La basilica di Santa Maria Maggiore in Roma: i primi concili ecumenici, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /09 /2011 - 15:30 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione la trascrizione dell'incontro sui concili ecumenici del corso sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico di Roma, tenutosi il sabato 24/10/2009, presso la basilica di Santa Maria Maggiore. Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore ed è stato poi radicalmente risistemato, pur conservando lo stile informale della relazione stessa. Le trascrizioni dei precedenti incontri sono on-line nella sezione Roma e le sue basiliche.

Il Centro culturale Gli scritti 4/9/2011

Indice

1/ Introduzione a Santa Maria Maggiore

Perché la basilica di S. Maria Maggiore per un incontro sui primi concili ecumenici? Perché S. Maria Maggiore è l’edificio che la chiesa di Roma eresse con l'esplicita intenzione di venerare la Vergine Maria un anno dopo la celebrazione del concilio di Efeso, il III concilio ecumenico. E da allora, nei secoli, sia i romani che i pellegrini sono venuti qui per chiedere l’intercessione di Maria.

La basilica di S. Maria Maggiore venne costruita nel 432 d.C., esattamente un anno dopo il concilio nel quale Maria fu proclamata Theotokos ovvero Madre di Dio. Fu papa Sisto III che decise di erigere questa basilica proprio per celebrare Maria, per celebrare il suo titolo di madre di Dio, secondo la definizione del concilio di Efeso.

Entrando ci si accorge subito come questa basilica, fra le quattro grandi basiliche romane, sia quella che conserva di più l’impianto originario paleocristiano. Le colonne sono ancora quelle originarie del 432, la fascia dei mosaici sopra di esse è ancora quella che Sisto III realizzò allora, l’arco trionfale con i suoi mosaici è ancora quello della prima chiesa.

Questo luogo ci permette anche di avere immediatamente coscienza dei grandi cambiamenti politici che erano in atto e che cercheremo di presentare nel corso dei nostri incontri di quest'anno. La basilica di S. Maria Maggiore venne costruita solo 22 anni dopo la prima aggressione barbarica a Roma: il sacco dei visigoti di Alarico del 410.

In realtà già nel 408 e nel 409 i barbari si erano presentati alle porte della città, ma non erano riusciti a penetrare nelle mura. Nel 410, invece, dopo 5 mesi di assedio, Roma cadde ed avvenne il saccheggio. Il pontefice riuscì a ottenere da Alarico che fosse risparmiata la popolazione, che le basiliche non fossero profanate, ma l'intera città venne messa a sacco. Galla Placidia, sorella dell'imperatore Onorio, venne presa in ostaggio dai barbari e portata a forza via dalla città.

Erano 700 anni che Roma non vedeva invasori penetrare al suo interno. Era dai tempi di Brenno, dal tempo dell'invasione dei galli (390 a.C.) che non avveniva questo. I terribili eventi del 410 mostrano il declino dell’Impero d’Occidente che non era più in grado di difendere i propri confini. La popolazione dell'impero avvertiva che un epoca stava declinando, mentre la vita della città diventava sempre più incerta e difficile.

Eppure il papa fece erigere questa grande basilica solo due decenni dopo quel tragico evento. Questo fatto rende evidente come il pontefice stava allora divenendo il punto di riferimento della città, l'unico in grado di progetti cittadini così impegnativi e – come diverrà sempre più evidente nel tempo – l'unico in grado di proteggere con la sua autorità spirituale e via via anche civile e politica l'incolumità di Roma e dei suoi abitanti. Di fatto, già al tempo del sacco di Alarico la popolazione fu risparmiata solo a motivo dell'essere i romani i fedeli del vescovo di Roma, il papa.

Gli studiosi discutono quando debba essere posta la cesura fra la Roma tardo-imperiale e la Roma alto-medioevale e non saremo certo noi a sciogliere la questione. Mi interessa piuttosto sottolineare come questo periodo sia totalmente ignorato dagli itinerari formativi delle nostre scuole. E se questo è grave già per un non romano, è ancora più grave per gli studenti della nostra città che vengono così privati di una chiave importantissima per comprendere la storia di Roma.

Se proviamo a chiedere a un qualsiasi romano – ma spesso anche ad un professore di liceo! – in che data precisamente e come sia nato il potere temporale della Chiesa e come il vescovo di Roma si sia ritrovato a guidare uno stato, nessuno vi saprà rispondere, tale è l'ignoranza su questo periodo straordinariamente interessante. Sentirete ripetere luoghi comuni – ad esempio che il potere temporale fu un errore, un evento contro il vangelo -, ma nessuno saprà spiegarvi come è nato. E capite bene che solo sapendo come è nato, sarà poi possibile dire se fu una macchia nella storia del papato e della città o piuttosto un evento carico di elementi positivi, senza il quale, probabilmente, Roma avrebbe cessato di esistere!

L'ignoranza su questo periodo porta, fra l'altro, all'errata presunzione che l'Impero romano sia finito nel 476 e che da quella data l'imperatore non sia più il legittimo governante della città. È certamente vero che in quell'anno Romolo Augusto (noto come Augustolo proprio per la sua fine misera) fu catturato dai barbari a Ravenna - Roma non era già più l'abituale residenza dell'imperatore che si era trasferito già ai tempi di S. Ambrogio a Milano e successivamente a Ravenna perché lì il porto di Classe permetteva di mantenere più facilmente i rapporti con Costantinopoli.

Ma il vero imperatore romano era già l’imperatore d’Oriente che governava l'Italia da Costantinopoli -  in realtà l’Impero Romano non finì nel 476 ma con l’invasione turca di Costantinopoli e, come vedremo, ancora nel 663 l'imperatore di Costantinopoli venne a risiedere sia pure per brevissimo tempo nel Palazzo imperiale al Palatino, che era mantenuto in attività da un personale imperiale a ciò addetto anche se l'imperatore viveva in Oriente.

La lontananza del legittimo imperatore romano fece sì che sempre più fosse il pontefice a gestire l'amministrazione della città ed a preoccuparsi della difesa di Roma e della sua popolazione. Basti pensare che alla morte di Sisto III - colui che costruì S. Maria Maggiore - divenne papa Leone Magno che per due volte uscì dalla città per recarsi incontro ai barbari che avanzavano per implorarli di arrestare le loro devastazioni.

Una prima volta Leone Magno si recò incontro ad Attila, il re degli unni, che raggiunse a Mantova nel 452, e riuscì nel suo tentativo, perché Attila riconobbe l’autorità del pontefice. Pochi anni dopo, nel 455, i vandali di Genserico scesero nuovamente verso Roma. Leone Magno gli andò nuovamente incontro con il clero, innalzando le croci, per ottenere misericordia e salvezza per la città. Questa volta, però, il nuovo re risparmiò solamente le basiliche e la popolazione, mentre saccheggiò Roma per ben due settimane. Come nel 410 il pontefice non riuscì ad impedire le ruberie, ma ottenne l'incolumità fisica dei romani.

Vedete già da questi pochi elementi come era ormai diversa la situazione rispetto ai secoli precedenti. Qualcuno ha paragonato quei tempi agli ultimi mesi della seconda guerra mondiale quando la chiesa – il papa, i vescovi ed il clero in primis – ebbero un ruolo decisivo nel passaggio tra la dominazione nazista e l'arrivo degli alleati.

Nel periodo che cercheremo di conoscere meglio con gli incontri di quest'anno la chiesa non pensò solo a difendere se stessa e Roma dai barbari, ma comprese anche che il Vangelo doveva essere loro annunziato, comprese che in quel frangente storico l'evangelizzazione delle diverse popolazioni barbariche doveva essere al centro della sua missione.

La parola barbaro viene dalla riproduzione del balbettio “bar-bar”: il mondo classico non capiva le diverse lingue dei popoli che premevano ai confini e li catalogò con questo termine che voleva simbolizzare, in maniera dispregiativa, la loro lingua dura e difficile. La chiesa si ritrovò a dover riflettere nuovamente sulle  parole che S. Paolo aveva scritto per manifestare la novità del Vangelo di Cristo che non faceva distinzioni di persone: «Qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11).

Insomma la chiesa del tempo comprese che i goti e le altre popolazioni che attaccavano Roma erano sì “barbari”, ma il Cristo era venuto anche per loro.

2/ Perché il dogma nella storia e nella fede della Chiesa?

Dopo questa prima introduzione al luogo in cui ci troviamo ed al periodo storico di cui ci occupiamo, veniamo al tema di questo nostro incontro: i primi concili. Prima di vedere in dettaglio le definizioni dei singoli concili e quella di Efeso in particolare, voglio soffermarmi sulla questione del perché esistono enunciati dogmatici nella chiesa.

Quando parliamo del dogma – le formule del Credo ne sono un'espressione – il giudizio quasi automatico di molti è immediatamente negativo. Dobbiamo essere consapevoli di questo. Questa avversione al dogma fa parte di una diffusa ignoranza per cui molti lo ritengono un'invenzione successiva della chiesa, fatta ad arte per imporre le propri visioni, soprattutto dopo Costantino.

Abbiamo già visto l'anno scorso come proprio Costantino, in realtà, voleva che la chiesa rinunciasse alla sua pretesa di verità, purché tutti i cristiani aderissero al suo progetto politico. È apparso evidente come, ragionando da romano, Costantino non si rendeva conto che, a differenza del paganesimo, per la prima volta un'esigenza di verità apparteneva essenzialmente ad una religione. Per i cristiani affermare o negare qualcosa di Cristo voleva dire che tutto restava saldo o cadeva, per Costantino era invece preferibile che si soprassedesse a discussioni cristologiche pur di mantenere la pace fra le diverse componenti dell'impero (cfr. su questo Costantino non comprese il valore della teologia nel cristianesimo, di Andrea Lonardo).

In particolare il clima culturale in cui siamo immersi propugna una visione per la quale il dogma si sarebbe come allontanato dalla Scrittura, piegandola a suo piacimento, o addirittura la Scrittura stessa sarebbe già un'elaborazione dogmatica che ci impedirebbe di conoscere il vero Gesù.

La chiesa, invece, ha sempre ritenuto che è proprio la professione di fede nel Credo che deve essere richiesta a chi diviene cristiano. Lo vediamo nel battesimo degli adulti, ma anche nel battesimo dei bambini e nella cresima dei giovani, dove sempre si richiede la professione di fede. Non si chiede esplicitamente se uno conosce la Scrittura, ma se, avendo ascoltato la Parola, è giunto alla fede che il Credo espone. Perché questo?

Perché in realtà il dogma non è un’aggiunta surrettizia che viene imposta come una cappa al messaggio biblico, bensì è la comprensione sintetica che tutto ciò che è avvenuto nella storia della salvezza non è una serie di eventi che non hanno né capo né coda. Il Credo manifesta il senso di tutta quella storia: la storia raccontata dalla Bibbia è la rivelazione di Dio si è manifestato come creatore, come operante nella storia del popolo ebraico, come salvatore che dona speranza e salvezza nell'incarnazione del Figlio.

L'esistenza del Credo attesta che tutta la storia che io sento narrare nella Bibbia è opera di un unico Dio che rivela se stesso al punto che posso dire questa mia fede con parole che ne esprimono la sintesi.

Il Credo allora non solo non è un'imposizione surrettizia, ma anzi è un’esigenza vitale della fede stessa. Se non si potesse sintetizzare la fede in poche parole, vorrebbe dire che essa è confusa e che Dio non si è rilevato: vorrebbe dire che io, dopo averlo visto operare, non posso dire niente di sensato su di Lui.

Non solo. La sintesi della professione di fede è un'esigenza anche dell’uomo, del credente: solo se è possibile uno sguardo d'insieme, che abbraccia in maniera comprensibile il tutto, allora la fede diventa un orientamento, diventa una luce che illumina il cammino: solo allora la nostra sete di verità su chi è Dio, su cosa è l'uomo e cosa è il mondo, può essere saziata.

Noi viviamo in un tempo confuso che si caratterizza proprio per un sentire diffuso per il quale non si sa cosa è vero e cosa non lo è, cosa viene prima e cosa viene dopo, se esiste un punto solido da cui partire per costruire qualcosa. Dobbiamo guardare questa situazione con lucidità: non si può non essere confusi se non esiste una sintesi, se la possibilità di una sintesi è preclusa.

La sintesi anzi è ciò che dovrebbe caratterizzare l’uomo maturo. L’uomo maturo è proprio colui che, dopo una serie di esperienze e di conoscenze, arriva a possedere un giudizio sulle cose, arriva a comprendere quale sia il senso e d il valore delle cose, cosa abbia significato per l'uomo, cosa si  debba trasmettere alle generazioni future.

L’esigenza di una sintesi non è un’esigenza che si impone alla vita, ma è un’esigenza della vita stessa. I credenti hanno ascoltato la storia di Abramo, di Mosè, di Giosuè, di Maria, di Gesù e hanno capito che questa storia non era una storia disarticolata ma aveva una sua unità che era illuminante.

Ma c'è un altro aspetto che non può essere trascurato. Si potrebbe dire che il dogma è l'emergere nella consapevolezza della chiesa di ciò che c'è di più interessante nella rivelazione. Il dogma sintetizza, infatti, ma risponde anche ai grandi quesiti che la storia man mano pone ai credenti. E si pongono proprio le questioni più avvincenti, quelle decisive, quelle sulle quali si gioca tutto. L'emergere del dogma deriva così proprio dall'esperienza della chiesa che scopre via via le cose più interessanti del cristianesimo.

L'allora cardinale J. Ratzinger in un passaggio straordinario ebbe a scrivere[1]: «i Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa [...], sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura».

Le parole in questo testo sono pesate e verissime: il dogma non riguarda i punti oscuri del messaggio biblico, bensì i suoi aspetti più luminosi. Il dogma pone in risalto ciò che è più nuovo e affascinante del messaggio biblico e diviene come un filo di Arianna che permette di non perdersi nel labirinto altrimenti complicatissimo delle Scritture.

Divenuto papa, Benedetto XVI ha esposto qualcosa di simile nella Lettera ai seminaristi dicendo: «ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità: ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell’unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi»[2].

L'assoluta novità del dogma permette altresì di comprendere che è l'eresia ad essere vecchia. Il dogma sorge, infatti, anche per respingere, per dichiarare non conforme alla novità del vangelo una determinata affermazione. Ad esempio - ne abbiamo già parlato l'anno scorso in riferimento a Nicea e torneremo a parlarne più avanti – quando qualcuno oggi sostiene che Gesù non è Figlio di Dio, affermando che egli non aveva alcuna consapevolezza di avere un legame privilegiato e assolutamente unico con Dio, in realtà sta ricadendo nell'antico errore di Ario, che riteneva Gesù solo una creatura e negava la sua coeternità con Dio. Sta insomma sostenendo una tesi vecchia di 1700 anni, che già allora la chiesa ha dimostrato essere errata.

L’affermazione che Gesù non è Dio non ha niente di nuovo, ma anzi è vecchia di 17 secoli. E quando qualcuno si leva a ripetere questa tesi vecchissima presentandola come nuova, la chiesa invece attraverso il dogma riesce a comprendere immediatamente che è una posizione già discussa e superata al concilio di Nicea.

Se non ci fosse il dogma si ritornerebbe ogni volta di nuovo su questioni già affrontate, dimenticandosi di avere già la risposta ad esse. Come ha affermato una volta G.K. Chesterton, la chiesa, con i suoi dogmi, «difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori»[3].

3/ Il Credo nell'Antico e nel Nuovo Testamento

Fatte queste premesse, facciamo ora un primo passo avanti. Formulazioni sintetiche che mettono in risalto la specifica novità della rivelazione ebraica e poi cristiana non vengono solo dopo la Bibbia, ma sono già presenti nella stessa Scrittura, tanto è connaturale alla fede l'esprimersi con espressioni brevi.

Già l'Antico Testamento conosce delle formule sintetiche (come Dt 26,5-9: «Tu pronuncerai queste parole: “Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto... il Signore ascoltò la nostra voce...»; da confrontare con Dt 6,20ss., Gs 24,1-13, Ne 9,7-25). Un tempo gli studiosi sostenevano che tutto il Pentateuco si fosse sviluppato a partire da queste formule, ora invece si pensa piuttosto il contrario, ciò che si sentì l'esigenza di riassumere in poche parole tutti gli eventi di salvezza in cui Dio si era rivelato, per insegnare la fede di generazione in generazione.

Lo stesso sviluppo appare nel Nuovo Testamento dove emerge chiaramente già qualcosa di simile ai Credo successivi. E troviamo questo non in un solo scritto, ma, di fatto, in tutto il Nuovo Testamento, da Paolo a Giovanni, da Marco alla Lettera agli Ebrei, dagli Atti all'Apocalisse.

Abbiamo innanzitutto dei testi che potremmo definire “professioni di fede cristologiche”, cioè dove si enuncia chi è Gesù. In 1 Cor 12,3 e Rm 10,9 si dice, ad esempio: «Gesù è il Signore» - dove Signore è il greco Kurios, cioè il nome proprio di Dio.

In 1 Gv 2,22 e Mc 8,30 si dice invece «Gesù è il Cristo», riconoscendo che Gesù è colui che Dio aveva promesso, che Gesù è l'atteso dal popolo ebraico e dal mondo intero come il compimento della rivelazione e della salvezza di Dio.

In 1 Gv 4,15; Eb 4,14 invece si dice: «Gesù è il Figlio di Dio».

Quindi non si raccontano solo degli episodi, dei fatti o dei detti di Gesù, ma nel Nuovo Testamento si annunzia l'identità di Gesù, si professa chi egli è in realtà[4].

Nel Nuovo Testamento abbiamo poi delle professioni di fede che si sviluppano seguendo le principali tappe della vita di Gesù. Ad esempio 1 Cor 15,3 ss. Afferma: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto».

Qui sono riunite in sequenza le apparizioni di Gesù con i diversi testimoni. L'espressione «vi ho trasmesso quello che anch'io ho ricevuto» - che era un'espressione in uso anche presso i rabbini del tempo – fa pensare esplicitamente ad una formula sintetica elaborata prima di Paolo che egli riceve quando diviene cristiano e che a sua volta insegna, con l'aggiunta del suo incontro personale con il risorto. È fortissimo l'inserto «come ad un aborto» a dire che Paolo era nato, ma in realtà era nato morto, finché non incontrò Cristo.

Lo stesso si può dire di Rm 1,3ss - «Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore» - e del famosissimo testo, forse il più bello di Paolo, in Rm 8,34 ss. «Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi?»[5].

Fra queste professioni di fede che seguono i momenti salienti della vita di Gesù importantissima è quella di Fil 2,5-11, un testo che gli studiosi ritengono pre-paolino, probabilmente un inno che si cantava nella comunità di Filippi e che Paolo ricorda loro:

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio 
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
“Gesù Cristo è Signore!”,
a gloria di Dio Padre».

Di questo testo che è antichissimo – la Lettera ai Filippesi è degli anni cinquanta d.C., ma se l'inno è precedente ci fa risalire agli anni quaranta, cioè a circa 10 anni dopo la morte e la resurrezione di Gesù! - è impressionante la chiarezza con cui la comunità di Filippi professava Gesù come colui che «pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio». Solo gli ignoranti possono affermare che la professione di fede nella divinità di Gesù è tardiva o che è solo giovannea o addirittura successiva!

Si noti in questi testi come ciò che si afferma di Gesù viene immediatamente collegato da queste professioni alla nostra vicenda umana: «per i nostri peccati» oppure «perché ogni ginocchio si pieghi», ecc. ecc.

Nel Nuovo Testamento si possono trovare poi delle formule binarie dove non si dice solo chi è Gesù, ma si insiste invece sul Padre e sul Figlio. Binarie, dunque, perché lo Spirito Santo non è considerato.

Ad esempio, 1 Cor 8,6 dice: «Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui». 1 Tm 2,5ss dice invece: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l'ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo». In queste professioni di fede emerge dunque il rapporto tra il Figlio e il Padre, la loro gloria comune, la loro pari importanza.

Ma ci sono anche già nel Nuovo Testamento delle vere e proprie formule trinitarie o ternarie.

Per esempio in 2 Cor 13,13 si dice: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». Ed in Mt 28,19 troviamo il famosissimo comando: «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che io vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Insisto sul Nuovo Testamento per farvi vedere come è falso affermare che il Credo viene dopo e che all'inizio si sono raccontati solo detti e fatti di Gesù. No! Gli apostoli contemporaneamente raccontavano della vita di Gesù e ne proclamavano l'identità. Nel Nuovo Testamento troviamo la narrazione come la professione di fede,  l'inno come l'elenco delle virtù e dei vizi e così via. È contro la Scrittura scegliere un solo registro, ad esempio quello narrativo, e trascurare gli altri.   

Nella catechesi, poi, questo è importantissimo, perché dobbiamo da un lato raccontare gli eventi dell'Antico e del Nuovo Testamento, ma anche annunziare chi è il Dio che in essi si rivela e che immagine di uomo emerge e così via. Un passaggio decisivo del Direttorio generale per la catechesi, 128, ricorda la profonda correlazione che esiste tra la Sacra Scrittura e la fede della chiesa che si esprime nel Credo affermando: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede».

4/ Il Credo come sviluppo del battesimo

Un ulteriore passo della nostra riflessione nasce da un fatto spesso trascurato ed, invece, decisivo. Si ritiene talvolta il Credo – e con esso il dogma – un testo nato a partire da astratte discussioni teologiche di ambito accademico. Invece il Credo nasce nel contesto della realtà più semplice e viva della comunità cristiana: il battesimo e l'inserimento di nuovi credenti nella chiesa. Abbiamo già visto come una delle formule trinitarie più chiare del Nuovo Testamento sia la finale del vangelo di Matteo con l'invito di Gesù a battezzare nel nome della Trinità (anche se il termine ancora non compare, compare il suo contenuto!).

Il Credo che sarà redatto a Nicea e poi a Costantinopoli non nasce dal nulla, ma è piuttosto l'ampliamento della formula battesimale. E questa, a sua volta, non è qualcosa di primariamente dottrinale, bensì è una dossologia, cioè una glorificazione del Padre, del Figlio e dello Spirito, e, più ancora, è l'affermazione carica di fiducia, di amore e di speranza, che Dio sta donando la sua vita divina ai nuovi battezzati.

Un grande liturgista, A. Nocent, ha sottolineato che sempre il Credo, anche nella liturgia eucaristica domenicale così come noi la viviamo, è una preghiera, è una dossologia, è una risposta gioiosa alla proclamazione della Parola di Dio nella Liturgia della Parola.

Ma quello che ci interessa qui sottolineare è proprio che il Credo nasce a motivo del battesimo, non a motivo delle eresie o delle discussioni teologiche. Il Credo esprime semplicemente, in origine, la novità della fede cristiana cui il catecumeno accede al momento del battesimo.

Il primo Credo della chiesa sembra così essere quello interrogativo che ancora conserviamo al momento del battesimo – e che si ripete con alcune varianti al momento della cresima, se questa avviene successivamente, come nel caso dei bambini e dei ragazzi. Si potrebbe dire addirittura che, probabilmente questo Credo battesimale è più antico ancora dello stesso Nuovo Testamento. Si può affermare con una certezza quasi assoluta che già in età apostolica si battezzasse dopo aver chiesto la fede nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, mentre ancora i vangeli non erano stati scritti. La regula fidei è così più antica della stessa Scrittura.

Questa è la sua formulazione così come la utilizziamo oggi, ma non doveva esser troppo diversa in antico:

Rinunciate a Satana e a tutte le sue opere e seduzioni?
Rinuncio.

Credete in Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra?
Credo

Credete in Gesù Cristo,
suo unico Figlio, nostro Signore,
che nacque da Maria Vergine,
morì e fu sepolto,
è risuscitato dai morti
e siede alla destra del Padre?
Credo.

Credete nello Spirito Santo,
che è Signore e dà la vita?
Credo.

Credete nella santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne e la vita eterna?
Credo.

A questa professione di fede, il celebrante dà il suo assenso, proclamando la fede della Chiesa:

Questa è la nostra fede.
Questa è la fede della Chiesa.
E noi ci gloriamo di professarla,
in Cristo Gesù nostro Signore.

E tutti i fedeli esprimono il loro assenso:
Amen.

Voglio citare qui un altro bellissimo testo di Benedetto XVI che nell'omelia alla spianata dell’Islinger Feld a Regensburg il 12 settembre 2006, nella sua prima GMG, ha detto, riferendosi al Simbolo degli apostoli di cui parleremo subito:

«La Chiesa… ci offre una piccolissima ‘Somma’, nella quale tutto l’essenziale è espresso: è il cosiddetto ‘Credo degli Apostoli’. (…) nella sua concezione, di fondo il Credo è composto solo di tre parti principali e, secondo la sua storia, non è nient’altro che un’amplificazione della formula battesimale che lo stesso Signore risorto consegnò ai discepoli per tutti i tempi (…) In questa visione si dimostrano due cose: la fede è semplice. (…) Come seconda cosa possiamo constatare: il Credo non è un insieme di sentenze, una teoria. È, appunto, ancorato all’evento del Battesimo, a un evento di incontro tra Dio e l’uomo»[6].

Vedete così chiaramente come il Credo che noi celebriamo e confessiamo nella messa è semplicemente lo sviluppo del battesimo, o meglio le discussioni teologiche dei padri sono la spiegazione, l’esplicitazione, la comprensione di ciò che avviene ogni volta che una persona diventa credente.

Nella formula battesimale la fede è espressa in un dialogo in cui la comunità ed il nuovo fedele si parlano vicendevolmente, annunziando la rivelazione di Dio. Ad esempio, nella prima domanda, dopo la rinunzia al male, nella fede sul Dio padre e creatore si sintetizza tutto l’Antico Testamento: Dio non è impersonale, Dio non è il nulla – il nirvana, direbbero i buddisti - Dio non è uguale alla natura, bensì essa è distinta da Lui, poiché Dio è il Padre che ha fatto il mondo.

In questo dialogo emerge il “noi” della fede: la fede è la fede di tutta la chiesa, di tutti i cristiani, di tutti i battezzati. La fede è, da un lato, certamente un fatto personale – sono io che ricevo il battesimo, sono io che credo che Dio è Padre creatore onnipotente – ma insieme io credo ciò che tutta la chiesa crede e la mia esistenza si inserisce nella fede che è quindi primariamente ecclesiale.

Possiamo citare qui ancora una volta Ratzinger che dice:

«“Noi crediamo” è il luogo in cui l’affermazione “io credo” non viene assorbita, ma trova la sua collocazione»[7].

La fede cioè è una cosa assolutamente personale e nessuno potrà rispondere al posto di un altro su di essa. La fede però non è un’elucubrazione, ma è l’incontro con quella persona viva che è Gesù, Figlio di Dio, attraverso il quale io capisco chi è il Padre e questa fede mi viene annunziata dalla chiesa. Per cui credendo, entro a far parte della comunità di tutti coloro che mi hanno donato precisamente quella fede.

5/ Il Simbolo degli apostoli

Sappiamo con certezza che il Credo si sviluppò ulteriormente oltre il Simbolo battesimale per le esigenze della liturgia e della catechesi ben prima dei concili. Ne abbiamo testimonianza da molte formulazioni trinitarie che si trovano nei padri pre-niceni, ma soprattutto nel cosiddetto Simbolo degli apostoli o Simbolo apostolico o ancora Simbolo romano – dove “simbolo” vuol dire appunto “professione di fede”[8].

Questo testo è attestato in maniera definita in Rufino, in latino, ed in Marcello di Ancira (nel 340 ca.) in greco, ma nella sua sostanza risale alla metà del II secolo, come sostiene giustamente il grande Manlio Simonetti[9] che sottolinea come sia evidente in esso lo sviluppo della parte cristologica in chiave anti-gnostica ed anti-docetista[10].

Il Catechismo della Chiesa Cattolica così lo presenta:

«Il Simbolo degli Apostoli, così chiamato perché a buon diritto è ritenuto il riassunto fedele della fede degli Apostoli. È l'antico Simbolo battesimale della Chiesa di Roma. La sua grande autorità gli deriva da questo fatto: “È il Simbolo accolto dalla Chiesa di Roma, dove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, e dove egli portò l'espressione della fede comune”» (Sant'Ambrogio, Explanatio Symboli, 7) (CCC 194).

Siamo certi che veniva usato a Roma e che, quindi, rappresentava la fede consegnata alla comunità romana da Pietro e Paolo, anche se il suo nome – Simbolo degli apostoli – viene piuttosto da una leggenda posteriore. Tale leggenda vuole che i dodici apostoli, prima di dividersi a due a due per annunziare il vangelo a tutto il mondo, si siano riuniti per esprimere ognuno uno degli articoli di fede che avrebbero poi predicato. Ognuno di loro avrebbe così enunziato una delle dodici espressioni che compongono il Simbolo appunto degli apostoli.

Il testo recita così:

«Io credo in Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra;
e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore,
il quale fu concepito di Spirito Santo,
nacque da Maria Vergine,
patì sotto Ponzio Pilato,
fu crocifisso, morì e fu sepolto;
discese agli inferi;
il terzo giorno risuscitò da morte;
salì al cielo,
siede alla destra di Dio Padre onnipotente;
di là verrà a giudicare i vivi e i morti.
Credo nello Spirito Santo,
la santa Chiesa cattolica,
la comunione dei santi,
la remissione dei peccati,
la risurrezione della carne,
la vita eterna. Amen».

Dalla tradizione della sua redazione ad opera dei dodici apostoli proviene l'uso di consacrare le nuove chiese con dodici croci, alle quali spesso vengono aggiunte dodici candele, vicino alle quali vengono poste le dodici frasi che compongono il Simbolo detto degli Apostoli.[11]

Il Simbolo degli Apostoli è anche quello che viene consegnato ai catecumeni e può essere utilizzato al posto del niceno-costantinopolitano - di cui stiamo per parlare - nella liturgia domenicale. È molto utile, quando si vuole presentare il Credo nella catechesi, mettere in sinossi il Credo interrogativo battesimale, il Credo degli Apostoli e quello Niceno-costantinopolitano per mostrare come in forme diverse la chiesa abbia sempre confessato la stessa fede.

6/ Gesù Figlio di Dio nel primo concilio, il concilio di Nicea del 325 d.C.

Giungiamo così ai concili ecumenici, avendo visto rapidamente la storia dell'utilizzo di formule di confessione di fede antecedenti. Credo sia ormai chiaro come una formulazione sintetica della fede appartenga all'intima essenza del vangelo e non sia una novità tardiva.

L'esigenza di una formulazione dogmatica che sconfessasse le affermazioni di Ario si manifestò nel 325, in occasione del I concilio ecumenico, il concilio di Nicea. Di esso abbiamo già parlato lo scorso anno in riferimento a Costantino. Vi rimando a quell'incontro per una spiegazione più approfondita. Qui voglio solo ricordare che, rispetto al Simbolo battesimale ed al Simbolo degli apostoli, il Credo del Concilio di Nicea, celebrato nel 325, si caratterizza per una straordinaria espressione:

«Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio, [...]
della stessa sostanza del Padre» (in greco homooùsios, cioè della stessa ousia, della stessa sostanza).

La necessità di questa formulazione sorse appunto perché Ario, un prete di Alessandria d'Egitto, iniziò a sostenere che Gesù era una creatura, la più amata da Dio, ma pur sempre una creatura, non eterna con Dio, sorta solo al momento della creazione. Per Ario affermare che Gesù era Figlio di Dio – come indubitabilmente affermano le Scritture – voleva dire semplicemente che egli era particolarmente caro a Dio, particolarmente vicino a Dio, ma pur sempre una creatura.

Non dobbiamo dimenticare che l'espressione “figlio di Dio” era nota alle religioni antiche, appunto in un senso simile a quello proposto da Ario. Ad esempio nel mondo egizio antico, il faraone è considerato figlio di dio (figlio del dio Ra, figlio del Sole). Ma, appunto, il faraone non è al livello stesso di Ra: viene da Ra prediletto alla nascita, forse anche preesiste alla nascita terrena, ma è in qualche modo una creatura di Ra che egli invia a governare il mondo come suo rappresentante.

Anche nel mondo latino si osserva qualcosa di simile. Augusto – ancora velatamente, più espliciti saranno gli imperatori suoi successori – lasciava trasparire di voler essere considerato discendente di Venere, figlio di una dea, protetto da essa, per esercitare in suo nome il proprio dominio.

I padri del concilio di Nicea, dinanzi ad Ario ed alla sua proposta di interpretare il titolo di “figlio di Dio” proprio di Gesù a partire da schemi di questo tipo si opposero risolutamente. Gesù non era una creatura particolarmente benvoluta da Dio, non era “figlio” di Dio in senso mitologico o per una qualche forma di adozione o ancora in una prospettiva di dominio politico del cosmo, bensì molto più radicalmente “della stessa natura” del Padre. Egli era Dio, egli esisteva nell'eternità prima della creazione del mondo e solo per questo egli poteva essere l'Emmanuele, il Dio con noi, colui che portava Dio e la sua salvezza nel mondo, colui nel quale finalmente il volto di Dio si manifestava agli uomini.

Vi ho già citato la risposta che dette Atanasio, vescovo della stessa Alessandria, ad Ario: se il Figlio non esiste da sempre, allora neanche Dio è Padre da sempre ed è sbagliato considerarlo essenzialmente Padre, poiché egli sarebbe diventato “padre” solo al momento della nascita di Gesù o al momento della creazione degli uomini.

Così scrive Atanasio, portando alle estreme conseguenze ciò che gli ariani dicevano: «Essi [...] tengono lo stesso linguaggio temerario dei loro maestri e dicono: Non da sempre vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infatti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma è stato creato anch’egli dal nulla. Perciò Dio non da sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre suo. Il Logos infatti è creatura e opera, estraneo e diverso dal Padre secondo la sostanza (kat’ousían). Inoltre il Figlio non è il naturale e vero Logos del Padre, né la sua unica e vera Sapienza, ma è una creatura, ed essendo una delle opere, solo impropriamente è chiamato Logos e Sapienza. Anch’egli infatti è venuto all’esistenza, come tutte le altre cose, mediante il Logos che è in Dio. Perciò il Figlio non è Dio nel senso vero e proprio del termine»[12].

Ed insiste continuamente sulla corretta interpretazione dell'espressione “figlio di Dio”, che Ario non poteva non accettare perché era biblica, ma che riduceva di significato:   

«Se dunque [il Logos] è [Figlio] secondo la prima accezione – cioè nel senso di coloro che attraverso il progresso morale ottengono la grazia del nome e ricevono il potere di diventare figli di Dio (ciò infatti dicevano anche quelli) – [il Figlio] non differirebbe in nulla da noi e non sarebbe più Unigenito, avendo anch’egli ottenuto appellativo di Figlio a partire dalla sua virtù»[13].

Vedete come è, in fondo, la stessa questione che si ripete ancora oggi. Vi dicevo all'inizio come le eresie moderne siano in fondo vecchie come il cucco ed il dogma è lì a salvaguardare che il vangelo è veramente nuovo e quando dice che Gesù è “figlio di Dio” lo dice affermando una novità assoluta rispetto a tutte le differenti forme religiose che avevano preteso di indicare questa o quell'altra creatura come “figlio di Dio”.

J. Ratzinger-Benedetto XVI, nel suo Gesù di Nazaret è tornato, con la sua capacità di andare all'essenziale, sull'argomento, affermando in un passaggio nodale del volume:

«l’espressione Figlio di Dio collegava [Gesù] con l’essere stesso di Dio. Il genere di questo legame ontologico, tuttavia, divenne oggetto di faticose discussioni da quel momento in cui la fede volle dimostrare anche la propria ragionevolezza e riconoscerla in modo chiaro. Egli è Figlio in senso traslato – nel senso di una vicinanza particolare a Dio – oppure questa espressione indica che in Dio stesso vi è un Padre e un Figlio? Che Egli è davvero «uguale a Dio», Dio vero da Dio vero? Il primo Concilio di Nicea (325) ha riassunto il risultato di questa ricerca faticosa nella parola homooúsios (“della stessa sostanza”) – l’unico termine filosofico entrato nel Credo. Questo termine filosofico serve tuttavia a proteggere l’affidabilità della parola biblica; vuole dirci: se i testimoni di Gesù ci mostrano che Egli è “il Figlio”, non lo intendono in senso mitologico o politico – le due interpretazioni che si impongono a partire dal contesto dell’epoca. Questa affermazione va intesa letteralmente: sì, in Dio stesso vi è dall’eternità il dialogo tra Padre e Figlio che, nello Spirito Santo, sono davvero il medesimo e unico Dio»[14].

Il papa ritorna poi sullo stesso tema proprio alla fine del volume – cosa che testimonia quanto questo sia stato centrale nell'intenzione che lo ha guidato nel suo scritto:

«È stato necessario chiarire compiutamente questo nuovo significato [di Figlio di Dio] mediante processi molteplici e difficili di differenziazione e di ricerca faticosa, per proteggerlo dalle interpretazioni mitico-politeistiche e politiche. Questo fu il motivo per il quale il Primo Concilio di Nicea (325 d.C.) impiegò l’aggettivo homooùsios (della stessa sostanza). Questo termine non ha ellenizzato la fede, bensì ha fissato proprio l’elemento incomparabilmente nuovo e diverso che era apparso nel parlare di Gesù con il Padre. Nel Credo di Nicea la Chiesa dice insieme con Pietro sempre di nuovo a Gesù: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”»(Mt 16,16)»[15].

Notate l'importante precisazione contenuta in questo secondo passaggio. Spesso si afferma che inserendo il termine homooùsios nel Credo – una parola che riprende la terminologia filosofica ellenistica, perché contiene il vocabolo ousia, cioè sostanza – la fede si è allontanata dalle sue origine e si è ellenizzata. È vero, invece, esattamente il contrario. Nell'ellenismo e nella filosofia greca non era contemplata la possibilità che esistesse un “figlio” della stessa sostanza di Dio.

I padri a Nicea dovettero creare piuttosto un neologismo perché stavano cristianizzando l’ellenismo, stavano usando delle categorie di pensiero nuove per l’ellenismo pur utilizzando termini ellenistici per dire e salvaguardare l'assoluta novità cristiana.

Data l'importanza dell'argomento mi ci soffermo ancora. G.K. Chesterton, con la sua capacità geniale di mostrare l'assoluta non banalità del cristianesimo ed invece le contraddizioni di chi lo attacca, ha scritto un testo bellissimo per mostrare come i critici di Nicea non si rendano conto che se il Figlio è solo una creatura allora bisogna rinunziare, se si vuole essere coerenti, anche all'affermazione che “Dio è amore”:

«Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è questa questione atanasiana della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: Egli è amore? La sola giustificazione di tale mistero è la mistica concezione che nella Sua stessa natura c’era qualche cosa di analogo all’autoespressione; qualche cosa che genera, e che contempla quel che ha generato. Senza tale idea, è illogico complicare la estrema essenza della divinità con un’idea come l’amore. Se i moderni realmente abbisognano di una semplice religione di amore, devono cercarla nel Credo atanasiano. La verità è che lo squillo del vero Cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici»[16].

Vedete come, ancora una volta, il dogma non è qualcosa di astratto, ma ci porta al cuore delle realtà più affascinanti della fede cristiana. Se il dogma non fosse vero, la nostra fede non avrebbe alcun fascino, alcuna bellezza, alcuna novità. Ed invece noi sentiamo che possiamo essere cristiani proprio perché per la prima volta nella storia il cristianesimo ha annunziato che Dio è amore e lo è in se stesso oltre e prima che per noi.

Se, a questo punto, leggiamo per intero il Simbolo di Nicea, vi scorgiamo ancora chiaramente la triplice partizione di Mt 28 e del Credo battesimale, ma vediamo come si è ampliata la parte sul Figlio, con molte espressioni prese da diversi testi neotestamentari e con la nuova espressione homooùsios:

«Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose, sia visibili che invisibili.
E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato come unigenito dal Padre, cioè della essenza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non fatto; della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale tutte le cose sono state create, sia in cielo che sulla terra. Il quale, per noi uomini e per la nostra salvezza, discese, si incarnò, si fece uomo, patì e risuscitò al terzo giorno, ritornò nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti.
E nello Spirito Santo».

7/ Il secondo concilio ecumenico, il I concilio di Costantinopoli (381 d.C.) e la Trinità: il Simbolo niceno-costantinopolitano

Ma la storia del Credo non si arrestò con il concilio di Nicea. Infatti, il dogma, proprio a motivo dell'assoluta novità del cristianesimo, pone al pensiero continuamente nuove sfide. Man mano che tutti i credenti comprendevano che proprio quel termine homooùsios salvaguardava l'assoluta originalità del cristianesimo, sorse un'ulteriore questione e precisamente come dovesse essere pensata l'unità di Dio se in Dio esistevano con certezza il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Come esprimere con fedeltà al vangelo, in obbedienza alla rivelazione portataci da Gesù, l'unità di Dio ed insieme la presenza di relazioni d'amore tra Padre, Figlio e Spirito?

Le lunghe discussioni ebbero un momento di sintesi e di chiarificazione al I concilio di Costantinopoli (l’odierna Istanbul) celebrato nel 381 (il concilio del 381 viene chiamato I concilio di Costantinopoli perché nella stessa città, che era allora capitale dell'impero romano, si svolsero altri due concili ecumenici, il II di Costantinopoli nel 553 ed il III di Costantinopoli nel 680-681 d.C.).

Il concilio innanzitutto arricchì la formula di Nicea, giungendo al Simbolo di fede detto Niceno-costantinopolitano – quello che recitiamo abitualmente a messa – ampliando con altri riferimenti biblici il secondo articolo su Gesù ed il terzo sullo Spirito Santo. Questo è il testo che ben conosciamo:

«Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
Crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
Per noi uomini e per la nostra salvezza
discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
morì e fu sepolto.
Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture;
è salito al cielo, siede alla destra del Padre.
E di nuovo verrà, nella gloria,
per giudicare i vivi e i morti,
e il suo regno non avrà fine.
Crediamo nello Spirito Santo,
che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre [“e dal Figlio” sarà aggiunto in ambito latino successivamente].
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti.
Crediamo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica.
Professo un solo Battesimo
per il perdono dei peccati.
Aspetto la risurrezione dei morti
e la vita del mondo che verrà. Amen».

Notate come il Simbolo Niceno-costantinopolitano reciti non “io credo”, ma “noi crediamo”, proprio perché esprime la fede di tutta la chiesa alla quale la nostra fede personale aderisce.

Ma il concilio non si limitò a questo. Aggiunse alla fine del Credo un’ulteriore esplicitazione dogmatica che forniva il linguaggio per parlare della Trinità, quel linguaggio che ancora oggi è il linguaggio universale della fede cristiana:

«Questa fede [...] deve essere approvata da voi, da noi e da quanti non distorcono il senso della vera fede essendo essa antichissima e conforme al battesimo; essa ci insegna a credere nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè in una sola divinità, potenza, sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in una uguale dignità, e in un potere coeterno, in tre perfettissime ipostasi, cioè in tre perfette persone, ossia tali, che non abbia luogo in esse né la follia di Sabellio con la confusione delle persone, con la soppressione delle proprietà personali, né prevalga la bestemmia degli Eunomiani, degli Ariani, dei Pneumatomachi, per cui, divisa la sostanza, o la natura, o la divinità, si aggiunga all'increata, consostanziale e coeterna Trinità una natura posteriore, creata, o di diversa sostanza».

Provo a mostrarvi in maniera semplice ciò che questo testo dice con il linguaggio ed i riferimenti dell'epoca – ma capite bene che anche qui possiamo solo balbettare qualcosa dell'immenso mistero di Dio che ci supera ed insieme si è realmente rivelato.

Sabellio era un teologo che per salvaguardare l'unità di Dio aveva affermato che in Lui c'era una sola persona (il termine persona è latino e si affermerà successivamente, in realtà il concilio utilizza soprattutto il termine ipostasi che è il suo equivalente greco) e che quest'unica persona si manifestava talvolta come Padre, talvolta come Figlio, talvolta come Spirito.

All'estremo opposto, altri – gli eunomiani, cioè i seguaci di Eunomio, gli ariani e gli pneumatomachi, termine che indicava quelli che combattevano il fatto che lo Spirito fosse una persona come il Figlio – avevano affermato che solo il Padre era propriamente Dio e che quindi il Figlio e lo Spirito avevano una “sostanza”, una ousia, diversa.

Se Sabellio, insomma, era carente nel presentare la reale differenza del Padre dal Figlio e dallo Spirito, questi ultimi accentuavano facilmente la loro differenza, proprio perché non ritenevano propriamente divini il Figlio e lo Spirito che avevano quindi una “sostanza” diversa da quella del Padre, perché non erano Dio come Lui: in questi allora non esisteva più una reale unità fra Padre, Figlio e Spirito Santo. 

I padri del concilio di Costantinopoli accolsero invece la straordinaria riflessione, insieme teologica e spirituale, dei padri cappadoci che affermavano che in Dio c'era una sola sostanza e tre ipostasi. I cosiddetti “padri cappadoci” sono tre giganti fra i padri della chiesa, tre santi che sono stati insieme monaci, vescovi e teologi: Basilio il Grande, Gregorio di Nissa e Gregorio il Nazianzieno. Tutti e tre erano nativi della Cappadocia, una delle regioni centrali dell'odierna Turchia, nella quale oggi il cristianesimo è quasi scomparso per motivi politici, mentre allora era fiorentissimo. Due di loro erano fratelli, Basilio il Grande e Gregorio di Nissa, mentre Gregorio di Nazianzo era carissimo amico di Basilio.

Essi compresero che se Padre, Figlio e Spirito erano insieme l'unico Dio e, come aveva affermato il concilio di Nicea, si doveva confessare per tutti e tre un'unica sostanza divina, ciò che li differenziava era esattamente ciò che li poneva in comunione. Era il loro essere “persone”. Il Padre era Padre proprio perché tutta la sua divinità la donava al Figlio, il Figlio era Figlio proprio perché tutto se stesso lo riceveva dal Padre e lo Spirito era la fecondità dell'amore che entrambi si scambiavano.

I padri del I concilio di Costantinopoli stabilirono che per esprimere ciò che Gesù dice nel vangelo quando afferma, ad esempio, “solo il Padre conosce il Figlio e solo il Figlio conosce il Padre” è bene utilizzare l’espressione “il Figlio è persona”, è cioè l’eterno amato dalla persona del Padre e l’eternamente amante la persona del Padre.

I Cappadoci ripresero il termine ipostasi, persona, che apparteneva ancora una volta al linguaggio ellenistico, ma mutandone profondamente il significato. Mentre fino a quel momento del termine “persona” si era sottolineata l'individualità, ora essi ne sottolineavano l'aspetto relazionale. Il Padre è persona perché è in relazione al Figlio, perché lo genera e lo ama, il Figlio è persona perché è generato ed è amato dal Padre e perché lo riama a sua volta.

Troviamo queste espressioni, ad esempio, in uno dei passaggi giustamente famosi dei padri cappadoci – ma se ne potrebbero citare molti altri. Basilio, nella Lettera 125 del suo Epistolario, nella quale egli enuncia una professione di fede che fece sottoscrivere ad Eustazio di Sebaste, anche lui vescovo: «Bisogna confessare che il Figlio è consustanziale al Padre, secondo come sta scritto, ma confessare anche che il Padre esiste nella sua ipostasi particolare, il Figlio nella sua particolare, secondo che essi [i padri di Nicea] hanno chiaramente esposto. [...Invece] una sola e identica è la realtà dell’essenza»[17].

L'enorme novità espressiva che ricevette il suo suggello al I concilio di Costantinopoli ebbe delle conseguenze decisive anche nella riflessione successiva sull'uomo e sul suo essere persona. A partire da quel concilio la riflessione cristiana ricevette luce anche per capire chi è la persona umana. Noi siamo persone perché amiamo, perché siamo in relazione gli uni con gli altri. Essere persone non significa essere individui autosufficienti, bensì essere costituiti da un dono e dal desiderio di divenire a nostra volta dono per gli altri.

Se vi soffermate un attimo a pensare capite subito l’enorme rilevanza esistenziale di queste affermazioni. Perché per capire chi siamo dobbiamo sapere a chi vogliamo bene? Perché sentiamo che la nostra “personalità” è mancante se non siamo amati e se non amiamo? Perché è impossibile capire chi siamo se non ci domandiamo per chi stiamo vivendo? Proprio perché “essere persona” vuol dire “essere in relazione”, vuol dire essere padri, figli, mariti, mogli, catechisti, ecc. Per capire l’identità di un uomo occorre sapere che relazioni ha, a chi vuole bene, chi gli vuole bene. Perché noi siamo fatti ad immagine di Dio e Dio è il mistero di una comunione di tre persone che si amano e che si scambiano incessantemente nell'amore l'unica sostanza divina.

Così essere uomini, essere persone, vuol dire imparare a voler bene, imparare ad essere in relazione. Chi non vuole bene ancora è persona ancora in maniera confusa. Vedete come, ancora una volta, una definizione dogmatica non è assolutamente qualcosa di astratto, bensì è proprio ciò che lascia emergere misteriosamente la vertigine della comprensione cristiana dell'intera esistenza.

8/ Il terzo concilio ecumenico, il concilio di Efeso (431 d.C.) e la proclamazione di Maria Madre di Dio

Arriviamo così al III concilio ecumenico, al concilio di Efeso del 431, che sarà il punto terminale di questo nostro incontro. Abbiamo visto come la basilica di Santa Maria Maggiore in cui ci troviamo fu eretta proprio un anno dopo questo concilio per mostrarne la sua importanza in Roma.

Questa volta la discussione non riguardava apparentemente né Cristo, né la Trinità, bensì Maria – ma vedremo subito come era nuovamente questione proprio di Gesù e del suo essere uno con il Padre.

Nestorio, patriarca di Costantinopoli, prese a negare alcune espressioni che erano abituali nella liturgia della chiesa ed, in particolare, contestava che Maria potesse essere definita Madre di Dio (l’espressione appare già nell’antichissima preghiera mariana Sub tuum praesidium).

Un suo testo superstite recita in proposito:

«Dio non può avere una madre e nessuna creatura potrebbe generare la Divinità. Maria partorì un uomo, il veicolo della Divinità, ma non Dio. La divinità non può essere stata portata in seno per nove mesi da una donna, o essere stata avvolta nei panni di un neonato, o aver sofferto, essere morta o essere stata sepolta».

Da questo testo appare chiaramente il suo modo di argomentare: Dio è origine di tutto, come può esistere un essere umano, una donna, che sia detta madre di Colui che è origine di tutto? Egli proponeva così che Maria fosse chiamato solo Madre di Gesù o Madre di Cristo, ma non Madre di Dio.

Senza rendersene conto, però, con questo modo di pensare stava rileggendo il cristianesimo a partire dalla mentalità delle vecchie religioni pre-cristiane che non prevedevano l'incarnazione, che non conoscevano il fatto che Dio si era fatto uomo. Infatti è vero che nessuna creatura ha mai generato Dio nell'eternità, anzi è Lui ad essere il creatore di tutto. Ma Egli ha poi voluto, nel disegno della sua libera volontà, che il Figlio si facesse uomo. E Maria non ha generato solo un uomo, a cui si è come appiccicato dall'esterno il Figlio che è Dio. No, Maria ha generato l'unico Cristo che è insieme vero uomo e vero Dio. I padri di Efeso risposero a Nestorio che certamente Maria non era all'origine della nascita eterna del Figlio in Dio, ma che avendo generato Gesù nel mondo, quel Gesù che è inseparabilmente uomo e Dio, poteva – anzi doveva – essere detta Madre di Dio, perché Madre nel mondo di Gesù Dio e uomo.

Si capisce subito, ancora una volta, come il dogma difenda l'assoluta novità del cristianesimo. Con l'incarnazione è avvenuto un evento impensabile per l'uomo prima di quel momento. Nestorio tornava a pensare secondo criteri validi prima della venuta di Cristo dimenticando il vangelo, mentre il concilio di Efeso proclamava la novità che aveva cambiato il mondo: veramente nel ventre di una donna Dio si era fatto uomo.

Così afferma testualmente il concilio di Efeso:

«Non è stato generato prima dalla santa Vergine un uomo qualsiasi sul quale poi sarebbe disceso il Verbo: ma il Verbo si è unito con la carne, accettando la nascita della propria carne [...] Perciò i santi Padri non dubitarono di chiamare Madre di Dio la santa Vergine».

Merita leggere un lungo brano di un'omelia pronunciata dal vescovo Cirillo di Alessandria durante il Concilio di Efeso, nella quale egli esalta la maternità divina di Maria e l'assoluta novità di ciò che è avvenuto in lei (le rovine della chiesa sono ancora visitabili negli scavi di Efeso in Turchia; la basilica però è spesso trascurata dagli itinerari turistici):

«Vedo qui la lieta e alacre assemblea dei santi che, invitato dalla beata e sempre Vergine Madre di Dio, sono accorsi con prontezza. Perciò, quantunque oppresso da grave tristezza [N.d.R. per gli attacchi di Nestorio e dei suoi contro la fede cattolica], tuttavia il vedere qui questi santi padri mi ha recato grande letizia. Ora si è adempiuta presso di noi quella dolce parola del salmista Davide: Ecco quanto è bello e giocondo che i fratelli vivano insieme (Sal 132,1).
Ti salutiamo, perciò, o santa mistica Trinità, che ci hai riuniti tutti in questa chiesa della santa Madre di Dio, Maria.
Ti salutiamo, o Maria, Madre di Dio, venerabile tesoro di tutta la terra, lampada inestinguibile, corona della verginità, scettro della retta dottrina, tempio indistruttibile, abitacolo di colui che non può essere circoscritto da nessun luogo, madre vergine insieme per la quale nei santi vangeli è chiamato ‘Benedetto colui che viene nel nome del Signore’ (Mt 21,9).
Salve, o tu che hai accolto nel tuo grembo verginale colui che è immenso e infinito. Per te la santa Trinità è glorificata e adorata. Per te gli angeli e gli arcangeli si allietano. Per te i demoni sono messi in fuga. Per te il diavolo tentatore è precipitato dal cielo. Per te la creatura decaduta è innalzata al cielo. Per te tutto il genere umano, schiavo dell’idolatria, è giunto alla conoscenza della verità. Per te i credenti arrivano alla grazia del santo battesimo. Per te viene l’olio della letizia. Per te sono state fondate le chiese in tutto l’universo. Per te le genti sono condotte alla penitenza.
E che dire di più? Per te l’unigenito Figlio di Dio risplendette quale luce a coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra della morte (Lc 1,79). Per te i profeti hanno vaticinato. Per te gli apostoli hanno predicato al mondo la salvezza. Per te i morti sono risuscitati. Per te i re regnano nel nome della santa Trinità.
E qual uomo potrebbe celebrare in modo adeguato Maria, degna di ogni lode? Ella è madre e vergine. O meraviglia! Questo miracolo mi porta allo stupore. Chi ha mai sentito che al costruttore sia stato proibito di abitare nel tempio, che egli stesso ha edificato? Chi può essere biasimato per il fatto che chiama la propria serva ad essergli madre?
Ecco dunque che ogni cosa è nella gioia. Possa toccare a noi di venerare e adorare la divina Unità, di temere e servire l’indivisa Trinità celebrando con lodi la sempre Vergine Maria, che è il santo tempio di Dio e il suo Figlio e sposo senza macchia, poiché a lui va la gloria nei secoli dei secoli. Amen»[18].

Si noti l’appellativo che Cirillo dà a Maria: lei è “abitacolo di colui che non può essere circoscritto da nessun luogo”. Ecco l'immenso avvenimento realizzato da Dio con l'incarnazione: Dio che non può essere contenuto da alcun luogo ha scelto di venire ad abitare nel grembo di una donna. Per questo Maria deve essere chiamata Madre di Dio.

Questa straordinaria espressione di Cirillo - “abitacolo, dimora dell'incontenibile” diverrà talmente abituale che la ritroviamo negli affreschi di una bellissima chiesa di Costantinopoli, la chiesa di San Salvatore in Chora. Se si leggono le iscrizioni in greco dei suoi mosaici si vede che Maria vi è detta Chora tou achoretou (“dimora di colui che non ha dimora”), mentre in un altro si inneggia a Cristo Chora tôn zontôn, cioè “dimora dei viventi”. Gli artisti di quella chiesa con quel nome – Chora – vollero ricordare che è Cristo ad essere la dimora di tutto ciò che esiste, ma che pure Maria è stata la dimora di quel Cristo, dimora di Lui che è incontenibile[19]. È, con altre parole, ciò che troviamo negli stupendi versi di Dante, nel XXXIII del Paradiso: «Vergine madre, figlia del tuo figlio».

Cirillo prosegue allora ripetendo come un ritornello “per te”, riferito a Maria. Veramente Maria ha cambiato il volto della storia. Se analizzassimo tutti i dogmi mariani ci accorgeremmo che essi, mentre affermano delle verità su Maria, sono anche specchio dei dogmi cristologici, difendono cioè il vangelo. Il loro rifiuto comporterebbe, infatti, la fine del cristianesimo, la riduzione di Gesù ad un solo uomo o al solo Dio.

In questo senso è profondamente vero ciò che molti autori hanno affermato nei secoli, che Maria è colei che scaccia tutte le eresie. I dogmi mariani sono l'altra faccia della cristologia e della fede trinitaria.

9/ Uno sguardo retrospettivo sul cammino percorso, con qualche consiglio per un approfondimento

Per chi volesse approfondire questo incontro un libro che merita è certamente il volume di Alexander Men’ Io credo, Il Simbolo della fede, Nova Millennium Romae. Men' è stato un sacerdote ortodosso russo ucciso negli anni della caduta del Muro di Berlino probabilmente proprio per la sua grande capacità di predicare il vangelo di Cristo. Le sue sono delle catechesi trascritte da incontri di presentazione della fede cristiana nei tempi duri del comunismo e consistono in una spiegazione del Credo con una freschezza di termini bellissima.

Merita a questo punto riprendere le considerazione iniziali arricchite dell’itinerario percorso. La storia del Credo mostra come le formulazioni dogmatiche non sono un'aggiunta inutile o addirittura una contraffazione del vangelo.

Piuttosto, come ebbe a dire Benedetto XVI:

«“Gesù è il Signore” - è la confessione comune della Chiesa, il fondamento sicuro di tutta la vita della Chiesa. Da queste parole si è sviluppata tutta la confessione del Credo Apostolico, del Credo Niceno»[20].

Similmente il grande teologo svizzero H. U. von Balthasar, commentando il Simbolo degli apostoli, ha mostrato come la professione della fede non solo sia coerente con il suo inizio, ma sia anche una realtà nella quale ogni parte richiama le altre, proprio come un organismo “articolato”:

«Ogni molteplicità proviene da qualcosa di semplice. Le molte membra dell’uomo, da un uovo fecondato. Le dodici enunciazioni del credo apostolico, anzitutto da queste tre domande particolari: Credi in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo? Ma anche queste tre formule sono espressione – ed è Gesù a fornircene la prova – del fatto che l’unico Dio è, nella sua essenza, amore e donazione [...] Queste tre “vie di accesso” a loro volta si diramano in dodici “articoli” (“articulus” indica in latino la giuntura che tiene unite fra loro le membra). La nostra fede non si affida mai a delle frasi, ma ad un’unica realtà che si dispiega davanti a noi: una realtà che è al tempo stesso la verità più alta e la più profonda salvezza»[21].

Lascio, infine, alla lettura personale un testo di R. Mastacchi, un autore che ha studiato l'iconografia del Credo:

«Come è strutturato il Credo? All’inizio c’è sempre una frase che può essere Io credo o Noi crediamo perché non può non esserci la parola di colui che professa la fede, ci deve essere il soggetto che esprime questa fede.
Abbiamo detto che la struttura è ternaria. C’è una prima parte che è la confessione teologica: Dio Padre. Se dovessimo dire una parola che qualifica questa prima parte di quella che si chiama l’economia della salvezza, cioè il modo in cui il disegno eterno del Padre si dipana nella storia, come se io prendessi un tappeto arrotolato e lo srotolassi, la prima parola che potrei dire è origine. Infatti si parla di Dio Padre e Creatore. Gli attributi legati a questa prima parte sono l’unicità (Credo in un solo Dio), la paternità (rivelata dal Figlio) e l’attività creatrice; quest’ultima è comune anche ad altre religioni.
La seconda parte è la confessione cristologica, quella da cui di fatto sorge tutto il resto. Nel Credo la parte che riguarda Cristo è anche la parte di dimensioni maggiori. A Cristo è associata la parola redenzione e l’elemento della mediazione. Pensate alla lettera agli Ebrei, Cristo è l’unico mediatore, il sommo sacerdote; ormai non abbiamo bisogno di altri sacerdoti. Gli altri elementi sono messi in sequenza, l’incarnazione, la passione e la morte, la resurrezione (il kerygma originario, passione, morte e resurrezione, ci riporta alle prime cose che gli Apostoli dicono dopo la Pasqua, pensate al discorso di Pietro a Pentecoste), l’Ascensione e il ritorno come giudice.
La terza parte è la confessione pneumatologica che riguarda lo Spirito Santo evidentemente associata alla santificazione e al compimento. A questa confessione viene associata la Chiesa. Non è secondario sottolineare che nel Credo niceno-costantinopolitano diciamo “Credo la Chiesa”, non “Credo nella Chiesa”, anche se, a rigore, troviamo anche dei Simboli di fede nei quali si usa quest’ultima espressione. Nel Credo niceno-costantinopolitano si vuole distinguere tra Dio e le opere di Dio, fra cui la Chiesa.
Ma non esiste nessun Simbolo di fede che non dica che la Chiesa è santa. Noi non siamo santi, siamo peccatori, ma la Chiesa è santa, è la sposa di Cristo, quindi è santa e immacolata. Il Simbolo professa la Chiesa, la Comunione dei Santi, il perdono dei peccati che diventa qui l’elemento fondamentale della santificazione, è la vita nuova che ci è data dalla forza del mistero pasquale di Cristo, la resurrezione della carne e la vita eterna.
Ma il Credo non è finito, ci manca una parolina importante che non può mancare: amen. Vuol dire che a tutto quello che ho detto fino ad adesso, ci credo, ci gioco la vita, dico di sì. Quell’Io credo iniziale e quell’amen finale non sono elementi di poca importanza, ci devono assolutamente essere. […]
Cirillo di Gerusalemme nelle Catechesi pre-battesimali e mistagogiche (V, 12) dice: Acquista fede nell’insegnamento e nell’annuncio e custodisci quella sola che ora ti è data dalla Chiesa, che è confermata da tutta la Scrittura e ora ascoltando attentamente parola per parola, ricorda a memoria il Simbolo della fede. Apprendi a tempo opportuno le dimostrazioni dei suoi singoli articoli, tratta dalle divine Scritture. Vedete? È [...] il rapporto fra Bibbia e Simbolo che ne è come una sintesi. Infatti non come pare opportuno agli uomini fu composto il Simbolo della fede, ma le affermazioni più importanti, raccolte insieme da tutta la Scrittura, formano l’unica dottrina della fede. […] E nello stesso modo in cui il seme della senape in un piccolo granello racchiude molti rami, così anche la stessa fede in poche parole racchiude tutta la conoscenza della religiosità che si trova nell’Antico e nel Nuovo Testamento. State dunque attenti fratelli a conservare gli insegnamenti che ora ricevete e trascriveteli nella profondità del vostro cuore.
Ci sono testi molto belli in cui i Padri della Chiesa esortavano a pregare con il Credo, a tenerlo sul cuore. Il Credo era anche una preghiera; a noi non viene immediatamente in mente questo aspetto, lo sentiamo come una cosa un po’ lontana, dottrinale, teorica. Non è così! [Le sue affermazioni] non sono asserti dottrinali polverizzati, ma sono raccolti nell’unità del Simbolo della fede»[22].

Passiamo ora alla visita della basilica di S. Maria Maggiore, iniziando dalla loggia.

10/ Visita della basilica di Santa Maria Maggiore

10.1/ La loggia

Iniziamo la visita della basilica dalla loggia perché essa – oltre ad essere magnifica - ci permette di vedere da vicino ciò che resta della facciata medioevale della chiesa. Nella spiegazione mi servirò ampiamente di un testo che fu preparato, in occasione del giubileo dell'anno 2000 con alcuni giovani studiosi di storia dell'arte e che venne edito con il titolo I luoghi giubilari in Roma, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000.

Se guardiamo Roma dalla loggia, prima di rivolgerci ai mosaici, vediamo tutto il percorso dell'odierna via Merulana ed, al suo termine, la Loggia di S. Giovanni in Laterano. Fu Sisto V (1585-1590) a volere una ristrutturazione urbanistica della città che prevedeva vie diritte che unissero i luoghi principali e la nuova erezione di obelischi, già utilizzati in età romana, a sottolinearne le direzioni – fu lui a far spostare dove è ora anche quello di piazza S. Pietro.

Fu con questo papa che la basilica di Santa Maria Maggiore acquisì nuovamente grande importanza e ridiventò centro simbolico. Eletto 15 anni prima della scadenza giubilare del 1600, papa Sisto V elaborò un piano di ristrutturazione e collegamento delle basiliche, che ebbe modo di sperimentare nei due giubilei straordinari del 1585 e del 1590. Dobbiamo a lui anche l’apertura della via che collega la Trinità dei Monti a Santa Maria Maggiore (proseguendo poi fino a Santa Croce in Gerusalemme), via che si chiamò inizialmente via Felice, per il nome di battesimo del papa.

L’importanza della basilica di Santa Maria Maggiore quale nodo cruciale nel piano sistino è data innanzitutto dalla sua posizione rispetto al sistema delle basiliche, una posizione non periferica – come nel caso della basilica di San Giovanni in Laterano o di Santa Croce in Gerusalemme, che si trovano a ridosso delle mura – né eccentrica come le altre tre basiliche patriarcali disposte ai vertici di un triangolo quasi equilatero, all’esterno delle mura di Aureliano.

A ciò si aggiunge una centralità simbolica, evidenziata da una carta di Roma di quegli anni – precisamente del 1588 opera di G. F. Bordino – che sembra rappresentare, secondo moderni studi il piano urbanistico sistino, mai completamente realizzato. Tale carta ha al centro proprio la basilica di Santa Maria Maggiore. Da essa si dipartono cinque rettifili che conducono a Santa Maria del Popolo, a San Lorenzo, a Santa Croce in Gerusalemme, a San Giovanni in Laterano e alla Colonna Traiana. Il progetto simbolico della carta viene denominato dal suo autore in syderis formam, a forma di stella, a cinque punte, i cinque rettifili, stella che è anche il simbolo di Maria.

I mosaici medioevali della facciata, oggi nascosti dalla loggia settecentesca, narrano la leggenda della fondazione della basilica. Sono opera di Filippo Rusuti, discepolo di Jacopo Torriti e di Pietro Cavallini, che li compose, secondo moderni studi, probabilmente in due distinti periodi. La parte superiore sarebbe anteriore al 1297, anno in cui i Colonna, committenti dell’opera, furono messi al bando da Bonifacio VIII. La parte inferiore sarebbe degli anni 1306-1308 quando la stessa famiglia fu riabilitata da Clemente VII, e ciò spiegherebbe bene gli influssi artistici del Giotto assisiate su questa parte. La sua firma appare sotto i piedi del Cristo e recita: PHILIPP. RUSUTI FECIT HOC OPUS.

La leggenda racconta che la mattina del 5 agosto 352 gli abitanti del colle Esquilino ebbero una strana sorpresa: durante la notte era caduta la neve ed un soffice manto ne ricopriva un tratto. Con tale prodigio la Vergine Maria aveva indicato ad un patrizio di nome Giovanni ed a sua moglie che in quel luogo desiderava fosse eretto un tempio in suo onore. Da gran tempo i due anziani coniugi, che non avevano avuto figli, desideravano impiegare le loro ricchezze in un’opera che onorasse la Madre di Dio e, a tal fine, la pregavano con fervore affinché mostrasse loro in qual modo potessero esaudire il desiderio. La Vergine, commossa dalla pietà dei due, sarebbe apparsa loro in sogno dicendo che nel luogo ove la mattina seguente avessero trovato la neve caduta miracolosamente durante la notte dovevano edificare, a loro spese, una chiesa dedicata al nome di Maria. Emozionato dal prodigio, il mattino seguente Giovanni si recò da papa Liberio a narrargli l’accaduto: il pontefice aveva, durante la notte, sognato la medesima cosa! Liberio, seguito dal patrizio Giovanni e da un grande corteo di popolo e prelati, si recò sull’Esquilino e, sulla neve ancora intatta, segnò il tracciato della nuova chiesa, che fu edificata a spese del patrizio e di sua moglie.

La decorazione a mosaico è divisa in due zone distinte, che raffigurano, in alto, Cristo in trono tra angeli e santi e, in basso, quattro scene imperniate sul racconto del Miracolo della neve.

In basso, nella prima scena, a sinistra, il pontefice Liberio, addormentato, ha la miracolosa visione. Il papa dorme e sogna avendo uno scriba o un curiale ai suoi piedi (la figura è probabilmente aggiunta nei restauri).

Nella scena seguente la Vergine appare ad annunciare il miracolo anche al patrizio Giovanni. Il patrizio è come illuminato da un raggio che lo raggiunge. Vicino a lui sono rappresentati una persona di servizio con un divanetto ed un altro personaggio che è appoggiato alle tende dell’alcova e dorme pesantemente. Sopra la Madonna che appare al patrizio Rusuti ha posto le tradizionali abbreviazioni che caratterizzano la Vergine: c’è la M greca con l’accento circonflesso (abbreviazione di “Mētēr”, “madre” in greco), e la T (theta) e la Y (upsilon) sempre con l'accento circonflesso che indicano l'abbreviazione di “Theou”, “di Dio”, quindi “Madre di Dio”.

Nella terza è il patrizio che, inginocchiato ai piedi del papa, narra il prodigio. L'episodio è ambientato dal Rusuti all'interno di una basilica che è chiaramente S. Giovanni in Laterano.

Nell’ultimo riquadro, in un tondo, il Salvatore e la Vergine fanno cadere la neve, mentre il papa, seguito dal clero di Roma e dal patrizio, traccia sulla bianca distesa di neve la pianta dell’antica basilica. L'evento accadde, secondo la tradizione, il 5 agosto ed il mosaico rappresenta il prodigio con la neve che cade in quel preciso punto del colle, mentre tutto intorno si vedono le piante verdi senza neve.

Gli scavi non hanno permesso ancora di chiarire se effettivamente Liberio abbia eretto una basilica dedicata a Maria – come attesta quell'importantissima fonte letteraria che è il Liber pontificalis – e, soprattutto, se essa fosse esattamente dove è l'attuale o fosse leggermente decentrata rispetto a questa.

In alto è invece raffigurato Cristo in trono con il libro aperto che reca scritto EGO SUM LUX MUNDI. Il gesto della mano del Cristo è – come ormai sappiamo bene, sia quello della adlocutio (il gesto della suprema autorità che parla), sia un gesto di benedizione. La tradizione orientale sottolinea che ponendo in quella posa le dita, esse si suddividono in due gruppi di due e tre dita ad indicare la doppia natura di Cristo (vero Dio e vero uomo) e la Trinità. Ed, in effetti, sempre per restare al valore delle sintesi teologiche, possiamo dire che il dogma cristologico e il dogma trinitario dicono la stessa cosa: se, infatti, Cristo non fosse vero Dio, allora Dio non sarebbe Trinità e, d'altro canto, se Dio non fosse Trinità, allora Cristo non potrebbe essere vero Dio!

Dalle fonti risulta che, prima dei restauri, ai piedi del Cristo ci fossero le figure del cardinale Iacopo Colonna e di suo fratello Pietro, ma non di papa Niccolò IV che morì nel 1292 (segno che la parte alta del mosaico è probabilmente immediatamente successivo a quella data).

A fianco del Cristo, si vedono i quattro evangelisti nei simboli dei quattro animali che provengono da Ezechiele e dall’Apocalisse. Nonostante i lavori della facciata abbiano alquanto alterato l'insieme  del mosaico, si riescono a vedere ancora, alla sinistra del Cristo, le figure della Vergine, di S. Paolo,  di S. Giacomo e di S. Girolamo (l'immagine di quest'ultimo è frammentaria). Alla destra, invece, S. Giovanni Battista, S. Pietro, S. Andrea e S. Matteo.

Il mosaico fu risparmiato dagli imponenti lavori di restauro – durarono dal 1743 al 1750 – promossi da papa Benedetto XIV e affidati all’architetto Ferdinando Fuga, protagonista dello scenario architettonico romano della metà del settecento a cui si deve la costruzione dell’attuale facciata, e che trionfa anche grazie alla grande luminosa loggia dell’ordine superiore, con il suo gioco di pieni e di vuoti.

10.2/ L'interno della basilica di Santa Maria Maggiore

Scendiamo ora a visitare l'interno della basilica. Come abbiamo detto, della basilica di papa Liberio non abbiamo più traccia. L’attuale è dovuta a papa Sisto III. L’arco trionfale porta ancora l’iscrizione dedicatoria: Xistus episcopus plebi Dei, “Sisto vescovo al popolo di Dio”.

L’interno, che conserva ancora la struttura paleocristiana, è a tre navate, divise da 40 colonne uniformi per materiale e dimensioni, dotate di capitelli ionici, che sorreggono, al posto delle tradizionali arcate longitudinali, una trabeazione ellenizzante: un ricco e modulato architrave che guida l’occhio verso l’arco trionfale e l’abside. Le pareti della navata centrale sono divise da alte paraste, fra le quali, posti sotto le finestre, sono inquadrati entro edicole di stucco i pannelli a mosaico con storie dell’Antico Testamento.

Questi elementi di derivazione classica (capitelli ionici, trabeazione, paraste, edicole) fanno sì che, nonostante le alterazioni e le trasfigurazioni dello spazio interno, ancora oggi entrando in Santa Maria Maggiore si abbia una forte percezione di spazio antico.

S. Maria Maggiore è la prima basilica costruita per volontà di un pontefice e progettata interamente da lui e da suoi collaboratori. Prima di S. Maria Maggiore a Roma c’erano le basiliche martiriali di S. Pietro e di S. Paolo alle quali si andava in pellegrinaggio e quella di S. Giovanni in Laterano regalata da Costantino alla chiesa di Roma. S. Maria Maggiore esprime nella sua forma, nei suoi messaggi iconografici, nei suoi mosaici la fede della chiesa che si auto-esprime ormai in maniera assolutamente autonoma.

Vale la pena soffermarsi un istante sul genere stesso della “basilica” cristiana. Essa riprende il suo proprio nome dalla “basilica” romana che era però orientata in senso opposto: vi si entrava dal lato lungo, per cui non si aveva immediatamente dinanzi come un itinerario da percorrere, bensì ci si trovava al centro di un ambiente. Le absidi della basilica romana erano ai lati e lì si tenevano i processi, lì i magistrati avevano i luoghi dei loro dibattimenti.

La basilica cristiana è invece un luogo orientato verso una specifica direzione opposta all'entrata: l'abside. Essa veniva costruita nella direzione del sorgere del sole, ma anche quando questo non fu più vero, lo stesso l'abside indicava simbolicamente il cielo abitato da Cristo stesso verso il quale tutti sono chiamati a camminare entrando in essa. L'edificio stesso è così immagine del cammino dell’uomo che, con la rivelazione, non vaga più senza una meta, ma si dirige verso Cristo: la vita si snoda verso il “sole”, verso la luce, che è il Signore, il quale a sua volta sta venendo incontro al suo popolo radunato.

Ancora oggi la parola “orientarsi” indica proprio il sapere dov'è la luce, dov'è l'oriente, verso dove camminare per vedere la verità. Per questo la chiesa antica non amava – salvo eccezioni – costruire chiese a pianta circolare. Anche l'esperienza celebrati ci fa subito capire che è difficile celebrare in una chiesa circolare, perché le persone si distraggono cominciando a guardarsi le une le altre e perdendo il riferimento alla centralità di Cristo: mi diceva un sacerdote, scherzando, che non sopporta le celebrazioni nuziali in chiese circolari e che aspetto per questo il Paradiso quando potremo stare tutti in cerchio, perché lì saremo santi e non sarà una distrazione il guardarci gli uni gli altri, ma anzi un rinviarci reciproco alla visione di Dio!

Il cuore, il luogo centrale, della basilica cristiana è l’altare, con il ciborio che lo sottolinea visibilmente. Perché al centro vi è la presenza di Cristo realmente vivo, quella presenza che si realizza ogni volta che si celebra l’eucarestia. Questo mostra fin dagli inizi la differenza architettonica fra una sinagoga ed una basilica cristiana. Nella sinagoga il luogo centrale è occupato dalla bimàh, il luogo dal quale si proclama la Parola, nella basilica invece al centro è l'altare, perché lì la Parola si fa carne. Nella basilica cristiana resta integro il ruolo della Parola scritta e proclamata, ma essa nel cristianesimo è ormai al servizio della pienezza della Parola che viene donata nella comunione a Cristo stesso.

Un ulteriore aspetto salta subito all'occhio in una basilica cristiana: essa è fatta perché vi stiano insieme uomini e donne. L'edificio cristiano pone tutti, senza distinzione fra uomini e donne, gli uni a fianco degli altri all’interno delle sue mura. È anche questa un’espressione simbolica dell’unità del popolo di Dio: il luogo esprime l’unità e la dignità che Dio ha dato a tutti quanti i suoi figli.

Ecco, prima di vedere i particolari della basilica di S. Maria Maggiore godiamo del suo insieme. Già il modo in cui è edificata architettonicamente ci dice come la chiesa si pensava alla metà del V secolo!

Vi invito ad osservare l'uniformità di colonne e capitelli. Questo ci fa capire che la basilica non venne costruita con materiale di spoglio – come avverrà più tardi, quando sarà ormai impossibile reperire nuovi marmi e si spoglieranno gli antichi templi e palazzi. Al momento in cui S. Maria Maggiore venne edificata, nonostante il saccheggio dei barbari, la Roma imperiale era ancora in piedi e l'impero cristiano impediva per legge di intaccare la bellezza dei templi pagani perché essi, anche se non erano più in uso, appartenevano al “decoro” della città che doveva essere preservato. La nostra basilica venne così costruita con materiale acquistato ex novo.

Non lo si avverte immediatamente, ma il punto in cui la pianta dell'attuale S. Maria Maggiore differisce maggiormente da quella di Sisto III è nell'abside. L’abside originaria iniziava il suo semicerchio appena dietro l'altare, di modo che l'altare, l'arco trionfale e l'abside erano come un tutt'uno architettonico. Invece, nel medioevo, si decise l'arretramento dell'abside per creare una zona più ampia per il presbiterio, perdendo così i mosaici absidali originari. Come vedremo subito, i mosaici dell'abside sono ora della fine del XIII secolo.

10.3/ I mosaici della navata

Soffermiamoci ora, anche se solo per poco purtroppo, sui mosaici della navata. L’importanza di tali mosaici è eccezionale perché è il primo esempio cristiano conservatosi quasi integralmente di rivestimento che oltre ad una funzione decorativa, insegna. Raccontando per immagini la storia sacra, annuncia la "buona novella" della salvezza. Rimane in essa intatta l’idea dell’edificio che guida, accompagnandolo, il muoversi fisico e spirituale del fedele verso il luogo del sacrificio liturgico, ma è presente anche quella di edificio sacro che fa suo l’evangelico ite et docete. La basilica diventa così un annuncio della salvezza fatto spazio, attraverso la sua struttura e, soprattutto, attraverso il racconto figurato ad essa sovrapposto. In tal senso S. Maria Maggiore anticipa una delle funzioni che, nel corso del medioevo, verranno assegnate alla "decorazione" delle pareti interne delle chiese, momento essenziale, non più accessorio, della modulazione spaziale.

I mosaici della navata centrale e quelli dell’arco trionfale risalgono al tempo stesso dell'edificazione della basilica, quindi alla metà del V secolo, e costituiscono il più importante ciclo musivo paleocristiano conservatosi a Roma. Lo stile dei riquadri è osservabile solo con un buon binocolo, che permetterà di ammirare il carattere non "disegnato" delle figure, delle architetture e dei tipi dei personaggi: poche tessere con pochi tocchi di colore, quasi lasciati cadere a caso, producono un effetto complessivo di grande suggestione impressionistica.

Vi lascio l'elenco delle diverse scene per poter tornare ad osservarle una per una. Nell'ambito del nostro tema interessa qui sottolineare piuttosto l'insieme. Tutta la rivelazione divina che si snoda da Abramo a Giacobbe, a Mosè, a Giosué, tende verso Maria Madre di Dio e, tramite lei, verso il Cristo. La storia sacra non è così semplicemente fatta di episodi frammentari e slegati fra di loro, bensì è un unico disegno di salvezza che ha la sua chiave di comprensione nell'incarnazione.

Tutta la patristica, pur nella diversità di metodi interpretativi della Scrittura stessa, convergeva su di un punto centrale, come ha dimostrato nei suoi importantissimi studi M. Simonetti: sempre l'Antico Testamento era letto insieme al Nuovo, perché esso è stato scritto per la fede cristiana in relazione a Cristo. Sia che si facesse un esegesi più allegorica, come ad Alessandria, sia che l'esegesi fosse più legata alla storia, come nella scuola antiochena, l'unità di Antico e Nuovo Testamento era comunque ovvio per tutti i diversi maestri del tempo.

Un'ultima notazione: vi accorgete che alcuni pannelli sono scomparsi per l'apertura delle due grandi cappelle laterali vicino all'altare, la Paolina e la Sistina, là dove vedete i due grandi archi. Altri pannelli, invece, essendosi deteriorati furono nel corso dei secoli sostituiti con affreschi che riprendono l'iconografia di quelli antichi.

Questo l'elenco dei pannelli che illustrano storie dell’Antico Testamento che preparano l’ncarnazione. Sul lato sinistro diciotto pannelli riproducono scene tratte dalla Genesi, imperniate sulle figure dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, ma solo dodici conservano i mosaici originari

Partendo dalla testa della navata sinistra, alla sinistra dell’altare, procedendo lungo la navata verso l’ingresso troviamo:

1) Melchisedech viene incontro ad Abramo offrendogli pane e vino (Gen. 14,17-20), mentre Cristo stende dall’alto il suo braccio, con chiaro riferimento tipologico all’eucarestia (l'episodio occupa l'intero pannello). La vicinanza all’arco trionfale dice la centralità del rapporto con Cristo e con i sacramenti che si vuole evidenziare nel racconto di Genesi.

2) In alto apparizione del Signore, sotto forma di tre angeli, ad Abramo presso le querce di Mamre (Gen 18,1-5) e, in basso, Abramo che ordina a Sara di preparare tre focacce (Gen 18,6) e Abramo che imbandisce la tavola ai tre angeli (Gen 18,8).

3) La separazione di Abramo, a sinistra, che pone la mano sul capo di Isacco, e di Lot con le due figlie (Gen 13,8-12); in basso due gruppi di animali con pastori, simboli della separazione fra i due (Gen 13,5-7).

Segue l’arco, aperto nel XVII secolo in occasione della costruzione della cappella Paolina. I tre mosaici ubicati in questo spazio furono distrutti. Il ciclo continua ora con:

4) In alto Isacco benedice Giacobbe alla presenza di Rebecca (Gen 27,22-29) e, in basso, Esaù che si presenta al padre, ritornando dalla caccia (Gen 27,30-31).

5) Il pannello che segue è un dipinto raffigurante il sogno di Giacobbe (Gen 28,11-15).

6) In alto Rachele annuncia a Labano l’arrivo di Giacobbe (Gen 29,12), Labano e Giacobbe si abbracciano (Gen 29,13) e, in basso, Labano introduce Giacobbe nella propria casa (Gen 29,13b) a destra.

7) Giacobbe, a destra, chiede in moglie Rachele a Labano e quest’ultimo al centro che indica a sinistra il gregge da servire per sette anni (Gen 29,15-19).

8) A sinistra in alto, Giacobbe lascia il gregge per chiedere in sposa Rachele e, in basso, invita gli amici alle nozze, che a destra vengono celebrate con la dextrarum iunctio (Gen 29,21-22).

9) Giacobbe chiede a Labano gli agnelli chiazzati, in alto. In basso, la divisione del gregge (Gen 30,25-35).

10) A sinistra Giacobbe fa vedere le verghe chiazzate agli armenti (Gen 30,37-43). A destra il Signore dice a Giacobbe di partire. In basso Giacobbe annuncia alle donne la sua partenza (Gen 31,3-16).

11) Affresco di età posteriore fuori sequenza con Giacobbe che crede di riconoscere la veste insanguinata del figlio Giuseppe, che invece è stato venduto in Egitto (Gen 37,33-34).

12) A sinistra in alto, l’arrivo dei messi di Giacobbe al cospetto di Esaù (Gen 32,3-5) e, a destra, i messi informano Giacobbe e le due mogli (Gen 32,6). In basso, probabilmente, l’abbraccio dei due fratelli molto deteriorato (Gen 33,3-5).

13) Mosaico cinquecentesco fuori sequenza con i preparativi per il sacrificio di Isacco.

14) In alto, Camor e il figlio Sichem chiedono a Giacobbe la mano della figlia Dina (Gen 34,4-5) e, in basso, gli altri fratelli tornano irati dai campi (Gen 34,7).

15) In alto, i fratelli di Dina discutono con Camor e Sichem (Gen 34,8-18) e, in basso, riferiscono agli altri sull’accordo raggiunto (Gen 34,20-23).

16-17-18) Gli ultimi tre pannelli sono dipinti di epoca successiva e tematicamente fuori sequenza.

Sul lato destro dei 18 pannelli ne restano 15 a mosaico. Riproducono scene tratte dai libri dell’Esodo, dei Numeri e di Giosuè. Insieme testimoniano l’aiuto miracoloso di Dio, nel cammino che condurrà alla terra promessa. È la preparazione del miracolo per eccellenza, l’Incarnazione del Figlio.

Partendo dal presbiterio abbiamo:

1) Un primo pannello dipinto fuori sequenza.

2) In alto, Mosè, nelle vesti di un soldato romano, viene adottato dalla figlia del Faraone (Es 2,9-10) e, in basso, Mosè disputa con i filosofi, episodio tratto da Filone di Alessandria.

3) In alto, Mosè sposa Zippora (Es 2,21) e, in basso, Dio chiama Mosè dal roveto ardente (Es 3,1-4).

Segue l’arco, aperto davanti alla cappella di Sisto V, che sostituì tre pannelli.

4) Il passaggio del Mar Rosso (Es 14,16-31); l'episodio occupa l'intero pannello.

5) In alto a sinistra, mormorazione del popolo contro Mosè e Aronne (Es 16,2-3) e, a destra, Dio che parla a Mosè (Es 16,4-5). In basso, il miracolo delle quaglie (Es 16,13).

6) In alto a destra, il popolo si lamenta dell’amarezza dell’acqua (Es 15, 24) e, a sinistra, Mosè parla con Dio che gli ordina di rendere dolce l’acqua, immergendovi un legno, “tipo” della croce (Es 15, 25). In basso, Mosè ordina a Giosuè di combattere contro Amalek (Es 17, 9).

7) Vittoria contro Amalek, a causa della preghiera di Mosè, Aronne e Cur sul monte (Es 17, 10-13); l'episodio occupa l'intero pannello.

8) In alto, ritorno degli esploratori della terra promessa (Nm 13,26-33) e, in basso, tentativo di lapidazione di Mosè, Giosuè e Caleb (Nm 14,10).

9) In alto a sinistra, Mosè consegna ai sacerdoti il libro della Legge da porre accanto all’Arca dell’Alleanza (Dt 31,24-29), in alto a destra, Mosè muore sul monte Nebo (Dt 35,1-5). In basso, Giosuè ordina ai sacerdoti di passare davanti al popolo con l’Arca dell’Alleanza (Gs 3,6).

10) In alto, miracoloso passaggio del Giordano (Gs 3,14-4,11) e, in basso, invio degli esploratori a Gerico, con Raab che, avendoli nascosti, sulle mura nega all’inviato del re la loro presenza (Gs 2,1-6).

11) In alto, apparizione a Giosuè del Capo delle schiere celesti (Gs 5,13-16) e, in basso, fuga da Gerico degli esploratori che scendono le mura aiutati da Raab e, arrivati al campo, relazionano a Giosuè (Gs 2,15-24).

12) In alto, l’accerchiamento di Gerico e, in basso, la processione dell’Arca al suono delle trombe (Gs 6,1-18).

13) In alto a destra, l’assedio da parte dei cinque re amorrei della città di Gabaon, alleata di Israele, e, in alto a sinistra, i Gabaoniti che chiedono aiuto a Giosuè. In basso a sinistra l’apparizione del Signore a Giosuè e, in basso a destra, Giosuè che marcia a cavallo per soccorrere Gabaon con i suoi (Gs 10,5-9).

14) In alto, Giosuè combatte contro gli amorrei (Gs 10,10) e, in basso, Pioggia miracolosa di pietre sui nemici di Israele (Gs 10,11).

15) Il sole e la luna si fermano su Gabaon (Gs 10,12-14); l'episodio occupa l'intero pannello.

16) In alto, i re ribelli vengono condotti a Giosuè e, in basso, Giosuè ordina di punirli (Gs 10,22-25).

17-18) Gli ultimi due pannelli sono fuori sequenza e sono dipinti di epoca successiva.

In occasione dell’Anno Santo del 1600 il cardinale Domenico Pinelli "risarcì la navata di mezzo", ossia il ciclo musivo eseguito sotto Sisto III.

Il programma di "ridecorazione" prevedeva il restauro di alcuni mosaici, la sostituzione di quegli ormai irrecuperabili con affreschi, e la chiusura di venti delle quaranta finestre che si aprivano sulle pareti della navata centrale, e la nuova decorazione con affreschi raffiguranti storie del Nuovo Testamento. Vennero raffigurati ventiquattro "misteri divini" che evidenziano il ruolo di Maria nella redenzione dell’umanità.

Seguendo l’ordine logico, dall’altare maggiore verso l’ingresso a destra: Gloria angelica, I Santi Gioacchino e Anna e l’Immacolata Concezione, La nascita della Vergine (il solo affresco settecentesco di tutta la serie realizzato nel 1742 durante i restauri del Fuga), La presentazione al Tempio di Maria, lo Sposalizio della Vergine, l’Annunciazione, il Sogno di Giuseppe, la Visitazione, l’Adorazione dei Pastori, l’Adorazione dei Magi, la Circoncisione.

Sulla parete d’ingresso: la Fuga in Egitto. Sull’altra parete: Gesù cresce a Nazareth, la Santa Famiglia ritorna al Tempio, le Nozze di Cana, la Caduta di Cristo sul Calvario, la Crocifissione e il Compianto, Cristo agli Inferi, la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste, la Morte di Maria (eseguito nel 1614, dopo l’apertura della cappella Paolina), l’Assunzione, l’Incoronazione di Maria.
L’iconografia dei nuovi affreschi conclude, a distanza di quindici secoli, il ciclo della Storia della Salvezza, collegandosi ai mosaici sottostanti e a quelli dell’arco trionfale.

10.4/ L'arco trionfale ed i suoi mosaici

I singoli mosaici, appesi come quadri, ritmano il racconto fino all’arco trionfale. Qui la decorazione diventa una rappresentazione frontale e la stesura dei mosaici corre continua, su un piano composto da quattro pannelli orizzontali privi di incorniciatura, che celebrano la divina maternità di Maria, con episodi dell’infanzia di Gesù, liberamente desunti, tra l’altro, anche dai Vangeli apocrifi.

L’arco trionfale rappresenta simbolicamente la grande porta attraverso la quale l’umanità giunge fino a Dio: per questo vi sono raffigurati gli eventi dell'incarnazione. Al centro della prima fascia, in alto, troviamo l'iscrizione Xistus episcopus plebi Dei ovvero “papa Sisto vescovo al popolo di Dio” di cui abbiamo già parlato. Sopra l'iscrizione si vede il trono su cui è insediato il crocifisso gemmato: questa immagine viene tradizionalmente chiamata etimasia, cioè la “felice attesa” del ritorno di Cristo.

Come suppedaneo del trono si vede il rotolo con i sette sigilli, il simbolo con il quale l'Apocalisse descrive la storia stessa, il cui significato solo Cristo può aprire. Il trono è rappresentato come una sella curulis, simile al trono imperiale ed, alle testate dei due braccioli, porta le figure delle teste di Pietro e Paolo che sono poi duplicate a figura intera, in veste senatoriale, a fianco del trono, in mezzo ai simboli dei quattro evangelisti.

Sappiamo che anche la controfacciata recava una iscrizione con il nome di Sisto III. L'iscrizione ora scomparsa recitava:

«Vergine Maria, io Sisto ti ho dedicato il nuovo edificio, degno dono al tuo ventre portatore di salvezza. Tu genitrice, ignara dell'uomo, avendo alfine partorito, dalle intatte viscere si è prodotta la nostra salvezza. Ecco i testimoni del tuo grembo portano i loro doni e sotto i piedi giace la sofferenza di ciascuno: il ferro, la fiamma, le belve, il fiume, il terribile veleno. Tuttavia anche se tante sono le morti, una è la corona che resta».

Il primo registro narra il dogma di Maria, Madre di Dio, come viene rivelato, nei vangeli dell’infanzia, al popolo ebraico. A sinistra dell'etimasia, la doppia, originalissima, Annunciazione della nascita del Figlio di Dio, a Maria e a Giuseppe.

Maria è vestita come una principessa romana, siede su un piccolo trono e dipana, col fuso sotto il braccio, la matassa di porpora destinata a tessere il velo del Tempio. La colomba dello Spirito Santo e l’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio, volteggiano su di lei. Tre angeli la circondano, l’assistono e sembrano parlarle. Il filo rosso è quello del velo del Tempio che si strapperà al momento della crocifissione e rappresenta simbolicamente la carne di Cristo che, lacerandosi il giorno della passione, lascerà  vedere finalmente il volto di Dio. Quel Dio che non era possibile vedere nell'Antico Testamento, nemmeno nel Santo dei Santi all'interno del Tempio, verrà infine visto da tutti nella crocifissione e nella risurrezione, manifestando la gloria di Dio. Un quarto angelo fa, invece, da raccordo ad un quinto che porta l’annuncio a Giuseppe. Compaiono due abitazioni alle spalle di Maria e Giuseppe e questo sottolinea, visivamente, il fatto che sono fidanzati e non abitano nella stessa dimora. Giuseppe ha inoltre un aspetto ancora molto giovanile rispetto alle raffigurazioni degli altri pannelli del mosaico.

A destra dell'etimasia compare la Presentazione al Tempio. Si individuano i quattro animali per il sacrificio indicati dai vangeli apocrifi e il vecchio Simeone che riconosce il Figlio di Dio, mentre altri dodici sacerdoti, dietro di lui, rappresentano l’incredulità. Anna benedice il bambino. La Sacra Famiglia è isolata visivamente da tre angeli, che la staccano dal resto dei personaggi della scena. All’estrema destra, abbiamo l’angelo che appare in sogno a Giuseppe, per suggerirgli la fuga in Egitto.

Il secondo registro narra la rivelazione della divinità di Gesù ai pagani. A sinistra l’Adorazione dei Magi, che rappresentano i primi non ebrei che si inchinano dinanzi al Figlio di Dio, precursori dei popoli che accoglieranno il Vangelo. Gesù è rappresentato come un bambino già cresciuto seduto su di un alto trono, dietro il quale brilla una stella e quattro angeli si ergono a corona.

A destra un’altra scena, pensata in stretta relazione con la prima è quella dell’episodio apocrifo riguardante Afrodisio, governatore della città egiziana di Sotine, che si fa incontro al Cristo durante la fuga in Egitto, riconoscendone la divinità. Di nuovo la Famiglia del Signore è raffigurata staccata dal contesto grazie alla presenza di quattro angeli.

Il terzo registro, in opposizione tematica ai due precedenti, rappresenta il rifiuto della divinità di Gesù. A destra e a sinistra troneggia il re Erode, vestito come un imperatore romano, su trono gemmato, con diadema e nimbo, circondato dai suoi soldati. Seguono dal lato sinistro i soldati che sottraggono i fanciulli alle madri di Betlemme per ucciderli, e dall’altro, gli scribi consultati per sapere quale luogo le Scritture indichino per la nascita del Messia, ma, in parallelo ai soldati, increduli. Seguono infine nel mosaico di sinistra le madri che ancora tengono in braccio i bambini, i martiri innocenti primi testimoni del Signore, che stanno per essere uccisi ed, in quello di destra, i Magi che arriveranno fino a Betlemme.

Il quarto registro ritrae le due città di Betlemme e Gerusalemme, che accolgono il gregge degli eletti, simboleggiato da sei pecore per parte. Le due città sono la città della nascita di Gesù e quella della sua Pasqua. Proprio il Natale (Dio che si fa uomo) e la Pasqua (Cristo che offre la vita e il Padre che gli ridona la vita nella resurrezione) esprimono insieme tutta la novità della fede cristiana.

Il catino absidale originario, che un tempo era contiguo all’arco trionfale, presentava la raffigurazione della Vergine tra santi, completando in tal modo il "programma" iconografico e teologico del ciclo musivo.

10.5/ L'abside

Questo primo ciclo musivo, fra i più importanti cicli mariani esistenti, fu completato sotto papa Leone Magno (440-461). Sarà in parte rinnovato 850 anni più tardi con papa Niccolò IV (1288-1292), il primo pontefice proveniente dall’ordine francescano, che fin dagli inizi del suo pontificato aveva dato il via ad un grandioso progetto di rinnovamento delle principali chiese di Roma dedicate alla Vergine (Santa Maria in Aracoeli e Santa Maria in Trastevere) e che in Santa Maria Maggiore continuerà l’opera di Papa Leone Magno con il nuovo mosaico absidale, resosi necessario per l’arretramento dell’abside

Tale mosaico, uno dei maggiori mai realizzati a Roma, fu terminato verso il 1296, stando ad antiche letture di un’iscrizione oggi scomparsa, posta sotto la firma dell’autore – JACOB TORRITI PICTOR H. OP. MOSIAC FEC – che si legge vicino alla figura di san Francesco.

Il programma iconografico è centrato sulla figura della Vergine e si articola in due zone distinte: la conca absidale, in alto, e la fascia sottostante. Nella conca dell’abside è la scena dell’Incoronazione di Maria tra santi (Giovanni Battista, Giovanni evangelista, e Antonio a destra, Pietro, Paolo e Francesco a sinistra). La scena mostra il Redentore che presenta Maria Incoronata: siamo di fronte all’atto dell’Incoronazione della Vergine, inserita in una azzurra sfera stellata incorniciata da classicheggianti girali d’acanto. Le due figure sono disposte simmetricamente e si congiungono solo nel gesto della mano del Cristo, che incorona.

L'Incoronazione di Maria ha anche un significato sponsale, poiché Maria rappresenta l'umanità-Chiesa che viene assunta da Cristo che la ama come sua sposa, legandosi d'amore eterno a lei. Lo precisa l'iscrizione sottostante che fa esplicito riferimento al talamo:

«Maria Vergine assunta all'eterea dimora, dove il Re dei Re siede sul talamo stellato, la Santa Madre di Dio è elevata ai Regni celesti al di sopra dei cori angelici».

Maria è la sposa di Cristo: tutta la chiesa che è in lei prefigurata. Questo vuol dire che Cristo ci ama di un amore sponsale. E come Cristo è disposto a dare la vita per la chiesa, così questa dovrebbe essere disposto ad offrire se stessa per il suo Signore. È il Cantico dei cantici riletto in chiave cristologica, qui esplicitato dal libro che il Cristo tiene in mano aperto al versetto che dice: «Vieni mia diletta e ti porrò sul mio Trono».

Sopra l'Incoronazione sta un manto a forma di semicirconferenza con una piccola croce in alto che rappresenta simbolicamente la figura di Dio Padre che tutto benedice e abbraccia.

Ai piedi del trono la luna ed il sole, simboli del tempo ormai dominato dall'eternità. Ai lati vediamo anche i committenti, in dimensioni ridotte, Niccolò IV, a sinistra, e il cardinale Colonna, a destra. Le dimensioni diminuiscono dai santi del tempo di Gesù ai "moderni" (S. Francesco e S. Antonio) e ai committenti contemporanei a segnarne la differenza. Siamo, comunque, nella scia della novità del mosaico di san Giovanni in Laterano dove già comparivano gli stessi santi francescani, in un contesto di netta impronta francescana, quale fu quella impressa da papa Niccolò IV.

Sotto l'Incoronazione corre una scena di fecondità paradisiaca, originata al centro dai quattro fiumi di cui parlano la Genesi e l'Apocalisse e con una rappresentazione, in piccolo, della Gerusalemme celeste con un cherubino fiammeggiante ed i due apostoli Pietro e Paolo al suo interno. L'immagine di fecondità si allarga poi a tutta l'abside con lo svilupparsi dei racemi dentro i quali si intravedono numerosi uccelli, fra i quali due pavoni, simmetricamente disposti, simbolo di immortalità.

Nell’ordine inferiore del catino absidale, tra le ogivali e strombate finestre gotiche, rare a Roma, cinque scene tratte dalla vita di Maria: l’Annunciazione e la Natività, a sinistra; l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio, a destra; la Dormitio Virginis, nel mezzo. I mosaici dell’arcone raffigurano i ventiquattro “anziani” dell’Apocalisse ed, in alto, i simboli dei quattro evangelisti.

Si tratta di un tipo di iconografia piuttosto tradizionale, la cui origine è da ricercarsi nell'ambito della cultura figurativa del gotico francese, in particolare nella scultura delle cattedrali e nella miniatura, ma il referente diretto per il mosaico del Torriti è, in ambito romano, il ciclo eseguito da Pietro Cavallini per la chiesa di Santa Maria in Trastevere, nonostante un’incertezza di datazione (1291 o 1296-98) per quest’ultima, non permetta di chiarire univocamente la precedenza cronologica delle due opere.

Un confronto tematico tra i due cicli permette però di rilevare un’interruzione nello svolgimento "storico" della sequenza narrativa, e di affermare che, nel mosaico di Santa Maria Maggiore, lo spostamento della scena della Dormitio Virginis, di forte drammaticità narrativa, al centro della sequenza e in asse con la sovrastante scena dell’Incoronazione, sottolinea in maniera preminente la vicenda ultraterrena della Vergine.

Questa sottolineatura è certamente in linea con un'ispirazione francescana. La Porziuncola è dedicata a Santa Maria degli Angeli, cioè, secondo il linguaggio medioevale, a Maria Assunta, portata dagli angeli in cielo. Le opere dei francescani San Bonaventura e Matteo d’Acquasparta evidenziano poi la regalità di Maria, la sua Assunzione in corpo e anima e, soprattutto, il legame strettissimo fra Dormitio, Assunzione, Incoronazione.

Nella Dormitio sono da notare anche il particolare della presenza di due personaggi, vestiti con saio francescano, ai piedi del letto della Vergine e la raffigurazione splendida del Cristo che prende tra le sue braccia la animula di Maria. Egli che era stato tenuto, piccolo, in braccio da lei, ora la prende, piccola, tra le sue braccia forti e buone perché sia assunta in cielo.

Tipica è anche la rappresentazione della Natività. La Madonna è distesa, stanca, perché ha partorito e la luce divina si proietta proprio sul volto del Bambino che è dentro una mangiatoria simile ad un sepolcro, perché quel Bambino viene al mondo per offrire la sua vita nella Pasqua.

Nella testata sinistra dell’arcone dell’abside si trova un mosaico con san Girolamo che spiega le Scritture alle sue discepole Paola e Eustochio. Nella testata destra, invece, san Matteo che predica agli ebrei. Questi due mosaici ricordano che proprio nella basilica di Santa Maria Maggiore la tradizione venera alcune reliquie di san Matteo e la reliquia del corpo di san Girolamo. Quest’ultimo sarebbe stato qui traslato da Betlemme, al tempo dell’invasione araba.

In questa basilica dedicata alla Madre di Dio e all’Incarnazione del Verbo, ben riposa il corpo di San Girolamo che ha talmente amato l’Incarnazione di Cristo, da scegliere di vivere nei pressi della grotta della Natività per studiare, pregare e tradurre le Scritture. Sua è la splendida espressione lapidaria, citata dalla Dei Verbum: “Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est”, cioè “l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”.

L’intera opera musiva ci dà la misura di quale fosse il livello dell’arte romana alla fine del Duecento, quando, grazie a committenze papali e cardinalizie, venne a radunarsi il meglio dell’arte internazionale e si creò un clima che può essere considerato uno dei presupposti della rivoluzione figurativa giottesca che si realizzerà, di lì a pochissimi anni, in Assisi.

10.6/ La confessione sotto l'altare e la tomba del Bernini

Giungiamo ora al cuore della basilica. Nella Confessione sotto l’altare, il suo luogo più venerato della basilica, troviamo una cripta-sacello, internamente rivestita di metalli e pietre preziose, per custodire quelle che la tradizione ritiene essere le reliquie della grotta di Betlemme. Dal VII secolo, infatti, nella basilica sono venerate le reliquie della culla di Gesù, nella quale la Vergine avrebbe deposto il Signore appena nato. Tali reliquie sarebbero state portate dalla Terra Santa a Roma al momento dell'invasione araba.

Il loro arrivo sarebbe contemporaneo alla traslazione a Roma di alcune reliquie di S. Matteo e del corpo di S. Girolamo di cui abbiamo già parlato. Certo è che già nel VII secolo la basilica portava il titolo di ad Praesepe – ma forse questo indicava solo che vi era una cappella dedicata alla Natività. In questa cappella era custodita la reliquia della culla e per essa papa Niccolò IV fece realizzare da Arnolfo di Cambio il “presepe” in pietra che visiteremo nel Museo al termine di questo nostro incontro.

Fu Pio IX a volere che la culla fosse portata al centro della basilica, facendo realizzare dal Vespignani la confessione sotto l'altare. Per questo Leone XIII fece a sua volta realizzare poi la statua di Pio IX che adora il Presepe che è dinanzi alle reliquie.

A destra della confessione, ai piedi del presbiterio, troviamo anche la tomba della famiglia Bernini dove è sepolto Gian Lorenzo Bernini.

10.7/ La Cappella Sistina

Nella navata laterale destra, a poca distanza dall’attuale Cappella Sistina (detta anche del Sacramento), si trovava l’Oratorio del Presepe di cui abbiamo appena parlato. L'attuale Cappella Sistina prende il suo nome da Sisto V (1585-1590), il pontefice che la fece costruire dall’architetto Domenico Fontana perché divenisse la Cappella del Santissimo Sacramento – di Sisto V abbiamo già parlato nella loggia per i suoi lavori di urbanistica in Roma. Il pontefice volle che la Cappella contenesse anche le reliquie della culla - e qui fossero così esposte le sculture di Arnolfo di Cambio - e che divenisse il luogo della sua sepoltura (rilievi con le Opere di fede e di carità di Sisto V, l'Incoronazione, la Canonizzazione di Diego de Alcalà, la Pace tra Sigismondo di Polonia e l'imperatore d'Austria).

Anche le spoglie di San Pio V, il pontefice della battaglia di Lepanto e del Rosario, riposano in questa cappella (rilievi con l'Incoronazione, la Consegna del bastone del comando al conte Sforza di Santa Fiora, la Consegna dello Stendardo di Lepanto a Marcantonio Colonna, la Vittoria sugli Ugonotti, la Battaglia di Lepanto).

10.8/ La Cappella Paolina

La Cappella Paolina prende il nome da Paolo V (Camillo Borghese, 1605-1621) che la fece realizzare per contenere l'antichissima icona di Maria che è ora la pala d'altare della Cappella.

L’icona della Vergine detta Salus Populi romani è collocata sull’altare in una cornice d’angeli che la recano in gloria, splendendo sul fondo turchino di un cielo di lapislazzuli.

Antichissimo è il culto di questa immagine, che la tradizione vuole dipinta da san Luca evangelista. Le lettere greche che campeggiano ai lati della Vergine sono, di nuovo, l’abbreviazione del suo titolo di Madre di Dio, affermazione simmetrica della divinità di Gesù. San Luca viene ritenuto pittore ed autore di numerose icone antichissime della Vergine probabilmente a motivo del cosiddetto Vangelo dell'infanzia (Lc 1-2) nel quale troviamo la descrizione della nascita del Signore. Le icone attribuite a San Luca sono comunque antichissime, poiché appartengono tutte al I millennio – si pensi che non esistono in Grecia o in Russia icone così antiche.

Stefano Maderno realizzò per lo stesso altare la scultura in alto con papa Liberio che traccia nella neve il disegno della prima basilica. Le statue della cappella rappresentano persone che sono state importanti nella vita di Maria o l'hanno profetizzata nell'Antico Testamento o esaltata nel corso della storia della chiesa (San Giovanni evangelista, San Giuseppe, Aronne, Davide, San Bernardo, San Dionigi Areopagita).

Non abbiamo tempo di soffermarci su tutti gli affreschi presenti in questa Cappella, opera di contemporanei di Caravaggio, come il Cavalier d'Arpino, il Baglione e altri, cui si aggiunse più tardi Guido Reni. Merita però soffermarsi almeno sugli affreschi della Cupola dove Ludovico Cardi detto il Cigoli dipinse Maria come l'Immacolata tra i dodici apostoli nella gloria angelica secondo la simbologia dell'Apocalisse con la luna ai suoi piedi.

La luna è rappresentata non a partire dall'iconografia abituale come mezzaluna, bensì a partire dalle osservazioni scientifiche di Galileo Galilei, quindi non perfettamente sferica, non “di sfericità esattissima”, non “liscia uniforme... ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della terra”. L'affresco è del 1612  e questo fa comprendere come la questione galileiana non possa essere risolta semplicemente sottolineando la sua condanna: c'era nella chiesa di allora un grande interesse per la sua opera[23].

La Cappella custodisce anche la tomba di Clemente VIII (rilievi con l'Incoronazione, opera di Pietro Bernini, la Vittoria sugli insorti di Ferrara, la Conquista di Strigonia, la Pace tra Filippo II ed Enrico IV, la Canonizzazione di San Giovanni e di San Raimondo). Pietro Bernini scolpì per questa Cappella anche l'Assunzione che ora è nel Battistero.

Come Sisto V, anche Paolo V volle preparare la sua tomba nella Cappella che aveva eretto (rilievi con l'Incoronazione, l'Imperatore d'Ungheria in armi, Paolo V che ordina la fortificazione di Ferrara, la Canonizzazione di San Carlo Borromeo e di Santa Francesca Romana, l'Udienza agli ambasciatori di Persia).

10.9/ La Cappella Sforza

Il disegno della Cappella Sforza fu affidato a Michelangelo, come ricorda il Vasari e ci restano due suoi schizzi del progetto. Alla sua morte, l'opera fu presa in mano da Tiberio Calcagni e poi da Giacomo Della Porta che la realizzarono a partire dal suo disegno, ma con modifiche.

10.10/ Il Museo ed il Presepe di Arnolfo di Cambio

Concludiamo la nostra visita al Museo della Basilica, recentemente aperto. Questo ci permette di ammirare lo straordinario Presepe di Arnolfo di Cambio, che era stato realizzato per circondare le reliquie della Culla.

Il Presepe ben si inserisce nel contesto delle attenzioni di Niccolò IV, papa francescano, che fece realizzare i mosaici della nuova abside. Secondo la spiritualità francescana, la visualizzazione dell'incarnazione del Verbo nel Presepe era uno strumento prezioso per la maturazione della fede. Dopo il 1291, Niccolò IV affidò ad Arnolfo, che si era recato a Roma fin dal 1275 per maturare la sua arte che avrebbe poi profuso in diversi cantieri anche non romani, la realizzazione del Presepe.

Come è noto – non possiamo qui soffermarci sulla questione che è estremamente interessante – una querelle moderna mostra come il baricentro dell'innovazione artistica che vide modificarsi la pittura, la scultura e l'architettura, non va posto troppo facilmente a Firenze con Giotto ed Arnolfo. Infatti entrambi questi autori maturarono anche a Roma e risentirono di influssi che respirarono qui nell'urbe - e che Giotto maturò poi nel cantiere di Assisi. Misteriosa resta l'identità, ad esempio, del famoso Maestro delle storie di Isacco della basilica di San Francesco che la Romanini propose di identificare con Arnolfo stesso.

Del Presepe di Arnolfo restano San Giuseppe, i Re Magi, il bue e l’asinello. La figura della Vergine vi troneggia nel mezzo, ma è opera cinquecentesca. Il san Giuseppe in piedi, modesto e pensieroso ma ancora sbalordito, guarda in avanti con le mani poggiate al grosso bastone, avvolto in un’ampia tunica di sapore classicheggiante. Mirabile tra le figure dei Magi, quella del vecchio inginocchiato: implorante, come curvato dagli anni e dalla stanchezza, con grande fervore solleva il capo per implorare. Forse accompagnavano queste figure i pastori adoranti e gli angeli, di cui purtroppo non abbiamo più traccia.

Note al testo

[1] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, p. 26.

[2] Benedetto XVI, Lettera ai seminaristi, 18/10/2010.

[3] G.K. Chesterton, Perché sono cattolico e altri scritti, Gribaudi, Milano, 2002, p. 12.

[4] Abbiamo già commentato a proposito il Vangelo di Marco nel I anno del nostro corso: cfr. Il vangelo di Marco e Roma, di Andrea Lonardo.

[5] E di altri testi ancora come, ad esempio, 2 Tm 2,8 e 1 Pt 3,18.

[6] Cfr. il testo completo in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo, Cantagalli, Siena, 2006. pp. 44-45.

[7] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia, 1969.

[8] “Simbolo” è termine che viene dal verbo greco sun-ballō che vuol dire “metto insieme” e, nel linguaggio cristiano diviene presto quella formula “che raccoglie” le principali verità della fede.

[9] Cfr. M. Simonetti, Introduzione a Rufino, Spiegazione del Credo, Città nuova, Roma, 1993, pp. 13-15.

[10] Sullo gnosticismo ed il docetismo, vedi l'incontro del II anno del nostro corso su Ireneo di Lione: S. Pietro in Montorio in Roma: S. Ireneo di Lione, dinanzi a Marcione ed alla gnosi. II incontro del II anno del corso sulla storia della chiesa di Roma, di Andrea Lonardo.

[11] Cfr. su questo Il Simbolo degli Apostoli: il Simbolo della fede nella catechesi e nell’arte, di Roberto Mastacchi e Ryszard Knapiński.

[12] Atanasio, Il Credo di Nicea, 6.1 (p. 67 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

[13] Atanasio, Il Credo di Nicea, 6.4 (p. 68 dell’edizione Città Nuova, Roma, 2001).

[14] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, p. 368.

[15] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano, 2007, p. 405.

[16] G. K. Chesterton, L’uomo eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pp. 281-282.

[17] Nella stessa Lettera Basilio tratta anche della divinità dello Spirito Santo: «[Nel concilio di Nicea] la dottrina sullo Spirito Santo è esposta di sfuggita, poiché non si ritenne che richiedesse alcun chiarimento, per il fatto che allora non era ancora stato agitato questo problema e la dottrina su di lui non era ancora insidiata nell’animo di coloro che avevano fede in lui. Ma i mali semi dell’empietà (che furono gettati prima da Ario, iniziatore di questa eresia, e poi da coloro che sciaguratamente accolsero la sua dottrina ), progredendo a poco a poco, crebbero a danno della chiesa e, per naturale conseguenza, l’empietà giunse a bestemmiare contro lo Spirito Santo. Per coloro che non risparmiano sé stessi, o che non vedono già fin d’ora l’inevitabile minaccia che nostro Signore ha preparato contro coloro che bestemmiano lo Spirito Santo, è necessario dunque mettere davanti agli occhi che occorre colpire con l’anatema coloro che sostengono che lo Spirito Santo è una creatura e coloro che pensano così; e coloro che non ammettono che egli sia santo per natura, come per natura è santo il Padre, e per natura santo il Figlio, ma che lo estraniamo alla natura divina e beata. Prova di retta opinione è, invece, non separarlo dal Padre e dal Figlio (bisogna infatti che noi siamo battezzati secondo che ci è stato tramandato; che crediamo secondo che siamo stati battezzati; che glorifichiamo secondo che abbiamo imparato a credere, il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo) e allontanarsi dalla comunione di coloro che dicono che lo Spirito Santo è una creatura, come di gente palesemente blasfema. Infatti è cosa acquisita (e questa aggiunta alla dimostrazione è necessaria a causa dei delatori) che noi diciamo che lo Spirito Santo non è generato: sappiamo, infatti, che uno solo è ingenerato ed è unico principio degli esseri, cioè il Padre del Signore nostro Gesù Cristo; e non diciamo neppure che egli sia generato: abbiamo infatti appreso dalla tradizione della fede che uno solo è l’unigenito. Una volta che abbiamo appreso che lo Spirito della verità procede dal Padre, dobbiamo confessare che egli è da Dio senza essere creato». Recentemente Olivier Clément ha sottolineato come anche la confessione di fede nello Spirito Santo vada compresa come una preghiera di lode e non solo come attestazione di una verità da credere: «Nella formula sullo Spirito Santo che ‘procede dal Padre, è adorato e glorificato con il Padre e il Figlio, si può individuare in primo luogo un approccio apofatico e dossologico orientato a ciò che vi è di inesauribile nella persona».

[18] Cirillo di Alessandria, Omelie, 4; PG 77, 991. 995-996.

[19] Per vedere le immagini dei mosaici di San Salvatore in Chora e le iscrizioni greche in questione, vedi nella Gallery di questo sito le foto di San Salvatore in Chora.

[20] Benedetto XVI, discorso al Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma, 11 giugno 2007.

[21] H. U. von Balthasar, Il Credo. Meditazioni sul Simbolo Apostolico, Jaca Book, Milano, 1991, p. 31.

[22] Tratto da R. Mastacchi, Il Simbolo degli Apostoli: il Simbolo della fede nella catechesi e nell’arte, di Roberto Mastacchi e Ryszard Knapiński, on-line sul nostro sito.

[23] Cfr. su questo La Madonna galileiana. Nell’Immacolata affrescata dal Cigoli per papa Paolo V un anno dopo l’invenzione del cannocchiale c’è la prova che il primo sì della Chiesa alle osservazioni del padre della scienza fu immediato, di Filippo Piazza, su questo stesso sito.