meraviglia di Cristo.
Sarebbe da aprire qui l’ampio tema della grazia, del dono di Dio, tipico dell’antropologia teologica. Altri ve ne parlerà, per questo ne faccio solo un accenno nella prospettiva che stiamo vedendo. Cosa intendiamo dire, noi cristiani, quando diciamo che la fede è un dono di Dio? Questa affermazione ha due aspetti che non vanno confusi, ma vanno integrati. Innanzitutto la fede è un dono, perché oggettivamente Cristo ci è stato donato. Prima di essere un dono soggettivo, la fede è un dono oggettivamente, nella persona di Gesù nel mondo. Io credo, perché esiste il Natale, perché “ci è stato dato un Figlio”! Perché oggettivamente sono state date al mondo la crocifissione e la resurrezione del Figlio, perché il Cristo è morto e risorto per noi e per tutti.

Pensate semplicemente anche agli eventi umani. Se in una famiglia nasce un bambino, quella nascita è un dono per tutti i parenti. Se ad un parente non importa niente e non viene neanche a salutarvi, non per questo quel bambino non è nato e non è nato anche per la sua gioia. C’è un fatto oggettivo che è il dono, il puro dono, l’esistenza di quel bambino nel mondo. C’è poi il dono soggettivo, per me. Io gioisco di quel bambino che è nato, festeggio lui ed i suoi genitori, per la vita che hanno portato anche perché io ne gioissi. Ecco l’aspetto interiore, soggettivo. La fede è un dono anzitutto oggettivo: noi non potremmo credere se, realmente, Cristo non fosse venuto nel mondo. In questo senso la fede è un dono per tutti. Quel bambino è venuto per tutti! Dio lo ha donato a tutti, anche a quelli che non lo vogliono accogliere, che lo rifiutano o che non se ne curano. Ma la grazia opera anche soggettivamente, nel cuore e nella mente dell’uomo, dice la DV, dando la “dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”.

Noi crediamo sia perché oggettivamente c’è il dono di Cristo, ma anche perché noi lo riconosciamo come bello, come vero e come buono, perché il nostro intimo dice: “Sì, Gesù è la verità”. Sono due elementi, uno esteriore ed uno interiore. Se uno prende solo il primo, ecco che tutto appare vero, ma freddo: sì Cristo esiste, ma a me non importa niente. Se uno prende solo il secondo, ecco che ci può essere tanto sentimento, ma non verità: io non capisco niente, io non so niente, io non so spiegare niente, ma sono pieno di fuochi interiori, col rischio di essere un folle. Il mistero della fede nasce, invece, dalla grazia esteriore, la grazia dell’evento di Cristo, e dalla grazia interiore, che mi rivela come la sua presenza sia l’amorevolezza stessa di Dio.

La ragione dell’uomo

Vediamo brevemente anche il paragrafo 6:

Il Santo Concilio professa che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione a partire dalle cose create.

La fede cristiana, pur affermando con tutta la chiarezza possibile che la rivelazione completa è quella in Cristo, non dimentica mai che, proprio perché Dio ha creato l’uomo e la ragione umana – anch’essa opera di Dio – questa ragione ha la possibilità di riconoscere qualcosa di Lui anche senza la fede cattolica. Il cristianesimo è, da un lato, così forte nel dire che Cristo è unico, che lui solo salva il mondo, mentre, dall’altro lato, afferma che ogni uomo ha lo stesso del bene in sé e ha la possibilità di riconoscere Dio attraverso la contemplazione delle cose create. Quindi chi non è cristiano non è una tabula rasa, non è il male in persona! Ha la ragione che Dio gli ha dato e, attraverso di essa, può compiere dei passi per comprendere qualcosa del mistero di Dio. Sapete questa è una grande differenza con una parte del mondo protestante, luterano, quella parte che riprende le posizioni di Lutero quando, nella sua asistematicità, affermava che la ragione umana è, dopo il peccato originale, una prostituta. Il peccato originale, secondo questa visione, aveva corrotto talmente l’uomo che l’uomo, senza l’incontro con Cristo, non poteva che errare ed essere incapace di ogni bene. Lutero però è fortemente segnato da un’antropologia negativa, a motivo del peccato; non troviamo in lui una valorizzazione dell’umano, del pensiero filosofico, delle capacità dell’uomo senza la grazia del Cristo.

La fede cattolica afferma anch’essa che tutta la grazia viene da Cristo, ma afferma al contempo che l’uomo e la sua coscienza non sono stati completamente corrotti dal peccato e che, sebbene il peccato abbia toccato ogni realtà, inquinato ogni cosa, c’è però qualcosa che riconduce continuamente a Dio e, quindi, un corretto uso della ragione, dei sentimenti, dell’amore, della vita, porta in realtà ad avvicinarsi misteriosamente alla presenza di Cristo.

Infine il Concilio insegna che:

è merito della rivelazione divina se tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può anche nel presente stato del genere umano essere conosciuto da tutti facilmente con ferma certezza.

La trasmissione della rivelazione

Veniamo al secondo capitolo della DV.

Il primo capitolo trattava de “La rivelazione”. Ci ha spiegato cos’è la rivelazione ed abbiamo visto il contenuto di essa, la realtà personale di Cristo, ciò che la prepara e così via. Il secondo capitolo parla di come questa rivelazione si trasmette oggi, di come si trasmette nel tempo. Se la pienezza è stata donata in Cristo, cosa succede dopo? Come continua questa realtà la sua corsa nel tempo? Allora il problema è la trasmissione. Anche questo secondo capitolo tocca dei temi di enorme interesse.

Dico subito ciò a cui arriveremo, poi lo vedremo nel dettaglio. In questo capitolo si parla della Chiesa: la Chiesa trasmette questa rivelazione. Allora è evidente - lo enuncio subito come un asserto forte – che la catechesi oggi, come sempre, deve far amare la Chiesa. Se una persona viene ad una catechesi e non capisce il primato della Chiesa, che è un primato sottomesso a Dio, ma è un primato - la Chiesa fa parte della fede rivelata, poi vedremo perché - la catechesi ha fallito il suo compito. La persona che riceve la catechesi deve amare la Chiesa e deve desiderare di entrare in essa e proseguirne la fecondità. Non esiste una catechesi che non sia ecclesiale e che non apra alla persona l’orizzonte della Chiesa.

Prima ancora di leggere il testo, voglio anticiparne la prospettiva che è quella della Chiesa nella sua universalità, nella sua cattolicità. Voglio, infatti, sottolineare le conseguenze catechetiche di un punto importante - io credo che sia, anche a livello esistenziale, decisivo – e cioè che dobbiamo avere ben chiaro che la chiesa non è la mia parrocchia, ma la Chiesa tutta, una e cattolica, santa e apostolica. Se un bambino viene a Santa Melania e se ne ritorna a casa, dopo due anni, dicendo “Quanto è bella Santa Melania”, ma non “Santa Melania è parte della Chiesa del Signore che in tutti i luoghi ed in tutti i tempi è la stessa” abbiamo sbagliato tutto. Un bambino deve comprendere - certo attraverso la bellezza di un’esperienza - che da quel momento in cui ha ricevuto la catechesi in poi, dovunque vada, sarà a casa sua nella Chiesa, in una qualsiasi Chiesa, amerà la Chiesa, costruirà la Chiesa. La Chiesa non è la mia parrocchia, non è il mio movimento, non è la mia associazione, non è il mio cammino, la Chiesa è la Chiesa di Cristo. Il catechista è uno che parla al bambino della Chiesa di Cristo - che poi lo si viva nella propria realtà, questo naturalmente va benissimo!

L’allora card.Ratzinger[5] ha affrontato più volte questo tema perché, non solo nell’esperienza pastorale, ma anche in alcune correnti dell’ecclesiologia moderna, alcuni hanno affermato che la Chiesa è innanzitutto la Chiesa locale e che la Chiesa universale risulterebbe dall’unione di tante chiese locali che riconoscendosi a vicenda, quasi per alleanza, arrivano a fare, a costituire, un’unica Chiesa. Questa idea teologica è poi passata anche nella mentalità pastorale di alcuni. Costoro dicono: “C’è la Chiesa di Roma - una parrocchia non è mai pienamente Chiesa, perché manca del vescovo ed è quest’ultimo a conferire lo statuto di Chiesa locale – poi c’è la Chiesa di Milano, la Chiesa di Costantinopoli, la Chiesa dell’Armenia, quella di Londra, ecc. ecc. Ci vogliamo bene, ci riconosciamo gli uni gli altri siamo la Chiesa”. Ratzinger ha sempre difeso, invece, giustamente la priorità della Chiesa Una sulle sue concretizzazioni particolari. La Chiesa è prima una e solo dopo composta da tante parti; non sono prima tante parti che solo poi diventano uno! In un suo scritto presentava l’esempio del battesimo: quando tu sei battezzato, se poi vai in un’altra Chiesa, dici forse io sono di Santa Melania o sono di Roma o di Milano? Il tuo battesimo non ti inserisce nella tua chiesa parrocchiale o nella tua Chiesa diocesana; il tuo battesimo è l’evento che ti rende membro vivo della Chiesa universale, del cielo e della terra, e quindi tu non devi presentare a nessuno le credenziali. Se vai a messa ricevi la comunione dappertutto, poiché sei parte del popolo di Dio. Quindi la Chiesa è prima una e solo dopo è la Chiesa di New York, di Washington, di Roma. E l’evento della Chiesa è fondamentale.

In questo secondo capitolo che affrontiamo ora è questa la prospettiva fondamentale: la Chiesa trasmette la Rivelazione.

Dio con somma benignità dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni.

I documenti del Concilio sono apparentemente freddi, ma sono di una ricchezza, di una bellezza straordinaria, se solo li analizziamo con un po’ di profondità. Noi colleghiamo di solito la Chiesa a Cristo: “Chi è che ha voluto la Chiesa? Cristo”. Su questo non ci piove. Cristo ha veramente voluto la Chiesa ed è stato Lui a fondarla. Solo gli ignoranti come Dan Brown rispondono che la Chiesa è stata voluta, contro la volontà di Cristo, da quei “cattivoni” degli apostoli che hanno voluto nascondere che la Maddalena era la moglie di Gesù e cavolate seguenti... Basta avere un po’ di familiarità con il vangelo e ci appare evidente che Cristo ha voluto la Chiesa ed ha chiamato i dodici apostoli proprio per questo. Questo brano del Concilio ci porta più in là. La Chiesa l’ha voluta Dio Padre che, nella sua benignità, voleva che la Rivelazione fosse trasmessa per tutte le generazioni. Il pensiero della Chiesa non è un pensiero del Figlio, innanzitutto, ma è un pensiero di Dio. Dio non si è manifestato nella creazione, nei patriarchi, nei profeti, in Cristo, perché una volta giunto Cristo tutto poi si arrestasse. Egli ha voluto che la sua rivelazione venisse trasmessa a tutte le generazioni. L’idea che questo dono sempre si perpetuasse è un desiderio di Dio stesso. Anche questo è un “piacque a Dio”.

Perciò -

espressione causale, “per questo motivo, perché Dio voleva questo”, per questo fine, per questo scopo e motivo -

Cristo Signore ordinò agli apostoli che l’evangelo venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale.

Quello che era il desiderio di Dio, Cristo lo realizzò. E per questo ordinò ai suoi apostoli, ecc. ecc. Quindi Cristo è sì, lui, il fondatore della Chiesa, ma il fondatore della Chiesa è Dio stesso, non è Cristo. Chi ha deciso che la Chiesa deve esistere e che deve essere trasmessa la rivelazione è il Padre, che ha affidato questo al Figlio.

Vedremo poi che Cristo, per realizzare tutto questo, donò lo Spirito Santo perché in tutte le generazioni la presenza di Dio fosse piena e vera - quindi anche lo Spirito Santo, come il Padre e il Figlio, è all’origine della Chiesa, è colui che genera la Chiesa. Voi capite già di cosa stiamo parlando: noi stiamo dicendo che rifiutare la Chiesa vuol dire rifiutare Cristo, vuol dire rifiutare lo Spirito Santo, vuol dire rifiutare il Padre. Un problema un po’ serio, non sono bruscolini. La Chiesa non è una cosa che è stata decisa da quattro persone nell’anno mille o al tempo di Costantino o nell’anno zero, ma stiamo parlando del disegno eterno di Dio, che ha desiderato che la sua Rivelazione venisse trasmessa e comunicata.

Se voi prendete la Lumen Gentium - è un’altra Costituzione del Concilio, si abbrevia LG, in latino vuol dire Luce delle Genti, e tratta della Chiesa – proprio questo è l’andamento dei suoi primi capitoli nel presentare perché esiste la Chiesa, da dove essa ha origine e, conseguentemente, qual’è la sua essenza.

La LG comincia proprio così: i primi tre capitoli dopo l’introduzione (LG2-4) trattano del Padre che ha pensato la Chiesa, del Figlio che l’ha fondata, dello Spirito che le dà vita. E’ lo stesso punto di partenza! Perché Dio ha creato l’universo? L’universo è stato creato perché gli uomini entrassero nella Chiesa. Tutto Dio ha creato in vista di questo. L’Himalaya, Andromeda, le galassie, perché esistono? Perché Dio voleva che, nel creato, gli uomini entrassero nella Chiesa. Il desiderio di Dio che gli uomini costituissero la Chiesa una è un disegno che precede la creazione – capitolo secondo della LG. Terzo capitolo della LG: perché Dio voleva questo ha inviato suo Figlio. Quarto capitolo: perché questo si realizzasse il Figlio ha inviato lo Spirito. Quindi sono tre doni successivi realizzati perché il disegno di Dio potesse compiersi.

Cristo Signore ordinò

Queste sono cose elementari, banali se volete. A me piacciono le cose elementari, io vivo di cose ordinarie, fondamentali, cerco di metterle in cima ad ogni originalità. Nella pastorale e nella catechesi, bisogna far bene le cose fondamentali e poi tutto il resto va da sé. Questa della Chiesa è una cosa ordinaria, basilare, ma che non va data per scontata. E’ scontata per voi chiaramente, ma non è scontata per le famiglie, per i bambini, per i loro genitori. La nostra gente vorrebbe essere, come si dice oggi, “politicamente corretta” - politically correct. Cosa dice allora? Siccome le sembra che non sia garbato, “politicamente corretto”, dire che non è d’accordo con Cristo – nessuno avrebbe il coraggio di dire che non la pensa come Cristo e che, poiché la pensa diversamente da Cristo, dovrebbe ammettere o che sbaglia lui o che sbaglia Cristo stesso! - preferisce dire allora che non è d’accordo con la Chiesa – questo sì, si pensa, è politicamente corretto! Anche qui con delle sfumature. Meglio dire che non si è d’accordo con la Chiesa da Costantino in poi, o con la Chiesa di oggi, meno “politicamente corretto” dire che non si è d’accordo con la Chiesa di Pietro e poi dei primi tre secoli, con la Chiesa dei martiri, che la pensava esattamente come si è pensato poi anche dopo! Dire che Costantino ha sbagliato, questo è politicamente corretto, lo possono dire cani e porci. Cosa fa la Costituzione DV (e similmente la LG)? Dice, invece, una verità evidente come il sole. Chi è che ha scelto gli apostoli perché continuassero la trasmissione della fede? E’ stato Gesù stesso. Gesù li ha scelti uno per uno – “ordinò agli apostoli che l’evangelo promesso venisse predicato”. E’ una precisa disposizione di Cristo. Ora tu puoi dire che Cristo era uno stupido, ma non puoi dire che non era una sua disposizione. Noi non possiamo accettare storicamente che una persona dica che Cristo non ha detto questo, che non era un suo desiderio fondare la Chiesa. Se vuoi essere coerente devi dire che Cristo si è sbagliato, quando, obbedendo al Padre, ha dato origine alla Chiesa; io non posso accettare che tu te la prenda con Costantino, come se la Chiesa fosse nata con lui.

Pensate come è decisivo spiegare queste evidenze ai ragazzi. Potete dir loro, semplicemente, alcuni fatti storici indiscutibili – mai messi in dubbio anche nella tradizione ortodossa e protestante. Ad esempio il fatto del nome di Pietro. Sapete bene che il nome “Pietro” non esisteva prima di San Pietro, Pietro si chiamava Simone. Gesù, volendo dire che Simone era la roccia di una costruzione nuova, lo ha soprannominato Pietro. Questo è un desiderio esplicito di Gesù che ha dato inizio a questa nuova realtà storica, perché fosse permessa la trasmissione della fede attraverso la Chiesa. Anche in romanesco si dice “roccia” ad uno che è un pilastro, una colonna, ad uno che non si smuove. Pietro è roccia, proprio nel senso di qualcuno su cui si costruisce.

Gli apostoli, affinché l’evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi.

Nella DV c’è subito un altro passaggio: i vescovi non sono nati da soli o per volere di Costantino, ma in realtà nascono da una precisa decisione, che troviamo già nel Nuovo Testamento, ad esempio nelle cosiddette “lettere pastorali” a Timoteo e Tito, disposizione della generazione apostolica che ha voluto che altre persone, dopo di loro, continuassero l’annunzio della salvezza. E’ come una catena ininterrotta, costituita da anelli successivi. Non ci sono dei salti, dei vuoti, dei buchi, ma vediamo una continuità. Perché questo? Perché Dio voleva questo. Perché lo Spirito animava questo processo. Perché Cristo lo aveva iniziato ed aveva assicurato con la sua promessa la sua presenza in questa successione. Gesù non ha detto “Pietro” a Simone e non ha chiamato “apostoli” i Dodici solo per loro e senza significato per ciò che sarebbe successo dopo. Ciò che ha fatto con loro era esemplare di ciò che desiderava succedesse anche per i tempi successivi.

La tradizione e la Sacra Scrittura

Continua il testo:

Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell’uno e dell’altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio.

Qui cominciamo a comprendere un passaggio fondamentale che ci fa capire ulteriormente qual è il posto della Bibbia nella catechesi. Nella trasmissione della Rivelazione divina la Sacra Scrittura e la Tradizione sono due realtà da prendere insieme, sono due realtà inseparabili l’una dall’altra. Non si può prendere l’una senza l’altra, ma queste due realtà insieme sono lo specchio in cui la Chiesa contempla Dio, lo specchio nel quale l’uomo oggi può vedere Dio, può vedere Cristo, vedere la sua rivelazione. Vediamo Cristo, la pienezza della Rivelazione di Dio, attraverso questa unità composta di queste due realtà, la Scrittura e la Tradizione.

Per questo un catechista introduce il catecumeno non alla Scrittura, ma lo introduce alla Scrittura ed alla vita della Chiesa, alla vita della Chiesa ed alla Scrittura, perché entrambe vengono dall’unica e definitiva Parola di Dio che è Cristo. Dio ci parla nella pienezza di questo segno unitario – Tradizione e Bibbia – che ci trasmette la Rivelazione piena che è Cristo. Non per niente si fa la catechesi per arrivare a dare la comunione: l’evento culminante non è dare il vangelo scritto, ma è dare la comunione, che è un evento della Tradizione e non è un evento della Scrittura. Non per niente si prepara un ragazzo per la cresima, si prepara un ragazzo per la professione di fede, per la vita cristiana, perché quello che conta non è arrivare a conoscere semplicemente la Bibbia, ma l’entrare in tutta questa dinamica di incontro con Dio che parla.

Cos’è la tradizione

Per capire chiaramente cos’è la Tradizione, leggiamo la stupenda definizione – una delle espressioni più belle della DV - che la stessa DV ce ne da, al paragrafo 8:

Così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede.

Il soggetto è la Chiesa. Cosa fa la Chiesa? Cosa fate voi,? Perché la tradizione siamo anche noi, anche io sono la tradizione. Anche i catechisti sono la tradizione - voi non siete la Scrittura, voi siete la tradizione! Cosa fa la tradizione? Trasmette ciò che la Chiesa è. Voi non trasmetterete semplicemente delle nozioni, voi trasmettete la realtà stessa della vita della Chiesa, della vita di Dio.

Pensate a cosa vuol dire preparare qualcuno alla comunione: quella persona riceverà Cristo nel sacramento. Fare i catechisti non è essere semplicemente coloro che spiegano cosa deve fare un bambino secondo la dottrina di Cristo, ma essere catechisti è avere la vocazione di chi fa incontrare i bambini con Cristo, esattamente come gli apostoli si incontravano con Gesù Cristo. La Chiesa trasmette ciò che essa è! E, proprio perché il contenuto è parte di quest’essere ed è ciò che ci dona questa straordinaria libertà di essere ancorati non a singole persone, non a singoli pallini di questo o di quello, ma alla Trinità stessa, ecco che la Chiesa trasmette anche - dice la DV - tutto ciò che la Chiesa crede: la Trinità, la vita eterna, la risurrezione dei morti, il perdono dei peccati, l’Incarnazione accolto realmente da Maria nel proprio grembo e così via.

Questa è allora come una definizione. Cos’è la tradizione? La tradizione è la trasmissione di ciò che la Chiesa è e di ciò che la Chiesa crede. Vediamo ancora una immagine che ci può aiutare: quella della trasmissione della vita ad un nuovo bambino di una nuova generazione. E’ importante che una mamma ed un papà si rendano conto che certo quel bambino l’hanno fatto loro, ma se un solo anello si fosse spezzato da quando la vita umana esiste, se 3000 anni fa, ad esempio, ci fosse stato un loro antenato che avesse rifiutato la vita, ecco che la trasmissione della vita si sarebbe interrotta e loro non sarebbero neanche nati e non avrebbero potuto prolungare il dono della vita nella nuova generazione. La tradizione è la trasmissione della vita divina: una generazione, vivendo la vita cristiana, trasmette alla successiva quella stessa vita. Se io arresto, nel mio piccolo, la Tradizione - questa è la bellezza ed il dramma della vita – proprio perché la Tradizione è una cosa seria, ci sarà un danno. La Tradizione non è, allora, una cosa vecchia, ma il rinnovarsi continuo della vita divina che viene donata. Questo va spiegato, perché per le persone la parola “tradizione” indica, nel linguaggio di molti, una cosa tradizionale, vecchia. Tradizione, invece, deriva dal latino “tradere”, che vuol dire “trasmettere”, ma trasmettere proprio perché è una cosa viva. Non è un sasso che io prendo e do ad un altro; piuttosto io trasmetto la vita. E’ la generazione del 2005 che, dando la vita e la vita divina a dei bambini, permetto che nel futuro ci siano degli altri bambini, degli altri figli di Dio. Se la mia generazione non trasmette la vita, nel 2030 non ci sarà più nessun nuovo bambino. La Tradizione è una cosa molto seria ed, insieme, è una cosa estremamente gioiosa, perché è la vita stessa che viene trasmessa.

Ecco allora che possiamo immaginare la Tradizione come una serie ininterrotta di anelli e attraverso questi anelli la vita divina, la vita della Chiesa, la vita di Dio, viene trasmessa, mentre viene trasmessa la vita umana. Mentre una generazione fa nascere i bambini, la stessa generazione, attraverso i genitori, i catechisti, i nonni, i preti, le suore - sapete che anche questa è trasmissione, perché se fra i giovani di questa generazione non nascessero preti e suore, i figli dei loro coetanei non avrebbero più il catechismo, non avrebbero più le parrocchie, non avrebbero più i sacramenti – trasmette tutto ciò che la Chiesa è e crede. Nella trasmissione della fede è in gioco la realtà stessa della vita. Interrompere questo canale vuol dire far morire in terra la realtà del dono che Dio ha fatto di Cristo a noi.

Facciamo un passo ulteriore: cos’è in gioco dietro tutto questo? P.Ignace de la Potterie, un grande esegeta di Giovanni, recentemente scomparso, amava ripetere queste espressioni, riprese dalla tradizione patristica e medioevale: “Se Cristo fosse morto e risorto mille volte nel passato, ma non morisse e risorgesse oggi per te, tu saresti perduto”[6].

La fede cristiana si basa così su due pilastri. Da un lato è legata agli eventi storici del passato: se Cristo non fosse nato noi saremmo dei folli - San Paolo ci dice che se Cristo non è risorto, noi siamo perduti e siamo i più sciocchi degli uomini. Quindi la fede è legata ad un evento che è avvenuto una sola volta. Ma anche l’altro aspetto è coessenziale: se fosse un fatto storico, certo, vero, ma non potesse essere vero e vivo oggi, questa fede non servirebbe a niente. Se Cristo non è vivo oggi e oggi non mi incontra nella Tradizione, ma cosa è venuto a fare? Che senso avrebbero l’Incarnazione, la Pasqua, se fossero fatti solo del passato? La fede cristiana ha come due poli che continuamente si rimandano l’un l’altro: è basata su di un evento del passato che è avvenuto ed è basata su di un evento dell’oggi nel quale si trasmette viva quella realtà già avvenuta. Quindi è l’oggi della salvezza.

Provate a togliere una di queste due cose e finisce tutto. Non solo finisce tutto, ma non è mai cominciato niente. Quando qualcuno dice di non credere nella Chiesa, quando qualcuno afferma che la Chiesa è un errore, pur volendo salvare Cristo, non si rende conto di cosa sta dicendo. Ma, allora, Cristo a cosa sarebbe servito? Sarebbe un fallito! Che cosa ha fatto Cristo di nuovo nel mondo? Se voi guardate bene non ci ha liberati dalle guerre - le guerre c’erano prima e ci sono adesso – non ci ha liberati dai tradimenti - i divorzi c’erano prima e ci sono adesso, le persone non sanno che ai tempi di Gesù si divorziava perché questo era permesso sia dalla legge ebraica che da quella romana. Ma cosa ha fatto di nuovo nel mondo? Non c’è niente di diverso, apparentemente. Cos’è cambiato allora? E’ cambiata una cosa: è nata la Chiesa. La Chiesa è l’evento nuovo che Cristo ha lasciato nel mondo. Nonostante il male che, apparentemente è lo stesso di prima, oggi all’uomo è data la possibilità di incontrare la salvezza. Dove? Attraverso la Chiesa, che ci dona la vita divina, che ce la trasmette. Se noi togliamo l’opera che Cristo ha fatto, la Chiesa, realmente distruggiamo tutta la sua opera. Per questo la Tradizione è così fondamentale: perché è l’evento tramite il quale io e tutti gli altri oggi entriamo a far parte di questa storia. Non racconto una storia che è avvenuta – come se dicessi che Napoleone nel 1798 è andato in Egitto - ma affermo che io, oggi, entro a far parte di quella storia che è la storia di Gesù Cristo.

Piccola annotazione catechetica che mi sembra molto importante, come concretizzazione di ciò che ho appena detto. Noi dobbiamo pian piano, con pazienza, ricostruire anche la credibilità della storia della Chiesa. Dobbiamo chiedere perdono degli errori commessi – è la “purificazione della memoria” alla quale il Papa ci ha invitato - ma anche saper vedere tutto il bene che realmente c’è stato nella storia della Chiesa. Di nuovo troviamo un’altra forma di questa mentalità del “politicamente corretto”: chiunque può sputare contro la storia della Chiesa, ma, se accenna a delle colpe gravi dell’ebraismo o dell’islam o dell’illuminismo o della cultura laica, è un intollerante! C’è un punto che ritengo decisivo, anche a livello culturale: se non valorizziamo come educatori le straordinarie espressioni storiche che hanno concretizzato nel tempo la fede – manifestazioni che, in nessun secolo sono mai mancate - perché oggi un giovane dovrebbe desiderare di essere cristiano? Se la fede non ha portato bene al mondo, ma solo danno – come alcuni vorrebbero sostenere - perché io dovrei essere cristiano oggi?
Provate a domandarvi come mai la cultura della libertà e dei diritti dell’uomo, l’affermazione della dignità assoluta della persona, abbiano trovato il suo terreno fertile in Europa? Tutto nasce dall’uomo “immagine di Dio” e dalla morte in croce di Cristo per i peccatori. Perché proprio in Europa si è pian piano chiarificata la distinzione della laicità? Tutto nasce dal “dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”. Pensate a quel desiderio di evangelizzazione che ha spinto tanti giovani in America Latina e fin nelle Filippine nel ‘500, per portare il Signore, mentre altri volevano, invece, solo sfruttare economicamente le popolazioni locali. Pensate alle opere di carità nate in ogni periodo, in contesti culturali e sociali diversissimi.

Ricordo di aver sentito una monaca – e questo mi sembrava gravissimo – affermare che gli unici periodi belli della storia della Chiesa erano stati i primi tre secoli, fino a Costantino, e poi il periodo dal Concilio Vaticano II in poi. Tutti i cristiani vissuti negli altri secoli erano, tutti imbecilli, tutti peccatori, ladri, persone assetate di potere, persone che volevano distruggere i popoli? Ma – scusate – allora: perché dobbiamo essere cristiani se la Chiesa ha fatto solo del male? Questa sfida di una corretta ricostruzione storica è affidata anche alla catechesi. La Chiesa deve riconoscere il suo peccato - e stiamo ancora aspettando che altri riconoscano le loro responsabilità storiche! - ma ammettere delle colpe non vuol dire affermare che la storia della Chiesa, che la Tradizione, è un fallimento. La Chiesa deve anche riconoscere la meraviglia di ciò che è avvenuto in lei, per l’opera della Chiesa. Noi non possiamo dimenticare la nostra storia che tanto bene ha portato al mondo, in ogni tempo.

L’allora card.Ratzinger, in un intervento sull’Europa[7], faceva più o meno questa riflessione: noi europei – senza dimenticare che il cristianesimo non è di per sé europeo, perché è anche semitico, copto, armeno, ecc. ecc. - noi europei siamo gli unici che odiamo la nostra stessa storia. Noi amiamo valorizzare le religione di altre tradizioni storiche, l’ebraismo, il buddismo, ecc. ecc., ma ci vergogniamo a parlare del cristianesimo! Ma perché non devo amare la mia storia, perché devo dire che l’unica storia che è una storia rovinosa è quella della Chiesa cattolica? Dobbiamo uscire, allora, dalle mode del momento e tornare a costruire una vera conoscenza e apprezzamento della nostra storia.

Chiaramente dobbiamo farlo con intelligenza e verità, perché non vogliamo dire delle menzogne storiche. Ma, se analizziamo non alcuni particolari, ma l’ampiezza dei grandi periodi storici, ci accorgiamo della bellezza della storia ispirata dal cristianesimo. Una via può essere anche quella dell’arte, della potenzialità che il cristianesimo ha avuto di ispirare l’ingegno e la creatività dell’uomo. Il medio evo è un periodo di una bellezza straordinaria. Se così non fosse, perché altrimenti la gente andrebbe a visitare Santiago di Campostela? Perché andrebbe a visitare le basiliche di Tuscanica e tutte le cattedrali romaniche o gotiche? Magari un architetto del nostro tempo sapesse fare qualcosa di equivalente ad una chiesa romanica! Se quelle epoche sapevano fare degli edifici di un tale splendore vuol dire che non erano più sciocchi di noi! Io non sono migliore di un uomo del medio evo: è una grande menzogna parlare di una nostra presunta superiorità. Gli uomini di oggi non sono migliori degli uomini medievali o delle persone dell’età dell’umanesimo e del Rinascimento o dell’età barocca. Perché uno va a vedere Borromini? Borromini è un uomo barocco. Meno male che è esistito il barocco Borromini che sapeva fare quelle cose. Sia ringraziato il cielo. Ed è per questa consapevolezza del valore dell’opera di un cristiano dell’età barocca che i nostri fidanzati non vogliono sposarsi nelle nostre parrocchie moderne, ma vogliono una Chiesa del Borromini per le loro nozze! Ripeto spesso ai fidanzati dei corsi del matrimonio, come battuta: verrò a celebrare il vostro matrimonio in qualsiasi Chiesa medioevale o barocca di Roma, però voi vi impegnate a non parlar male della chiesa di quel periodo. Se per il vostro matrimonio volete una chiesa medioevale o barocca, sia ringraziato il cielo che ci ha donato quei periodi di storia della Chiesa che hanno donato ai secoli successivi questi monumenti come espressione della loro fede, quelle Chiese che ancora oggi noi possiamo utilizzare per i nostri sacramenti e le nostre feste!

Il progredire della tradizione

Continua la DV:

Questa tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo.

Questo è un altro punto molto importante. La tradizione cristiana da un lato - questo è un paradosso che va capito bene - da un lato è sempre la stessa: Cristo è ieri, oggi e sempre. Però la rivelazione progredisce. Uno potrebbe dire: “Ma come? Abbiamo appena detto che Cristo è la pienezza? Che in Cristo c’è tutto? Cosa vuol dire che progredisce?” Approfondiamo ancora il problema. Quando uno si domanda: “Ma perché il Papa deve stare a Roma, se nella Bibbia non c’è scritto?” apparentemente ha ragione, perché veramente nella Bibbia questo non c’è scritto. Nella Bibbia non c’è scritto nemmeno che San Pietro muore martire a Roma. E’ un evento che non è scritto nella Bibbia. Neanche il martirio di Paolo si racconta nella Bibbia, si dice solo, nelle lettere pastorali, che sta per morire a Roma, ma non si racconta il fatto. Dove sta scritto nella Bibbia che i sacramenti sono sette? Se uno prende la “Sola Scrittura” – riprendo l’espressione di Lutero che rifiutava la Tradizione, per dare valore unicamente alla Sacra Scrittura, come fonte della nostra conoscenza di Cristo e della sua volontà – questo è vero, non c’è mai scritto con precisione e chiarezza che i sacramenti sono sette. Che cos’è, allora, il progresso della tradizione?

Da dove nasce questo valore che la fede cattolica attribuisce alla Tradizione? Nasce ancora una volta dal fatto che la Parola di Dio, nella sua pienezza è Cristo stesso. E Cristo è il risorto, il vivente, colui che ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, colui che ha detto: “Vi manderò lo Spirito che vi guiderà alla verità tutta intera”. E’ Cristo il Verbum Dei, la Parola di Dio. Come vedremo poi, la DV chiama il Figlio incarnato, il Verbum Dei, chiama la Tradizione anch’essa Verbum Dei e chiama, invece, la Bibbia Locutio Dei, il “parlare” di Dio, il “discorso” di Dio. La realtà della Bibbia è costitutiva per la Chiesa in terra, ma la Sacra Scrittura è inserita in una dinamica più grande che parte dalla Parola nella sua pienezza che è Cristo stesso, il quale ci parla non solo attraverso la Sacra Scrittura, ma anche attraverso la viva tradizione della Chiesa, attraverso i suoi sacramenti.

La fonte della verità non è, per la fede cattolica, la sola Scrittura. Se così fosse, è chiaro che avrebbero ragione tanti a dire che non sono essenziali nella fede cristiana tanti aspetti nei quali la comprensione della Chiesa è cresciuta nei secoli. L’evidenza dei sette sacramenti si è fatta strada nel tempo, non troviamo questa sintesi sic et simpliciter nella Sacra Scrittura, ma non per questo è meno vera.

Noi non difendiamo l’esistenza dei sette sacramenti dicendo che la Bibbia lo dice; piuttosto noi affermiamo che lo Spirito Santo ha guidato la Chiesa a capire che questa è la vera intenzione di Cristo e questo ci permette di accostarci con uno sguardo più profondo alla Scrittura e di intravedere in essa già il mistero dei sette sacramenti.

Il Padre, nello Spirito, ha guidato la Chiesa a comprendere, attraverso la Scrittura e la Tradizione, che cosa Cristo voleva. Quindi Cristo è sempre lo stesso, ma noi, nel comprenderlo, progrediamo. Dove sta scritto nella Bibbia che Maria è nata senza peccato originale e che è stata assunta in cielo? Noi non ci scandalizziamo affatto del fatto che il dogma mariano dell’Assunzione sia stato proclamato da Pio XII, nel 1950. La comprensione del mistero della santità di Maria, ricevuta per grazia dall’intima relazione con Cristo e vissuta in ogni momento della sua libera esistenza, per la quale Dio l’ha assunta in cielo, prefigurazione del dono che sarà fatto alla Chiesa tutta – e che era stato celebrato già nelle espressioni della Dormitio Mariae e di S.Maria degli angeli – è cresciuto fino ad arrivare ad una sua più completa chiarificazione che ha portato alla definizione del dogma dell’Assunzione. Può darsi che fra 200 anni verrà proclamato un dogma che ancora noi non possediamo come definizione ufficiale.

Per farvi comprendere meglio questo vero “progresso” della Tradizione vi ho fotocopiato un testo di Vincenzo di Lerins. Questo autore è un monaco ed ha vissuto in un’isola al largo di Cannes, in Francia. Vi invito, se andate in Costa Azzurra, al posto di perdere tempo a vedere i grandi alberghi dei VIP, a prendere la barca e ad andare all’isola di Lerins. C’è il monastero di Lerins - purtroppo è stato distrutto nei secoli e poi ricostruito – nel quale tuttora i monaci vi accoglieranno per la loro liturgia. Vincenzo di Lerins ha vissuto appunto lì. Una sua espressione famosissima è: “Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus”: la Chiesa crede “ciò che è sempre stato creduto, in ogni luogo, da tutti i cristiani”.

La Chiesa trasmette ciò che essa è e ciò che crede e questa fede non si può cambiare: ciò che è stato creduto sempre, in ogni chiesa e da tutti i cristiani insieme, non può essere modificato, perché è Parola di Dio.

Ma allora, - si domanda - se questa è la fede non vi sarà mai alcun progresso nella religione della Chiesa di Cristo? Anche a livello esistenziale, questa è una domanda importante: noi per primi, come anche i nostri contemporanei, vogliamo porci delle domande nuove, vogliamo capire delle cose nuove. Vincenzo domanda: “Ma allora non si va mai avanti, la nostra generazione non ha niente di nuovo da dire, noi siamo dei ripetitori, degli epigoni del passato?” e risponde: “Vi sarà un progresso ed anche molto grande”.

Leggiamo il testo:

Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
E’ necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi...
Le membra del lattante sono piccole. più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già nell’embrione... Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. E’ necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
E’ anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.

Il fatto che la fede sia sempre la stessa, non vuol dire che oggi non è nuova, non vuol dire che oggi non progredisce, ma bisogna stare sempre attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno, il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra. Un cambiamento inaccettabile sarebbe dire che Gesù non è Figlio di Dio. Questa sarebbe la fine della fede. Se una persona, un catechista, si alzasse e dicesse di non credere nella Trinità, dovrebbe lasciare il posto di catechista. Ma se la Tradizione comprende, nel corso della storia, che se Maria ha portato, lei immacolata, nel suo corpo Gesù e lo ha servito con tutta se stessa, non può, lei che non ha peccato, conoscere la corruzione come tutti gli altri: questo non è un cambiamento, ma una crescita. E’ un approfondimento di quell’unica realtà che è Cristo, vero Dio – tutti i dogmi mariani hanno in realtà una rilevanza cristologica, oltre ad una antropologica, ecclesiologica e mariologica. I dogmi mariani non hanno una valenza innanzitutto morale! Perché di Maria si dicono certe cose? Perché lei, essendo stata così unita a Cristo, rappresenta in anticipo quello che tutti noi saremo. Tutti noi saremo portati in cielo da Cristo, ma Maria per prima. La Chiesa comprende nella sua Tradizione qualcosa che non è scritto esplicitamente nella Scrittura, ma che è lo Spirito Santo stesso a farci comprendere, meditando il mistero del rapporto fra questa donna e Cristo, fra la madre e il Figlio. Lei è l’unica che ha portato Dio nel suo grembo. Nessuno di noi porta Dio nel suo grembo: Maria è la piena di grazia perché ha portato nel suo grembo il Figlio di Dio, l’Immenso. Questo ci conduce poi a rileggere la Scrittura ed a coglierne ciò che non sarebbe stato possibile altrimenti.

Lo stesso vale per il fatto che i sacramenti sono sette. La Chiesa battezzando, dando il crisma, celebrando i matrimoni, vive la Parola di Dio, la volontà di Cristo e questa Tradizione porta poi a rileggere il brano di Efesini 5 – il famoso brano paolino che mostra il rapporto misterico che esiste tra l’uomo e la donna, tra Cristo e la Chiesa e tra il matrimonio e l’unione sponsale Cristo/Chiesa - ed a scorgervi in esso l’annunzio evangelico della sacramentalità del matrimonio.

Allora il germe della realtà dei sacramenti c’è fin dall’inizio nella Scrittura, perché i sette sacramenti sono volontà di Cristo. Ma la Chiesa comprende questo pian piano. Quando un bambino è piccolo e poi diventa grande, non diventa un altro uomo: è lo stesso bambino cresciuto. Invece se io uccido questo bambino e ne faccio nascere un altro, questo è totalmente diverso! Se io dico che i sette sacramenti non sono volontà di Dio e non servono per vivere, questo mi fa uscire dalla Chiesa e dalla volontà di Dio. Ma la Chiesa sempre cresce e crescerà nel comprendere il suo unico tesoro, deposto nella Bibbia e nella Tradizione.

La DV spiega anche come avvenga questa crescita:

Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.

Capite, allora, ancor più, quanto è importante far amare la Chiesa nella catechesi. E’ per la Chiesa che veramente questo progredire ci è stato donato; la Chiesa, in questi duemila anni, ha compreso sempre più il tesoro di Cristo, lo ha meditato, lo ha pregato, lo ha celebrato.

Permettetemi una parentesi, che ci permette di vedere l’importanza di questo anche nell’attuale dibattito culturale sulla famiglia e le convivenze. Mi veniva in mente un passaggio di S.E.mons.Rino Fisichella[8] in una relazione sulla famiglia. Mostrava la differenza fra l’evoluzione dell’idea di famiglia e la sua dissoluzione. Anche i cristiani – affermava - pensano che l’idea di famiglia debba evolversi e progredire, perché la situazione odierna è diversa da quella di un decennio fa. Ma questo – sottolineava – è ben diverso dalla dissoluzione del concetto di famiglia a cui si arriva se si decide, ad esempio, che non sono più necessarie due persone di sesso diverso perché una famiglia esista. Il cristianesimo è ben favorevole all’idea di progresso e di crescita, mentre non lo è se con questo si vuole nascondere la proposta di una dissoluzione culturale!

Andiamo alla fine del punto 8:

Le asserzioni dei santi padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione.

I santi padri sono gli scrittori dei primi secoli, che sono teologi e, per la maggior parte, anche vescovi. Si chiamano “padri della Chiesa” gli scrittori cattolici dal I all’VII secolo dopo Cristo e sono i grandi maestri: Sant’Agostino, San Gregorio Magno, San Basilio, Sant’Atanasio, San Cipriano e così via. Questi padri non hanno ripetuto la Scrittura ma l’hanno spiegata per il loro tempo, hanno approfondito aspetti importantissimi del cristianesimo, come il rapporto fra la grazia ed il peccato, hanno scritto il Credo di Nicea-Costantinopoli - pensate che il Credo che noi diciamo a messa non è tratto sic et simpliciter dalla Bibbia, non c’è nel NT, ma è una sintesi che è stata pensata dai padri della Chiesa. Noi - dice il Concilio - noi ammiriamo questa presenza vivificante di questa Tradizione che accoglie la Parola di Dio e la dona al proprio tempo ed a tutti i tempi con tutta la ricchezza possibile. Pensate ad un piccolo esempio concreto, all’Ufficio delle letture, quella preghiera della Liturgia delle Ore che unisce la lettura della Bibbia alla lettura dei Padri della Chiesa e dei successivi dottori e santi. Perché la Chiesa fa questa proposta di preghiera? Proprio per mostrare a colui che prega che quella Sacra Scrittura e quella parola della Chiesa si illuminano a vicenda per comprendere l’unico Cristo. E’ importantissimo questo: uno legge la Bibbia, ma a fianco di essa legge un autore del IV o del V secolo.

Anche un catechista può e deve raccontare i padri della Chiesa, può raccontare di loro e non solo della Bibbia, perché sono dentro questa Tradizione. Se un catechista vuole parlare del perché si battezzano i bambini, può raccontare di come S.Agostimo sia arrivato a capire che questo era necessario ed era un bene inestimabile! Un catechista deve saper trarre per la catechesi esempi dalla ricchissima storia della Tradizione.

Un esempio ancora più chiaro: pensate alla messa, nei suoi punti nodali. Si legge la Bibbia, lo sappiamo bene, nella Liturgia della Parola, ma non dimentichiamoci mai che è anche obbligatorio fare l’omelia. Perché è obbligatorio fare l’omelia ed è obbligatorio che voi l’ascoltiate? Non perché ai preti piace fare le prediche, ma perché la parola viva della Chiesa deve spiegare la Scrittura, perché la Bibbia e la Tradizione debbono sempre andare insieme. L’omelia è un atto della tradizione, sono due cose che vanno sempre insieme: guai se io faccio l’omelia e non spiego la Bibbia, guai se io leggo la Bibbia e non faccio l’omelia. Sono due cose che sono legate. Ma, ancora più profondamente la Liturgia della Parola conduce alla Liturgia Eucaristica. Abbiamo la celebrazione dell’eucaristia, abbiamo, cioè, non solo la parola ma quell’evento che è il culto, che è la presenza sacramentale di Cristo. La Liturgia, più di ogni altra cosa, ci mostra l’unità della Parola di Dio.

Il Canone della Scrittura

E’ questa tradizione che fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse Sacre Scritture.

Spieghiamo. Cos’è il canone? “Canone” è una parola teologica. In questo contesto vuol dire la “regola” - viene dal greco “canon” che è indica il metro di misura. Il canone è la regola delle Scritture: le Scritture ispirate da Dio sono quelle che sono nel Canone. Il Concilio fa una considerazione molto semplice, ma decisiva: chi è che ha deciso quali sono le Scritture ispirate? Noi abbiamo la Bibbia, con i suoi libri ispirati da Dio; ma chi è che ha stabilito quali libri fanno parte della Bibbia? C’è scritto forse dentro la Bibbia stessa? C’è una pagina biblica – che ne so, l’ultima – che afferma qualcosa di simile a questo: “Io, Dio, dico a te, caro Giovanni scrittore dell’Apocalisse, dell’ultimo libro, la Bibbia è fatta di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri. Deuteronomio, Giosuè, Giudici, ecc. ed il Nuovo Testamento di quattro vangeli, Matteo, Marco, Luca e Giovanni, mentre gli altri non li ho ispirati io”? No! Il canone è stabilito dalla Chiesa.

Pensate che affermazione fondamentale per capire cos’è la Parola di Dio e come Dio si è rivelato. Questo è un problema anche per i protestanti che affermano la sola Scrittura come unica regola della fede, come unica fonte della verità su Cristo. Ma se l’unica regola della fede è la Scrittura e la Tradizione, come faccio io a sapere come è composta la Scrittura, quali sono i libri ispirati? Come posso decidere la differenza fra i quattro vangeli del Canone ed i vangeli apocrifi?

La Chiesa ha la coscienza chiarissima che la Tradizione viene cronologicamente prima della Scrittura. C’è stata la vita della chiesa prima della Scrittura, quella vita che gli Atti degli Apostoli ci raccontano. Gli apostoli non hanno per prima cosa composto il Nuovo Testamento, ma ciò è venuto come concretizzazione scritta della loro vita, della loro fede, delle loro celebrazioni. Gli apostoli hanno prima cantato, passeggiato, predicato il vangelo, mangiato, litigato, fatto la pace, capito, pregato Gesù in cielo, hanno parlato con Maria, e solo ad un certo punto alcuni di loro hanno scritto alcuni testi perché hanno capito, sebbene Cristo non glielo avesse ordinato espressamente, che era necessario alla Chiesa, che era volontà di Cristo che ci fossero dei testi scritti per illuminare la vita che stavano vivendo, per fare memoria di Gesù.

Non solo la Tradizione, la vita della Chiesa, ha preceduto la Scrittura, ma è stata nuovamente la Chiesa, in un lungo processo di Tradizione, a stabilire quali fossero i libri ispirati. La Chiesa, proseguendo la sua vita man mano che gli apostoli morivano, ha detto: “Questi scritti sì e questi invece no, questi non testimoniano veramente la Parola di Dio, il Cristo stesso. Questi qui sono interessanti, c’è anche qualcosa di bello – tali sono molti degli apocrifi - ma Cristo non è realmente raccontato in questi scritti”. La decisione sul Canone è un processo ecclesiale, è un processo della Tradizione. Capite, allora, quanto è stretto fin dall’inizio il legame tra Bibbia e Tradizione, poiché è la vita della Chiesa che stabilisce cos’è la Bibbia e non l’inverso!

Come è avvenuto il processo molto lungo della scrittura della Bibbia? Anticamente, nei secoli dell’Antico Testamento, i messaggeri di Dio hanno scritto in ebraico. Questi antichi libri, che ora sono nel Canone, non sono stati scritti di seguito, ma un autore ne ha scritto uno, un altro ne ha scritto un altro, un altro ci ha aggiunto un pezzo, un altro ha cambiato una parola, ecc. ecc. La scrittura dei libri della Bibbia ha richiesto molto tempo, secoli. Il libro biblico non ha un unico autore umano - lo sapete benissimo, solo alcuni libri sono stati scritti da una sola persona.

Per di più i libri in ebraico erano scritti all’origine con un testo solo consonantico, senza le vocali. Nelle lingue antiche le vocali non si scrivono. Tommaso si scrive TMS.

Il testo ebraico è stato poi tradotto in greco intorno al terzo secolo avanti Cristo. Questa traduzione è opera degli ebrei di Alessandria d’Egitto che compongono quella che si chiama la Settanta (in latino Septuaginta). Si abbrevia LXX, in numero romano (qui dobbiamo forzatamente semplificare, perché in realtà esistettero varie versioni greche della Bibbia ebraica). Gli ebrei di allora, ad Alessandria, crearono una leggenda per indicare la loro coscienza che quella traduzione era stata voluta da Dio stesso – l’ebraismo dei tempi di Gesù era molto ellenizzato e le moderne distinzioni che vorrebbero contrapporre mentalità semitica e mentalità greca non hanno alcun senso! Dissero che il re di Egitto chiese a settanta (per la precisione 72) rabbini di tradurre in greco la Bibbia. Li mise in 72 stanze diverse nell’isola di Faro (quella del faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo antico) ed ognuno tradusse da solo la Bibbia. Le 72 traduzioni risultarono identiche. Il senso di questa leggenda è che Dio stesso aveva voluto che la Bibbia ebraica fosse tradotta in greco. La traduzione della Bibbia è opera della Tradizione. Il Nuovo Testamento citerà l’Antico Testamento quasi esclusivamente secondo questa traduzione della LXX.

Cosa succede alla Bibbia successivamente? Quando, nel 70, viene distrutto il Tempio dai romani, poco dopo – si ipotizza intorno al 90 d.C. - si riuniscono i rabbini (la tradizione dice a Jamnia) ed affermano che la traduzione greca non era stata voluta da Dio. Assistiamo così ad un cambiamento nella storia dell’ebraismo: i testi della LXX, usati dai primi cristiani, vengono rifiutati ed, allora, questa traduzione in greco diventa l’AT dei cristiani. I libri scritti direttamente in greco, per esempio il I e il II libro dei Maccabei, che non hanno un originale ebraico (i cosiddetti “deuterocanonici”) non sono accolti nel Canone dei rabbini dopo la distruzione del Tempio, mentre sono accolti nel Canone cristiano.

Il canone ebraico si chiude così intorno al 90 d.C. - non esisteva prima un canone completo certo ed assodato della Bibbia ebraica; c’erano molte discussioni su alcuni libri. Anche nell’ebraismo il Canone viene ad essere fissato a motivo di una tradizione orale che sceglie dei libri e ne rifiuta altri.

Alcuni secoli dopo arriviamo alla Vulgata, alla traduzione latina. Girolamo fa tradurre la Bibbia ebraica, con l’aiuto del greco, in latino (in realtà esistevano già altre traduzioni latine, ma sorvoliamo sui dettagli, perché in questo contesto non modificano il filo che qui ci interessa). Nelle Bibbie moderne si abbrevia con Vulg. Notazione interessante: perché si chiama Vulgata? Perché il greco a quei tempi era la lingua della Chiesa, la lingua della Chiesa non era il latino. La Chiesa parlava in greco, una lingua in Occidente più colta, mentre il popolo, il volgo, parlava in latino. Vulgata è un’espressione, all’origine, anche un po’ dispregiativa; infatti molti non volevano che si traducesse la Bibbia in latino perché dicevano che l’unica lingua della Chiesa, la lingua di Dio, era il greco. Se la Bibbia sarà tradotta in latino, sarà impoverita e si perderà l’unica lingua della Chiesa. Girolamo vuole, però, tradurla perché la gente in greco non la capisce. E’ interessante vedere come, nei secoli, le stesse argomentazioni usate contro la Vulgata, a favore del greco, saranno portate contro la versione tedesca di Lutero a favore della Vulgata (anche lì esistevano già molte versioni tedesche della Bibbia, ma anche qui non entriamo nei particolari) e contro le versioni moderne successivamente.

Lutero dirà che la Bibbia dell’AT, quella ispirata da Dio, è solo quella ebraica - parliamo dell’AT – e non quella della LXX. Ad esempio il libro dei Maccabei non c’è in una Bibbia protestante. Si rifiuta una Tradizione, quella della Chiesa primitiva che aveva accolto questi libri come ispirati, ma se ne sceglie un’altra, quella ebraica dopo la distruzione del Tempio, perché una tradizione c’è per forza!

Il Concilio di Trento risolverà definitivamente la questione a livello dogmatico - siamo intorno al 1550. Dirà, in maniera definitiva: “Sono ispirati tutti i libri della Bibbia, con tutte le loro parti, contenuti nella Vulgata”. Notate bene: non si dice qual è la versione ispirata - anche perché di alcuni passi abbiamo varianti diverse e non è possibile arrivare con sicurezza alla decisione su quale sia la “lezione” originaria (in alcuni versetti, ad esempio, appare più originaria la versione dei LXX che pure è una traduzione, rispetto al testo ebraico). La presenza di testi così antichi – il testo solo consonantico, il testo ebraico vocalizzato, il testo in traduzione greca, l’autorità della Vulgata – porteranno l’esegeta cattolico a valorizzare tutte queste versioni.

Ciò che il Concilio di Trento afferma è, nuovamente, un evento della Tradizione: se, per tanti secoli, in ogni chiesa si è pregato con questa Bibbia, con la Vulgata, non è possibile che tutti i papi, tutti i vescovi, tutti i catechisti, tutti i papà che hanno pregato con questa Bibbia si siano sbagliati. La Tradizione diventa il criterio per dire che tutti i libri e tutti brani contenuti nella Vulgata – torniamo al quod semper, quod ubique, quod ab omnibus – sono ispirati. Poiché nella Vulgata c’è il I libro dei Maccabei e questo libro è stato usato nella liturgia per tanti secoli, vuol dire che la Tradizione lo ha ritenuto ispirato da Dio e tale esso è, anche se i rabbini non l’hanno ritenuto tale.

Possiamo aggiungere due esempi del Nuovo testamento, molto significativi. Molti non sanno che il brano dell’adultera non c’è in tutti i manoscritti antichi del vangelo di Giovanni. Alcuni dicono che non è un brano giovanneo; così, in teoria, si potrebbe alzare un esegeta e dire che siccome non l’ha scritto Giovanni allora non è ispirato da Dio. Il Concilio di Trento ci dà la chiave per la soluzione cattolica di questo problema. Poiché questo testo è nella Vulgata e poiché sempre la Chiesa lo ha ritenuto ispirato, tale è e resta.

Lo stesso vale per la finale del Vangelo di Marco, forse il punto di critica testuale più difficile del NT. Nei manoscritti antichi ci sono finali diverse del vangelo di Marco. Gli esegeti dicono che la versione originaria si arrestava probabilmente al versetto 8 dell’ultimo capitolo. Altri manoscritti hanno i versetti da 9 a 20. Altri hanno almeno due varianti significative. Il Concilio di Trento risponde: siccome nella Chiesa si è sempre pregato con la finale che comprende Mc16,9-20 questa finale è quella che deve essere ritenuta ispirata ed è, pertanto, quella che noi leggeremo nella liturgia. E’ chiaro che non l’ha scritta Marco, ma a noi non fa nessun problema, perché i vescovi, i padri, i teologi, i dottori, i papi, i semplici fedeli – la Tradizione insomma - hanno sempre riconosciuto che in quei versetti è veramente contenuta la Parola di Dio.

Allora il Canone è fatto conoscere ai credenti attraverso la viva tradizione della Chiesa. Pensate che passaggio per la Bibbia: dall’ebraico, al greco, al latino, al Concilio di Trento, alle nostre traduzioni. E’ il processo attraverso il quale la Chiesa, pregando, celebrando la liturgia, ascoltando i teologi, vivendo la fede del popolo di Dio, accogliendo la voce del Magistero, ha capito che questa è realmente la piena e completa rivelazione di Dio.

Vedremo nel prossimo incontro come sia poi la Scrittura a giudicare a sua volta la Tradizione, come la Bibbia sia norma della vita della Chiesa, in un intreccio indissolubile delle due.

Concludo con alcuni piccoli suggerimenti di letture per approfondimenti che trovate nella bibliografia che vi ho dato. Vi consiglierò poi dei libri, ma, intanto, per cominciare, vi suggerisco dei testi che trovate on-line su Internet, sul nostro sito www.gliscritti.it

Un primo testo è la relazione che mons.Rino Fisichella ha tenuto ai prefetti della Diocesi di Roma. Spiega cosa vuol dire trasmettere la fede, approfondendo il consegnare se stessi.

Il secondo articolo è di don Pino Pulcinelli, un assistente del Seminario Maggiore, un biblista. E’ un articolo che analizza il significato dell’espressione “mistero” in San Paolo.

Il terzo articolo è ancora di mons.Rino Fisichella. E’ una conferenza su Giovanni Paolo II, nel 25° del suo Pontificato, che sottolinea l’espressione del Concilio Vaticano II al quale l’allora arcivescovo Wojtyla lavorò. “Alla luce del mistero di Cristo, trova luce il mistero dell’uomo”.

Il quarto articolo è una riflessione del biblista Romano Penna su cosa voglia dire “spirituale”, nella fede cristiana.

Ultimo suggerimento: leggete le schede sulla Bibbia – il Canone, l’ispirazione, le differenze tra la Bibbia ebraica e quella cristiana, ecc. ecc. - che erano state preparate alcuni anni fa quando con il nostro Centro Culturale L’areopago facemmo una mostra sulla Bibbia dal titolo L’ignoranza delle Scritture, la Bibbia da Genesi all’apocalisse e da Qumran a Gutenberg, anche queste ora sul nostro sito.

III incontro

Facciamo una sintesi delle lezioni precedente e poi passiamo ai temi di oggi.
Abbiamo visto che nel primo capitolo il centro del discorso è il contenuto della Rivelazione di Dio: Gesù ci rivela Dio stesso. Non ci rivela tanto delle verità particolari, ma la sua persona, ci rivela Dio stesso. La rivelazione cristiana è una rivelazione personale e per questo è anche una rivelazione del disegno di Dio sugli uomini. Noi troviamo il senso della nostra vita ascoltando chi è Dio.

Il secondo capitolo tratta, invece, della trasmissione di questa Rivelazione. Come si trasmette al mondo, una volta che è avvenuta? Abbiamo cominciato a vedere la relazione che c’è tra la Bibbia e la vita della Chiesa, tra la Bibbia e la Tradizione.

La relazione tra Cristo, la Bibbia e la Tradizione
Questa relazione ci è presentata in maniera sintetica nel paragrafo 9 della DV:

La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine.

Se questa è la fonte – Cristo - da questa fonte scaturiscono entrambe, la Scrittura e la Tradizione, ed entrambe tendono allo stesso fine e sono un tutto unico.

Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio.

Qui il Concilio usa la parola latina locutio: potremmo dire, come abbiamo già visto, il “parlare” di Dio.

In quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio.

Qui si usa l’espressione Verbum Dei. Mentre la Scrittura è il parlare di Dio messo per iscritto, la Tradizione trasmette la parola viva che è Cristo. Anche la Tradizione è Verbum Dei. Cos’è più importante, la Scrittura o la Tradizione? Il paragrafo 10 risponde a questa questione – con l’aggiunta del Magistero del quale parleremo fra poco – mostrando l’indissolubile legame e la compresenza di entrambe:

È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.

Bibbia e Tradizione scaturiscono da un’unica fonte, da Cristo stesso. Nella DV, allora, Cristo è chiamato il Verbum Dei che parla in entrambe (Scrittura e Tradizione), la Scrittura viene chiamata Locutio Dei, la Tradizione è anch’essa Verbum Dei e trasmette anch’essa il Verbum Dei.

Soffermiamoci ulteriormente, perché sia il più chiaro possibile. Cristo è la Parola di Dio, la pienezza della sua Parola, in latino possiamo dire “il Verbum Dei”. C’è una sola Parola di Dio, c’è “il” Verbum Dei, Cristo stesso. Ma Cristo parla a noi oggi in due modi, nella trasmissione della Rivelazione. Parla innanzitutto attraverso la Sacra Scrittura, che è anch’essa Parola di Dio. La Sacra Scrittura, vera Parola di Dio, ci parla della Parola completa, ben superiore, che è Cristo stesso. Il Concilio usa, per la Scrittura una differente Parola, la “locutio Dei”, il “parlare” di Dio, il “discorso” di Dio. Perché Cristo che è la Parola, dice anche delle Parole e compie i fatti ed alcuni di essi vengono scritti. La Parola piena, Cristo, è talmente importante che se io ho la Scrittura, ma non ho il Figlio, questa parola diventa lettera morta che uccide – “la lettera uccide, lo Spirito vivifica”.

Ma, d’altro canto, questa Scrittura, la Bibbia, è via necessaria per conoscere questa Parola completa, incarnata. La Sacra Scrittura garantisce che il Cristo creduto non è reinventato ogni volta, ma è veramente l’unico Figlio di Dio, che si è fatto carne. Dobbiamo ancora vedere le caratteristiche della Parola scritta – lo faremo subito, perché stiamo seguendo il filo della DV. Abbiamo già visto, invece, che Cristo vivente - vivo perché risorto, vivo perché Figlio eterno di Dio - parla anche attraverso la Tradizione vivente. Queste due Parole, la locutio Dei e la Tradizione, hanno una relazione feconda, al punto che sono incomprensibili l’una senza l’altra.

La Chiesa cattolica afferma, allora, che la Parola di Dio è l’insieme di queste due cose: Scrittura e Tradizione, entrambe discendenti da Cristo. Per il mondo protestante, invece, la Parola di Dio è solo la Scrittura. Lutero diceva: Sola Scriptura. Secondo la concezione luterana per comprendere Gesù è sufficiente la Bibbia, la Chiesa non è importante. La Chiesa cattolica ritiene, invece, parziale questa affermazione. Torniamo ai fondamenti di questa convinzione: Gesù ha chiamato lui gli apostoli, ha chiamato Simone, Matteo, Andrea, Giovanni, ecc. ecc. Ha detto a Pietro, a Paolo: “A chi rimetterete i peccati in terra, saranno rimessi anche in cielo”. Ha detto questo, mentre non ha mai detto: “Scrivete la Bibbia”. Eppure noi facciamo una cosa realmente voluta da Gesù, quando leggiamo la Sacra Scrittura e la preghiamo e la commentiamo! Sebbene non sia mai scritto il comando di scrivere!

Gesù non ha mai detto agli Apostoli di scrivere i vangeli. Gesù ha chiamato gli Apostoli ed ha detto a Simone: “Tu sei Pietro”. E chi non accetta questo, non sta accogliendo tutta la ricchezza di Cristo. La Chiesa è voluta da Gesù, è il suo dono al mondo, è il suo modo di essere presente. Qui occorre spiegare ai bambini anche un evento che ha un grandissimo significato: Gesù è stato l’unico a chiamare i suoi discepoli, mentre i rabbini dell’epoca non sceglievano le persone. Erano le persone a scegliere il rabbino da seguire, come oggi noi scegliamo un nostro maestro e gli chiediamo di poterlo seguire. Non così Gesù! Gesù è l’unico - proprio perché è il Signore - a dire: “Io voglio te, vieni e seguimi e diventerai apostolo”. La vocazione, il rivolgersi ad un altro perché lo segua, è una caratteristica della chiamata di Gesù.

Gesù fonda la Tradizione, chiamando gli apostoli. La tradizione poi, per l’invio dello Spirito Santo – lo Spirito di Gesù che parla nei cuori e nella comunione ecclesiale – arriva a scrivere la Scrittura. Per stabilire poi quali sono i libri della Scrittura interviene di nuovo la tradizione che, sempre per opera dello Spirito Santo, in un certo numero di anni, arriva a definire il Canone, giunge a dire: “Il Vangelo di Marco, Matteo, Luca e Giovanni sono i vangeli ispirati che rispecchiano fedelmente la vita di Gesù, mentre il vangelo copto di Tommaso, ad esempio, come gli altri vangeli non canonici non nascono dall’ispirazione dello Spirito”.

Gesù quindi dà origine alla Tradizione, la Tradizione scrive la Scrittura, la Scrittura viene riconosciuta dalla Tradizione che dice: “Questo è il canone” ed il Canone è la regola con la quale, a sua volta, viene giudicata la conformità della Tradizione alla persona di Cristo, la conformità al Verbum Dei, la pienezza della Parola divina, il Figlio incarnato.

Voi capite quanto è importante la tradizione: perché gli Apostoli hanno scritto il Nuovo Testamento sebbene Gesù non l’abbia mai chiesto? Perché ispirati dallo Spirito Santo, dopo che Gesù era già salito al cielo, hanno capito che dovevano scrivere la Scrittura, hanno compreso che era volontà di Gesù che questo fosse fatto. Tra Scrittura e Tradizione c’è quindi un rapporto estremamente fecondo, al punto che isolare una dall’altra, dice la DV, vuol dire la morte della fede cristiana. Guai se uno prende solo la voce orale della Chiesa, ma guai anche se uno prende solo la voce scritta. Perché c’è una relazione tra queste due e la Parola di Dio è l’insieme di tutti questi elementi: la Parola di Dio è Cristo, è la Scrittura, è la Tradizione della Chiesa.

Vi ho fotocopiato un piccolo testo che può aiutarci in questo contesto. E’ tratto da una lettera di J.R.R.Tolkien, l’autore de “Il signore degli anelli”, cattolicissimo in un ambiente anglicano. Traspare in tante sue lettere la fatica di essere accettato in un ambiente che, a quei tempi, viveva una sottile discriminazione verso chi si professava cattolico. E’ un testo che ci riporta alla “crescita” ed al “progresso” resi possibili dalla presenza dello Spirito Santo nella Tradizione:

I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto; perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso. (Le restrizioni di San Paolo a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!)

Tolkien fa riferimento alla prima lettera ai Corinzi nella quale S.Paolo rimprovera i primi cristiani sul loro modo di vivere l’eucarestia. Non erano migliori di noi, per il fatto di essere la prima generazione cristiana. Anche i primi cristiani commettevano peccati, come le successive. Continua Tolkien:

Inoltre la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero.

E’ un’immagine molto bella. E’ vero che nel seme c’è già tutto, che nella Chiesa primitiva c’è già tutto, ma Gesù ha parlato del Regno di Dio come di un seme dal quale nasce un albero sul quale si poseranno gli uccelli del cielo. Ma se, una volta che l’albero è cresciuto, andassi a scavare sotto le radici, in nome della primitività, per cercare il seme, non lo troverei più. La meraviglia di quel seme è la pianta che ne è venuta fuori. Ed io prendo l’ombra, la bellezza, il frutto di questa pianta nella sua completezza.

Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.

Ecco la sua riflessione, di grande profondità. Noi sappiamo benissimo che alcune affermazioni della Tradizione non sono contenute direttamente ed esplicitamente nella Scrittura, ma noi sappiamo che Gesù ha detto agli Apostoli: “Lo Spirito Santo vi rivelerà tutto quello che io vi ho detto”. C’è la Scrittura, ma c’è anche lo Spirito che ha parlato negli Apostoli. Dove è scritto che dobbiamo celebrare la domenica? Nel Vangelo non c’è scritto questo. Noi sappiamo, però, che la Tradizione, ascoltando la Scrittura ed ascoltando Cristo, ha compreso il valore dell’ottavo giorno, del giorno domenicale. Se io dicessi: “Siccome la domenica non è il seme ma l’albero, allora la butto via”, sarei solo un idiota, distruggerei la pianta. La meraviglia è che il Cristo, attraverso la Scrittura e la Tradizione, mi dona di comprendere il senso della domenica cristiana e la possibilità di viverla.

Noi dobbiamo aiutare i bambini ed i ragazzi a capire tutto questo. Mi permetto di sottolineare ulteriormente il rapporto che dobbiamo curare, noi romani in particolare, con Roma: noi dobbiamo fare amare Roma. La gente viene in pellegrinaggio da ogni parte del mondo e i nostri ragazzi non sono mai andati a S.Pietro! Noi dobbiamo parlare dei santi, dei martiri, dei Papi che hanno vissuto a Roma, facendo amare i luoghi nei quali sono vissuti e sono morti nella testimonianza del Signore. Nella catechesi devono risuonare anche i grandi temi della storia, i grandi temi di questa tradizione: la richiesta di perdono, ma anche la bellezza di ciò che c’è stato. E’ un primitivismo sbagliato dire: “Solo la Scrittura”. Nella fede cattolica non si legge solo la Scrittura per donare una vera e completa catechesi!

Il testo continua ancora al paragrafo 10:

La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa

Queste due realtà sono un solo deposito messo nelle mani della Chiesa

Il magistero

L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve

Qui interviene il terzo elemento necessario alla trasmissione della rivelazione: il magistero. Il magistero – dal latino “magister”, “maestro” - è l’autorità episcopale esercitata in comunione con il vescovo di Roma, il Papa. Il magistero ha il compito di spiegare cosa è veramente conforme al Verbum Dei. E’ quindi un’autorità necessaria. E’ Gesù che ha detto: “Annunziate tutto ciò che ho comandato”. Gesù, attraverso la parola detta e la parola scritta, ha dato al Magistero un compito peculiare. Il magistero non è il potere che fa quello che vuole, ma è piuttosto il servitore di questa Parola. Il compito del magistero - dei vescovi e del Papa - è quello di dire se ciò che viene detto e fatto è nella volontà di Cristo o si allontana da Lui. E’ al servizio della domanda se veramente Gesù voglia una cosa. Il magistero può dire: “Questa affermazione, questa idea, questo movimento, questo modo di procedere, non è secondo il pensiero di Gesù”. Ma mai il Magistero può comandare quello che piace a chicchessia. Neanche quello che piace al Magistero stesso, se non perché è la volontà di Cristo.

Il magistero si pone a servizio di questa Parola e aiuta a discernere la vera Tradizione, cosa è conforme o meno nella vita della Chiesa alla parola stessa di Cristo. Benedetto XVI ha detto chiaramente questo in un suo bellissimo discorso, uno dei primi che ha fatto da pontefice, quando ha preso possesso appunto della cattedra nella cattedrale di Roma, S.Giovanni in Laterano. Il papa ha detto in quell’occasione[9]: “Attenzione, io ho l’autorità come successore di Pietro; ma questo vuol dire che io sono servo di Cristo. La mia autorità non vuol dire mettermi al di sopra di Cristo. Io che sono il servo di Cristo devo dire: Voi state parlando di uno che non è Gesù Cristo, quello di cui parlate non è il Gesù Cristo che ci ha salvato, è un’altro, ve lo siete inventato. Il mio compito di servo è quello di esplicitare continuamente cosa è secondo il Verbum Dei e cosa gli è contrario, o indifferente”. Oppure all’opposto: “Io vi confermo. La vostra fede, la vostra parola, il vostro operato, è realmente secondo l’intenzione del nostro Salvatore!” Le persone vedono sempre il compito episcopale e pontificio come potere, dominio. In realtà si tratta di un compito delicatissimo, di enorme responsabilità, di un compito di servizio.

Anche voi catechisti riceverete un mandato: vuol dire che i vostri parroci garantiranno – e voi stessi garantirete - che quello che sarà annunciato nella catechesi sarà l’insegnamento di Cristo. Sarete servitori della Parola, non dominatori di essa o per mezzo di essa. E, per questo, sarete sempre nella comunione ecclesiale. Lo ripeto: un catechista non può essere un cane sciolto, uno che pensa quello che vuole, dice quello che vuole, non sta con i fratelli, non vive la comunione, non ascolta i preti, i vescovi, il Papa. Un catechista è un uomo della comunione ecclesiale: dove c’è lui, c’è la Chiesa. Questo è fondamentale.

Cosa fa allora il magistero dinanzi ad un problema, ad una disputa, ad una deviazione dalla fede cristiana? Dice: “Questo aspetto veramente aiuta a vivere Cristo, quest’altro stona, non appartiene a Gesù”. Il magistero ha il compito di vigilare che la Parola di Dio venga trasmessa nella sua pienezza e nella sua verità.

L’ispirazione della Scrittura e l’opera degli autori sacri

Arriviamo ora al capitolo III della DV. Il capitolo III entra nel merito della Scrittura. Avendola situata in un contesto più ampio ora approfondisce il significato ed il valore della Scrittura. Ci aiuta a comprendere il ruolo della Bibbia nella vita della Chiesa. Leggiamo il paragrafo 11:

Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16).

Questa è un’affermazione importantissima: veramente la Scrittura è Parola di Dio. Dopo aver detto che la Scrittura non è da sola la Parola di Dio, ora il Concilio afferma però che la Scrittura è veramente Parola di Dio. Quando noi leggiamo la Bibbia veramente ci accorgiamo che lo Spirito Santo ne è l’autore.

(I libri sacri) hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte.

Qui c’è tutto il paradosso della concezione cattolica dell’ispirazione della Scrittura. Veramente la Bibbia è Parola di Dio, veramente Dio ne è l’autore, ma, allo stesso tempo, veramente la Bibbia è parola umana e gli uomini ispirati da Dio ne sono autori. Gli autori hanno, cioè, agito come veri autori. Facciamo un confronto con le altre religioni. Nell’Islam, Maometto non è il vero autore del Corano, non ci ha messo nulla di suo. Questo almeno stando alla tradizione ufficiale della Rivelazione Coranica (sebbene alcuni autori islamici contemporanei abbiano cominciato a discutere di questo aspetto). Nella tradizione musulmana “ortodossa”, Dio ha parlato ad un angelo e gli ha dettato il Corano in arabo, l’angelo ha parlato a Maometto in arabo. Maometto l’ha dettato in arabo ai suoi scrittori (perché Maometto non sapeva scrivere). Quindi il Corano è stato “dettato”, Maometto non è un autore. Nella concezione cattolica della Bibbia invece Luca è davvero l’autore del suo vangelo. Un esegeta leggendo un versetto riconosce S.Luca. Ogni autore di un libro biblico scrive in modo diverso, scrive secondo il suo stile. Nella Bibbia voi incontrate l’opera dello Spirito Santo, ma anche l’autore umano è vero autore.

Bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture.

Questo passo della DV definisce, conseguentemente, cosa dobbiamo cercare come esente da errore nella Bibbia: la “verità per la nostra salvezza”, la “verità salvifica”. Quindi la Bibbia non ci dice la verità storica di ogni singolo evento, non ci dice la correttezza scientifica di ogni sua affermazione, ma la “verità salvifica”. Facciamo un esempio per chiarire questo: in un famoso passo della Scrittura, Giosuè dice: “Fermati o sole”. Questo modo di scrivere non vuol dire che veramente il sole si sia fermato. E’ un modo di dire: quella giornata è stata così importante che non finiva mai, è stata lunghissima. Ma non si può trarre da questa frase la concezione che la terra sia al centro dell’universo ed il sole che gli ruota intorno debba fermarsi. Perché l’autore di Giosuè è vero autore della Scrittura. Dio non si è servito di lui per darci una conoscenza del sistema solare o delle nozioni di astrofisica. Che cosa veramente Dio voleva insegnare? La verità per la nostra salvezza.
Dobbiamo cercare nel testo di Giosuè questa verità. Giosuè vuole parlarci della protezione divina su Israele. Dio è il motivo della vittoria, non le forze dell’uomo. Questo è quello che lo Spirito Santo ha ispirato, ma alcuni particolari del racconto sono dovuti all’autore, alle conoscenze proprie dell’epoca ed al modo di esprimersi di quel tempo e di quell’autore.

Ma tutto ciò che quel libro dice per la nostra salvezza, lo Spirito Santo l’ha voluto veramente, l’ha ispirato realmente. Ma altre cose, che non c’entrano con la nostra salvezza, non devono essere prese alla lettera. Le letture fondamentaliste – soprattutto molte sette americane e sudamericane leggono la Scrittura come se ogni affermazione, essendo ispirata da Dio, avesse una verità non solo salvifica, ma anche scientifica e storica – fanno, invece, esattamente questo. Secondo la loro lettura, se nella Bibbia c’è scritto che Matusalemme ha vissuto un certo numero di anni, per la precisione 969, tu non puoi dire niente di diverso da questo. Noi rifiutiamo questo atteggiamento. L’autore di Genesi ha raccontato Genesi, ispirato da Dio, per la nostra salvezza dandogli il vero significato che va capito, ma Dio ha rispettato il modo di esprimersi di quell’autore di quel tempo e non lo ha ispirato sotto dettatura.

Quel particolare narrativo l’ha scritto l’autore secondo il suo stile espressivo. La Scrittura è ispirata, ma questo non vuol dire che noi dobbiamo leggerla come un libro di storia. Ci sono date sbagliate, fatti scientifici espressi nelle concezioni del tempo, ecc. ecc. perché i suoi autori avevano la cultura del loro tempo. Nella Bibbia però non c’è niente - un punto, un apice - che non sia ispirato da Dio, perché Dio si è servito di tutto questo per parlarci della nostra salvezza. Così è importante capire che questo non vuol dire che la Bibbia ci racconta con esattezza la storia degli assiri o degli egiziani.

Come deve essere quindi interpretata la Sacra Scrittura, una volta compresa la sua origine divina, pur nella mediazione umana? Perché la Bibbia è un libro che ha veramente Dio per autore, pur avendo veramente l’uomo per autore - questo è il paradosso affermato dalla fede cristiana – lo Spirito Santo è veramente autore della Bibbia, pur se si è servito di veri autori umani. In primo luogo, guai a chi prova a dire che lo Spirito Santo non ha ispirato la Bibbia ed anche guai a chi sostiene che lo Spirito abbia ispirato altri libri all’infuori di quelli del Canone. Alcuni vogliono affermare che tanti altri libri sono ispirati, anche i testi di altre religioni. Noi diciamo che solo la Bibbia è ispirata. Ci sono cose belle ed importanti in altri testi religiosi, ma Dio è autore solo di questo libro. La Bibbia, unico libro della Parola di Dio, va interpretata alla luce di quello stesso Spirito che l’ha ispirata.

Ecco perché nella liturgia si leggono solo i testi biblici, perché sono i soli ispirati. Non è un disprezzo per gli altri testi, ma il rispetto per la peculiarità di quello che stiamo celebrando. Se facciamo una riunione va tutto bene, possiamo prendere un testo non biblico, possiamo commentarlo, ma anche ognuno ha poi il diritto di criticare quel testo, di non essere d’accordo, di dire che quel testo non gli piace, non gli dice nulla. Questo non è possibile dinanzi al testo biblico, che è per noi vincolante. Non possiamo dire: “Non sono d’accordo con ciò che dice la Parola di Dio!” Ecco che nella liturgia il testo viene “proclamato”: ha un valore superiore rispetto ad un altro testo dinanzi al quale c’è la libertà di opinione.

Ma, poiché, al contempo è un testo scritto da uomini - continuiamo al paragrafo 12:

Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.

Quando io leggo un testo devo stare attento a cosa l’autore diceva come uomo. Dio si è servito di quell’uomo e costui ha parlato come uomo del suo tempo, con modi espressivi che erano legati ad un contesto e, perciò, non validi letteralmente a priori per ogni altro contesto. Prendiamo la famosa frase di S.Paolo: “Le donne tacciano in assemblea”. Se uno facesse una lettura letterale direbbe che nessuna donna può parlare in un’assemblea, nemmeno leggere una preghiera dei fedeli. Ma noi comprendiamo che quella lettera è stata scritta da un uomo che viveva in un contesto storico e che Dio non ha voluto che la verità salvifica annunciata fosse direttamente il silenzio delle donne in assemblea, bensì una compostezza nella liturgia che non creasse scandalo rispetto alla mentalità dell’epoca. Quindi le donne, cambiato questo contesto, possono tranquillamente leggere nell’assemblea. Quello che Paolo voleva trasmettere è il senso della dignità dell’assemblea liturgica, l’equilibrio e tante altre cose.

Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione.

Siccome è l’uomo che scrive, ma è Dio che di lui si serve, dobbiamo stare attenti nel considerare se quell’uomo scriveva con lo stile della poesia, o della cronaca storica, o del genere profetico, ecc. ecc.. Quando si presenta un testo della Scrittura nella fede, bisogna fare attenzione a questo. Quando noi leggiamo ai bambini: “Dio ha creato il mondo, primo giorno, secondo giorno, terzo giorno fino al settimo, lo shabbat nel quale si è riposato”, noi non stiamo leggendo un testo scientifico, ma un testo che ha un valore poetico, sapienziale. E’ come una poesia, un testo che descrive la meraviglia dinanzi al Creatore. Noi non insegneremo perciò che Dio ha fatto il mondo in sette giorni, ma non staremo neanche zitti. Non è che, siccome è un testo poetico, noi lo trascuriamo e non lo leggiamo. Noi lo leggiamo perché è uno dei testi più belli che siano mai stati scritti dall’umanità. Lo commenteremo dicendo che subito, fin dalla prima pagina della Genesi, Dio vuole insegnarci la divisione della settimana in sette giorni, secondo una scansione del tempo che abbia come culmine la lode di Dio, nel giorno a Lui dedicato: l’uomo è fatto per lodare Dio. Un uomo che lavori sempre e mai si fermi a ringraziare il Creatore ed a celebrare la comunione con Lui sarebbe un “maledetto”, uno che ha sbagliato tutto della vita. L’uomo deve arrivare a riposarsi, a dormire, a ringraziare il Signore, a lodarlo, ad essere felice della sua presenza. Già dal primo capitolo l’autore biblico, ispirato da Dio, ha voluto manifestare la pace di Dio stesso, mentre creava. A maggior ragione l’uomo che lavora, deve fermarsi a lodarLo, a ringraziarLo. Se noi capiamo che non è un testo scientifico, che non è un testo storico, che non è in disputa con Darwin, capiamo che è un testo che ha un suo significato all’interno di una logica che va portata alla luce.
Dobbiamo fare questo lavoro che ci aiuta a capire lo spessore umano di un testo ed, attraverso di questo, il suo significato voluto da Dio ispiratore di quel testo. Non bisogna aver paura di dire che questo testo, essendo scritto da un uomo, è legato al tempo ed all’autore che lo ha scritto.

L’unità della Scrittura

Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura,

Questa è un’altra affermazione chiave, che ci riporta alla specificità e profondità cattolica nell’interpretare la Scrittura. Se, da un lato, il lettore della Bibbia deve fare attenzione alla mentalità, allo stile, alla conoscenza storica e geografica dell’autore di quel tempo, dall’altro, non deve mai dimenticare che è lo Spirito lo ha ispirato. E lo Spirito ha ispirato non un solo brano della Scrittura, ma tutto l’insieme di essa. Per questo quel brano fa parte di un disegno unitario di tutta la Scrittura: la Scrittura è una. Il catechista, lo studioso, il vescovo, vedono l’unità di questo testo. Esso è molteplice, scritto da molte mani umane, ma unitario, uno, nel suo complesso, perché ispirato dallo Spirito che è uno, secondo il disegno del Padre che è uno, perché rivelasse la Parola di Dio, il Figlio, che è uno.

Ecco il rapporto fra Antico e Nuovo Testamento che è caratteristico della Bibbia cristiana. Non posso io fermarmi, nell’interpretazione della Bibbia, solamente a ciò che il suo autore umano coscientemente voleva dire e capiva nel momento in cui ha scritto quelle parole. Facciamo un esempio. Quando Isaia dice: “La vergine concepirà e partorirà un figlio che si chiamerà l’Emmanuele”, probabilmente Isaia non aveva la minima idea di Maria. A Isaia non era così chiaro che il Figlio di Dio si sarebbe incarnato. Non posso entrare nei particolari, ma, come abbiamo già visto il testo ebraico è passato poi nella traduzione greca dei LXX ed, in questa traduzione, è stato utilizzato dagli scrittori del Nuovo Testamento. Matteo, nel suo vangelo, rilegge il testo di Isaia, comprendendone il suo pieno significato, come profezia del Dio in mezzo a noi, la presenza di Gesù fra gli uomini, per opera di una vergine, Maria. Ha capito ciò che Dio ha voluto ispirare ad Isaia, in un “senso più pieno”. Questo modo di leggere la Bibbia – il “sensus plenior” – è fondamentale nella fede cattolica. Leggete su questo la scheda sull’interpretazione cristiana della Bibbia che vi ho suggerito nella bibliografia. Se anche Isaia non era pienamente cosciente di quello che diceva, era, però, ispirato da Dio e, soprattutto, lo era Matteo che, anche lui guidato dallo Spirito e dall’esperienza di Gesù, ha riletto quell’antico testo in una luce nuova. La lettura cristiana dell’Antico Testamento non è una invenzione della Chiesa successiva, ma è il modo di leggere la Scrittura che è stato proprio di Gesù – che leggeva l’Antico Testamento come una preparazione della sua venuta – ed è il modo di leggere della Chiesa primitiva. Così fanno gli evangelisti, così Paolo: per loro è evidente che l’Antico Testamento non parla solo di fatti antichi, ma parla di Cristo stesso.

Se io mi fermassi a dire che Isaia non sapeva tutto lo sviluppo della fede e mi limitassi a leggere i suoi versetti solo nel significato che avevano coscientemente nella sua mente, io starei distruggendo l’unità della Scrittura. Alcuni vorrebbero fare solo questo lavoro: leggere Isaia e studiare ciò che Isaia ha detto coscientemente. Questo è necessario – torniamo ad Isaia come vero autore di quel testo – ma, se lasciato a se stesso e non completato da una lettura nell’unità della Bibbia, diviene parziale. Lo stesso potremmo dire, per fare un secondo esempio importantissimo – ma potremmo moltiplicare all’infinito gli esempi – per la lettura di Genesi 2-3. Noi dobbiamo leggere questi testi alla luce dei paralleli del Vicino Oriente antico, ma anche alla luce di S.Paolo che, nella lettera ai Romani, commenta questo testo a partire dalla consapevolezza che Cristo è morto per tutti, perché tutti sono peccatori. Se qualcuno non fosse stato peccatore, non avrebbe avuto bisogno della morte di Cristo per lui. E’ il Cristo, con la sua morte per i peccati, che diviene la chiave di lettura per capire il peccato originale, il peccato che ha condizionato tutti gli uomini!

Il compito del catechista è, sempre, quello di mostrare l’unità della Scrittura, come Dio abbia preparato una storia che, arrivata al suo compimento, manifesta tutta la sua ricchezza, la sua grandezza e la sua bellezza. Prendiamo un esempio della nostra vita che ci può aiutare – pur sapendo che è solo un paragone. conoscete sr.Mimma, una delle suore Pastorelle, che giovedì farà la professione perpetua. Sicuramente ci sarà qualcuno dei parenti che dirà: “Io la conosco da sempre, da quand’era piccola. Quando aveva cinque anni, l’ho vista che pregava in Chiesa, mi ha colpito come era disponibile, come sorrideva. Si capiva, già allora, che sarebbe diventata una suora”. In realtà se quella persona non avesse visto ora sr.Mimma, non avrebbe mai detto la stessa cosa. La luce proiettata dall’evento di oggi, ci fa rileggere tutto il passato. Ma, soprattutto, la storia di sr.Mimma è un’unica storia, guidata da Dio che l’ha amata prima ancora che nascesse e poi nel suo crescere. Dio ha guidato quella storia dall’inizio alla fine. Le ha fatto fare quella piccola esperienza di preghiera, quell’esperienza di servizio, le ha fatto incontrare quella persona o quella comunità che l’hanno aiutata a capire la sua vocazione. Pian piano l’ha preparata, perché lei arrivasse a donarsi totalmente. Se noi non vedessimo, però, la pienezza del giorno della sua decisione di farsi suora rispondendo alla chiamata di Dio, non capiremmo il significati dei singoli brani della sua storia, dei suoi incontri, delle sue esperienze.

Quando il Figlio, Gesù Cristo, è venuto in mezzo a noi, noi abbiamo letto in un modo nuovo e più ricco, in un senso “più pieno”, tutta la storia che aveva preparato l’evento dell’incarnazione.
Noi abbiamo ri-compreso, nello Spirito Santo, tutta una storia. Abbiamo compreso l’unità del disegno di Dio.

Noi crediamo che la storia sia una trama tessuta da tanti fili che, quando “il tempo è compiuto”, ci svela tutto il disegno. Allora Isaia era vero uomo, ma veramente Dio gli diceva di annunziare un concepimento, che poteva anche essere la nascita di un figlio nella famiglia del re di allora, come segno del rinnovamento che Dio è sempre capace di operare nella storia, senza che Isaia avesse la capacità e la preoccupazione di comprendere tutto fino in fondo. Quando il tempo sarà maturo, Dio stesso avrebbe inviato ancora un suo messaggero, l’evangelista, a mostrare il senso nascosto di quell’annunzio.

Potete leggere i due documenti scritti dalla Pontificia Commissione Biblica – composta da biblisti e teologi – con delle preziose introduzioni dell’allora cardinal Ratzinger, che trattano della lettura cristiana della Bibbia oggi e dei suoi metodi. Spiegano come un esegeta cristiano debba fare attenzione al metodo storico-critico ed, insieme, debba leggere la Bibbia nello Spirito Santo. Mai una cosa senza l’altra. Trovate un’espressione molto bella dell’allora card.Ratzinger che afferma che se un testo volesse dire solo quello che voleva dire quando è stato scritto, ne nascerebbe come conseguenza che l’Antico Testamento a noi non direbbe più nulla[10]. Sapete che ci sono stati autori antichi, come Marcione - che è stato poi dichiarato eretico - che diceva: “Siccome l’Antico Testamento non parla di Cristo, allora ne è autore un altro dio, nemico di Cristo. L’Antico Testamento è opera di un dio cattivo, di un dio che conosce solo la giustizia, il Nuovo Testamento è opera del Dio buono che ha mandato Gesù ed in Lui ci ha rivelato la misericordia”. Siccome non leggeva l’AT in vista del NT, ma come una cosa a parte, lo rifiutava, come una realtà diversa ed estranea, senza relazioni con la venuta di Cristo. Invece l’AT che noi leggiamo ancora oggi è un testo che spinge in avanti, che parla di qualcosa che si deve realizzare, che si protende oltre di sé. Ed è solamente ciò che viene dopo, che lo farà comprendere appieno.

I libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.

E’ quello che abbiamo appena visto. La Scrittura è costituita da un rapporto tra AT e NT, perché l’AT si capisce veramente e solamente quando c’è il NT, ma il NT aiuta a capire quanto è ricco l’AT. Si illuminano a vicenda.
Qui si potrebbero aprire delle parentesi enormi e di grandissimo interesse – che, però, dobbiamo subito chiudere per ragioni di tempo - a livello di dialogo interreligioso, per esempio con l’ebraismo. Noi chiediamo solo di poter affermare che la nostra lettura è una lettura possibile. Quando i Profeti affermano che ci sarà un momento nel quale tutti i popoli conosceranno la legge di Dio, la legge data ad Israele, noi cristiani crediamo che veramente Dio ha dato i Dieci comandamenti ad Israele – e noi studiamo lungamente ogni particolare del testo ebraico dei comandamenti e tutti i bambini del catechismo studiano i Dieci comandamenti – ma crediamo insieme che, nella venuta di Gesù e attraverso l’opera della Chiesa, Dio ha compiuto la sua promessa che la sua Legge sarebbe divenuta legge per tutti i popoli.

Ma noi cristiani non perdiamo mai l’amore a questo testo, a questa Bibbia così come è stata scritta, all’Antico Testamento, nella sua letteralità. E’ veramente la Parola di Dio. E qui si palesa la differenza del dialogo cristiano-ebraico rispetto al dialogo cristiano-islamico. L’Islam riprende alcuni personaggi della Bibbia – circa una ventina, gli altri sono ignorati – ma rifiuta il fatto che Dio abbia ispirato la Bibbia. Nell’Islam troviamo Abramo, ma anche l’affermazione che ciò che si dice nella Bibbia di Abramo non corrisponde a verità. Non solo la Bibbia non è interessante, per la concezione islamica, ma, soprattutto, è menzognera. La vera storia di Abramo è quella scritta nel Corano. Abramo, Mosè, Giovanni Battista, Maria sono sì personaggi ricordati nel Corano, ma hanno una identità diversa da quella biblica. Innanzitutto non sono ebrei, per la visione coranica. Sono semplicemente “credenti”. Soprattutto è la loro storia ad essere diversa. Il caso più clamoroso – lo sapete – è proprio quello di Gesù, che è considerato un profeta, ma, secondo l’Islam, non è mai morto in croce. La morte in croce è una invenzione dei cristiani; Gesù è asceso in cielo, assunto da Dio, senza mai essere stato crocifisso. Ma non è solo il Gesù del Nuovo Testamento ad essere rifiutato. E’ tutta la storia della salvezza, così come è descritta nella Bibbia ed è la lettera dell’Antico Testamento che non è Parola di Dio.

Per noi cristiani, invece, la Scrittura non si può cambiare. La si interpreta a partire da Cristo, ha delle potenzialità che si manifestano nella loro verità solo quando arriva Cristo, ma il testo è veramente ed oggettivamente quello degli ebrei. Dio ha rivelato la sua Parola nell’ANtico Testamento e Lui è l’autore del testo che noi abbiamo ricevuto dal popolo ebraico e che il popolo ebraico custodisce. Non se ne può aggiungere, né togliere “un apice o uno iota”, come ha insegnato Gesù. La Bibbia allora è una base del dialogo fra ebrei e cristiani – almeno nella sua prima parte, quella che noi chiamiamo Antico Testamento. La Bibbia non è, invece, una base di dialogo accettata dall’Islam, perché gli islamici non la leggono, non la conoscono e non la amano.

Il Nuovo Testamento

Vediamo ora alcune affermazioni del V capitolo della DV:

I quattro Vangeli sono di origine apostolica.

Questa affermazione è importantissima. Secondo la tradizione noi usiamo definire i vangeli chiamandoli: “secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni”. Questo “secondo” in greco si dice “katà”. E’ un’espressione antichissima di difficile traduzione. Si potrebbe rendere con “secondo lo stile di”, “alla maniera di”. Noi abbiamo sempre la stessa storia di Gesù, ma “secondo uno stile”, con delle peculiarità proprie di uno o di un altro degli evangelisti. Una persona si ricorda delle cose, un’altra se ne ricorda altre. La Dei Verbum non prende posizione su chi siano gli autori storici dei vangeli. Matteo è l’apostolo Matteo o non è lui? La DV non risponde a questo quesito e lo lascia agli esperti. Se uno sostiene che il vangelo di Matteo non l’ha scritto l’apostolo Matteo non è un eretico. Si può sostenere che gli effettivi autori dei vangeli non siano coloro dei quali la tradizione ci ricorda i nomi. Non è fuori dalla Chiesa chi volesse sostenere questo. Quello che la DV impegna a credere è che, chiunque sia l’autore di ogni vangelo, tutti i vangeli sono “di origine apostolica”. La Chiesa tiene a questo, la Chiesa chiede di credere questo. E’ la sua fede e la sua convinzione. Se anche non sono stati scritti dagli apostoli, sono stati scritti in comunità presiedute da apostoli che hanno conosciuto questo processo di scrittura, ne sono stati all’origine e ne sono stati garanti. Ciò che è scritto nei vangeli è veramente ciò che gli apostoli hanno garantito. I vangeli sono lo specchio della predicazione apostolica, anche se non li avessero scritti gli apostoli personalmente.

Se voi prendete la finale del vangelo di Giovanni, abbiamo un esempio chiarissimo: Gv 21,24. Questo versetto dice: “Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera”. Ma chi sono questi “noi”, se il vangelo lo ha scritto solo Giovanni? Se troviamo scritto: “Io, don Andrea, scrivo la storia della parrocchia di S.Melania e noi sappiamo che quello che ha scritto don Andrea è vero”, chi ha scritto questo? E’ chiaro che c’è stato un intervento di qualcun’altro. Evidentemente questo versetto l’ha scritto qualcuno che non era Giovanni. Si può discutere su chi sia l’autore dell’intero vangelo di Giovanni, ma questo versetto non è sicuramente di Giovanni. La cosa importante è che la Chiesa crede che anche questo versetto è di origine apostolica. Giovanni o gli altri apostoli erano contenti che questo versetto fosse inserito nel vangelo di Giovanni. Essi, guidando le prime comunità ed insegnando loro, hanno fatto sì che esse recepissero il loro insegnamento e lo trasmettessero ancora. Un secondo esempio: sapete che il vangelo di Marco ha varie finali. Nella tradizione manoscritta, nei differenti Codici che ci sono arrivati, incontriamo almeno tre finali diverse. A noi non fa problema. Noi sappiamo che la finale che sta nella Bibbia canonica, nella Bibbia stabilita infine dal Concilio di Trento, è di origine apostolica. Secondo me non l’ha scritta Marco ma un’altro autore, ma questo non è un problema. Quello che la Chiesa non può accettare è che qualcuno dica che la finale di Marco non l’abbia scritta qualcuno che non era interno alla cerchia dell’obbedienza agli Apostoli e che non rispecchi l’insegnamento degli apostoli. Insomma, anche la finale canonica di Marco, Mc16,9-20, è “di origine apostolica”, anche se non sappiamo con precisione chi l’abbia scritta.

La formazione dei vangeli

Ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.

Ed, ancora, al paragrafo 19:

La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2).

L’inciso di cui afferma senza esitazione la storicità è stato espressamente voluta da Paolo VI. Fa capire dove questo testo vuole arrivare. Il testo vuole dire che i vangeli sono, proprio perché di origine apostolica, un documento serio, una fonte storica seria per conoscere la vita di Gesù Cristo e la sua identità. Tre passaggi sono particolarmente importanti in questo paragrafo: si parla innanzitutto di Gesù Figlio di Dio, poi degli Apostoli, poi degli Ascoltatori che divennero Autori sacri. All’interno degli ascoltatori ci sono gli agiografi o autori sacri.

Questo testo vuol dire che il NT nasce da un triplice passaggio. Gesù non ha mai scritto il NT. Gesù non è uno scrittore, non ha mai scritto niente. Lui ha chiamato gli Apostoli, ha vissuto con loro, ha insegnato, ha compiuto miracoli dinanzi a loro, per loro, con loro. E’ stato tradito, è morto, è resuscitato, ha donato lo Spirito.

Secondo passaggio: gli Apostoli hanno predicato ciò che Gesù effettivamente ha operato e insegnato. Essi sono stati testimoni fino al giorno della sua assunzione al cielo ed hanno raccontato secondo verità ciò di cui sono stati testimoni.

Terzo passaggio: gli autori sacri ci presentano con verità ciò che gli apostoli hanno testimoniato di Gesù. Per i libri neotestamentari che sono direttamente opera di apostoli questo va da sé, dato il passaggio precedente. Per gli autori sacri che non sono stati testimoni diretti di Gesù, ma sono stati ascoltatori degli apostoli, la DV afferma la loro veridicità. Hanno ascoltato, hanno rispettato ciò che gli apostoli hanno detto, perché lo avevano ricevuto dal Signore e non poteva essere alterato.

Questo triplice passaggio, che ci fa vedere quanto breve e verificabile sia il tempo che intercorre tra Gesù e gli autori sacri, è descritto in maniera esplicita in Lc 1,1-4. Luca è l’unico evangelista che ci spiega come ha scritto il vangelo:

Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.

Qui Luca presenta se stesso. Dice che ci sono tanti che hanno scritto su Gesù – questo “tanti” non va interpretato, secondo molti esegeti, alla lettera, ma vuol dire piuttosto “alcuni”. Luca, volendo essere sicuro e volendo che anche Teofilo fosse sicuro (non sappiamo se qui Teofilo sia un nome proprio o un modo generico per parlare a tutti i cristiani, “amici di Dio”, poiché questo significa letteralmente Teofilo, “amico di Dio”) di quello che realmente è avvenuto ha fatto ricerche per stendere un resoconto ordinato dei fatti.

Ha fatto ricerche presso coloro che furono testimoni dei fatti e sono divenuti testimoni della parola. Luca rappresenta il terzo passaggio che abbiamo visto: è un autore sacro. Si è rivolto a coloro che hanno vissuto con Gesù , a coloro che lo hanno predicato, dopo averne ricevuto mandato dallo stesso Gesù. E’ il secondo passaggio, quello degli apostoli.

Gli apostoli, a loro volta, hanno riferito su Gesù, essendone stati veri testimoni. Essi hanno visto, udito, toccato il Signore. Eccoci all’origine, al primo passaggio che ci fa risalire dagli apostoli a Gesù stesso. E’ per questo che Teofilo può essere sicuro di ciò che ha ricevuto e crede.

La Chiesa afferma che in tutto questo procedimento è garantita l’origine apostolica. Può anche darsi che Luca non abbia mai visto Gesù, ma questo non è un problema, perché Luca è un ascoltatore degli Apostoli che potevano intervenire a garanzia della corrispondenza tra quello che veniva scritto e quello che Gesù aveva detto.

Cosa hanno fatto, allora, gli autori sacri, come veri autori dei vangeli?

Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose.

Prima affermazione interessante: rintracciamo il loro stile proprio nel fatto che scrivendo un racconto non hanno potuto scrivere tutto, ma ognuno ha scelto e scritto solo qualcosa. Nella catechesi provate a fare una prova con i bambini: raccontate una cosa e fate fare un riassunto e poi leggete tutti i riassunti. Vedrete che ognuno ricorda dei particolari che gli altri hanno trascurato, perché hanno scelto di raccontare quella cosa che li ha più colpiti piuttosto che un altra. Ogni racconto è un vero racconto di quella cosa, ma i particolari scelti dipendono dalla prospettiva, dal punto di vista. Nessuno può raccontare tutto, interamente, tanto più quando la storia ha la ricchezza infinita della persona di Gesù. poi c’è lo Spirito Santo che lo ispira.

Seconda cosa: gli autori sacri hanno fatto un riassunto.

Redigendo un riassunto

Nei Vangeli noi non troviamo un libro di storia, una cronaca che ci descrive ora per ora. Il riassunto è a volte molto compresso. Facciamo un esempio: nei vangeli di Luca, Matteo e Marco, Gesù va a Gerusalemme solo una volta. Se uno leggesse solo il vangelo di Marco potrebbe dedurre che Gesù è stato una volta sola a Gerusalemme. Il vangelo di Giovanni, però, ci racconta di tre Pasque di Gesù a Gerusalemme - i famosi trentatre anni di Gesù che vanno considerati approssimativi sono il risultato della somma dell’età nella quale Gesù inizia la sua vita pubblica, secondo Luca circa all’età di trent’anni, più i tre anni nei quali si reca a Gerusalemme, secondo il vangelo di Giovanni. Questo fatto ci mostra che i vangeli riassumono. I sinottici hanno riassunto la vita di Gesù, non raccontandoci le altre sue “salite” a Gerusalemme. Può darsi che Gesù sia stato quattro volte a Gerusalemme e questo non sia stato raccontato.

Spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese.

Questo è un altro aspetto interessantissimo. Gli autori sacri non hanno scritto in astratto, ma hanno cercato di presentare il volto di Gesù in modo che fosse comprensibile ai loro ascoltatori, che erano diversi per ogni evangelista. Faccio un esempio: le parole di Gesù sul divorzio.
Ai tempi di Gesù tutti potevano divorziare, ma solo i maschi, non le donne. L’inventore dell’indissolubilità del matrimonio è veramente Gesù! Può piacere o non piacere, ma non è la Chiesa che si è inventata l’indissolubilità del matrimonio, ma è una decisione che ha un motivo teologico, che ha origine in Gesù e nella sua esplicita parola.
Gesù dice, ad esempio in Mt 5,31-32:

Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

Però, come spiegavo, nella società nella quale viveva Gesù, era solo l’uomo che poteva divorziare. Se voi guardate bene, vi accorgete che, in Matteo, si parla solo della donna ripudiata, perché l’uomo non può essere ripudiato. I rabbini dei tempi di Gesù discutevano sui motivi per i quali si poteva divorziare; cercavano di interpretare il passo del Deuteronomio dove si dice che si può ripudiare la donna se la si trova a commettere una “cosa riprovevole”. Ma cos’è una “cosa riprovevole”? I rabbini rigoristi, come Hillel, sostenevano che il divorzio è ammesso se si trova la propria moglie con un altro uomo, in flagrante adulterio. I rabbini lassisti, come Shammai, dicevano invece che è sufficiente che la moglie bruci l’arrosto. Bruciare l’arrosto, non saper cucinare è una “cosa riprovevole”. Gesù parla chiaramente, invece, dell’impossibilità morale di ripudiare la moglie.

Marco scrive il vangelo probabilmente a Roma o comunque in un ambiente latino e nel suo vangelo troviamo Gesù che dice in Mc10,112:
 
Se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio.

Gesù questa frase non l’ha mai detta. Marco ha capito - è già la tradizione che interpreta, guidata dallo Spirito, le parole di Gesù - che Gesù teneva all’amore fedele tra uomo e donna, e siccome, nell’ambiente marciano anche le donne potevano divorziare, Marco attira l’attenzione sul fatto che il divieto del divorzio non vale solo per gli uomini, ma anche per le donne. Marco ha capito in profondità il discorso di Gesù e l’ha insegnato “con riguardo alla situazione delle chiese”. Nel Vangelo noi non troviamo così sempre esattamente le parole di Gesù, ma parole che sono fedele interpretazione delle sue parole. Il lavoro che la Chiesa primitiva ha fatto è stato quello di comprendere ed applicare l’annuncio di Gesù nelle varie situazioni delle persone che pian piano diventavano cristiane e delle loro comunità.

Conservando infine il carattere di predicazione.

I Vangeli non sono una cronaca. Se io devo scrivere un articolo su di una rivista di storia devo mettere le note, debbo citare le fonti, passaggio per passaggio. I Vangeli hanno il carattere della predicazione. In alcuni momenti l’autore, per opera dello Spirito Santo, annunzia una cosa e non si preoccupa della precisione di tutti i particolari. Un esempio classico: Gesù in un vangelo a Gerico guarisce un cieco, in un altro ne guarisce due. Quanti erano in realtà? Non lo sappiamo. Da questo punto di vista chi critica i vangeli ha ragione. Ma noi sappiamo benissimo che all’evangelista interessava dire che nel guarire dalla cecità Gesù annunziava che lui era la luce del mondo. I criteri di storicità ci aiutano, li vedremo poi se ci sarà tempo, a vedere come comportarci nella ricostruzione storica in casi come questi.

Quando noi risaliamo da ciò che dice l’autore sacro a ciò che diceva Gesù facciamo un lavoro complesso. Non dobbiamo prendere per oro colato ogni singola parola che viene detta nei vangeli, come fosse cronaca. Per fare un lavoro storico dobbiamo lavorare un po’ di più. Per alcune cose arriveremo ad una conclusione, per altre potremmo anche restare incerti. Ma non ci dobbiamo scandalizzare. Gli autori volevano annunziare ed i vangeli conservano sempre il carattere di predicazione, pur basandosi, nella loro origine apostolica sul fondamento storico della persona di Gesù e della sua reale esistenza storica.

Sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere.

Detto tutto questo però la DV ci tiene a dire che in sostanza i vangeli, proprio per questa vicinanza e questa autorità degli Apostoli, realmente ci trasmettono tutto l’essenziale della storia di Gesù. E’ importante sapere che i generi letterari: poesia, profezia, storia, valgono anche nel NT. Per esempio i primi due capitoli di Matteo e Luca non sono esattamente storici come il resto del vangelo. Alcune persone hanno dei dubbi storici su alcuni episodi di questi capitoli e questo non ci deve scandalizzare. Gli autori in questi brani hanno fatto una rilettura sapienziale di alcuni brani dell’AT. Non è importante allora verificare, ad esempio, qual è il percorso della stella cometa. Quando invece si dice che Gesù fu giudicato sotto Ponzio Pilato, fu accusato di dirsi Figlio di Dio e lui rispose: “Lo sono”, lì veramente troviamo la consapevolezza propria del Gesù storico.

Cenni di cronologia neotestamentaria
Siamo al termine dei nostri tre incontri sulla teologia fondamentale. Vi ho preparato due schede che leggerete con calma. Mi posso limitare solo ad alcuni accenni sulle problematiche che affrontano, di grande importanza. Per darvi ulteriori elementi sulla storicità dei vangeli, vi presento in una scheda alcuni dati sulla cronologia del Nuovo Testamento, perché vi possiate rendere conto di quanto i testi che possediamo siano vicini agli eventi che ci narrano. Nella seconda scheda vi presento in forma sintetica le conclusioni degli studi di p.R.Latourelle sui criteri che ci aiutano a verificare la storicità dei fatti narrati sulla vita di Gesù Cristo.

Innanzitutto due cenni sulla cronologia. Ho fatto un elenco di alcune date abbastanza sicure del NT. Sapete che Gesù è nato sotto l’imperatore Ottaviano Augusto ed è morto sotto Tiberio. Ponzio Pilato è un governatore di Tiberio. Probabilmente Gesù è nato tra il 6 ed il 4 a.C. Il nostro anno zero, a partire dal quale contiamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo” è una data approssimativa, per l’errore compiuto da Dionigi il piccolo (VI secolo d,C.) che ha commesso alcuni errori di calcolo nella cronologia che è divenuta poi quella usuale. Infatti sappiamo con certezza che Erode il Grande è morto il 4 a.C. e, poiché Gesù è nato sotto il suo regno, deve essere nato qualche anno prima della morte di Erode il Grande. Erode è detto “il Grande” – ci sono altri due Erode nella storia neotestamentaria - per la grandiosità delle costruzioni da lui realizzate. La grande spianata del Tempio di Gerusalemme l’ha fatta costruire lui ed è stato autore anche del completo rifacimento del Tempio stesso, che non possiamo più vedere perché è stato distrutto dai romani. Recandoci, però, al cosiddetto “Muro del pianto” vediamo che le pietre alla base sono ancora quelle erodiane e comprendiamo la magnificenza che doveva avere questo edificio.

Di Giovanni Battista ci parlano non solo i vangeli, ma anche altre fonti ebraiche. Flavio Giuseppe ci racconta la storia di Giovanni con particolari non raccontati dai vangeli. Di sicuro la predicazione di Giovanni Battista si svolge tra il 27 ed il 29 d.C. Vi consiglio in bibliografia uno splendido testo del prof. Romano Penna, che presenta ed analizza tutti i testi su Gesù e le informazioni che conosciamo sull’ambiente del tempo, che possiamo desumere da fonti non cristiane.

Intorno al 30 - non possediamo, però, la data precisa - Gesù viene ucciso. Sappiamo con certezza che la sua morte avviene sotto Ponzio Pilato, che è stato governatore della Giudea dal 26 al 36 d.C. Pensate che nel Credo, quando diciamo “patì sotto Ponzio Pilato” parliamo di un pagano, di un romano, nel dire la nostra fede, proprio a significare la concretezza storica della fede cristiana.
E’ una cosa straordinaria del cristianesimo.

Gesù viene ucciso per volontà del Sinedrio perché si fa Figlio di Dio. La critica sta facendo giustizia di tutte quelle interpretazioni che sono andate di moda per qualche decennio che affermavano che Gesù era stato ucciso perché era un rivoluzionario politico, perché stava dalla parte dei poveri, perché il potere politico aveva paura di lui e di una possibile sollevazione popolare al suo seguito. Quello che non si sopportava, piuttosto, era il suo vivere, parlare e comportarsi come l’interprete autentico della volontà di Dio. Pertanto, la condanna di Gesù è veramente una decisione dei capi del Sinedrio. Pilato – il politico che difende gli interessi di Roma – pur accorgendosi che nessun problema politico gli deriverebbe dal messaggio di quell’uomo, pur volendo per questo salvarlo a norma del diritto, decide di condannarlo perché il malcontento provocato dalla non ottemperanza ad una richiesta del Sinedrio – questo sì – avrebbe creato moti popolari. L’appello a Pilato è comprensibile secondo lo speciale statuto giuridico del Sinedrio di allora, che aveva sì autonomia sulle questioni religiose della popolazione ebraica, ma non poteva condannare nessuno a morte, senza l’autorizzazione del potere romano che si incaricava dell’esecuzione di queste sentenze.

In molti film vediamo, in maniera non storica, i romani cattivissimi, una sorta di SS ante litteram. Questo non è vero. Pilato non era uno stinco di santo – ne abbiamo notizia da altri brani del NT e da fonti extra bibliche – ma, globalmente, lo stile romano era quello di governare attraverso il diritto. Siccome tragicamente in passato talvolta i cristiani hanno accusato gli ebrei tout court della morte di Cristo e questo è stato motivo di odio anti-ebraico, ora si dà la colpa di tutto ai romani, per evitare quei sentimenti. Il vero modo di non attribuire la responsabilità della morte di Gesù al popolo ebraico, non sta nell’attribuirne la colpa ai romani, ma piuttosto, nel vedere come non sia stato il popolo a volere questo, ma solamente il Sinedrio, e, soprattutto, nel comprendere che Cristo è morto per il peccato di tutti gli uomini, per il nostro peccato e non solo per il peccato di chi lo ha condannato in quel momento.

Un’altra data importante è il 40 d.C. In quell’anno muore il re Areta IV, re nabateo che aveva la capitale a Petra. Probabilmente – c’è discussione fra gli storici – almeno uno dei famosi templi di divinità nabatee di Petra è stato scolpito nella roccia per ordine di Areta IV. Poiché S.Paolo fugge da Damasco prima che muoia Areta, prima del 40, la sua conversione è da porsi negli anni precedenti, probabilmente intorno al 36 d.C.

Funge da riferimento cronologico per noi anche un altro importantissimo evento di cui ci è testimone Svetonio, nelle Vite dei Dodici Cesari. Sotto l’imperatore Claudio - questo è un dato straordinario - già i cristiani a Roma fanno discutere. Svetonio scrive, infatti, che a Roma si litigava nelle sinagoghe “a motivo di uno che spingeva alla tensione di nome Cresto” – “impulsore Chresto” dice il testo delle Vite dei Cesari. Per il fenomeno linguistico dello iotacismo – l’interscambio dei suoni “e” ed “i” – la maggioranza degli studiosi ritiene, credo a ragione, che Chresto sia Cristo. Svetonio, non conoscendo precisamente la storia di Cristo, scambia l’annuncio degli evangelizzatori cristiani nel nome di Cristo con la presenza viva dello stesso Cristo e attribuisce a lui la tensione che si avverte a Roma negli ambienti giudaici. Siamo solo nell’anno 41 e già il nome di Cristo è ben conosciuto a Roma nelle sinagoghe alle quali si rivolgevano i primi cristiani. La discussione è talmente grande che l’imperatore Claudio decide – ci dice Svetonio - di espellere gli ebrei da Roma. Probabilmente non si deve intendere questa espulsione come un fatto generalizzato, ma come un intervento verso alcune persone. Negli Atti degli Apostoli troviamo un riferimento a questa espulsione nella vicenda di Aquila e Priscilla, compagni di evangelizzazione di Paolo, che furono cacciati da Roma sotto Claudio, appunto.

Un’altra data certa – e decisiva per la cronologia paolina - è il proconsolato di Gallione in Acaia precisamente a Corinto. Gallione è il fratello del filosofo Seneca, a sua volta consigliere di Nerone, fino al suo ripudio, da parte dell’imperatore che decreterà la sua morte. Gallione è in Acaia tra il 50 ed il 52 d.C. – possediamo delle fonti epigrafiche in merito. Siccome S.Paolo scrive la I lettera ai Tessalonicesi prima dell’incontro con Gallione – la scrive da Atene, subito prima di giungere a Corinto, dove sarà condotto innanzi a Galiione - siamo certi che questa lettera è stata scritta prima della fine del 52, data dopo la quale non avrebbe più potuto incontrare il proconsole. Possiamo così dire che, probabilmente, la 1Tes è il più antico scritto del cristianesimo che ci sia pervenuto integralmente.

Un altra data importantissima per la cronologia neotestamentaria è il 70, quando Gerusalemme viene distrutta da Tito, figlio di Vespasiano. Tito dà alle fiamme anche il Tempio che, da quel momento ad oggi, non sarà più in attività. E’ l’inizio del giudaismo, di una nuova fase della storia dell’ebraismo. Pensate che fino al 70 d.C. a Gerusalemme c’erano ancora i sacrifici degli animali. Le guide riconosciute del popolo non erano i rabbini, ma i sacerdoti, coloro che erano i custodi del Tempio e celebravano i sacrifici. I testi del Nuovo Testamento nei quali si parla della distruzione di Gerusalemme come di un evento già accaduto – pensiamo al vangelo di Luca – hanno avuto la loro redazione finale dopo il 70. Si ipotizza per Luca una data negli anni 80-85. I testi che, invece, ci descrivono il Tempio ancora in attività – ad esempio, la lettera agli Ebrei che fa continuo riferimento alla liturgia cultuale ed ai sacerdoti che officiano nel Tempio di Gerusalemme – sono, invece, certamente anteriori all’anno 70.

Cenni sui criteri di storicità dei vangeli

Veniamo, in maniera ancora più sintetica, perché non abbiamo più tempo, alla scheda che vi ho dato sui criteri di storicità che possiamo usare per valutare l’attendibilità dei vangeli.
Come vi dicevo, mi rifaccio, in particolare alla sintesi del prof. R.Latourelle. Trovate una spiegazione molto più esauriente nell’articolo dello stesso professore che è on-line sul nostro sito, nella sezione Approfondimenti. Potete leggere anche l’articolo del prof. G.Manicardi, anch’esso in bibliografia, per gli studi successivi a quelli di Latourelle.
Gli storici, dunque, hanno elaborato quattro criteri di storicità più significativi. Essi vanno usati in maniera convergente. Dove è possibile verificarli tutti e quattro, il grado di attendibilità storica di un fatto o di un’espressione di Gesù è altissimo.

Il primo criterio è il criterio di molteplice attestazione: se troviamo raccontato un fatto od una parola della vita di Gesù in vari testi indipendenti tra loro il testo deve essere considerato storico. La specificazione che i vari testi debbono essere indipendenti tra loro dipende dal fatto che sappiamo che i tre vangeli sinottici si conoscono l’un l’altro. Se troviamo, allora, attestato lo stesso fatto in Marco e Luca non possiamo applicare questo criterio, perché i testi dipendono l’uno dell’altro. Ma se troviamo lo stesso fatto nei sinottici, in Giovanni e nelle lettere paoline – testi che sono indipendenti l’uno dall’altro – allora possiamo applicare questo criterio.

Il secondo criterio è quello di discontinuità: ci sono cose che sono così nuove rispetto all’ebraismo del tempo ed al mondo ellenistico di allora che questi fatti sono allora propri di Gesù. Pensate a quando Gesù dice: “Questo è il mio sangue”. E’ un’affermazione scandalosa per l’ebraismo di allora. Il sangue non si può dare agli altri; il sangue, essendo la vita stessa, rende impuro chi viene a contatto con esso. Il sangue è intoccabile. Ecco una parola certa di Gesù, la parola dell’istituzione dell’eucarestia. Possiamo applicare ad essa il criterio di discontinuità ed, insieme, quello di molteplice attestazione, perché troviamo l’istituzione dell’eucarestia nei sinottici ed in Paolo, oltre che indirettamente, in Giovanni.

Il terzo criterio è quello di continuità: un fatto, una parola, pur essendo propria di Gesù deve essere inserita nel contesto del suo tempo. Se trovassimo un versetto che ci parla di un computer, sarebbe chiaramente un testo scritto ai nostri giorni. Questo criterio è così legato al precedente. Noi vediamo che, proprio perché il sangue esprime la vita stessa nel contesto ebraico di allora, Gesù può riprendere questa espressione conferendole un suo significato proprio.

Il quarto criterio è quello della spiegazione necessaria: alcuni fatti raccontati dai vangeli sono necessari per motivare fatti successivi dei quali siamo certi. La cancellazione della realtà di questi fatti renderebbe incomprensibile lo svolgersi successivo degli eventi. Come è possibile che delle persone che non credevano alla resurrezione, che si allontanano piangendo da Gerusalemme, che vanno a piangere Gesù morto, che sono chiusi in casa per paura delle persone ostili a Gesù, vadano a farsi uccidere, se Gesù è solo un cadavere? C’è un elemento che è necessario a questa trasformazione: l’evento delle apparizioni.

Esistono poi dei criteri derivati che sono lo stile di Gesù, l’intelligibilità interna del racconto, l’interpretazione diversa in un accordo di fondo, ma di questo non abbiamo più tempo di parlare. Approfondite tutto questo con la lettura della breve scheda e, soprattutto, con gli articoli che vi ho consigliato.

“L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”.

Voglio concludere con una bellissima e fortissima espressione della DV che, citando S.Girolamo, dice, al paragrafo 25, per raccomandare la lettura delle Scritture a tutti i cristiani ed, in particolare, a chi ha un ministero di annuncio e di catechesi: “L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Se Cristo è ben più delle Scritture, le Scritture sono via indispensabile per arrivare a Lui. Chi non le ama, non le scruta, non le conosce, non le prega, non le ascolta, non arriva a Gesù. Amate la Scrittura ed insegnate ad amarla. Attraverso la catechesi fate che ogni persona sia abbondantemente nutrita con il cibo solido della Parola di Dio, fate che sia nutrito della Scrittura e della viva Tradizione della Chiesa, fate che non abbia cibi contraffatti o impoveriti, ma si nutra di tutta la ricchezza della Parola di Dio, per possedere Cristo stesso, la Parola del Padre.

I appendice
Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione del Concilio Vaticano II, 18 novembre 1965

N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nel corso di formazione per i catechisti

PROEMIO

1. In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3). Perciò seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami.

CAPITOLO I
LA RIVELAZIONE

Natura e oggetto della Rivelazione
2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona (Seipsum revelare) e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione.

Preparazione della Rivelazione evangelica
3. Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.

Cristo completa la Rivelazione
4. Dopo aver a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini », « parla le parole di Dio » (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).

Accogliere la Rivelazione con fede
5. A Dio che rivela è dovuta «l'obbedienza della fede» (Rm 16,26; cfr. Rm 1,5; 2 Cor 10,5-6), con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli «il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa. Perché si possa prestare questa fede, sono necessari la grazia di Dio che previene e soccorre e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi dello spirito e dia «a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità». Affinché poi l' intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo stesso Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni.

Le verità rivelate
6. Con la divina Rivelazione Dio volle manifestare e comunicare se stesso e i decreti eterni della sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, «per renderli cioè partecipi di quei beni divini, che trascendono la comprensione della mente umana». Il santo Concilio professa che «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell'umana ragione a partire dalle cose create» (cfr. Rm 1,20); ma insegna anche che è merito della Rivelazione divina se «tutto ciò che nelle cose divine non è di per sé inaccessibile alla umana ragione, può, anche nel presente stato del genere umano, essere conosciuto da tutti facilmente, con ferma certezza e senza mescolanza d'errore».

CAPITOLO II
LA TRASMISSIONE DELLA DIVINA RIVELAZIONE

Gli apostoli e i loro successori, missionari del Vangelo
7. Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio posto di maestri». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).

La sacra tradizione
8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.
Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).

Relazioni tra la Scrittura e la Tradizione
9. La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio (Verbum Dei) affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza.

Relazioni della Tradizione e della Scrittura con tutta la chiesa e con il magistero
10. La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa; nell'adesione ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera assiduamente nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle orazioni (cfr. At 2,42 gr.), in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si stabilisca tra pastori e fedeli una singolare unità di spirito.
L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio.
È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime.

CAPITOLO III
L'ISPIRAZIONE DIVINA
E L'INTERPRETAZIONE DELLA SACRA SCRITTURA

Ispirazione e verità della Scrittura
11. Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte.
Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture. Pertanto «ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona» (2Tim 3,16-17).

Come deve essere interpretata la sacra Scrittura
12. Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.
Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.
Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede. È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio.

La «condiscendenza» della Sapienza divina
13. Nella sacra Scrittura dunque, restando sempre intatta la verità e la santità di Dio, si manifesta l'ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza, «affinché possiamo apprendere l'ineffabile benignità di Dio e a qual punto egli, sollecito e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia adattato il suo parlare». Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo.

CAPITOLO IV
IL VECCHIO TESTAMENTO

La storia della salvezza nei libri del Vecchio Testamento
14. Iddio, progettando e preparando nella sollecitudine del suo grande amore la salvezza del genere umano, si scelse con singolare disegno un popolo al quale affidare le promesse. Infatti, mediante l'alleanza stretta con Abramo (cfr. Gn 15,18), e per mezzo di Mosè col popolo d'Israele (cfr. Es 24,8), egli si rivelò, in parole e in atti, al popolo che così s'era acquistato come l'unico Dio vivo e vero, in modo tale che Israele sperimentasse quale fosse il piano di Dio con gli uomini e, parlando Dio stesso per bocca dei profeti, lo comprendesse con sempre maggiore profondità e chiarezza e lo facesse conoscere con maggiore ampiezza alle genti (cfr. Sal 21,28-29; 95,1-3; Is 2,1-4; Ger 3,17). L'economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori, si trova in qualità di vera parola di Dio nei libri del Vecchio Testamento; perciò questi libri divinamente ispirati conservano valore perenne: « Quanto fu scritto, lo è stato per nostro ammaestramento, affinché mediante quella pazienza e quel conforto che vengono dalle Scritture possiamo ottenere la speranza » (Rm 15,4).

Importanza del Vecchio Testamento per i cristiani
15. L'economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare profeticamente (cfr. Lc 24,44; Gv 5,39; 1 Pt 1,10) e a significare con diverse figure (cfr. 1 Cor 10,11) l'avvento di Cristo redentore dell'universo e del regno messianico. I libri poi del Vecchio Testamento, tenuto conto della condizione del genere umano prima dei tempi della salvezza instaurata da Cristo, manifestano a tutti chi è Dio e chi è l'uomo e il modo con cui Dio giusto e misericordioso agisce con gli uomini. Questi libri, sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina. Quindi i cristiani devono ricevere con devozione questi libri: in essi si esprime un vivo senso di Dio; in essi sono racchiusi sublimi insegnamenti su Dio, una sapienza salutare per la vita dell'uomo e mirabili tesori di preghiere; in essi infine è nascosto il mistero della nostra salvezza.

Unità dei due Testamenti
16. Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nel Vecchio e il Vecchio fosse svelato nel Nuovo. Poiché, anche se Cristo ha fondato la Nuova Alleanza nel sangue suo (cfr. Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano.

CAPITOLO V
IL NUOVO TESTAMENTO

Eccellenza del Nuovo Testamento
17. La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede (cfr. Rm 1,16), si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del Nuovo Testamento. Quando infatti venne la pienezza dei tempi (cfr. Gal 4,4), il Verbo si fece carne ed abitò tra noi pieno di grazia e di verità (cfr. Gv 1,14). Cristo stabilì il regno di Dio sulla terra, manifestò con opere e parole il Padre suo e se stesso e portò a compimento l'opera sua con la morte, la risurrezione e la gloriosa ascensione, nonché con l'invio dello Spirito Santo. Elevato da terra, attira tutti a sé (cfr. Gv 12,32 gr.), lui che solo ha parole di vita eterna (cfr. Gv 6,68). Ma questo mistero non fu palesato alle altre generazioni, come adesso è stato svelato ai santi apostoli suoi e ai profeti nello Spirito Santo (cfr. Ef 3,4-6, gr.), affinché predicassero l'Evangelo, suscitassero la fede in Gesù Cristo Signore e radunassero la Chiesa. Di tutto ciò gli scritti del Nuovo Testamento presentano una testimonianza perenne e divina.

Origine apostolica dei Vangeli
18. A nessuno sfugge che tra tutte le Scritture, anche quelle del Nuovo Testamento, i Vangeli possiedono una superiorità meritata, in quanto costituiscono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore. La Chiesa ha sempre e in ogni luogo ritenuto e ritiene che i quattro Vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, in seguito, per ispirazione dello Spirito Santo, fu dagli stessi e da uomini della loro cerchia tramandato in scritti che sono il fondamento della fede, cioè l'Evangelo quadriforme secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.

Carattere storico dei Vangeli
19. La santa madre Chiesa ha ritenuto e ritiene con fermezza e con la più grande costanza che i quattro suindicati Vangeli, di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente operò e insegnò per la loro eterna salvezza, fino al giorno in cui fu assunto in cielo (cfr At 1,1-2). Gli apostoli poi, dopo l'Ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza delle cose, di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dallo Spirito di verità, godevano. E gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o già per iscritto, redigendo un riassunto di altre, o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, conservando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferire su Gesù cose vere e sincere. Essi infatti, attingendo sia ai propri ricordi sia alla testimonianza di coloro i quali «fin dal principio furono testimoni oculari e ministri della parola», scrissero con l'intenzione di farci conoscere la «verità» (cfr. Lc 1,2-4) degli insegnamenti che abbiamo ricevuto.

Gli altri scritti del Nuovo Testamento
20. Il canone del Nuovo Testamento, oltre i quattro Vangeli, contiene anche le lettere di san Paolo ed altri scritti apostolici, composti per ispirazione dello Spirito Santo; questi scritti, per sapiente disposizione di Dio, confermano tutto ciò che riguarda Cristo Signore, spiegano ulteriormente la sua dottrina autentica, fanno conoscere la potenza salvifica dell'opera divina di Cristo, narrano gli inizi della Chiesa e la sua mirabile diffusione nel mondo e preannunziano la sua gloriosa consumazione. Il Signore Gesù, infatti, assisté i suoi apostoli come aveva promesso (cfr. Mt 28,20) e inviò loro lo Spirito consolatore, il quale doveva introdurli nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13).

CAPITOLO VI
LA SACRA SCRITTURA NELLA VITA DELLA CHIESA

Importanza della sacra Scrittura per la Chiesa
21. La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio» (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).

Necessità di traduzioni appropriate e corrette
22. È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l'antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri. Se, per una ragione di opportunità e col consenso dell'autorità della Chiesa, queste saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno essere usate da tutti i cristiani.

Impegno apostolico degli studiosi
23. La sposa del Verbo incarnato, la Chiesa, ammaestrata dallo Spirito Santo, si preoccupa di raggiungere una intelligenza sempre più profonda delle sacre Scritture, per poter nutrire di continuo i suoi figli con le divine parole; perciò a ragione favorisce anche lo studio dei santi Padri d'Oriente e d'Occidente e delle sacre liturgie. Gli esegeti cattolici poi, e gli altri cultori di sacra teologia, collaborando insieme con zelo, si adoperino affinché, sotto la vigilanza del sacro magistero, studino e spieghino con gli opportuni sussidi le divine Lettere, in modo che il più gran numero possibile di ministri della divina parola siano in grado di offrire con frutto al popolo di Dio l'alimento delle Scritture, che illumina la mente, corrobora le volontà e accende i cuori degli uomini all'amore di Dio. Il santo Concilio incoraggia i figli della Chiesa che coltivano le scienze bibliche, affinché, con energie sempre rinnovate, continuino fino in fondo il lavoro felicemente intrapreso con un ardore totale e secondo il senso della Chiesa.

Importanza della sacra Scrittura per la teologia
24. La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione; in essa vigorosamente si consolida e si ringiovanisce sempre, scrutando alla luce della fede ogni verità racchiusa nel mistero di Cristo. Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio, sia dunque lo studio delle sacre pagine come l'anima della sacra teologia. Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e ogni tipo di istruzione cristiana, nella quale l'omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, trova in questa stessa parola della Scrittura un sano nutrimento e un santo vigore.

Si raccomanda la lettura della sacra Scrittura
25. Perciò è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, conservino un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore della parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé», mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia. Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S.Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini». Compete ai vescovi, «depositari della dottrina apostolica», ammaestrare opportunamente i fedeli loro affidati sul retto uso dei libri divini, in modo particolare del Nuovo Testamento e in primo luogo dei Vangeli, grazie a traduzioni dei sacri testi; queste devono essere corredate delle note necessarie e veramente sufficienti, affinché i figli della Chiesa si familiarizzino con sicurezza e profitto con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito. Inoltre, siano preparate edizioni della sacra Scrittura fornite di idonee annotazioni, ad uso anche dei non cristiani e adattate alla loro situazione; sia i pastori d'anime, sia i cristiani di qualsiasi stato avranno cura di diffonderle con zelo e prudenza.

Conclusione
26. In tal modo dunque, con la lettura e lo studio dei sacri libri «la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata» (2 Ts 3,1), e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini. Come dall'assidua frequenza del mistero eucaristico si accresce la vita della Chiesa, così è lecito sperare nuovo impulso alla vita spirituale dall'accresciuta venerazione per la parola di Dio, che «permane in eterno» (Is 40,8; cfr. 1 Pt 1,23-25).
18 novembre 1965

II appendice
Altri testi utilizzati durante gli incontri

Dal Primo Commonitorio di Vincenzo di Lerins, sacerdote, cap. 23 (PL 50, 667-668)

Quod semper, quod ubicumque, quod ab omnibus

Qualcuno forse potrà domandarsi: non vi sarà mai alcun progresso della religione nella Chiesa di Cristo? Vi sarà certamente e anche molto grande.
Bisogna tuttavia stare bene attenti che si tratti di un vero progresso della fede e non di un cambiamento. Il vero progresso avviene mediante lo sviluppo interno. Il cambiamento invece si ha quando una dottrina si trasforma in un’altra.
E’ necessario dunque che, con il progredire dei tempi, crescano e progrediscano quanto più possibile la comprensione, la scienza e la sapienza così dei singoli come di tutti, tanto di uno solo, quanto di tutta la Chiesa. Devono però rimanere sempre uguali il genere della dottrina, la dottrina stessa, il suo significato e il suo contenuto. La religione delle anime segue la stessa legge che regola la vita dei corpi...
Le membra del lattante sono piccole. più grandi invece quelle del giovane. Però sono le stesse. Le membra dell’uomo adulto non hanno più le proporzioni di quelle del bambino. Tuttavia quelle che esistono in età più matura esistevano già nell’embrione... Questo è l’ordine meraviglioso disposto dalla natura per ogni crescita.
Anche il dogma della religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età. E’ necessario però che resti sempre assolutamente intatto e inalterato.
I nostri antenati hanno seminato già dai primi tempi nel campo della Chiesa il seme della fede. Sarebbe assurdo e incredibile che noi, loro figli, invece della genuina verità del frumento, raccogliessimo il frutto della frode cioè dell’errore della zizzania.
E’ anzi giusto e del tutto logico escludere ogni contraddizione tra il prima e il dopo. Noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione.
Poiché dunque c’è qualcosa della prima seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione.

Dalle Ammonizioni, di Francesco d’Assisi

I. Il corpo del Signore
Il Signore Gesù dice ai suoi discepoli: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per me. Se aveste conosciuto me, conoscereste anche il Padre mio; ma da ora in poi voi lo conoscete e lo avete veduto”. Gli dice Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”. Gesù gli dice: “Da tanto tempo sono con voi e non mi avete conosciuto? Filippo, chi vede me, vede anche il Padre mio” (Gv. 14,6-9).
Il Padre abita una luce inaccessibile (cf. 1Tm. 6,16), e Dio è spirito, e nessuno ha mai visto Dio (Gv. 4,24 e Gv. 1,18). Perciò non può essere visto che nello spirito, poiché è lo spirito che da la vita; la carne non giova a nulla (Gv. 6,64). Ma anche il Figlio, in ciò per cui è uguale al Padre, non può essere visto da alcuno in maniera diversa dal Padre e in maniera diversa dallo Spirito Santo.
Perciò tutti coloro che videro il Signore Gesù secondo l’umanità, ma non videro né credettero, secondo lo spirito e la divinità, che egli è il vero Figlio di Dio, sono condannati. E così ora tutti quelli che vedono il sacramento, che viene santificato per mezzo delle parole del Signore sopra l’altare nelle mani del sacerdote, sotto le specie del pane e del vino, e non vedono e non credono, secondo lo spirito e la divinità, che è veramente il santissimo corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, sono condannati, perché è l’Altissimo stesso che ne dà testimonianza, quando dice: “Questo è il mio corpo e il mio sangue della nuova alleanza [che sarà sparso per molti] (Mc. 14,22.24), e ancora: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna” (cf. Gv. 6,55).
Per cui lo Spirito del Signore, che abita nei suoi fedeli, è lui che riceve il santissimo corpo e il sangue del Signore. Tutti gli altri, che non partecipano dello stesso Spirito e presumono ricevere il santissimo corpo e il sangue del Signore, mangiano e bevono la loro condanna (cf. 1Cor. 11,29). Perciò: Figli degli uomini, fino a quando sarete duri di cuore? (Sal. 4,3). Perché non conoscete la verità e non credete nel Figlio di Dio? (cf Gv. 9,35).
Ecco, ogni giorno egli si umilia (cf. Fil. 2,8), come quando dalla sede regale (cf. Sap. 18,15) discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero.
E in tale maniera il Signore è sempre presente con i suoi fedeli, come egli stesso dice: “Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo” (Mt. 28,20).

Da J.R.R.Tolkien sulla Tradizione

Da una lettera di J.R.R.Tolkien a Michael Tolkien in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, pag.442.

I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto che, naturalmente, benché presenti degli aspetti positivi o per lo meno comprensibili, è uno sbaglio inutile. Perché il “cristianesimo primitivo” è e rimarrà, nonostante tutte le ricerche, in gran parte ignoto; perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è ed era per lo più riflesso di ignoranza. Gravi abusi erano un elemento del comportamento liturgico cristiano agli inizi come adesso. (Le restrizioni di San Paolo a proposito dell’eucarestia valgono a dimostrarlo!) Inoltre la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male. L’altro motivo (che ora è così confuso con la tentazione primitivistica, anche nelle menti dei riformatori): aggiornamento; ammodernamento; anche questo presenta dei pericoli, come la storia ha dimostrato. Con questo aspetto si è confuso anche l’ “ecumenismo”.

Da S.Agostino, De catechizandis rudibus (Della catechesi ai principianti)

2. 4. Indubbiamente siamo ascoltati molto più volentieri allorché anche noi traiamo diletto dal parlare, giacché il filo del nostro discorso vibra della gioia stessa che proviamo e riesce più facile e più gradito...
La cosa difficile è raccomandare in quali modi si debba preparare la catechesi perché il catechista insegni con gioia (infatti, quanto più sarà pieno di gioia tanto più riuscirà accetto presso chi lo ascolta): è questo il massimo impegno a cui occorre dedicarsi. Ed in proposito la regola è evidente e nota. Se Dio, infatti, ama chi dispensa con gioia i beni materiali, quanto più amerà chi dispensa in egual modo i beni spirituali? Quanto poi al fatto che una tale gioia sia presente al tempo opportuno, dipende dalla misericordia di Colui che la raccomanda.

4. 7. Qual è il motivo più grande della venuta del Signore se non quello di mostrare da parte di Dio l’amore che ha per noi, raccomandandocelo sommamente? Perché mentre eravamo ancora suoi nemici, Cristo è morto per noi. E per ciò la carità è fine del precetto e pienezza della legge, così che pure noi ci amiamo l’un l’altro e, come egli ha dato la propria vita per noi, anche noi diamo la nostra per i fratelli; se un tempo si provava riluttanza ad amarlo, almeno ora non la si deve più provare nel rendere l’amore a quel Dio che per primo ci ha amati e non ha risparmiato il suo unico Figlio, ma lo ha dato per noi tutti. Non vi è infatti invito più efficace ad amare che esser primi nell’amare; e troppo duro è il cuore che, non avendo voluto spendersi nell’amare, non voglia neppure contraccambiare l’amore.

4. 8. Se dunque Cristo è venuto perché l’uomo conoscesse quanto Dio lo ami e lo sapesse per infiammarsi d’amore verso chi per primo lo ha amato e per amare il prossimo secondo il precetto e l’esempio di lui che si è fatto prossimo dell’uomo amandolo quando non gli era vicino, ma andava errando da lui lontano; se tutta la Scrittura divina che è stata redatta prima, lo è stata per preannunciare la sua venuta, se ciò che in seguito è stato tramandato per iscritto e confermato dall’autorità divina narra di Cristo e raccomanda l’amore, è evidente allora che in quei due precetti riguardanti l’amore di Dio e del prossimo si raccolgono non solo tutta la legge e i profeti (la sola Scrittura esistente quando il Signore diceva quelle cose), ma anche tutti i restanti libri delle lettere divine, composti più tardi per la salvezza degli uomini e tramandati ai posteri. Per ciò nell’Antico Testamento è adombrato il Nuovo e nel Nuovo Testamento è reso manifesto l’Antico.... Pertanto, dopo esserti proposto un tale amore come fine a cui orientare tutto ciò che dici, esponi ogni cosa in modo che chi ti ascolta ascoltando creda, credendo speri e sperando ami.

25. 49. Unisciti ai buoni, a coloro che tu vedi condividere con te l’amore per il tuo Re. Scoprirai infatti che ce ne sono molti, se anche tu comincerai ad esser tale. Poiché se tu agli spettacoli desideravi la compagnia e la vicinanza di coloro che con te avevano la passione per un auriga, un gladiatore o per un qualche attore, tanto più ti dovrà procurar piacere l’essere unito a coloro che con te amano Dio, di cui mai si vergognerà chi lo ama, perché non solo lui non può essere vinto, ma rende invincibili anche coloro che lo amano. Tuttavia non devi riporre la tua speranza neppure in coloro che sono buoni, che ti precedono o ti accompagnano nel cammino verso Dio, perché non devi riporla nemmeno in te stesso, per quanti progressi abbia fatto, ma devi riporla in colui che loro e te rende quali siete, giustificandovi.

Scheda sulla Bibbia nell’esegesi cristiana

"L'approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, è un ausilio per comprendere come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del suo momento attuale e nondimeno proprio così crea l'unità del suo insieme".

Così il card. J.Ratzinger ha sintetizzato, nella prefazione al documento "Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana" il senso del documento della Pontificia Commissione Biblica "L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa", pubblicato nel 1993.
Il documento fa il punto sui diversi metodi ed approcci al testo biblico adoperati dalle diverse scuole esegetiche, ne indaga la complementarietà e si sofferma sul “senso spirituale” delle Scritture, cioè sull'inserimento dei testi nel conteso del mistero di Cristo.
Viene inizialmente presentato il moderno metodo storico di studio dei testi biblici:

"Il metodo storico-critico è il metodo indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi. Poiché la Sacra Scrittura, in quanto “Parola di Dio in linguaggio umano”, è stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti, la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede, l'utilizzazione di questo metodo".

"I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell'Antico Testamento, molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi. Come un «rivelatore» durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere percepita. Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l'Antico un triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione" (n. 64).

Il documento "Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana" della Pontificia Commissione Biblica, pubblicato nel 2001, intende così rifiutare

"un'esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell'Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell'esegesi storico-critica l'interpretazione cristiana dell'Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita" (prefazione del card. J.Ratzinger al documento).

Già nella stessa Scrittura, testi successivi rivelano un senso più pieno di un'espressione precedente. Questo viene tradizionalmente indicato con l'espressione "sensus plenior" ("senso più pieno"). Così l'esegesi cattolica non fa che continuare ciò che la stessa Scrittura fa. Ma anche il magistero interviene ad indicare una comprensione più profonda di un determinato testo. Quando si parla di "sensus plenior"

"si tratta o del significato che un autore biblico attribuisce a un testo biblico a lui anteriore, quando lo riprende in un contesto che gli conferisce un senso letterale nuovo, o del significato che una tradizione dottrinale autentica o una definizione conciliare dà a un testo della Bibbia. Per esempio, il contesto di Mt 1, 23 dà un senso pieno all'oracolo di Is 7, 14 sulla "almah" che concepirà un figlio, utilizzando la traduzione dei Settanta (parthenos): “La vergine concepirà”. L'insegnamento patristico e conciliare sulla Trinità esprime il senso pieno dell'insegnamento del Nuovo Testamento su Dio il Padre, il Figlio e lo Spirito. La definizione del peccato originale da parte del Concilio di Trento fornisce il senso pieno dell'insegnamento di Paolo in Rm 5,12-21 circa le conseguenze del peccato di Adamo per l'umanità. Ma quando manca un controllo di questo genere - da parte di un testo biblico esplicito o di una tradizione dottrinale autentica, - il ricorso a un preteso senso pieno potrebbe portare a interpretazioni soggettive prive di ogni validità.

Non è solo la Scrittura a rileggere se stessa, in maniera sempre più piena. La chiave di volta ed il compimento della rivelazione divina è il Figlio Gesù Cristo. Il Concilio Vaticano II usa distintamente due espressioni significative: la Bibbia è "locutio Dei", il Figlio è il "Verbum Dei". Lo Spirito Santo, da lui donato alla Chiesa, la guida alla comprensione della "verità tutta intera". La lettura della Scrittura nel contesto della morte e resurrezione di Cristo e del dono dello Spirito Santo permette di cogliere quello che la Tradizione chiama il "senso spirituale" delle Scritture.

"Come regola generale, possiamo definire il senso spirituale, compreso secondo la fede cristiana, il senso espresso dai testi biblici quando vengono letti sotto l'influsso dello Spirito Santo nel contesto del mistero pasquale di Cristo e della vita nuova che ne risulta. Questo contesto esiste effettivamente. Il Nuovo Testamento riconosce in esso il compimento delle Scritture. E' perciò normale rileggere le Scritture alla luce di questo nuovo contesto, quello della vita nello Spirito".

Scheda sui criteri di storicità dei vangeli, nella ricerca moderna

Una vasta opera di sintesi del lavoro di decenni è stata compiuta dal teologo canadese
R.Latourelle, nella sua opera "A Gesù attraverso i vangeli. Storia ed ermeneutica", Cittadella editrice, Assisi, 1979.

Quattro criteri fondamentali, analoghi a quelli di ogni ricerca storica, vengono applicati in modo convergente al testo evangelico:

Ad esempio lo studio dei testi dell'"ultima cena", può avvalersi di una molteplice attestazione di fonti indipendenti (sia i sinottici, sia le lettere paoline, sia, a suo modo, il racconto eucaristico del pane del cielo di Giovanni), risulta di una discontinuità sorprendente (l'affermazione "Questo è il mio sangue", in un contesto ebraico che rispetta il "sangue" come simbolo della stessa vita) pur nella continuità evidente con ciò che sappiamo della celebrazione del seder pasquale ebraico (la cena della Pasqua). Non vi è alcun dubbio fondato, secondo gli studiosi, sulla sostanziale storicità dell'ultima cena, come ce la descrivono i vangeli. Un secondo esempio è l'espressione aramaica "Abba", "Padre", che ci è conservata dai testi evangelici nella forma originale in cui Gesù la pronunciava. Il criterio della "spiegazione necessaria" viene applicato ai miracoli ed, in particolare, a quello che precede immediatamente l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, la resurrezione di Lazzaro. Come spiegare altrimenti l'immenso tripudio di folla e attesa della popolazione di Gerusalemme e le accuse di "magia" che troviamo nelle fonti extrabibliche rivolte a Gesù?

Un secondo gruppo di criteri di storicità è individuato, una volta che alcuni fatti centrali sono stati sufficientemente accertati e determinati, nella aderenza a quello che possiamo chiamare lo "stile di Gesù", il suo peculiare modo di essere e parlare ed, inoltre, nello studio della "intelligibilità interna del racconto" oltre che nella analisi di brani che hanno una "interpretazione diversa, ma un accordo di fondo". La moderna critica storica sulla vita di Gesù afferma che, sebbene i vangeli non siano "cronache" nel senso moderno del termine, tuttavia la sostanziale storicità di ciò che è raccontato è ragionevolmente sostenibile secondo i moderni criteri storici.

Cenni di cronologia neotestamentaria

III appendice
Breve bibliografia per un primo approfondimento

Su www.gliscritti.it :

Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sulla Bibbia presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici



Note

[1] Ecco solo una delle tante citazioni che si potrebbero fare dagli scritti autentici di Francesco d’Assisi, tratta dal Testamento del 1226:

[111] 4 E il Signore mi dette tale fede nelle chiese che io così semplicemente pregavo e dicevo: 5 Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
[112] 6 Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. 7 E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.
[113] 8 E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori. 9 E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. 10 E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri.

[2] Questo il testo di Balthasar, a cui si fa riferimento nella lezione, tratto da H.U.von Balthasar, Solo l’amore è credibile, Borla, Roma, 1977, pagg.54-55: “Due accostamenti si offrono, che finiscono poi per convergere in unità: uno è quello personalistico menzionato da ultimo, perché nessun io ha la possibilità ed il diritto di violentare concettualmente la libertà del tu che gli si fa incontro, di dedurre a priori e di comprendere a priori il suo comportamento. Un amore che mi è donato, posso “intenderlo” sempre e solo come un miracolo, non posso manipolarlo empiricamente o trascendentalmente, neppur conoscendo il carattere comune della natura umana: perché il tu resta sempre l’alterità a me contrapposta. (Nell’istante in cui io affermo di avere capito l’amore di un’altra persona per me, cioè lo spiego o con le leggi della sua natura umana o lo giustifico con motivi esistenti in me, questo amore è definitivamente perduto e fallito e la via per il contraccambio è tagliata. Il vero amore è sempre incomprensibile e solo in quanto tale è dono). La seconda concezione consiste nello stato estetico, che rappresenta accanto alla sfera del pensiero ed a quella dell’azione una terza sfera non riconducibile ad una delle precedenti. Nell’esperienza che si fa di una superiore bellezza – nella natura o nell’arte – il fenomeno, che altrimenti si presenta più occulto, più mascherato, può essere colto nella sua differenziazione: ciò che ci sta dinanzi è di una grandiosità schiacciante come un miracolo e in quanto tale non può essere mai colto, raggiunto da colui che ne fa l’esperienza, ma possiede, proprio in quanto miracolo, la facoltà di essere compreso: esso vincola e libera al contempo, giacché si mostra in forma inequivocabile come “libertà manifesta” (Schiller) di una necessità interiore indimostrabile. Se esiste il finale della sinfonia Jupiter – cosa che non posso supporre, dedurre e spiegare attraverso nulla che sia intrinseco a me – essa non può essere che così com’è: in questa forma sta la sua necessità, nella quale nessuna nota può essere spostata salvo che dallo stesso Mozart. Una simile coincidenza d’incomprensibilità da parte mia con la più convincente plausibilità per me si dà soltanto nel campo del bello puro, disinteressato. E’ bensì vero che la plausibilità in ogni bello terreno resta delimitata dalla comune natura terrena nell’oggetto e nel soggetto: conformità, adeguatezza ed opportunità giuocano un ruolo connettivo e quindi lo stato estetico – come prima l’accostamento personalistico – può tutt’al più servire come richiamo al cristianesimo. Ma questo richiamo è valido solo in quanto, come nell’amore fra gli uomini incontriamo l’altro come altro, che nella sua libertà non può essere da me costretto, violentato, così nell’intuizione estetica è impossibile una riconduzione della forza che si manifesta alla propria immaginazione, alla propria fantasia. “L’intendimento” di ciò che si rivela non è, in entrambi i casi, una riduzione di questo, un suo assorbimento in categorie della conoscenza che lo costringano e gli si impongano: né l’amore nella libertà della sua grazia né il bello nella sua assenza di ogni determinazione finalistica possono “essere manipolati” (Rilke), almeno attraverso un’esigenza del soggetto. Una simile riduzione ad “esigenza” significherebbe diffamare e profanare cinicamente l’amore con l’egoismo; soltanto se viene riconosciuta la pura grazia dell’amore, colui che ama può manifestare la sua compiuta realizzazione attraverso un tale amore.
Nei confronti di questa maestà dell’amore assoluto, che è il fenomeno originario e fondamentale della Rivelazione, ogni autorità che funge da mediatrice verso l’uomo presenta carattere derivato. L’autorità originaria non la possiedono né la Bibbia (in quanto “Parola di Dio” scritta) né il cherigma (in quanto proclamazione viva della “Parola di Dio”) né il ministero ecclesiastico (in quanto rappresentazione ufficiale della “Parola di Dio”); tutti e tre sono esclusivamente Parola e non ancora carne, e in tal senso anche l’Antico Testamento come “Parola” rappresenta soltanto uno stadio sulla via che conduce all’autorità definitiva. Questa autorità originaria la possiede soltanto il Figlio, che interpreta il Padre nello Spirito Santo come l’amore divino”.

[3] Papa Benedetto XVI, nell’Udienza del mercoledì, 23 novembre 2005, dedicata al commento al Cantico del primo capitolo della Lettera di San Paolo agli Efesini, Dio Salvatore (3-10), si è così espresso:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.

[4] Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae, nn.19 e 21: “La specificità della catechesi, distinta dal primo annuncio del vangelo, che ha suscitato la conversione, tende al duplice obiettivo di far maturare la fede iniziale e di educare il vero discepolo di Cristo mediante una conoscenza più approfondita e più sistematica della persona e del messaggio del nostro signore Gesù Cristo... Nel suo discorso di chiusura della IV assemblea generale del sinodo, il pontefice Paolo VI si rallegrava nel «constatare che era stata sottolineata da tutti l'assoluta necessità di una catechesi ben ordinata e coerente, poichè un tale approfondimento dello stesso mistero cristiano distingue fondamentalmente la catechesi da tutte le altre forme di annuncio della parola di Dio».
Di fronte alle difficoltà pratiche debbono essere sottolineate, tra le altre, alcune caratteristiche di tale insegnamento:
-esso deve essere un insegnamento sistematico, non improvvisato, secondo un programma che gli consenta di giungere ad uno scopo preciso;
-un insegnamento che insista sull'essenziale, senza pretendere di affrontare tutte le questioni disputate, nè di trasformarsi in ricerca teologica o in esegesi scientifica;
-un insegnamento, tuttavia, sufficientemente completo, che non si fermi al primo annuncio del mistero cristiano, quale noi abbiamo nel kèrigma;
-un'iniziazione cristiana integrale, aperta a tutte le componenti della vita cristiana.
Senza dimenticare l'interesse che hanno le molteplici occasioni di catechesi in relazione con la vita personale, familiare, sociale, o ecclesiale - occasioni che bisogna saper cogliere e sulle quali ritornerò al cap. VI - io insisto sulla necessità di un insegnamento cristiano organico e sistematico, perchè da diverse parti si tende a minimizzarne l'importanza”.

[5] Questi alcuni passaggi di un articolo del cardinal Joseph Ratzinger sulla rivista dei gesuiti americani America (19 novembre 2001) cui il testo fa riferimento:
Nella lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione (Congregazione per la Dottrina della fede 28, giugno 1992) troviamo il principio che la Chiesa universale (ecclesia universalis) è, nel suo mistero essenziale, una realtà che precede, ontologicamente e temporalmente, le singole Chiese locali…
Dio trova e prepara per sé la Sposa del Figlio, l’unica Sposa che è l’unica Chiesa. Sulla scorta dell’espressione del Genesi che un uomo e sua moglie diventano “due in una sola carne” (Gen , 24) l’immagine della sposa si è fusa con l’idea della Chiesa come corpo di Cristo, che per parte sua è basato sulla pietà eucaristica. L’unico corpo di Cristo è reso disponibile; Cristo e la Chiesa saranno “due in una sola carne”, un corpo; e così Dio sarà tutto in tutte le cose…
C’è solo una sposa, solo un corpo di Cristo, non molte spose, né molto corpi. La sposa, certamente, come hanno detto i padri della Chiesa, richiamandosi al salmo 44, è vestita “di abiti multicolori”; il corpo ha molti organi. Ma il privilegio sovraordinato è in ultima analisi l’unità…
Ho mostrato come il Concilio risponda alla domanda su dove si possa vedere la Chiesa universale come tale, parlando dei sacramenti: C’è prima di tutto il battesimo: E’ un evento trinitario, cioè prettamente teologico, e significa molto di più che la socializzazione nella Chiesa locale… Il battesimo non deriva dalla comunità locale; piuttosto col battesimo ci viene aperta la porta dell’unica Chiesa; è la presenza della Chiesa una, ed esso può venire solo da essa, dalla Gerusalemme celeste, nostra nuova madre. Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente e crea la Chiesa locale. Su questa base la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede può affermare che non ci sono stranieri nella Chiesa. Chiunque al suo interno è a casa sua dappertutto… Chiunque battezzato nella Chiesa a Berlino è sempre a casa sua a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o dovunque, come se fosse stato battezzato lì. Lui o lei non deve compilare un certificato con il cambio di residenza, è una e la stessa Chiesa. Il battesimo nasce da essa e ci consegna (dà alla luce) ad essa…
E allora non si può dire che la “visione universalistica” della Chiesa è “ecumenicamente escludente”.

[6] Vedi, ad esempio, Origene, In Lucam homil. 22, I:
Quid enim tibi prodest, si Christus quondam venit in carne
nisi ad tuam quoque animam venerit?
Che cosa ti giova, se Cristo è venuto una volta nella carne,
ma non viene anche alla tua anima?

[7] Questo il testo a cui si fa riferimento:
(Voglio) mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una società va perduto qualcosa di essenziale. Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Viene multato anche chiunque offende il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione trova però il suo limite in questo, che essa non può distruggere l’onore e la dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o di distruggere i diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.
L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza il rispetto di ciò che è sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi (da J.Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani di Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004).

[8] Questo il passaggio della relazione di S.E.mons.Rino Fisichella in una riflessione ai parroci del settore Sud della Diocesi di Roma, tenuta il 22 gennaio 2004 (Il testo integrale della relazione è nella sezione Approfondimenti di www.gliscritti.it):
E' bene chiarificare subito che un cambiamento culturale per essere efficace non porta di per sé immediatamente all’assunzione di modelli costruiti soltanto ideologicamente con un’intenzionalità che si oppone alla fede. Esemplifichiamo. E’ come se, di fatto, la fine del progresso culturale dovesse essere in qualche modo determinata dalla conservazione del modello di fede. “Voi cattolici – essenzialmente – non volete il progresso!”: questa è l’istanza che normalmente viene provocata. “La fede con il mantenimento della sua visione, della sua identità impedisce il progresso! Impedisce che ci siano nuove forme, nuovi modelli che si immettono all’interno della cultura e della società”. Questa è una grande trappola! Perché qualsiasi cultura, quando corrisponde alle determinazioni che la rendono cultura, quando è tale, è sempre, per definizione, dinamicamente aperta ad evolvere il modello che porta in sé e non a distruggerlo. L’evoluzione non è distruzione, perché altrimenti non siamo davanti ad un fenomeno culturale... Quando culturalmente si ha un vero progresso nei confronti della famiglia? C’è un pensiero che sta alla base delle diverse leggi, che sostiene “l’allargamento” del concetto della famiglia, estendendolo oltre a quella che è la dinamica tradizionale che abbiamo sempre visto: l’uomo e la donna, che vivono un rapporto stabile. Ebbene questa situazione dell’allargamento della famiglia, come viene proposto, questa dimensione, di fatto, è all’opposto del concetto di cultura e di progresso culturale. La contraddizione dell’estensione del concetto di famiglia porta concretamente, di fatto, a distruggere la forma originaria della famiglia. Ciò che ne consegue, quindi, è l’alterazione e non il progresso. Perché il progresso, per paradossale che vi possa sembrare, richiede la conservazione! Vi rimando per questo, ad esempio, ai nn. 50 e seguenti della Gaudium et Spes, dove si parla del concetto di cultura, che è un concetto desunto dalla filosofia di Maritain. Vedete, il concetto di cultura in Maritain, essenzialmente, è questo: cultura è l’espansione della vita propriamente umana, che consente di condurre un’esistenza eticamente conforme alle leggi della natura e in grado di svilupparsi in questo senso. E’ un concetto filosofico, ripreso da Gaudium et Spes.
Queste semplici considerazioni preliminari mi sembravano necessarie per non confondere i piani su cui alcune tendenze dei nostri giorni cercano di esporre le loro opinioni, come se di fatto la proposta che avanzano riguardo alla famiglia sia una ineludibile conseguenza del progresso culturale e quanti non vogliono adeguarsi a questo sono da identificare come i fautori di un movimento di conservazione, che si oppone alle leggi del progresso. A me sembra che sia questo elemento che non funzioni e che ci debba far dire che questa dimensione di fatto arriva all’asfissia del concetto stesso di progresso e di cultura, se non al suicidio.

[9] Questo il passaggio dell’omelia per l’insediamento sulla cattedra di Roma, pronunciata da Benedetto XVI il sabato 7 maggio 2005:
Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.
Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo.

[10] Questo il passaggio dell’Introduzione al documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, a cui fa riferimento la lezione:
Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane. L’applicazione alla Bibbia di un metodo “profano” era necessariamente soggetta a discussione.
Tutto ciò che aiuta a conoscere meglio la verità e a disciplinare le proprie idee offre alla teologia un contributo valido. In questo senso, era giusto che il metodo storico-critico fosse accettato nel lavoro teologico. Però tutto ciò che restringe il nostro orizzonte e ci impedisce di portare lo sguardo e l’ascolto al di là di quanto è meramente umano, deve essere rigettato affinché un’apertura sia mantenuta. Perciò l’apparizione del metodo storico-critico ha subito suscitato un dibattito circa la sua utilità e la sua giusta configurazione, un dibattito che non è concluso finora in nessun modo... La parola biblica ha la sua origine in un passato che è reale, ma non soltanto in un passato, viene anche dall’eternità di Dio. Ci conduce nell’eternità di Dio, passando però attraverso il tempo, che comprende il passato, il presente e il futuro. Credo che il documento rechi veramente un prezioso aiuto per rischiarare la questione della giusta via verso la comprensione della Sacra Scrittura e apra nuove prospettive.


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