Brevissima introduzione all’epistolario paolino, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /10 /2011 - 15:28 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito le introduzioni scritte da Andrea Lonardo per il Sussidio “Sono pronto a predicare il vangelo anche a Roma”. Lectio divina per l’anno paolino, pubblicato dalla Diocesi di Roma nell’anno paolino del 2008. Per la versione integrale del Sussidio vedi su questo stesso sito al link Itinerario di lectio divina su san Paolo e le sue lettere. Per approfondimenti su San Paolo vedi su questo stesso sito la sezione Sacra Scrittura. Per visualizzare le cartine con i viaggi di Paolo, vai al link I viaggi e le lettere di San Paolo.

Il Centro culturale Gli scritti (29/10/2011)

1. LA CONVERSIONE DI PAOLO

L’evento decisivo della vita di Paolo è raccontato tre volte negli Atti degli apostoli. La rivelazione che Paolo ebbe del Signore risorto è descritta una prima volta in At 9, 1-18. In At 22, 1-21 e 26, 2-23 è l’apostolo stesso a raccontare di quell’incontro prima dinanzi ai giudei di Gerusalemme, poi al re Agrippa. Anche le lettere vi fanno riferimento in diversi passaggi, tanto quell’evento fu determinante (1 Cor 9,1; 1 Cor 15,8; 2 Cor 4,6; Gal 1,11-16; Fil 3,7-14; Ef 3,1-12; 1 Tim 1,11b-17).

Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano. Dinanzi al Cristo tutto fu conservato della sua ebraicità e della sua grecità, ma tutto assunse un significato nuovo. Nella cecità dinanzi alla luce del Cristo sulla via di Damasco Paolo divenne consapevole di non aver potuto vedere fino a quel momento la vera realtà delle cose. La caduta da cavallo che l’iconografia aggiunge all’episodio è straordinaria espressione simbolica del rovesciamento totale di tutto ciò che Paolo aveva fin lì amato e compreso.

Il tornare a vedere avvenne per opera della chiesa, tramite la persona di Anania, inviato a battezzarlo. Anche Paolo fu rigenerato dal sacramento, dall’illuminazione battesimale, e subito si ritrovò con i fratelli a proclamare Gesù Figlio di Dio.

2. PAOLO ANNUNCIATORE DEL VANGELO FINO A ROMA

Paolo, appena convertito, cominciò subito, già nella stessa Damasco, a proclamare ed a convincere che Gesù era il Cristo, il Figlio di Dio (At 9,19.22).

L’annuncio è, per l’apostolo, una cosa sola con la scoperta della fede cristiana, non qualcosa che si aggiunge successivamente ed in maniera artificiale. Il Signore stesso, sulla via di Damasco (At 22,21; At 26,16) gli rivelò la sua missione verso i pagani.

Ad Antiochia avvenne l’invio in missione (At 13,1-3), inizialmente insieme a Barnaba e poi con altri, fra cui è da ricordare almeno Timoteo, fedele compagno di Paolo. Uno studioso ha calcolato che nei quattro viaggi missionari (è da considerare tale anche quello alla volta di Roma) Paolo abbia percorso a piedi o in barca almeno 16.500 chilometri.

Dovunque Paolo arrivava incontrava, da un lato, l’accoglienza del lieto annunzio da lui portato e, dall’altro, il rifiuto e la persecuzione (2 Cor 11,23-33). Nelle lettere, ed in particolare in quella ai Romani, egli spiega che tutta la fatica missionaria è per lui come un debito: egli ha gratuitamente ricevuto e gratuitamente deve dare. Il tesoro scoperto è così grande che non può tenerlo per sé (Rm 1,14-15).

Ad Efeso (At 19,21), nel corso del III viaggio missionario, maturò in Paolo il desiderio di predicare il vangelo anche a Roma. L’occasione concreta che gli permise di concretizzare questa sua decisione gli fu data nel corso del processo che lo vide protagonista a Gerusalemme, dove fu accusato ingiustamente di aver profanato il Tempio. In quell’occasione si dichiarò cittadino romano e successivamente si appellò a Cesare per essere processato.

Rinchiuso nella Fortezza Antonia, ricevette una visione del Signore che gli chiedeva di essergli testimone anche a Roma (At 23,11): è l’unica volta che il nome dell’urbe è posto sulla bocca del Cristo negli scritti neotestamentari.

Gli Atti si concludono proprio con la descrizione della predicazione di Paolo a Roma, realizzazione del desiderio dell’apostolo ed, ancor più, dell’esplicita chiamata del Signore (At 28,11-31). L’apostolo giunse a Roma in compagnia dell’evangelista Luca, autore anche degli Atti, poiché i verbi della finale del libro sono alla I persona plurale – appartengono cioè alle cosiddette “sezioni-noi” degli Atti.

3. LE LETTERE AI TESSALONICESI: VIVERE LE SPERANZE DEL TEMPO PRESENTE NELLA GRANDE SPERANZA DELLA VITA ETERNA

Paolo giunse a Tessalonica durante il secondo viaggio missionario, subito dopo il suo sbarco in Europa. Proveniva da Troade, l’antica Troia, dove aveva avuto in visione la rivelazione che le terre della Macedonia - Tessalonica ne era la capitale - attendevano l’annuncio del vangelo (At 16,6-10). Il percorso descritto dagli Atti è quello dell’antica via Egnazia: l’apostolo toccò Neapoli, Filippi, Anfìpoli, Apollonia ed, infine, Tessalonica (At 16,11-17,1).

Paolo si dovette fermare alcuni mesi in città per ripartire poi, a causa di una persecuzione subito scoppiata a Tessalonica, alla volta di Atene (At 17,1-15). Da lì inviò la I lettera ai Tessalonicesi, negli anni 51/52 d.C. (1 Ts 3,1). La data è uno dei capisaldi della cronologia neotestamentaria, poiché subito dopo aver lasciato Atene, Paolo giunse a Corinto dove incontrò il proconsole Gallione, fratello di Seneca, che ebbe tale carica appunto negli anni 51/52. Lo scritto è così il più antico libro del Nuovo Testamento e la sua prima parola è il nome ‘Paulos’.

Nella I lettera ai Tessalonicesi Paolo sente il bisogno di completare l’insegnamento che ha trasmesso a voce con alcune riflessioni sulla resurrezione e sulla seconda venuta di Cristo. La resurrezione di Cristo è origine della speranza che i Tessalonicesi debbono avere non solo per se stessi, ma anche per tutti coloro che muoiono in Cristo (1 Ts 4,13-18) e l’attesa della parousia, del ritorno del Signore, deve essere motivo di vigilanza, per vivere come figli della luce (1 Ts 5,1-11).

Nella II lettera ai Tessalonicesi, Paolo - od un suo discepolo - invita a considerare come l’attesa della parousia non debba essere considerata come necessariamente imminente e, quindi, come sia necessario approfittare del tempo donato da Dio per fare il bene.

Le due lettere invitano a cogliere così la relazione tra la ‘grande speranza’ che sostiene tutto il cammino e le altrettanto importanti ‘piccole speranze’ che ricevono significato da essa (Spe salvi, 26-31).

4. LA PRIMA LETTERA AI CORINZI: IL ‘MISTERO’ DI DIO RIVELATO NELLA SAPIENZA DELLA CROCE

Paolo fondò la comunità cristiana di Corinto nel corso del suo secondo viaggio missionario (At 18,1-11). Ciò può essere datato con sicurezza all’anno 51/52 a motivo del suo incontro con il proconsole Gallione che rivestì tale carica in quell’anno (At 18,12-17). Il primo soggiorno dell’apostolo a Corinto durò un anno e mezzo, probabilmente a motivo dell’importanza della città.

Corinto era, infatti, a quel tempo capitale dell’Acaia ed aveva strappato alla vicina Atene il primato a motivo della situazione geografica che la poneva a guardia del passaggio dell’istmo. Le navi potevano attraccare ad uno dei due porti di Corinto, Cencre ed il Lechéo, rivolti l’uno verso l’Asia e l’altro verso l’Italia, e far transitare le merci via terra, risparmiando il periplo del Peloponneso.

A Corinto Paolo abitò con Aquila e Priscilla, lavorando con loro alla fabbricazione di tende, prima di essere raggiunto da Sila/Silvano e da Timoteo. Iniziò la predicazione nella sinagoga locale, finché ne fu scacciato e, da allora, si trasferì nella casa di Tizio Giusto, un “timorato di Dio”, cioè un pagano non circonciso, vicino ai valori religiosi e morali insegnati dall’Antico Testamento.

Da Corinto Paolo ripartì poi verso Antiochia. Scrisse la I lettera ai Corinzi nel corso del III viaggio missionario da Efeso (1 Cor 16,8), dopo aver probabilmente già inviato una precedente lettera che è andata perduta.

La lettera contesta la divisione che si è creata nella comunità di Corinto, perché i cristiani si richiamano a differenti predicatori del vangelo ed alla loro efficacia e intelligenza più che non alla sapienza scandalosa della croce (1 Cor 1,10-31). Paolo afferma, invece, di non sapere altro se non Gesù Cristo e questi crocifisso: solo in Lui si rivela il ‘mistero’ di Dio (1 Cor 2,1-16).

L’apostolo utilizza qui l’espressione ‘rivelazione del mistero’ per indicare da un lato che Dio non può essere raggiunto dalla sapienza umana, ma, dall’altro, che Egli stesso ha voluto manifestarsi in Cristo perché l’uomo potesse vivere nella comunione con Dio. Questa rivelazione avviene nella manifestazione scandalosa dell’amore divino che si lascia inchiodare sulla croce per il peccato del mondo.

Dalla conoscenza della sapienza della croce nasce il dovere di condividere questo dono con chi ancora non l’ha ricevuto e, quindi, il ministero della testimonianza e della predicazione: «Guai a me se non predicassi il vangelo» (1 Cor 9,15-27).

5. LA PRIMA LETTERA AI CORINZI: L’UNITÀ DELLA CHIESA INTORNO ALL’EUCARESTIA

La I lettera ai Corinzi conserva il più antico racconto dell’istituzione dell’eucarestia (1 Cor 11,23-25). Paolo trasmette a sua volta solo ciò che ha ricevuto (1 Cor 11,23): il Signore Gesù volle che essa fosse celebrata in ogni generazione dai suoi apostoli e dai loro successori. Il sacramento richiede che sia riconosciuto il ‘corpo del Signore’ (1 Cor 11,29).

La celebrazione è la vera fonte dell’unità della comunità cristiana: la chiesa è una non a motivo di argomentazioni o scelte umane, ma poiché è l’unico Signore che la raduna e si dona ad essa. È l’eucarestia a rendere la chiesa ‘corpo di Cristo’ (1 Cor 12,27): i credenti sono membra gli uni degli altri, poiché appartengono all’unico Cristo.

La comunità di Corinto è invitata da Paolo, perciò, a superare le sue divisioni poiché tutti sono l’unico edificio di Dio, il cui unico fondamento è Cristo: tutto appartiene ai Corinzi, ma essi sono di Cristo e Cristo è di Dio (1 Cor 3,3-23).

Anche i diversi doni e carismi sono dati dall’unico Spirito che è lo Spirito del Signore Gesù. E tutti sono donati per l’unità comune e sono ordinati in vista di questo servizio (1 Cor 12,4-11). È solo la presenza dello Spirito che può far proclamare la signoria di Gesù. Il vivere in quella carità che ha il volto di Cristo e che porta il suo nome, è perciò la via migliore di tutte, quella che sola conferisce significato ai singoli carismi (1 Cor 12,31-14,1).

6. LA SECONDA LETTERA AI CORINZI: NELLA DEBOLEZZA LA POTENZA DI CRISTO

La II lettera ai Corinzi fu scritta da Paolo durante il III viaggio missionario e precisamente dalla Macedonia (2 Cor 7,5-6; non è dato sapere se da Filippi o da Tessalonica). Potrebbe essere stata preceduta da una ulteriore lettera alla quale si fa riferimento nel corso del testo, se questa non è la stessa I lettera ai Corinzi o parte della II ai Corinzi (cfr. 2 Cor 2,4).

La II lettera ai Corinzi affronta il tema del rapporto tra l’apostolo e la comunità. È una difesa appassionata dell’importanza del ministero nella chiesa. Paolo ha scritto con lo Spirito del Dio vivente sulle tavole di carne del cuore dei Corinzi: essi sono così diventati una lettera di Cristo (2 Cor 3,2-3). Solo la nuova alleanza ha reso possibile questo, perché la lettera uccide, ma lo Spirito dà vita.

Eppure il ministero e la testimonianza sono sottoposti anch’essi allo scandalo della croce. Le persecuzioni ed il rifiuto, come una spina nella carne, accompagnano l’annuncio del vangelo.

7. LA LETTERA AI GALATI: LA GRAZIA DELLA LIBERTÀ

Al tempo di Paolo la regione della Galazia comprendeva sia la zona abitata propriamente dalle tre tribù di origine gallica giunte nel III secolo a.C. in Asia Minore e stanziatesi intorno ad Ancyra, l’odierna Ankara, capitale della Turchia, sia le zone più a sud con le città di Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra, Derbe, ecc. È discusso dagli studiosi se la lettera si rivolga ad una di queste due regioni oppure ad entrambe, anche se l’esplicita attestazione del termine ‘galati’ fa propendere per la zona settentrionale.

Paolo attraversò ed evangelizzò la regione nord-galatica durante il II viaggio missionario (At 16,6) e vi tornò nel corso del III viaggio (At 18,23). La lettera fu probabilmente scritta da Efeso, sempre nel corso del III viaggio missionario.

La lettera ai Galati vuole richiamare i cristiani di quelle regioni al vangelo di Cristo. Paolo, infatti, ha annunciato ai Galati ciò che Cristo risorto gli ha rivelato apparendogli sulla via di Damasco (Gal 1,11-17) e la predicazione dell’apostolo è avvenuta in piena comunione con ciò che tutta la chiesa apostolica concordemente proclama (Gal 1,18-2,10). La lettera è così uno dei documenti più preziosi che attestano la fede delle prime comunità, mentre erano ancora in vita tutti gli apostoli.

Dopo la partenza di Paolo giunsero, però, in Galazia alcuni predicatori itineranti i quali disorientarono le comunità affermando che la circoncisione era necessaria e che, senza di essa, il vangelo non giovava a nulla. Paolo reagisce con forza nella lettera affermando che l’uomo è salvato dalla grazia della fede in Cristo Gesù e non dall’osservanza rituale della Legge mosaica.

Ciò che conta è ormai la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,1-15). La salvezza consiste, dunque, nella presenza di Cristo “che vive in noi”, per mezzo del suo Santo Spirito; è grazie ad esso che si sviluppa il frutto nella novità di vita (Gal 5,16-26).

8. LA LETTERA AI ROMANI: IL PECCATO E LA GRAZIA

Paolo scrisse la lettera ai Romani in prospettiva del suo viaggio. Probabilmente ciò avvenne durante la permanenza di tre mesi a Corinto (At 20,3), nel corso del III viaggio missionario, mentre Paolo progettava di tornare a Gerusalemme per recarsi da lì nell’urbe. Paolo è ospite di Gaio (Rm 16,23), la stessa persona probabilmente che ha battezzato proprio a Corinto (1 Cor 1,14).

Paolo non è ancora mai stato a Roma, ma conosce almeno una trentina di cristiani della città (Rm 16,1-16), che deve aver incontrato nei suoi viaggi (si pensi, ad esempio, ad Aquila e Priscilla, esuli da Roma, conosciuti a Corinto; cfr. At 18,1-3).

La comunità cristiana di Roma era stata probabilmente fondata da missionari dei quali non si è conservato il nome, forse commercianti o soldati o liberti che, divenuti cristiani in oriente, si erano poi trasferiti in Roma ed avevano lì annunciato il vangelo. Lo storico romano Svetonio testimonia che già nell’anno 49 d.C. la presenza cristiana faceva talmente discutere nelle sinagoghe della capitale che l’imperatore Claudio era giunto alla decisione di espellere i giudei da Roma (l’affermazione concorda con At 18,2). Anche Paolo afferma che la fama della fede dei romani è già nota in tutto il mondo (Rm 1,8; 16,19).

La lettera ai Romani è una esposizione del vangelo di Cristo. Paolo non è pressato da contingenze concrete ed espone la sua comprensione della grazia di Dio che sola salva tramite la fede. L’uomo è tuttora segnato dalla bontà della creazione divina, poiché può riconoscere la perfezione del Creatore tramite le sue creature (Rm 1,18-21) ed avvertire, tramite la coscienza, la legge morale che Dio ha iscritto nella natura umana (Rm 2,14-15); nonostante questo la sua esistenza è segnata dal peccato che ha avuto origine in Adamo (Rm 5,12-21).

L’uomo pertanto non compie il bene e non riesce a liberarsi con le proprie forze dal male (Rm 7,14-25). Per questo Dio ha manifestato la sua grazia in Cristo, perché l’uomo fosse salvato non in base alle proprie opere, ma per il perdono e la vita nuova donati a lui attraverso la morte e la resurrezione di Cristo (Rm 6,1-14).

Tutta l’esistenza umana è così ormai segnata dall’amore di Dio in Cristo Gesù che non verrà mai meno, poiché in lui Dio ci ha donato tutto (Rm 8,28-39).

La lettera ai Romani è un richiamo perenne all’unità del disegno salvifico divino e, perciò, della Scrittura: i testi di Genesi 1-3 sono riletti alla luce del mistero pasquale e manifestano tutto il dramma del peccato originale che si oppone all’opera creativa di Dio.

La lettera ai Romani è, inoltre, manifestazione della bontà e della necessità della riflessione teologica nell’esistenza cristiana; il suo genere letterario che non è narrativo, ma riflessivo ed espositivo, attesta come la vita della chiesa abbia bisogno della sintesi teologica per esprimere e comunicare il mistero di Dio.

9. LA LETTERA AI ROMANI: LA VITA IN CRISTO

Tutto ha origine dalla grazia e ciò che non viene dalla fede è peccato (Rm 14,23), afferma la lettera ai Romani. Proprio questa sovrabbondanza della grazia divina è capace di cambiare il cuore umano, di rendere l’uomo nuova creatura perché egli cooperi con la sua vita e le sue opere all’azione dello Spirito.

L’opera della giustificazione non è così una pura dichiarazione esteriore che lascia l’uomo nella sua condizione di peccato, ma l’inizio del culto spirituale nel quale l’uomo offre il proprio corpo, la propria esistenza, come sacrifico gradito a Dio (Rm 12,1-2).

I sacrifici antichi pagani erano atti esteriori, immolazioni di animali, offerte di cibi e bevande; all’opposto, nel pensiero greco-romano, la ricerca spirituale sembrava portare ad una scissione fra l’anima ed il corpo, di modo che la consegna era quella del distacco dalle cose terrene e dalla condivisione di vita con tutti gli uomini, per differenziarsi e coltivare la propria interiorità.
Paolo presenta il nuovo dinamismo che nasce dalla fede cristiana, per la quale ogni aspetto della vita, dalla corporeità all’intelligenza, dalle relazioni sponsali a quelle educative, dal rapporto con i fratelli a quello con i poveri e finanche quello con i nemici, tutto viene assunto per divenire espressione della carità cristiana, poiché pieno compimento della Legge è l’amore (Rm 13,10).

Anche il rapporto con lo stato e l’impegno politico acquistano una nuova rilevanza, perché il potere viene spogliato del suo carattere idolatrico e manifesta, invece, la sua dimensione di realtà necessaria a servizio della convivenza umana. Il ‘Date a Cesare quel che è di Cesare, ma date a Dio quel che è di Dio’ segna anche la riflessione dell’apostolo e la proposta paolina di una partecipazione fedele, intelligente e propositiva ai doveri della collettività.

10. LA LETTERA AI FILIPPESI: LA SUBLIMITÀ DELLA CONOSCENZA DI CRISTO

Paolo fondò la comunità di Filippi in Macedonia durante il suo II viaggio missionario, dopo essere sbarcato a Neapoli, provenendo da Troade (At 16,11-12). Gli Atti ricordano a Filippi il nome di Lidia: fu lei a ricevere il primo battesimo che Paolo amministrò in Europa (At 16,13-15).

Sempre a Filippi, una giovane schiava che aveva uno spirito di divinazione riconobbe che Paolo e Sila erano portatori del vero messaggio di salvezza, ma, una volta che essi allontanarono da lei lo spirito che era fonte di guadagno per i suoi padroni, questi ultimi ingenerarono una sommossa contro Paolo che fu gettato in prigione (At 16,16-24). Imprigionato fu liberato miracolosamente e battezzò il suo carceriere (At 16,25-40), ma dovette poi allontanarsi dalla città per le difficoltà avute con la popolazione della città (cfr. anche 1 Ts 2,2 e Fil 1,30). Paolo tornò a Filippi nel corso del III viaggio missionario.

È probabile che in questa occasione abbia scritto a Filippi la II lettera ai Corinzi, poiché in quella lettera afferma di essersi recato in Macedonia incontro a Tito che doveva recargli le notizie sulla comunità di Corinto (2 Cor 2,12-13; 7,5-16).

Paolo scrive la lettera ai Filippesi in una situazione di prigionia (Fil 1,12-14): il suo essere in carcere non lo sconforta, ma anzi diventa occasione di annunzio del vangelo per quelli che sono con lui e per gli stessi carcerieri. L’apostolo è in attesa della sentenza che potrebbe essere quella di una condanna a morte, anche se Paolo è fiducioso che sarà infine liberato e potrà rivedere i Filippesi (Fil 1,27; 2,23-24). L’ipotesi tradizionale vuole che la lettera sia stata inviata da Roma, dunque al termine del IV viaggio di Paolo, ma alcuni studiosi ipotizzano una precedente prigionia di Paolo ad Efeso, non raccontataci dagli Atti, nel corso della quale potrebbe essere avvenuta la redazione del testo.

La lettera conserva un antico inno cristologico già noto probabilmente alla comunità di Filippi (Fil 2,6-11). L’epistolario paolino testimonia così di un altro importantissimo strumento di trasmissione della fede: l’inno liturgico. Il rapporto tra la lex orandi e la lex credendi è già evidentissimo nel Nuovo Testamento.

Nell’inno si afferma con chiarezza che Cristo è di natura divina, ma che non considerò questa sua uguaglianza con Dio qualcosa da custodire con gelosia, bensì si spogliò della gloria che competeva alla sua divinità per divenire simile agli uomini e comunicare loro questa sua condizione.

Paolo ha così appreso a considerare tutto ciò che prima riteneva importante come ‘spazzatura’ (letteralmente ‘sterco’), dinanzi alla sublimità della conoscenza di Cristo (Fil 3,1-16). Questa rivelazione di Cristo non può non far esultare tutti i credenti di gioia e non può non esprimersi in allegrezza (Fil 4,1-9; sulla ‘gioia’ nella lettera, cfr. anche Fil 1,18.25; 2,2.17.18.28.29; 3,1; 4,10).

11. LA LETTERA AI COLOSSESI E LA LETTERA A FILEMONE: TUTTE LE COSE SUSSISTONO IN LUI

La comunità cristiana di Colosse, nella Frigia, non era stata fondata direttamente da Paolo, bensì da un suo collaboratore, Epafra. Lo stesso era avvenuto nelle due città vicine di Laodicea e Gerapoli (Col 4,16). Paolo non aveva neanche mai visitato queste città, sebbene conoscesse evidentemente le vicende della chiesa locale tramite Epafra.

Proprio le lettere sono lo strumento di comunicazione utilizzato da Paolo per tenere i contatti con le comunità quando gli è impossibile visitarle. Come Marco ha inventato il genere letterario ‘vangelo’, così Paolo è il creatore delle lettere alle comunità. Prima di lui l’antichità conosceva solamente lettere private, molto brevi, di affari o d’amore, oppure trattati filosofici in forma epistolare, nei quali le singole lettere scandivano la divisione in capitoli.

Con Paolo nasce l’esigenza di lettere non fittizie indirizzate non ad un singolo, ma a più persone: sono il corrispettivo in chiave letterario dell’esistenza della chiesa. Gli studiosi non sono certi se la lettera ai Colossesi sia stata scritta da Paolo, ma affermano con sicurezza che se la paternità del testo non fosse direttamente sua, si dovrebbe pensare allora ad un suo discepolo; la lettera presenta infatti dei temi tipicamente paolini, ma con sviluppi teologici significativi.

La lettera si presenta come scritta in una condizione di prigionia e si è pensato, quindi, a Roma o ad Efeso.

Colossesi vuole affermare non solo il primato di Cristo, come mediatore tra Dio e gli uomini, ma soprattutto la sua unicità. Evidentemente alcuni fra i Colossesi si ritenevano depositari di una rivelazione a loro dire più completa di quella degli altri cristiani, asserendo di avere relazioni privilegiate con angeli o altre potenze celesti: essi non negavano Cristo, ma lo ritenevano insufficiente, incompleto e cercavano di andare oltre la sua unicità - viene da pensare ad alcune posizioni delle moderne concezioni religiose sincretiste nella galassia della odierna New Age.

Paolo afferma, invece, nell’inno cristologico della lettera (Col 1,15-20) che Cristo è l’immagine del Dio invisibile. Non è dato scoprire il vero volto di Dio se non nell’incontro con Cristo.

Non solo: il Cristo è anche il capo del corpo che è la chiesa e non si può incontrare il capo senza incontrare al contempo il suo corpo. La lettera ai Colossesi relativizza così tutte le potenze angeliche, affermando che esse sono sottomesse a Cristo ed al suo servizio, poiché solo in Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9).

Il messaggio cristiano si rivela così non come una proposta elitaria, ma si offre piuttosto ad ogni uomo che ha accesso all’unico Cristo tramite la fede ed il battesimo.

Anche la lettera a Filemone è indirizzata ad un abitante di Colosse ed a tutta la comunità cristiana della città. Paolo invita Filemone ad accogliere il suo schiavo fuggitivo Onesimo come fratello in Cristo, in nome della carità. Il messaggio di Gesù comincia a trasformare dall’interno tutte le relazioni umane.

12. LA LETTERA AGLI EFESINI: IL DISEGNO SALVIFICO DI DIO ABBRACCIA L’UNIVERSO INTERO

La lettera agli Efesini potrebbe essere stata indirizzata originalmente non solo alla comunità cristiana di Efeso, ma anche ad altre comunità asiatiche ed, in particolare, ai cristiani provenienti dal paganesimo; infatti, in alcuni manoscritti antichi, manca l’indirizzo esplicito. Si ipotizza così che lo scritto sia stato concepito come ‘circolare’, come ‘enciclica’ per essere letto in più luoghi.

Efeso fu comunque un luogo molto significativo nella vita di Paolo ed egli amò profondamente i cristiani di quella città. Vi transitò una prima volta al termine del II viaggio missionario, provenendo via mare dal porto di Cencre (At 19,19-21) e vi lasciò i coniugi Aquila e Priscilla che con lui vi erano giunti.

Vi soggiornò poi a lungo, per ben due anni, durante il III viaggio missionario (At 19,1-20,1). Durante questo periodo fondò la comunità cristiana, incontrando innanzitutto alcuni discepoli di Giovanni Battista che non avevano ancora sentito parlare dello Spirito Santo (At 19,2). Predicò nella sinagoga e poi nella scuola di un certo Tiranno, lottò contro le pratiche magiche degli esorcisti non cristiani del luogo, mostrando che è solo la fede in Gesù che sconfigge il male. Venne in conflitto con i cultori della dèa Artemide efesina, poiché, mostrando la falsità degli dèi pagani, allontanò molti dalla sua venerazione.

Ad Efeso Paolo scrisse probabilmente la I lettera ai Corinzi e la lettera ai Galati e, secondo alcuni autori, le lettere nelle quali egli si dichiara prigioniero. Sempre ad Efeso maturò in Paolo il desiderio di annunciare il vangelo a Roma (At 19,21-22).

Tornando dalla Grecia a Gerusalemme, alla fine del III viaggio, volle incontrare ancora gli anziani che aveva costituito a guida della comunità efesina, ma, per non essere rallentato nel viaggio, dette loro appuntamento a Mileto, dove li salutò con un famoso discorso di consegne ecclesiali e di addio (At 20,17-38).

Le considerazioni sulla paternità paolina fatte per Colossesi valgono ancor più per Efesini. La lettera invita ad avere uno sguardo contemplativo sul disegno di Dio che abbraccia l’intera creazione e tutto riassume in Cristo, come il ‘capo’ verso cui tutto tende (Ef 1,3-14). Il ‘mistero’ del piano salvifico di Dio è stato ormai manifestato e realizzato: i credenti ‘scelti prima della creazione del mondo’ ora in Cristo sono divenuti figli adottivi di Dio. Il disegno salvifico comprende così non solo la venuta del Cristo, ma anche la chiesa della quale egli è capo, nella quale ebrei e pagani vengono a formare un solo corpo (Ef 3,1-13).

Anche il matrimonio si manifesta come ‘sacramento’ dell’amore che unisce ormai il Cristo alla sua sposa, la chiesa, con un amore indissolubile (Ef 5,21-33).

13. LE LETTERE A TIMOTEO E A TITO: IL DEPOSITO DELLA FEDE, DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE

Paolo prese con sé Timoteo nel II viaggio apostolico a Listra (At 16,1-3) e, da allora, egli divenne il più fedele collaboratore dell’apostolo, fondando con lui le chiese di Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto e ricevendo poi incarichi nei confronti delle stesse (1 Ts 3,2.6; 1 Cor 4,17; 16,10; Fil 2,19). Molte delle lettere lo indicano come mittente insieme all’apostolo (1-2 Ts, 2 Cor, Fil, Flm, Col). Le lettere a lui indirizzate mostrano che Paolo lo incaricò infine di guidare la chiesa di Efeso.

Tito non è nominato negli Atti, ma dall’epistolario paolino sappiamo che fu incaricato di importanti missioni come quella verso la chiesa di Corinto (2 Cor 2,12-13; 7,5-6; 8,6.23) riuscendo a raggiungere la pacificazione fra quella comunità e Paolo stesso e lavorando per la colletta a beneficio della chiesa di Gerusalemme. La lettera a lui indirizzata lo presenta a capo della comunità cristiana di Creta.

Le tre lettere sono dette tradizionalmente ‘pastorali’ perché trattano del ministero di pastore, di guida, ricevuto da Timoteo e Tito. Si presentano come scritte dalla prigionia di Roma, in particolare la II a Timoteo che fa riferimento al martirio ormai prossimo (2 Tm 6,8).

Gli studiosi propendono a vedere nelle ‘lettere pastorali’ l’opera di un discepolo di Paolo che ha avuto a disposizione del materiale originario dell’apostolo e lo ha reinterpretato alla luce della nuova situazione che i cristiani andavano vivendo dopo il martirio di Paolo. L’ipotesi recentemente avanzata che sia stato lo stesso Timoteo a compiere tale redazione è senz’altro suggestiva.

Le pastorali mettono il lettore in contatto con una comunità che affronta il trascorrere del tempo preoccupandosi di trasmettere la fede di generazione in generazione. L’apostolo ricorda che Timoteo ha ricevuto la fede tramite la nonna Lòide e la mamma Eunìce che sono state anch’esse credenti (2 Tm 1,5); se la prima generazione cristiana ha ricevuto la fede da adulta, già la seconda e la terza ricevono la fede sin da bambini dalla testimonianza dei genitori. Timoteo è stato educato nella conoscenza delle Sacre Scritture fin dall’infanzia (2 Tm 3,14-16).

Gli anni trascorsi dal primo annuncio della fede hanno portato alcuni ad allontanarsi dalla fede apostolica ed a seguire dottrine nuove, per il prurito di udire qualcosa (2 Tm 4,1-5). Paolo scrive invece al suo discepolo: «Io so a chi ho creduto» (2 Tm 1,12). Lo invita, pertanto, a conservare il buon deposito della fede che ha ricevuto (2 Tm 1,14).

Le lettere ‘pastorali’ esortano i vescovi, i presbiteri ed i diaconi ad esercitare con senso di donazione il ministero ricevuto (1 Tm 3,1-10; 1 Tm 5,17-25) ed invitano gli sposati a curare con grande responsabilità la propria famiglia (Tt 2,1-10). Paolo affronta anche il problema delle vedove – nel corso degli anni la comunità ha avuto i primi lutti - invitandole a vivere nella fede la scelta di entrare nel collegio delle vedove per dedicarsi al Signore o quella di risposarsi (1 Tm 5,3-16).

Le lettere pastorali mostrano, insomma, che non si tratta solo di iniziare a credere, ma anche di essere poi costanti nella fede, per donarla a persone che a loro volta siano in grado di trasmetterla ancora (2 Tm 2,1-2).

14. LA LETTERA AGLI EBREI: IL NUOVO CULTO

La lettera agli Ebrei fu scritta probabilmente per essere inviata in Italia (e, quindi, a Roma stessa) come si deduce dalla sezione finale nella quale vengono acclusi i saluti da parte di “quelli che provengono dall’Italia” (Eb 13,24), probabilmente emigrati italiani nella città dalla quale fu spedita la lettera: essi desiderano salutare i loro connazionali rimasti in patria.

Il vocabolario della lettera fa pensare che ne sia autore qualche personaggio della scuola paolina, più che non Paolo stesso. Gli studiosi ritengono che l’epistola debba essere stata scritta prima dell’anno 70, l’anno della distruzione del Tempio da parte dei romani. Infatti, pur essendo incentrata sulla questione del confronto fra l’antico culto veterotestamentario ed il nuovo culto cristiano, non fa alcun cenno alla cessazione dell’attività cultuale nel Tempio di Gerusalemme.

Certamente i destinatari sono degli ebrei divenuti cristiani che hanno nostalgia del culto ebraico; a loro si rivolge l’Autore con questa lettera-omelia per invitarli a comprendere la grandezza e la completezza della nuova liturgia inaugurata dal Cristo.

La lettera agli Ebrei, pur consapevole dell’importanza dell’antica liturgia nel disegno salvifico di Dio, sottolinea come il sacerdozio levitico si rivelasse alla fine inefficace, perché i sacerdoti veterotestamentari non avevano, da un lato, piena comunione con Dio a motivo del loro peccato (Eb 7,26-28) e, dall’altro, non potevano che essere lontani anche dagli uomini a motivo delle separazioni rituali a cui si assoggettavano per esercitare il culto (Eb 9,6-7).

Cristo è, invece, il sommo sacerdote della nuova alleanza, che era stato prefigurato nella figura di Melchisedek, perché è degno di fede e vicino a Dio come Figlio (Eb 3,1-6), in quanto è senza peccato, ed è misericordioso e vicino agli uomini, perché si è fatto uomo (Eb 4,15-5,10). Il suo sacerdozio non consiste più nell’offerta di cose o vittime da immolare, poiché egli offrì se stesso (Eb 10,5-10). Questa offerta acquista tutto il suo significato a motivo dell’amore filiale che la rende tale: imparando l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 6,8), Cristo rese tutta la sua umanità una offerta a Dio, riempiendola del suo amore divino.

Solo il sacrifico di Cristo è veramente efficace perché, fatto una volta per tutte, è capace di portare gli uomini alla perfezione. Tutta la rivelazione ed il piano della salvezza si compiono così in Cristo di modo che Dio, che aveva tante volte e in tanti modi parlato agli uomini, parla ora a noi in maniera definitiva per mezzo del Figlio (Eb 1,1-4).