Santa Maria dell'Anima. Lutero e la Riforma protestante. File audio da una lezione di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2012 - 21:40 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione ad experimentum per valutare l'utilizzo in futuro di files audio le registrazioni ed i testi commentati nell'incontro tenuto da Andrea Lonardo su Lutero e la Riforma protestante presso la chiesa di Santa Maria dell'Anima, il 14 gennaio 2012. Per altri files audio vedi la sezione Audio e video. Per approfondimenti sulla Riforma protestante vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2012)

Ascolto

Download lutero_riforma.mp3.

Riproducendo "lutero riforma".



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TESTI COMMENTATI DURANTE L'INCONTRO

Ufficio catechistico di Roma

www.ucroma.it (cfr. anche www.gliscritti.it )

Lutero e la Riforma protestante

1A/ Lutero a Roma nel 1510

da 1510-2010: a 500 anni dalla venuta di Lutero a Roma, di Battista Angelo Pansa (su www.gliscritti.it )

La popolazione di Roma cresceva notevolmente in quegli anni. Il censimento del 1526 le attribuisce un totale di quasi 55.000 abitanti. L'anno seguente il numero diminuisce di molto a causa del famoso sacco di Roma (1527).

Il viaggio [di Lutero] era stato lungo. Con la fede semplice di un pellegrino medioevale, l'animo commosso da un profondo sentimento religioso, fra Martino arrivò nei pressi di Roma e si affacciò alla valle del Tevere, dalle alture di monte Mario. Depose a terra il povero bagaglio, si scoprì la testa e si inginocchiò con devozione, guardando ai suoi piedi la sospirata Città Eterna. Ce lo racconta egli stesso «Quando nell'anno 1510 contemplai per la prima volta l’Urbe, prostrato a terra esclamai: Salve, o santa Roma! Sì, veramente santa, perché è intrisa del sangue dei santi martiri» «Anno 10 cum primum civitatem inspicerem, in terram prostratus dicebam Salve sancta Roma! Ja, vere sancta a sanctis martyribus, quorum sanguine madet» (Tischr. 6059, V, 467). Nessun inno comincia con queste Salve sancta Roma! Forse Lutero si riferiva all'antico inno che solevano cantare i pellegrini medievali avvistando la Città Eterna da Monte Mario: «O Roma nobilis, orbis et domina, cunctarum urbium excellentissima,roseo martyrum sanguine rubea...». Avrebbe potuto anche aver presente la nota strofa dell'ufficio di San Pietro e Paolo: «O Roma felix, quae tantorum principum es purpurata pretioso sanguine, excellis omnem mundi pulchritudinem». Fra Martino discese la costa della collina e attraversò il Tevere a ponte Milvio; poi per la via Flaminia, che si snodava tra vigneti e case di cardinali, si avvicinò alle mura di Aureliano, fortificazione militare con 361 baluardi e dodici porte, per una delle quali sboccò nella piazza del Popolo. Il primo edificioche incontrò a sinistra, ai piedi del boscoso Pincio, fu la magnifica chiesa di Santa Maria del Popolo, da poco decorata da famosi artisti. Accanto alla chiesa s'ergeva il convento dei frati agostiniani della congregazione lombarda, con cui era in ottime relazioni la Congregazione dell'Osservanza tedesca. Per questo e perché un decreto del capitolo generale del 1497 ordinava che i frati osservanti forestieri cercassero alloggio a Roma a Santa Maria del Popolo, si afferma di solito che Lutero fu ospitato in quel convento. Fra Martino forse aveva sulla coscienza un gravissimo peccato, con censura riservata alla Santa Sede, voleva confessarsi da qualche penitenziere minore o forse voleva presentare il suo caso al cardinale penitenziere maggiore. Si sarà dunque inginocchiato in un confessionale - forse nella basilica di San Giovanni in Laterano - e avrà esposto al confessore i peccati degli ultimi anni. Non sappiamo come gli avrà spiegato le angosce, le tentazioni, gli scrupoli, i dubbi che attanagliavano il suo animo. Più tardi affermerà che i sacerdoti italiani e francesi sono «del tutto inetti e ignorantissimi, barbari completamente perché non capiscono una parola di latino» (Tischr. 4195, IV, 193; 4585, IV, 389.). Si noti che la testimonianza sui cardinali indoctissimos è dell'anno 1537; ma ancora prima, quando i suoi ricordi erano molto più freschi e non inficiati dalla passione, pensava in altro modo: infatti il 5 agosto 1514 scriveva: «Cum Roma doctissimos homines inter cardinales habeat» (Briefw. I, 29). A chi credere? Al cattolico del 1514 o all'antiromano del 1537. Non merita molto credito nemmeno quando riferisce cose che assicura d'aver visto con i suoi propri occhi; per esempio: «Ho visto a Roma celebrare sette messe nello spazio di una sola ora sull'altare di San Sebastiano». «Vidi ego Romae in una hora et in uno altari S. Sebastiani septem missas celebrari»; basta dare un'occhiata ai messali di allora, per convincersi che era una cosa assolutamente impossibile: dire più di tre messe private in un'ora era inoltre severamente condannato da tutti i moralisti. Un'altra volta afferma che a Roma e in altre parti d'Italia «due sacerdoti celebrano contemporaneamente, uno di fronte all'altro, le loro messe sullo stesso altare». Deluso dalla confessione, si dedicò a lucrare tutte le indulgenze possibili per sé e per i defunti, andando in tutte le chiese, spinto da una pietà folle. «Mi accadde a Roma - diceva nel 1530 - di essere anch'io un santo matto (ein toller Heilige) e di correre per tutte le chiese e catacombe, credendo a tutte le menzogne e finzioni che lì si raccontavano. Anch'io ho celebrato una o dieci messe a Roma, e quasi mi dispiaceva che mio padre e mia madre vivessero ancora, poiché volentieri li avrei liberati dal purgatorio con le mie messe e altre buone opere e preghiere. A Roma si dice questo proverbio: "Beata la madre il cui figlio celebra messa il sabato a San Giovanni". Come mi sarebbe piaciuto rendere beata mia madre!» (WA 31,1, p. 226).

Della basilica di San Pietro in Vaticano costantiniana e medioevale, che in buona parte si conservava e nella quale si officiava mentre s'alzavano le mura maestre della nuova costruzione sotto la sapiente direzione di Bramante, gli rimase solo il ricordo dell'immensa grandezza. Una simile impressione aveva riportato delle cattedrali di Colonia e di Ulma. Ivi, in mezzo a un'innumerevole moltitudine di pellegrini, contemplò uno spettacolo che lo commosse devotamente e gli parve una gran cosa (maxima res): migliaia di fedeli s'inginocchiavano tutti insieme davanti al velo della Veronica, cantando - come di solito si faceva in tale occasione - l'inno Salve, sancta facies nostri redemptoris. Erano i giorni in cui Michelangelo stava decorando le lunette e la volta della cappella Sistina e il giovane Raffaello d'Urbino dava gli ultimi ritocchi, nella stanza della Segnatura, alla cosiddetta Disputa del Sacramento, una delle più splendide esaltazioni pittoriche dell'eucarestia. Fra Martino non vide le meraviglie che dietro quelle mura del palazzo papale stava creando il genio italiano [...]. Della basilica di San Paolo fuori le mura soltanto una volta fa rapida menzione nei suoi scritti; indizio certo che avrà visitato quella grande e fastosa chiesa basilicale è un'altra allusione alla vicina località delle Tre Fontane, dove, secondo la tradizione, fu decapitato l'Apostolo delle genti. Da lì, per la via delle Sette Chiese, i pellegrini erano soliti andare alle catacombe di San Callisto e di San Sebastiano. Qui lo disturbò la precipitazione con cui moltissimi sacerdoti celebravano la messa. Non sempre si mostrò tanto credulone. Vicino al palazzo lateranense - residenza dei papi medioevali - c'è la Scala santa, supposta scala del pretorio di Pilato, che fra Martino, come altri fedeli, salì in ginocchio, dicendo un padrenostro per ognuno dei 28 gradini che la formano; si diceva infatti che con questa pia pratica si liberava un'anima dal purgatorio, ed egli voleva pregare per l'anima di suo nonno; solo che, arrivato all'ultimo gradino. venne questo pensiero: «chi sa se sarà vero?» «Sic Romae wolt meum avum ex Purgatorio erlosen, gieng die Treppen hinauff Pilati; orabam quolibet grado Pater Noster. Erat enim persuasio, redimeret animam. Sed in fastigium veniens cogitabam: quis scit an verum» (WA 51,89). Bisogna dire che dove si trovò meglio, come se stesse nella sua patria, fu nella chiesa nazionale dei tedeschi, Santa Maria nell'Anima, di cui tesse un elogio inatteso in un sermone del 1538. Alla domanda qual è la vera Chiesa (con la maiuscola), risponde: è quella che si fonda sulla pietra angolare, che è Cristo, mentre falsa Chiesa è la curia romana, che rigetta la pietra angolare e osteggia la dottrina di Cristo; e prima di continuare ingiuriando il papa, s'interrompe ed esclama: «A Roma c'è la chiesa tedesca con un ospizio; è la chiesa migliore e ha un parroco tedesco» (WA 47,425).

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 20-21

Ma che significò per l’evoluzione di Lutero verso la Riforma questo incontro con la Roma del rinascimento? Ricevette qui, eventualmente, la spinta decisiva per la sua lotta contro la curia? Assolutamente no! Lutero ha trovato Roma come gli altri pii pellegrini del suo tempo. La Roma santa, con i suoi luoghi di grazia, lo ha tenuto così occupato che a malapena poté riceverne impressioni negative: «A Roma io ero un santo pazzo, correvo per tutte le chiese e le rovine, credevo a tutto ciò che ivi s’inventava. Io ho celebrato una messa, oppure dieci, e mi dispiaceva quasi che mio padre e mia madre fossero ancora in vita; io, infatti, li avrei tratti volentieri dal purgatorio con le mie messe e inoltre, con eccellenti opere e preghiere» (1530; WA 31, I, 226). «Lo scopo principale del mio viaggio a Roma» - così raccontò più tardi Lutero in un discorso conviviale - «era quello di fare una completa confessione a cominciare dalla mia giovinezza e divenire un uomo pio» (WATr 3, 431, s, n. 3582a; WA 47, 392; H. Boehmer, Luthers Romfahrt, 159 s.). A dire il vero, egli fu deluso nella speranza di liberarsi con una confessione generale, fatta a Roma, dalle sue pene interiori. Egli s’imbatté in confessori non colti e, secondo la sua opinione, scarsamente comprensivi.

1B/ Adriano VI (1522-1523)

nato a Utrecht nel 1459

nel 1507 tutore di Carlo V

1516-1517 reggente di Spagna insieme al cardinal Cisneros, fino all’arrivo di Carlo I (V)

succede a Leone X

azione antiturca

stile severo in Curia

2/ Per entrare in argomento. Nella tempesta della Riforma luterana: la straordinaria storia di Caritas Pirckheimer e delle clarisse di Norimberga (da M.C. Roussey – M.P. Gounon)

da M.C. Roussey – M.P. Gounon, Nella tua tenda per sempre. Storia delle clarisse. Un'avventura di ottocento anni, Porziuncola, Assisi, 2005, pp. 491-516

L’imperatore Carlo V, eletto dai sette grandi Elettori, tentò invano di mantenere l'unità in seno alla Chiesa, ma era obbligato a rispettare l'autonomia di tutte queste entità locali.

Norimberga: Caritas Pirckheimer e le sue suore

Norimberga era allora una città di modeste dimensioni (25.000 abitanti circa), ma era uno dei grandi focolai culturali dell'epoca, centro europeo in cui s'incontravano i dotti e gli artisti e, nello stesso tempo, importante centro commerciale ai confini dei colli transalpini, sulla strada che dall'Italia porta verso il Mare del Nord.

La città era retta da un Consiglio dove sedevano i rappresentanti delle grandi famiglie patrizie i cui membri andavano a studiare nelle diverse università d'Europa. Fra queste c'era la famiglia Pirckheimer: Johann Pirckheimer, padre di Caritas (abbadessa delle Clarisse di Norimberga al tempo di Lutero), aveva studiato diritto a Padova. Era entrato poi al servizio del Principe-Vescovo d'Eichstadt e, successivamente, dei duchi di Baviera e del Tirolo. Willibald, fratello di Caritas, era dottore in diritto dell'università di Bologna, diplomatico e anche sapiente grecista, amico d'Erasmo, di Melantone, di Dürer e del poeta Conrad Celtis che chiamava la sua casa: 'l'asilo dei letterati.

Il Monastero di Santa Chiara di Norimberga

Le vocazioni femminili erano numerose. Caritas, per esempio, aveva tra i suoi nove fratelli e sorelle, due Benedettini a Bergen, un'altra Benedettina a Geisenfeld, una Clarissa con lei a Norimberga, una Clarissa a Monaco. Una sola sorella si era sposata, come pure suo fratello Willibald.

Il monastero di Santa Chiara, antica casa di penitenza, trasformata nel 1278 in convento di Clarisse, era un monastero Urbanista riformato nel XV secolo, di grande pietà e regolarità. Comprendeva sessanta religiose, provenienti per la maggior parte dalle famiglie patrizie della città. La comunità disponeva di ricchezze molto numerose: terre esenti dal censo, una grande fattoria gestita da un intendente e molti servitori; beneficiava di privilegi e di esenzioni diverse.

Le suore ricevevano le ragazze dall'età di dodici anni, affidate loro dai parenti per educarle. Era una pratica corrente: infatti in quel tempo non esistevano dei collegi per ragazze.

Anche Caritas era entrata a dodici anni presso le Clarisse di Norimberga; e sua zia, Apollonia Tücher, le dette un'educazione molto accurata: Caritas conosceva bene il latino, un po' il greco, la letteratura, la musica, suonava in particolare la cetra; possedeva una buona cultura religiosa e umanistica. La sua vita spirituale, come quella delle sue sorelle, si era nutrita di una solida dottrina. Il suo convento sceglieva dei predicatori di qualità. Etienne Fridolin, per esempio, notevole autore spirituale francescano, ha predicato più volte a Santa Chiara di Norimberga. Spesso le suore trascrivevano i sermoni e ne inviavano delle copie alle sorelle di monasteri meno dotati.

Chiaramente, la comunità viveva in osmosi con la classe umanista della città. Le famiglie delle Clarisse condividevano con le suore la passione per il sapere e per il capire che animava l'élite culturale della città. Parenti e amici non disdegnavano di avere scambi con le religiose anche su argomenti abbastanza ardui.

All'inizio del XVI secolo il canonico Tücher aveva scritto non meno di quaranta lettere in latino a Caritas e alla sua zia, Apollonia; queste furono tradotte e pubblicate dal nipote già nel 1515: «Si costata che spesso lui ringrazia le suore per i loro preziosi consigli e le loro esortazioni». Willibald Pirckheimer dedica a sua sorella la traduzione delle Opere di Plutarco. Il poeta umanista Conrad Celtis dedica a lei la sua edizione delle opere di una religiosa tedesca del Medioevo, Hrotswitha von Gandersheim, come anche un lungo poema in onore della città, I Norimberga, accompagnati da un'ode a suo encomio. Altri letterati le scrivono o le dedicano le loro opere, fanno menzione di lei nelle loro corrispondenze; anche Erasmo e Reuchlin incaricano Willibald di trasmettere a lei i loro saluti; lei stessa ebbe con gli amministratori della città una corrispondenza frequente, non soltanto ufficiale in quanto abbadessa, ma anche personale.

Caritas stessa, divenuta abbadessa nel 1503, fece acquistare a Venezia un esemplare del Pentateuco in ebraico che offrì a Francescano Pelican, che studiava ebraico. La sua intelligenza e la sua virtù erano rinomate e la città ne era fiera.

Una curiosità intellettuale e religiosa animava dunque tutti gli spiriti, nei conventi come negli ambienti secolari. Quando arrivò la Riforma le suore di Norimberga non furono prese alla sprovvista e dettero prova di una grande capacità di riflessione, d'argomentazione e di conoscenza che le misero sullo stesso piano dei loro interlocutori. Nel 1527 Caritas poteva dire ai Consiglieri della città: «Ho letto molto, ho ascoltato tante cose da quando sono nata, .. ma non ho mai letto, né inteso un vangelo così straordinario come il suo» (cioè quello del predicatore)

1. La penetrazione delle dottrine di Lutero

A Norimberga, Gaspard Nutzel, Curatore delle Clarisse, tradusse dal latino in tedesco le tesi di Lutero: esse furono stampate e largamente diffuse e, ben presto, in tutta la città ci si appassionò a tali problemi. All'inizio ci fu un dibattito di idee che non coinvolse la vita corrente: infatti nel 1519 Gaspard Nutzel e il suo amico Conrad Ebner lasciano entrare le loro figlie nel convento di santa Chiara, pur essendo i capi del circolo di amici di Lutero. Nel luglio del 1522 anche la figlia di un Consigliere della città entrò tra le Clarisse.

Ma le idee si propagarono e si irrobustirono e le divergenze si affermarono. La maggior parte delle famiglie delle monache incominciarono a simpatizzare per le nuove idee. Willibald Pirckheimer venne scomunicato già dal 1520 assieme a Lutero. Ma in seguito, disgustato dagli eccessi dei riformatori, prese le distanze da essi e si mostrò fedele sostegno delle suore. Intanto la popolazione guadagnata alla Riforma, arrivava a turbare perfino le prediche cattoliche delle chiese. Fu il caso dell'agosto 1523 nella chiesa del convento.

2. Le dispute delle clarisse con i luterani

Le suore hanno lasciato una cronaca delle loro dispute con la città diventata ormai Luterana; questa cronaca non copre che i primi quattro anni, dal 1524 al 1528. Si tratta dei Fatti memorabili: testimonianza estremamente preziosa sulla vita delle suore in questo difficile periodo.

Caritas comincia così la sua relazione: «La dottrina di Lutero è stata la causa di molte rovine; crudeli discordie hanno straziato la cristianità, le cerimonie delle chiese sono state mutilate e in molti luoghi i preti hanno di colpo abbandonato il loro stato, perché si predicava la sedicente libertà cristiana, si andava ripetendo che le leggi della Chiesa e i voti non obbligavano più nessuno. La conseguenza di tali discorsi fu che un buon numero di monaci e di monache usarono di questa libertà per uscire dal chiostro e deporre i loro abiti; molte si maritarono persino e, in una parola, non agirono che seguendo la propria fantasia.
Noi provammo dolorosamente il contraccolpo di questo ribaltamento, perché una folla di personaggi molto potenti e molto temibili veniva giornalmente a fare visita alle amiche che avevano tra di noi. Insegnavano loro la nuova dottrina, cercavano di convincerle attraverso tutti i mezzi, e le loro argomentazioni non avevano mai fine. Volevano provar loro che lo stato religioso era uno stato di dannazione e che era impossibile conquistare la propria salvezza e che, infine, noi tutte appartenevamo al diavolo.
Molte famiglie, influenzate da questi discorsi, tentarono di riportar via dal chiostro le figlie, le sorelle o le parenti che avevano tra noi. Le mie povere ragazze ora venivano minacciate duramente, ora si sceglieva di incantarle con delle belle promesse di cui non avrebbero neanche mantenuto la metà. E queste lotte duravano ore intere» (pp. 2-3).

I Fatti Memorabili raccontano inoltre il reclamo della signora Tetzel accompagnata dai suoi due fratelli per la Candelora del 1525: «(I due fratelli) chiesero immediatamente, con tono arrogante, che si rendesse la nipote alla loro sorella, perché quest'ultima era troppo illuminata dal vero vangelo e dalle nuove predicazioni per lasciare, in coscienza, sua figlia tra di noi. E nello stesso tempo essi rifiutavano lo stato religioso, criticando tutti i nostri modi di fare e di pensare» (p. 21).

Ma la figlia non li volle seguire. La madre scrisse allora al Consiglio della città una supplica che rivela molto bene lo stato d'animo dei cristiani del tempo: «Onorevoli Consiglieri e Illustrissimi Signori, il defunto mio marito ed io abbiamo fin dalla sua infanzia, affidato la nostra cara figlia al convento di Santa Chiara, essendo persuasi, allora, che l'avremmo offerta così a Dio come un'ostia vivente, e questo sacrificio l'avrebbe mondata dai suoi peccati e che, grazie alla vita del chiostro essa sarebbe avanzata nella via della salvezza. In seguito, appresi, per la lettura e per le prediche, che Dio non teneva in nessun conto la clausura, e che questa non era che un'invenzione umana. La mia coscienza, messa in allarme, mi ha spinto a richiedere mia figlia alla venerabile abbadessa, cosa che io ho fatto in presenza dei miei due fratelli» (p. 25).

Si coglie qui la devozione deviata del tempo e la ragione per la quale la dottrina Luterana ebbe così facilmente presa sulla popolazione.

Qui la vita religiosa è vista non come una risposta d'amore ad una chiamata percepita nel cuore di un'esperienza personale di Dio, come era per tante e tante religiose della stessa epoca (pensiamo alla beata Camilla Battista da Varano, per esempio); piuttosto, ai parenti cristiani, appariva come il mezzo più sicuro per raggiungere la propria salvezza: che era il grande problema di questi secoli così tormentati. La vita religiosa è vista unicamente come un sacrificio, non nel senso di una consacrazione per amore, ma nel senso di uno scambio.

Si comprende come, in queste condizioni, il numero delle vocazioni, in un certo senso obbligate o per lo meno suggerite, fosse molto elevato; ma, d'altra parte, ci si può stupire anche del piccolo numero delle defezioni. La vita dei chiostri, in una comunità fraterna vivente, anche se austera, favorisce una pienezza di vita in Dio e la figlia della signora Tetzel, per esempio, non volle uscire. «Ella finì per dire alla mamma che nessuno al mondo l'avrebbe potuta convincere a uscire dal convento: era risoluta, con il soccorso della grazia, a mantenere la promessa che aveva fatto a Dio. Allora, la madre, corrucciata, lasciò sua figlia dicendole di non credere che l'avrebbe lasciata in questo stato di perdizione» (p. 18).

Per tutto il periodo della Quaresima del 1525, in città si ebbero continui dibattiti tra coloro che parteggiavano per la nuova dottrina e alcuni preti e religiosi. Ogni volta i seguaci di Lutero guadagnavano maggiormente terreno. Anche molti religiosi della città erano passati alla Riforma. Solo i Domenicani e i Francescani erano rimasti irriducibili. I Consiglieri annunciarono dunque alle suore la loro intenzione di sottrarle al servizio spirituale dei frati e di dar loro dei predicatori e dei confessori adeguati, pescati tra gli adepti della nuova dottrina e scelti dagli stessi Consiglieri.

«Tutta la città in questo momento era in possesso del puro Evangelo, così oscurato già da coloro che avevano la missione di annunciarlo; il Consiglio non voleva privarci per molto tempo di un tale beneficio, e non badavano a spese per procurarcelo. Per questo scopo era stato designato un predicatore molto sapiente e molto apprezzato, chiamato Poliandro, di Würzburg. Egli comincerà da lunedì mattina a predicare a noi suore. In più, il Consiglio aveva stabilito un confessore che dovevamo preferire, per il suo zelo e per la sua intelligenza illuminante, a quelli che ci avevano diretto fino ad allora. Il Consiglio ci lasciava la scelta tra più preti: due agostiniani, Karl e Dorfer, e un prete secolare di San Sebald di nome Sebelt. Eravamo libere di prendere chi noi preferivamo. Il venerdì seguente il nostro confessore e il nostro predicatore ritornarono per cercare i loro strumenti di lavoro nella casa. Ci dissero la messa, ci predicarono un'ultima volta e rinnovarono il Santissimo. Poi partirono. Non li abbiamo più rivisti: neanche il padre guardiano, né il nostro superiore, né i Frati Minori (p. 40). Da questo giorno noi siamo state private della confessione, della comunione e di tutti i sacramenti persino in pericolo di morte» (p. 41).

Caritas e le sue suore protestarono più energicamente che poterono: si sottomisero a tutte le esigenze del Consiglio sul piano temporale, accettarono i predicatori, ma rifiutarono ostinatamente i confessori imposti, preferendo fare a meno dei sacramenti (pp. 9-10). Durante una visita dei Consiglieri Caritas incalza dicendo: «Il Consiglio ricorderà certamente che noi gli abbiamo sempre obbedito nelle cose temporali, ma in ciò che tocca le nostre anime noi non obbediremo che alla nostra coscienza» (p. 43).

I Consiglieri sono stupiti della resistenza delle suore che essi rispettano e tra le quali hanno delle parenti prossime, alle quali desiderano ardentemente fare del bene. Per esempio: nel corso di una visita, il Curatore Nutzel «ci disse che aveva annunciato in piena seduta ai Consiglieri la nostra decisione di riceverli e che tutti si erano rallegrati e speravano che il Santo Spirito ci avesse visitato e ci avesse ispirato delle sagge riflessioni» (p. 45).

Il Consiglio della città offre loro i migliori predicatori, spesso anziani religiosi spretati di grande nome, come il già citato Poliandro, ricco canonico di Würtzburg. «Questo Poliandro fece otto prediche, dal lunedì dopo 'Oculi' fino al venerdì dopo la domenica 'Iudica'. Ci fu una grande affluenza di gente presso di noi e gli assistenti della cappella provavano grande piacere nell'ascoltarlo. Mi disse il nostro Curatore che gli avrebbe volentieri dato seicento fiorini l'anno pur di conservarlo a Norimberga e perché riuscisse a convertirci» (p. 78).

Le suore dovettero ascoltare molti altri predicatori che duravano anche delle ore e che non erano mai molto pacifici: dovettero protestare a più riprese contro l'aggressività dei predicatori nei loro confronti. Ascoltarono così centoundici prediche. Poi, il Consiglio, stanco, rinunciò a convertirle con questo sistema.

Attraverso il racconto di questi Fatti Memorabili si comprende la sovrapposizione civile e religiosa negli affari della città; il Consiglio ha una grande autorità sui conventi, in parte per un 'contratto' tacito, da tempi immemorabili, in parte perché si era arrogato l'autorità dei superiori ecclesiastici mandati via: di qui l'ostinazione dei Consiglieri a imporre alle suore i propri confessori e predicatori.

A poco a poco le posizioni si irrigidiscono e si accaniscono, e sotto espressioni ancora cortesi, si avverte una certa violenza. Le suore sono strettamente sorvegliate. È loro interdetto di ricevere novizie. Si moltiplicano le imposte materiali: tasse, ecc., e allora diminuiscono i redditi.

Per la festa di Tutti i Santi del 1527, l'Abbadessa può dire ai Consiglieri: «Durante questi tre anni noi siamo vissute tra le privazioni, nude, come miserabili vermi della terra» (p. 219), ma le pressioni si fanno sempre più insistenti.

3. La situazione di confusione della Germania

Sullo sfondo dei dibattiti si avverte il cambiamento che c'è nella popolazione; si capisce il tradimento degli uni, la fedeltà di altri e lo scatenamento delle passioni popolari. Questi Fatti Memorabili sono un documento di primo valore. «Quando il Curatore Nutzel vide che non sarebbe mai arrivato a vincere la mia resistenza cambiò soggetto e mi parlò di un grande sollevamento di contadini che erano entrati in rivolta, in numero molto considerevole, per saccheggiare i conventi e scacciare o mettere a morte tutti i Religiosi e le Religiose. E che in quello stesso Venerdì Santo si diceva che essi erano stati a Bamberga e avevano distrutto i chiostri. E che non doveva rimanere presente una sola Clarissa nel convento di quella città; e che avremo fatto bene a riflettere a non dare occasione, a nostra volta, ad una grande carneficina. Aggiunse che, anche se i contadini non sarebbero venuti fin qui, la popolazione delle nostre contrade era stata ben istruita dal puro Evangelo per sapere che lo stato religioso era da condannare. Ci consigliava di non perseverare nella nostra ostinazione. Fu da queste parole di minaccia e di discordia che fummo straziate in quel Venerdì Santo. E la stessa cosa avvenne la Domenica e il Lunedì di Pasqua, quando il nostro Curatore ritornò ancora per due giorni e impiegò tutto il suo zelo a farci cambiare opinione. Ma, grazie a Dio, niente ci fece vacillare» (pp. 98-99).

Si percepisce presso questi grandi borghesi la paura di essere scavalcati dai moti popolari. In effetti, nel 1525 la rivolta dei contadini scoppiò in Germania come conseguenza non prevista della predicazione protestante. I contadini confusero facilmente libertà religiosa e libertà sociale. Lutero li condannò molto severamente e spinse i Signori a far loro una guerra implacabile, anche perché, comprendendo essi a modo loro i principi teologici, rifiutavano tutti i sacramenti compreso il battesimo, e stavano diventando preda delle diverse sétte, specialmente quella degli Anabattisti.

La pressione popolare s'accrebbe sulle città restate cattoliche; nelle due vicine città di Rothenwerk e Windsheim, il popolo imprigionò il Consiglio della città e il Borgomastro che avevano scacciato i predicatori (cfr. p. 74).

Per contro, altre città restarono fedeli al cattolicesimo: Bamberga per esempio, dopo essere stata occupata dai rivoltosi, diviene rifugio per un grosso numero di Religiosi. Le suore di Norimberga che non potevano più accogliere le novizie, nel 1539 mandarono al convento di questa città una ragazza che desiderava diventare Clarissa (cfr. p. 78).

4. Pasqua 1525: interdizione del culto cattolico

A Norimberga la situazione per le suore era sempre più grave: «Che quaresima di dolore abbiamo passato! Piena di angoscia e privazioni spirituali, piena di apprensioni e di paure. Non abbiamo potuto celebrare degnamente gli Uffici della Settimana Santa cantando la Passione. Siamo state obbligate a fare da sole l'Adorazione della Croce e a cantare l'Alleluia, poiché non hanno voluto darci neanche un prete» (p. 99). Il giorno dopo la Pasqua del 1525, ci fu l'interdizione di ogni culto cattolico per tutta la città. «Il venerdì di Pasqua viene interdetto ai nostri venerabili Frati Minori di suonare le campane e di celebrare qualsiasi Ufficio di giorno o di notte, e di radunarsi per pregare in comune. Ed è così che essi hanno vissuto da quel giorno. Non si è usato lo stesso rigore che nei confronti dei poveri Francescani; agli altri Ordini non è stato interdetto che di celebrare la messa» (p. 100).

«In seguito... i monaci abbandonarono i loro abiti monastici, si rivestirono di vestiti laicali, di cui alcuni molto sontuosi. Non dissero più il Mattutino, in una parola celebravano gli Uffici a loro piacere. Gli Agostiniani seguirono lo stesso esempio: gli Agostiniani che erano la sorgente di tutte queste disgrazie! e poi i Carmelitani, poi i Certosini. Nessuna regola fu più osservata nei chiostri: vi si conduceva una vita disordinata, ciascuno viveva a modo suo. Molti monaci abbandonarono di colpo i loro conventi e presero moglie. I frati Predicatori avrebbero volentieri consegnato il loro convento in regalo al Consiglio, ma la loro richiesta fu respinta perché erano troppo poveri, e non avevano le rendite come altri conventi. Allora, se ne andarono tutti, salvo nove tra di loro» (pp. 101-102).

Ormai la mano sulle suore si fa più pesante. «Siamo vissute in mezzo a grandi inquietudini, perché ci minacciavano in ogni modo. Abbiamo deciso, all'unanimità, che non avremmo mai fatto la consegna del nostro convento: non ci appartiene, noi non l'abbiamo né fondato né costruito. Giornalmente ci minacciavano di scacciarci, di demolire il chiostro, e di mettere il convento a ferro e fuoco. Come tori furiosi insultavano i nostri servitori, proprio davanti alla nostra casa. Una notte sono penetrati fin dentro il chiostro; noi provammo uno spavento terribile e dormimmo molto poco, perché sapevamo che c'era grande fermento in città, e temevamo che il popolo, nel corso dei tumulti, potesse indirizzare tutto il suo furore contro i Religiosi e i conventi. Siamo diventate per tutti, grandi e piccoli, oggetto di disprezzo e i nostri servitori si azzardano a stento a fare gli acquisti. Siamo tenute in maggiore disprezzo delle donne pubbliche e ci dicono che veramente noi valiamo meno di loro. I nostri amici non osano venire a vederci che furtivamente e tremando, e ci tormentano senza tregua, perché i predicatori [scatenano] il loro auditorio contro di noi e ripetono che non bisogna più tollerare né chiostro, né abiti religiosi. Non volevano che qualcuno chiamasse più 'chiostri' i nostri conventi, ma 'ospizi' e che le suore si chiamassero 'canonichesse', le abbadesse e le priore, si dovevano chiamare 'direttrici': non doveva più esistere alcuna distinzione tra i chierici e i laici» (pp. 102-103).

I Consiglieri desideravano soprattutto strappare l'adesione di Caritas e della sua comunità: non arrivando a comprendere come una donna così intelligente non si impegnasse con entusiasmo nel campo della Riforma. Questo accanimento a convertirle era per loro una questione che li avrebbe rassicurati sulla propria salvezza spirituale.

Uno degli incontri tra l'Abbadessa e il Curatore Nutzel, trascritto nei Fatti memorabili, presenta dei tratti commoventi. «Egli (il Curatore) argomentò sulle nuove dottrine. Si felicitò della giusta abolizione delle credenze passate, anche se, in verità, la messa tedesca non gli era mai piaciuta molto, quantunque i predicatori affermassero che era la vera messa degli apostoli ... E m'intrattenne ancora su numerose eresie di cui era invaghito al massimo grado. Io gli risposi: 'Venerabile e caro signore, vi stimo molto e desidero tutto il bene per voi; è per questo che vi compiango dal fondo del cuore perché vi lasciate così convincere e accecare. Le cose sono le stesse del tempo di Ario e di altri eretici. Si trascina la gente nell'errore con parole menzognere che sembrano piene di sapienza. Veramente, veramente! Degli uomini simili a quelli d'allora vi ingannano oggi. Un giorno voi vi accorgerete che hanno illuso i vostri cuori portandovi dubbi e angosce'. Egli rispose: 'No, no! Ci sta cadendo addosso proprio una rugiada di benedizioni come non s'erano più viste da secoli'. Rimanemmo a lottare per lungo tempo: ciascuno di noi era persuaso dell'accecamento e dell'errore dell'altra parte. Allorché ci siamo alzati per uscire dal coro, sua figlia, Clara, entrò, seguita da altre suore che avevano i loro padri tra i Consiglieri. Esse caddero ai suoi piedi e lo pregarono insistentemente di dire ai loro padri che loro le supplicavano di lasciarle nel chiostro. Ma egli girò loro le spalle di scatto e se ne andò con una grande tristezza. Disse uscendo: 'Sono entrato qui allegro, avevo la speranza di riportare una buona risposta al Consiglio: ma questa grazia non mi è stata accordata! Adesso che vado a dire? Perché qui lo Spirito Santo non si fa sentire!' Sua moglie ci venne a visitare il giorno dopo, in gran collera. Essa ci fece un discorso sul male che avevamo fatto a suo marito e che lei non l'aveva mai veduto così triste e che non aveva dormito la notte e che la nostra testardaggine era colpevole e che ci sarebbero arrivate sicuramente delle disgrazie se non ci fossimo sottomesse...» (pp. 62-63).

Ma Caritas le rispose: «'Lasciate a Dio la preoccupazione della nostra conversione' e un'altra volta: 'Se lui cambia i nostri cuori, noi ve lo faremo sapere'» (pp. 72-73).

Eppure i Consiglieri rispettavano queste suore che argomentavano, sapevano rispondere per le rime, si sentivano a loro agio dentro la fede cattolica e non si lasciavano smontare facilmente. Queste suore erano chiaramente di un notevole livello di cultura e, senza aver fatto degli studi approfonditissimi, erano tuttavia al corrente delle grandi questioni che scuotevano il pensiero dei loro contemporanei.

Malgrado ciò continuarono ad invitarle a discutere con i più sapienti predicatori. Gaspard Nutzel scrive alle suore dicendo loro: «Vi invito dunque ad una conferenza amichevole con uno dei nostri predicatori attualmente in servizio a Norimberga. Ne avete otto a scelta, tra cui il priore dei Certosini, vegliardo rispettabile, così saggio quanto pieno di devozione. Se voi desiderate che io mi metta in contatto con qualcuno o con diversi di questi predicatori, lo farò molto volentieri. Non domando a Dio che una grazia: di vivere fino a che la sua volontà si compia presso di voi, sia che vi conduca a lasciarvi dolcemente guidare, o vi costringa lui stesso a credere, attraverso i fatti e i suoi interventi: perché, tanto, bisognerà che vi risolviate, una buona volta, ad obbedire» (p. 67).

Caritas rivela in queste discussioni la sua grande intelligenza, il buon senso, l'abilità personale, ma c'è anche tutta una comunità viva e libera che fa corpo con lei. Ella scrive: «Abbiamo ascoltato centoundici di queste prediche, e ci siamo sorbite Andrea Osiandro per quattro ore di seguito. Abbiamo letto con attenzione gli scritti del Dottor Wenzel e ce li siamo anche copiati.
Abbiamo dunque ricevuto molti insegnamenti da tutti i lati per sapere quali sono gli argomenti di tutti questi dottori, le loro idee, le loro conclusioni (p.164). Se io ho conservato così a lungo lo scritto del Dott. Wenzel è perché l'ho fatto copiare interamente. Sono quasi felice che Filippo Melantone sia stato chiamato qui; è da tempo che ho sentito di lui che è un uomo giusto, pio, retto, e amico dell'equità. Non credo che lui approvi tutte queste cose, specialmente che si voglia forzare la gente a credere e a fare ciò che è contrario alla propria coscienza. Che Dio doni a lui e a noi tutti il suo Santo Spirito e che benedica eternamente Vostra Saggezza» (p. 167).

Caritas riunisce le sorelle nel Capitolo e domanda loro il parere sulla condotta da seguire: «Ho dato lettura della lettera alla comunità ed ho chiesto il parere a ciascuna» (p. 107). Le sorelle fanno corpo: «Le ho trovate tutte con lo stesso sentimento e mi hanno risposto che non si sarebbero lasciate convertire alle dottrine nuove attraverso nessuna sofferenza; che non si sarebbero separate dalla santa Chiesa e che non sarebbero mai riusciti a trascinarle fuori dalla vita monastica. Rifiutarono la direzione dei preti apostati preferendo restare lungo tempo senza confessione e private della santa Comunione. Furono d'avviso di scrivere le loro risposte al Curatore, in un buon tedesco; con la preghiera che lui stesso leggesse la nostra lettera ai Consiglieri in modo che questi sapessero una volta per tutte come regolarsi con le suore. Scrissi la supplica seguente che la comunità approvò all'unanimità dopo averne ascoltata la lettura. Ciascuna chiese di firmare; tutte volevano la loro parte di responsabilità delle disgrazie di cui essa avrebbe potuto essere per noi la fonte» (p. 168) . Poi Caritas precisa di nuovo: «Allorché fummo sole tra di noi, le mie sorelle mi hanno supplicato di non cedere in niente, e mi hanno avvertito inoltre, che se per caso io avessi avuto un attimo di debolezza esse non mi avrebbero seguito e mi avrebbero rifiutato per sempre la loro obbedienza».

Le suore pur non rimanendo chiuse, non si allontanarono mai da questa linea di ferma condotta, né manifestarono aggressività o polemica. E non mancarono nemmeno di humour: «Se noi avessimo tanti difensori quanti sono i Reggenti e Consiglieri, saremmo alla testa di una vera armata, e se noi ascoltassimo tutti gli ordini che ci vengono impartiti, non saremmo meno disciplinate di una carovana di zingari» (p. 167). Anche a proposito del matrimonio: «L'eccellente dottore ci domanda di modellarci su di lui. Che Vostra Saggezza ci scusi. Se io dovessi imitarlo, dovrei prendere marito, ma forse non saprei trovarmelo, perché sono vecchia e non sono adatta a questa ricerca. Sarei obbligata a pregare Vostra Saggezza di farsi carico di questa preoccupazione, e non sarebbe davvero una piccola faccenda!» (p. 201).

In alcuni punti sono molto incisive: «Vostra Saggezza mi ha scritto che si è accorta che gli insegnamenti del signor Andrea Osiandro mi dispiacciono. Io rispondo che nessuna dottrina mi piace quanto quella del Cristo e dei suoi Apostoli. Oggi, come mille anni fa, gli uomini non sono che degli uomini, ma la Parola di Dio resta eternamente. Magari fosse piaciuto a Dio che Osiandro avesse insegnato il modo di evitare tumulti prima che arrivassero, prima che tanta gente fosse stata messa a morte. Io mi auguro che egli impari ad impedirli per l'avvenire» (p. 167).

5. L'isolamento progressivo

Poco dopo la Pentecoste del 1525 i Consiglieri pretesero di imporre alle suore una riforma in cinque punti, al fine, dicevano, «di preservarle dagli eccessi popolari». Si trattava:

- di rimettere le doti a disposizione delle suore (in modo di assicurare la loro vita materiale, nel caso volessero lasciare la comunità);

- di rimandare le giovani presso le famiglie che volessero riprendersele a tutti i costi, anche contro la loro stessa volontà, perché, dicevano: «Il comandamento di Dio è che i figli obbediscano ai loro genitori»;

- di lasciare l'abito religioso e di vestire come tutti gli altri, perché «non esisteva nessuna differenza tra i laici e gli ecclesiastici»;

- di consegnare al Consiglio l'inventario di tutti i loro beni, redditi, censi, ritenute, guadagni, il tesoro (cioè la cassa), l'ammontare delle doti;

- di aprire una finestra nella grata del parlatorio per conversare liberamente con le suore (pp. 109-115).

Consultate, «le monache tutte e ognuna in particolare, risposero che esse volevano conservare la Regola che avevano accettata davanti a Dio e non quello che sarebbe piaciuto al Consiglio d'imporre» (p. 116).

Le suore fecero l'elenco dell'inventario. Quanto allo finestrella dissero «che certamente non ne consentivano di buon grado la sua apertura, ma che, per evitare un male ancora peggiore, valeva meglio cedere; d'altronde la nostra Regola non impediva di mostrarsi a viso scoperto (p. 117). Ma esse non potevano decidersi di accettare il cambiamento di vestito prima di aver domandato consiglio a qualcuno dei nostri buoni amici ... » i quali consigliarono loro di attendere (p. 118).

In tutte queste occasioni le suore manifestano un senso considerevole di ciò che è essenziale ed un grande spirito di discernimento che testimonia la qualità della loro vita spirituale. Le monache Domenicane avevano accettato d'aprire i loro chiostri ed ebbero a subire molti dispiaceri per questo: «Qualche settimana più tardi il Consiglio decise che i chiostri sarebbero ormai diventati aperti, e che chiunque vi poteva accedere e visitare i propri amici, a piacimento. Da parte loro le suore avevano la libertà di uscire per andare a casa dei loro amici, quando ne sentissero la necessità. E quando gli amici invitavano una monaca a venire da loro, l'Abbadessa non aveva il diritto di rifiutarglielo, ma doveva darle una compagna che mangiava a fianco dell'invitata e poi la riconduceva in seguito al convento. Avevano apportato queste innovazioni a Santa Caterina e ora in questo chiostro c'era un andirivieni perpetuo. Si racconta che il predicatore luterano, Thomas, aveva fatto a cambio di vestito con un altro burlone e poi si era introdotto nel convento di Santa Caterina. Là aveva dato fastidio alle giovani suore pretendendo che gli promettessero di sposarlo. Quando uscì dal convento lui raccontò molte sconvenienze sulle povere figliole di cui invece loro erano totalmente innocenti. Esse reclamarono davanti al Consiglio. Certi Consiglieri che ci sono favorevoli avevano colto l'occasione di tale scandalo per opporsi con tutta la loro forza contro l'apertura dei conventi delle donne. Avevano detto al Consiglio: 'Che ci guadagnerete voi a causare una simile onta. Tra le suore ci sono pure le vostre figlie, le vostre sorelle' ... » (p. 119).

Questo duro combattimento d'una comunità, ormai isolata, contro tutta una città è chiaramente portato avanti con forze ineguali e le Clarisse vedono sempre più restringersi le loro condizioni di vita. Parecchi privilegi ed esenzioni sono soppressi, le rendite delle loro terre compromesse dalle rivolte contadine e dalle guerre tutt'intorno. La loro vita materiale è molto povera; incominciano a prendere in considerazione la possibilità di vendere i loro beni a un prezzo molto basso.

La vigilia del Corpus Domini dello stesso anno ebbero il dispiacere di vedersi portare via tre delle loro sorelle. Le loro famiglie erano venute a riprenderle con la forza, scortate dai membri del Consiglio e dai gendarmi della città. La moglie del loro Curatore partecipava alla 'spedizione'. Su loro richiesta l'incontro ebbe luogo nella Cappella. Le discussioni durarono delle ore: «Ogni madre battagliava con sua figlia, a turno, riempiendola di promesse o asfissiandola di minacce; ma le povere ragazze continuavano a piangere e a lamentarsi senza retrocedere. Il combattimento durò molto a lungo. Caterina lo sostenne così validamente e con tanta intelligenza, che ci si sbalordiva ad ascoltarla. Seppe mettere in tutte le sue parole le affermazioni della Sacra Scrittura, rispondeva a tutte le obiezioni e dimostrò a quelle donne che esse agivano contro il santo Vangelo. Dopo di questo i Consiglieri dissero che non avevano mai udito niente di paragonabile» (pp. 131-132).

Alla fine, però, presero le figlie per le braccia, le tirarono fuori, e le spinsero fin dentro la carrozza malgrado le loro grida e le loro lacrime.

In questo periodo in Germania la dottrina di Lutero avanzava. «Molti principi elettori ed altri hanno ordinato che la nuova religione sia insegnata in ogni luogo dei loro stati e che nessun prete papista poteva ormai predicare, perché non si voleva più vedere gente simile ai membri degli antichi Ordini» (p. 161).

Ma c'erano ancora tanti problemi da risolvere, specialmente quello dell'istruzione della gioventù, perché la cura dell'educazione era, fino a quel momento, affidata alla Chiesa: Melantone era atteso a Norimberga per organizzare un nuovo collegio.

Nello stesso tempo sembra insinuarsi negli spiriti un senso di rilassamento. Nessun dubbio che questo dissidio tra i cristiani sia stato all'origine di una corrente di scetticismo di fronte alla religione, che crescerà sempre più nel corso dei tempi moderni, e che fosse l'esatto contrario di quanto aveva detto Gesù Cristo: «che essi siano una cosa sola affinché il mondo creda». Caritas scrive nelle sue memorie: «Intendo dire che molte persone sono perplesse e che non vanno più a nessuna predica. Dicono che sono indotte in errore dai predicatori e non sanno più a che cosa bisogna credere e darebbero molto per non averli mai ascoltati» (p. 161).

Intanto il Curatore Nutzel si fa sempre più pressante. Cerca tutti i mezzi per convincere le suore. C'è da notare che quasi mai, nelle sue argomentazioni, si parla di scandali o di deficienze del clero. Il dibattito si colloca a livello della fede, non della morale.

Le suore sono preoccupate di ricopiare le lettere o memorie e di annotare certi elementi della predicazione o delle dichiarazioni che i Consiglieri della città sono venuti a fare, assieme alle risposte che loro stesse hanno dato. Per questo motivo noi conosciamo gli argomenti utilizzati da una parte e dall'altra. Lo scambio tra il Dottor Link, e la comunità è particolarmente interessante. Le suore hanno studiato e ricopiato il piccolo trattato del Dottor Link, che mette in discussione tutta la loro vita religiosa.

6. I confronti teologici e le controversie sulla vita religiosa

I grandi dibattiti girano attorno ai principali elementi della 'nuova dottrina'.

La Sacra Scrittura. La lettura e l'interpretazione della Sacra Scrittura è sempre alla base dei dibattiti e gli avversari s'appigliano alle citazioni bibliche.

Caritas è fiera di poter affermare a coloro che l'accusano d'essere male illuminate e d'essere dei 'ciechi condotti da altri ciechi': «Noi affermiamo che l'Antico e il Nuovo Testamento, in latino e in tedesco, sono presso di noi di uso quotidiano. Noi li studiamo e ci sforziamo di comprenderli. E non leggiamo solamente la Bibbia, ma anche gli scritti che ci giungono giornalmente. Noi leggiamo tutto, ad eccezione dei libelli o degli opuscoli che ripugnano alla nostra coscienza e che non ci sembrano conformi alla semplicità cristiana» (p. 51).

Di fronte alle diverse interpretazioni della Parola di Dio Caritas non trova ragioni di sceglierne una piuttosto che quella della Chiesa: «Vostra Saggezza per un certo tempo mi ha vantato molto Zwingli e altri. Se noi avessimo creduto loro, dove saremmo arrivate oggi, per esempio, per quanto riguarda il dogma dell'Eucaristia? I predicatori di Strasburgo, me ne sono dettagliatamente informata, non considerano il Cristo che un uomo, simile a tutti gli altri uomini. Se noi li ascoltassimo saremmo certamente sulla cattiva strada. Ciascuno dice: 'Seguiamo la verità della Scrittura', ma ciascuno si serve della Scrittura a modo suo, ciascuno vuole avere ragione, nessuno vuol cedere e queste discussioni non hanno mai fine. Noi ci rimettiamo a quelli più saggi di noi per sbrogliarci da questo caos. In attesa che ci si mostri ciò che è meglio, ci atteniamo a quello che pensiamo meno biasimevole. Se ci sbagliamo in qualche punto, ne siamo dispiaciute, ma ci sono tanti errori in questo momento che saremmo sicure di non soddisfare Dio intraprendendo una qualunque via; preferiamo restare come siamo e Dio accordi la sua grazia a noi povere creature. Amen» (p. 184).

I protestanti le accusano: «Voi credete che Dio giudichi gli uomini solo attraverso i meriti di Gesù Cristo; ne consegue che non dovete annettere tanti meriti alle vostre azioni, alle vostre preghiere, né credervi giustificate attraverso le vostre opere, né sperare il perdono per i meriti dei santi, né per la loro intercessione; ma solamente per la fede, in grazia di Gesù Cristo. Perché queste stazioni, queste cappelle alle quali è affisso un così grande numero di indulgenze? Perché cercate consolazione e soccorso presso i santi, confidando in loro e non soltanto in Dio? E non dite che fate queste opere come frutto della vostra fede, perché la fede non agisce che attraverso l'amore. Non ci sono opere cristiane al di fuori di quelle determinate dall'amore di Dio e del prossimo, perché Cristo è Dio e uomo e ci renderà quello che noi abbiamo fatto al più piccolo dei nostri fratelli» (p. 171).

Caritas replica: «Ci si accusa di confidare nelle nostre opere e di non aspettare salvezza che dal loro soccorso. Grazie a Dio, noi non ignoriamo che l'uomo, seguendo la parola di san Paolo, non può essere giustificato dalle sole opere, ma dalla sua fede nel Nostro Signore Gesù Cristo. Il Salvatore ce lo ha insegnato lui stesso dicendo che, allorché noi avremmo compiuto tutto ciò che era in nostro potere, dobbiamo considerarci come dei servi inutili. Sappiamo, d'altra parte, che una fede vera non esiste senza gli atti, le opere, come non esiste un buon albero senza dei buoni frutti. Noi siamo sicure che Dio tratterà ciascuno secondo le sue buone o cattive opere, allorché appariremo davanti al tribunale di Cristo.
San Giacomo dice che la fede senza le opere è una fede morta .... Sappiamo che non dobbiamo attribuirci il merito delle nostre azioni, e che, se qualche bene si compie per mezzo nostro, la gloria ritorna a Dio, unicamente a Dio. È dunque senza alcun fondamento che ci si accusa di gloriarci nelle nostre opere, perché la nostra gloria è tutta intera in Gesù crocifisso e umiliato, che ci invita a portare la sua croce e a seguirlo.
Ma se l'uomo è salvato per la grazia di Dio, e non per i propri meriti, bisogna dunque che, come un buon albero, porti dei buoni frutti, che saranno la dimostrazione della sua fede, perché il Signore Gesù ha detto: 'li riconoscerete dai loro frutti'.
Quando le opere della fede non esistono e più ancora quando la carità fraterna, che insegna a sopportarci reciprocamente, è assente, allora la fede è meno che niente, e non sposta nessuna montagna. È proprio perché, secondo le parole di san Paolo, sappiamo che saremo giudicati sulla nostra fede, che noi siamo in pace con Dio. In tale fede vogliamo vivere e morire; e che il mondo ci giudichi come vuole» (p. 152).

La vita religiosa. Il grande argomento dei Luterani: questa forma di vita non c'è nel Vangelo; è una invenzione umana e perciò diabolica. Il Curatore Nutzel diceva loro: «Che i loro dottori insegnano, al momento, che in questo mondo non serve a niente condurre la vita del chiostro, e che perciò il chiostro non poteva essere di nessun aiuto alla nostra salvezza, non avendo il suo fondamento nel Vangelo» (p. 23). «E che non si deve fare niente per Dio al di fuori di ciò che la sua parola ci ordina con sicurezza ... » (p. 195). Caritas replica citando san Paolo e gli Atti degli Apostoli: «Noi seguiamo l'esempio dei primi cristiani di cui è scritto negli Atti, che possedevano tutte le cose in comune, condividevano tra loro ogni nutrimento e che dimoravano tutto il giorno nel tempio e lodavano Dio» (p. 32).

Altro argomento dei protestanti: si deve seguire la via comune e non bisogna fare i singolari, in quanto non c'è che un solo popolo cristiano. «Voi non dovete separarvi dal resto degli uomini, né cercare delle vie e dei modi di vivere in maniera singolare. L'amore non vuole queste cose, è libero e comune a tutti e Cristo non ama che le opere che emanano da una vera fede e da una vera carità. Io temo che la vostra scelta di opere singolari vi impedisca di fare opere di carità cristiana. Quante tra di voi potrebbero servire gli uomini attraverso delle strade ordinarie, sia nell'istruzione della gioventù, la manutenzione di una casa, il governo di un ambiente coniugale, l'educazione dei ragazzi ecc. Ecco le opere che Dio domanderà, nell'ultimo giudizio, come i veri frutti di una fede vera. Voi siete impedite e imprigionate dalle vostre opere che vi siete inventate, non meno di un giovane albero che è soffocato, tanto che non può crescere e portare frutti per i bisogni degli uomini. È evidente che voi non cercate nella vita del chiostro che la vostra salvezza, non tenendo conto di ciò che è utile al prossimo e di ciò che è comandato dal vero amore. Non rispondete: 'noi preghiamo, noi cantiamo, e digiuniamo per gli altri'; queste cose non devono servire che per la mortificazione dell'uomo vecchio e per il rinnovamento della vita interiore; pur facendo queste cose non devono essere trascurate le opere della carità. Il Cristo vi punirà come delle ipocrite, voi che prendete pretesto dalla vostra vita chiusa nel chiostro per disinteressarvi del vostro prossimo. Ciascuno riceverà il prezzo delle sue opere secondo il modo in cui avrà messo a prova la propria fede nel servizio dei suoi fratelli, e non secondo come avrà cantato, pregato e fatto le sue stazioni» (pp. 171-172).

Di fronte all'accusa d'inutilità fatta ai monasteri, suor Caritas replica: «Noi non possiamo credere che uno sia in buonafede quando ci rimprovera la nostra vita claustrale. Abbiamo imitato gli Apostoli che avevano tutto in comune, i cristiani. della Chiesa primitiva. Allorché la vita claustrale abbia per scopo un'intenzione retta e non faccia del torto a nessuno non può essere un male, perché si ottiene, grazie ad essa, più pace, ordine e concordia in mezzo ad un gran numero di persone.
Sappiamo anche che dobbiamo sostenere fedelmente ed aiutare il nostro prossimo. Speriamo di non mancare a questo dovere: si tratta di un dovere che le nostre suore si sono prefisse di esercitare tra di loro. Ma se con questo rimprovero s'intende che noi ci aiutiamo tra noi e non aiutiamo per niente gli altri, ebbene, allora possiamo invocare a nostro favore la testimonianza di molta gente di fuori» (p. 179).

Quanto al matrimonio sul quale i protestanti insistevano tanto, lei dichiara: «Non crediate tuttavia che noi disprezziamo lo stato di matrimonio. Colui che si sposa fa bene, ma san Paolo ci dice che colui che non si sposa fa meglio. Nessuna persona sensata saprebbe biasimarci della scelta di servire Dio nello stato verginale. Noi non vorremmo mai trattenere tra noi quelle che non hanno questa vocazione; noi non tratteniamo, contro la sua volontà, nessuna delle nostre sorelle; i loro parenti possono testimoniarlo, noi non nascondiamo la possibilità del matrimonio. Se qualcuna desiderasse ritornare nel mondo, noi non la condanniamo: che ciascuna di noi giudichi se stessa, ciascuno parlerà per conto suo davanti al tribunale di Dio. Giacché non opprimiamo nessuno, noi chiediamo che si usi questa stessa reciprocità con noi: reclamiamo la libertà, non del corpo ma dello spirito».

Le si accusa anche di confidare nell'intercessione dei Santi al posto di contare sull'unica mediazione del Cristo, accusa che Caritas rifiuta energicamente: «Io so, e le nostre suore lo sanno come me, che non c'è altro mediatore tra Dio e gli uomini al di fuori di Gesù fatto uomo; tuttavia, non è giusto non onorare i cari santi; invocandoli io seguo le lezioni di sant'Agostino, di san Girolamo e di san Cipriano. Se si dice che costoro erano degli uomini e potevano sbagliarsi, rispondo che nemmeno quelli che li combattono sono degli dèi e possono sbagliarsi anche loro. Questi grandi santi di cui molti hanno versato il loro sangue per la fede cristiana sono più degni di fede che gli iconoclasti e i detrattori dei Santi».

Con un grande e abile buon senso, con una costanza tenace e infrangibile, suor Caritas oppone a tutti questi attacchi degli argomenti che testimoniano una fede molto illuminata. Nello stesso tempo ella rivendica, in un modo molto moderno, l'imprescrittibile libertà della coscienza. Ha saputo accogliere gli argomenti protestanti, riconoscendo in essi quello che c'è di buono e utilizzandoli per difendere la sua fede cattolica.

I suoi argomenti sono semplici, chiari e vanno diritto all'essenziale. Non si perde dietro questioni secondarie. Non è fissa sul passato come tale, ma in questi tempi di dubbi dove nessuno è d'accordo, essa si attiene al perenne pensiero dell'intera Chiesa. «Essendo la nuova dottrina oggetto di grandi discordie ... poiché ognuno rivendica per sé la vera interpretazione della Sacra Scrittura, noi povere figlie ignoranti, vogliamo rimanere attaccate alla fede primitiva del santo Vangelo, finché tutto quanto non sarà rientrato nell'ordine con l'aiuto di Dio» (p. 93).

Ella fa questa professione di fede: «La Chiesa è stata governata fino ad ora dallo Spirito Santo, secondo le promesse del Cristo. Niente ci separerà da essa. Noi soffriremo ciò che piacerà a Dio di mandarci, è meglio soffrire a causa del male che consentire a fare del male» (p. 72).

Il dibattito è stato spesso indirizzato sul problema della libertà. Caritas fa della libertà della coscienza la sua roccia incrollabile. Contrariamente a ciò che ci si sarebbe potuto attendere, è Caritas che prende la difesa della libertà di fronte ai Luterani che non esitano a pensare che si possa costringere qualcuno pur di salvarlo. Per esempio, appoggiandosi sul decalogo, essi trovano legittimo che i parenti impongano la loro volontà ai loro figli anche se adulti. Alle suore che deplorano questo fatto, i Consiglieri dichiarano: «Voi dovete capire bene che gli amici e i parenti cercano di portarvi via dal chiostro attraverso tutti i mezzi possibili e condurvi nella vera via della salvezza, senza sentire se volete restare o no al convento. Allo stesso modo che, quando si vede un malato in preda alla febbre, non si deve esitare, né domandare il suo consenso per curarlo. E voi siete obbligate dalla legge di Dio a obbedire ai vostri parenti e ai vostri superiori e non ai vostri voti che non sono stati ordinati dalla parola di Dio». In modo più generale aggiungono: «Se vi si dimostra con ragione, attraverso le Scritture, che alcune delle vostre cerimonie non
sono utili né benefiche ai cristiani, anche se non ne convenite, bisogna tuttavia che vi sottomettiate a questa verità e non vi crediate perseguitate perché uno ve le impedisce. Voi le conservate solo per delle ragioni estranee alla parola di Dio. Colui che predica la Parola non deve domandarsi se è dolce o no a colui che l'intende, se ferisce o no, se è contro la sua coscienza o no, perché la coscienza non esiste se non si fonda sulla Parola di Dio; fuori di ciò, tutto quanto è pura chimera».

A quell'epoca non c'era separazione tra potere civile e potere religioso, perché si considerava che ogni autorità provenisse da Dio. Ciò spiega le pretese del Consiglio di dirimere le questioni religiose. Ma suor Caritas afferma: «Se si deve cedere nelle altre cose, è per andare incontro alla salvezza, e non bisogna abbracciare una fede solo per obbedire a delle creature» (p. 92). «La Fede è un dono di Dio ed è libera; è per questo che non può essere introdotta a forza e con le minacce nel cuore degli uomini» (p. 152).

7. La visita di Melantone

I Consiglieri, però, non sembravano sensibili agli argomenti delle suore. Fortunatamente esse trovarono un appoggio, insperato, proprio in Filippo Melantone, uno dei maggiori capi del movimento luterano: «Qualche giorno più tardi, il Curatore venne a visitarci con Messer Filippo Melantone, nella casa dei confessori. Messer Filippo parlò molto della nuova dottrina; ma quando intese da me che ci basiamo sulla grazia di Dio e non sulle nostre proprie opere, disse che noi possiamo salvarci sia nel chiostro che fuori del chiostro, dal momento che non leghiamo nessun merito ai nostri voti. Diceva che i voti non ci vincolano, e io rispondevo che si era obbligate a mantenere, con il soccorso della grazia, quello che si era promesso a Dio. Nei suoi discorsi era più sensato di tutti gli altri Luterani che ho inteso. Si mostrò totalmente contrario alla violenza. Si congedò da noi molto amichevolmente. In seguito sembra che abbia discusso con vivacità con il Curatore e gli altri Consiglieri su molti punti. Si lamentò che fosse stato interdetto ai Frati Minori di officiare presso di noi e del fatto che erano state portate via con forza le tre religiose fuori dal convento. A quattr'occhi disse loro che era stato commesso in questo un grande peccato. Dio ci aveva inviato questo Luterano al momento giusto, perché questo era il tempo in cui avevano deciso definitivamente di scacciarci dal chiostro, di distruggere i nostri monasteri, di chiudere in uno stesso convento tutte le religiose che rimanevano intestardite nella loro antica dottrina e di forzare le giovani a rientrare nel mondo.
Messer Filippo respinse un gran numero di cattiverie che volevano fare contro di noi. Egli disse quanto fosse contrario alla mente di Dio usare una tale violenza. Avrebbe anche aggiunto: che né il padre né la madre avevano diritto di rispondere a Dio dei figli che essi avevano ripreso forzatamente dal chiostro. Ad alcuni che gli avevano chiesto cosa bisognasse fare per i chiostri e se lui fosse favorevole a distruggerli, rispose che bisognava lasciarli nel loro stato attuale, che si poteva anche non dare loro un grande aiuto, ma che non si aveva il diritto di togliere nulla; che non era stato distrutto nessun convento né a Wittenberg e nemmeno negli altri centri luterani. Prese così bene la nostra difesa che tutti si calmarono e da quel giorno, non mostrarono più verso di noi la stessa insolenza. Egli insistette con Messer Nutzel perché non ritirasse la sua curatura, cosa che lui ha continuato a svolgere con zelo.
Il Curatore mi scrisse a questo proposito la lettera seguente: 'venerata signora e cara suora: ... mi dispiace che per colpa mia certi predicatori vi abbiano importunato. Dio sa che è il desiderio di essere utile che mi ha fatto eccedere nella mia autorità e nel mio impegno. È perciò che ho deciso di non tormentare più né voi né le vostre sorelle; e di attenermi alle mie funzioni passate, che non mi pesano e non mi danno dei ripensamenti: al contrario, di queste io ringrazio Dio'».

8. Gli ultimi anni

Uno dei dispiaceri più grossi verrà tuttavia alla comunità delle suore, dal proprio interno. In questa comunità così unita fino a quel momento, una sorella finisce per farsi convincere ad abbracciare la nuova dottrina. Anna Schwarz cominciò a condurre una vita appartata: «Quando si andava a tavola ella andava a dormire, quando si era nel coro ella si metteva a mangiare ... Non intendeva più ricevere alcuna ammonizione dalle sue superiore e viveva in uno stato di ostilità continua ed era diventata di peso al convento intero ... Nonostante ciò il convento aveva deciso all'unanimità che le cose non si sarebbero troncate da parte nostra, perché non si dicesse, poi, che noi l'avevamo mandata via .... La sua famiglia stessa le consigliava di restare, sperando così d'indebolire la comunità, ma un giorno lei reclamò la sua dote e chiese di partire .... Noi fummo molto rattristate per la salvezza della sua anima, benché la sua partenza fosse un grande sollievo per tutta la comunità» (pp. 227-231).

Lo stesso anno il Vescovo di Bamberga, da cui dipendeva Norimberga, tentò di fare il punto della situazione dei conventi della sua diocesi e convocò «tutti gli Abati, i Priori, i Superiori, le Decane, le Abbadesse per il mercoledì dopo la festa di san Pietro in Vincoli il 5 aprile». Ma la situazione è tale che Caritas scrive per scusarsi della sua assenza: «Non abbiamo libertà nei nostri atti e siamo soverchiate da tutti i mali» (p. 235).

La raccolta dei Fatti memorabili si ferma al 1528. In seguito, noi siamo informati sul monastero solo attraverso le lettere che Caterina manda a suo padre Willibald Pirckheimer, fratello di Caritas; racconta con grande gioia il giubileo d'argento di Caritas e questo ci permette di entrare un po' nell'intimità della vita di queste suore la cui resistenza e l'isolamento non hanno assolutamente abbattuto il morale.

Nel 1529, dopo tutti questi anni di avversità e di molestie, Caritas doveva ancora conoscere una grande gioia. Era il giubileo dei suoi venticinque anni di Abbaziato e le sue sorelle s'ingegnarono a festeggiare con molta solennità. Caritas stessa aveva da anni fatto economia per poter offrire qualche cosa alle sue sorelle. Willibald inviò un vino squisito e, per la cena della festa, aveva mandato anche il suo vasellame in argento. La stessa speziaia, una vedova che amministrava la casa di Willibald, rimasto vedovo anche lui da molto tempo, inviò del vino e del vasellame d'argento. La sorella di Caritas e le figlie sposate di Willibald inviarono ugualmente del vino, delle trote e dei dolciumi.

La figlia di Willibald, Caterina, festeggiava, nello stesso giorno, il sedicesimo anniversario del suo ingresso in monastero. E racconta in dettaglio la festa in una lettera a suo padre: «Il mattino del giubileo tutta la comunità andò a prendere l'Abbadessa nella sua cella e la accompagna al coro con delle candele accese; la Vicaria le ha messo sulla testa la corona giubilare. Le suore hanno cantato l'Ufficio del giorno e i canti della messa; esposto il Santissimo Sacramento, hanno fatto la comunione spirituale, secondo le parole di san Agostino: 'Crede et manducasti'» (così scrive Caterina nella sua lettera). Poi l'Abbadessa è stata fatta mettere davanti all'altare e ogni suora le si è avvicinata; l'Abbadessa abbracciando ciascuna le ha dato un piccolo anello in segno della loro fedeltà reciproca e della loro fedeltà al loro Sposo spirituale Gesù Cristo.

In refettorio, 'niente economia' (come scrive Caterina); le suore si misero d'accordo nel mangiare e nel bere qualcosa di speciale in occasione di questa festa rara. Willibald aveva dato loro una piccola damigiana di vino e aveva fatto dire loro che la dovevano vuotare, ma era troppo per essere bevuto per un solo giorno, e fu servito ancora nei giorni seguenti. Verso la sera iniziarono un piccolo passo di danza alla quale partecipò anche la vecchia Madre Vicaria, Apollonia Tücher in monastero da cinquantasette anni. L'Abbadessa suonò la cetra: era molto dotata nella musica, come suo fratello.

'Non era mai stata ancora celebrata una grande festa al monastero di Santa Chiara' - continua Caterina nella sua lettera - perché mai un'Abbadessa era stata così tanto in carica. «Ciò che ci dispiace - scrive - è che l'Abbadessa, alla sua rispettabile età, dovesse ancora fare fronte a tutti questi compiti come il primo giorno in cui aveva fatto le solenni promesse, ma ne avrebbe sofferto molto se qualcuna l'avesse dispensata». Prova che Caritas seguiva coscientemente le Regole dell'Ordine malgrado la sua età e la sua malattia.

In questi ultimi anni Caritas aveva ancora un amico e consigliere spirituale. Non abbiamo che una lettera da parte sua, ma è lecito dedurne che ebbero uno scambio di corrispondenza molto frequente. Malauguratamente non abitava a Norimberga. Era il priore del convento dei canonici di San Agostino, Kilian Leib, un umanista ardente che era legato da amicizia con Willibald Pirckheimer ed era in corrispondenza con lui. Nella sola lettera che noi abbiamo, del mese di marzo 1530, Caritas ringrazia il priore dei suoi buoni consigli e gli chiede di nuovo consiglio, soprattutto riguardo la validità dei voti, perché i Luterani la rimproveravano con una certa sottigliezza. È ella spergiura e traditrice come le altre monache e monaci che escono dai monasteri, in quanto avendo promesso obbedienza, non aveva potuto tener fede a questo voto non avendo più dei superiori a cui era tenuta ad obbedire?

Nel 1530 Willibald, il loro fedele sostenitore, muore; Caritas muore a sua volta nel 1532. Sua sorella Clara le succedette, ma il Signore la chiamò a sé l'anno seguente ed è sua nipote Caterina, ad essere eletta abbadessa. La comunità si mantenne solida, pur diminuendo progressivamente.

Ma lo Spirito soffia dove vuole; e la commovente avventura della giovane Caterina Glaser lo testimonia, unico evento inatteso nell'umile, fiera e lunga perseveranza quotidiana delle suore: «Il 5 ottobre del 1539 Caterina, che da tre anni supplicava le suore di accoglierla, architettò, aiutata da una serva, di penetrare all'insaputa delle suore attraverso la ruota. Essendo riuscita in questo stratagemma, sorprese le suore nel refettorio e le supplicò di tenerla con loro. Ora, il Consiglio della città aveva interdetto ogni nuovo ingresso in monastero. Le suore imbarazzate e commosse non ebbero tuttavia cuore di rinviarla e la tennero con sé come serva, ma la cosa finì per essere risaputa nel giro di qualche settimana e i Consiglieri vennero al monastero esigendo che venisse loro restituita. La trascinarono via malgrado le sue lacrime e le sue suppliche. La portarono nella casa del sergente della città, la tennero chiusa per parecchi giorni e la interrogarono duramente. Ella dovette fare ammenda onorevole in presenza di sua madre e giurare che non avrebbe tentato una cosa simile mai più. E le si volle interdire l'ingresso a tutti gli altri chiostri della giurisdizione del Consiglio, dentro la città e fuori della città. Poi le si rese la libertà. Ella ritornò da noi dopo il pranzo e ci raccontò piangendo a calde lacrime, che cosa le era capitato. Allora noi ringraziammo e lodammo Dio per la sua misericordia verso di noi, considerando la fortezza che ha dato agli umili. I due Signori, Geuder e Ebner ritornarono da noi, due giorni più tardi a direi che il Consiglio li aveva incaricati di esprimere molto severamente la propria disapprovazione. In seguito inviammo quella povera ragazza a Bamberga dalle suore di santa Chiara con sua madre. L'anno seguente, dopo Natale, fu ricevuta nella comunità con grande solennità; e le suore ringraziarono Dio d'aver una così pia fanciulla tra di loro».

A Norimberga l'ultima Clarissa, suor Felicita, si spense nel 1591 all'età di novant'uno anni. Conformemente alle loro promesse, i Consiglieri dovettero attendere la sua morte per prender possesso del convento. Questa clausola era stato un privilegio in omaggio alla bella resistenza di Caritas e delle sue suore: infatti, in quasi tutte le altre città protestanti, le monache erano state obbligate all'esilio.

3/ Il senso delle pressioni religiose dell’epoca

3.1/ presso i luterani

da Lucas Cranach il Vecchio (presentazione della mostra organizzata dalla Luther Memorial Foundation of Saxony-Anhalt)  su www.gliscritti.it

Oltre la sua estesa attività artistica Cranach il Vecchio spesso lavorava per la città di Wittenberg - fu eletto al consiglio cittadino in più occasioni come tesoriere e sindaco.

Durante il suo incarico di sindaco fu anche giudice e nel 1540 dovette infliggere numerose condanne a morte. Le persone da lui condannate per assassinio, stregoneria e magia nera furono decapitate nella piazza del Mercato, a pochi passi dal portale del Municipio.

da Martin Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini

Un uomo ribelle è al bando di Dio e dell’imperatore, cosicché chi per primo voglia ucciderlo agisce molto rettamente: contro chiunque sia sedizioso in modo manifesto ogni uomo è a un tempo giudice e carnefice... Per la qual cosa chiunque lo può colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto, ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico d’un sedizioso, proprio come si deve accoppare un cane arrabbiato, perché, se non lo ammazzi, esso ammazzerà te e con te tutto un paese (WA 18,358; Contro le empie e scellerate bande dei contadini, p. 485). Per la qual cosa, cari signori, liberate, salvate, aiutate e abbiate misericordia della povera gente; ma ferisca, scanni e strangoli chi lo può; e se ciò facendo troverai la morte, te felice, morte più beata giammai potresti incontrare, perché muori in obbedienza alla parola ed al volere di Dio (Rm 13, 5 ss) e al servizio della carità, per salvare il prossimo tuo dall’inferno e dai lacci del demonio (WA 18,361; Contro le empie e scellerate bande dei contadini, 490).

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, in E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 170

I predicatori sono i più grandi assassini. Essi infatti esortano l’autorità a disporre risolutamente e a proprio talento del suo ufficio e a punire gli elementi nocivi. Nella sollevazione io ho ammazzato tutti i contadini; tutto il loro sangue è sul mio collo. Ma io lo rovescio su nostro Signore Iddio; egli mi ha imposto di parlare in modo siffatto (WATr 3, 75, n. 2911a).

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 2189, p. 166 (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, p. 55-56)

Per questo la battaglia con i falsi fratelli [allusione agli zwingliani] sia per i cristiani la più grande di tutte, essa tuttavia è di gran lunga la più grande poiché essi vogliono essere, ed essere chiamati cristiani pur non essendolo. Che se volessero chiamarsi Pilato, Giuda ed Erode, se cioè volessero rinunziare all'appellativo di cristiani, sopporteremmo da loro tutte quelle molestie che osassero infliggerei e la guerra cesserebbe e ci sarebbe restituita la pace. Invece poiché vogliono frattanto che sia apposto il nome di cristiani, bisogna combatterli e non sopportare in alcun modo che parlino con sicurezza e facciano quello che non si addice ai cristiani. Infatti rivendichiamo a noi il governo delle coscienze mediante la parola e non vogliamo lasciarcelo portar via».

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, 3969 – 20 agosto 1538, Einaudi, Torino, p. 276

Un parere di Lutero sulle streghe. Quel giorno il signor Spalatino riferendo dell'insolenza delle streghe disse che una fanciulla di Altenburg versava lacrime di sangue: «Se quella strega è presente, anche se essa non la vede o non la conosce, sente tuttavia la sua presenza e versa lacrime». Lutero rispose: «In questo caso, con donne simili, si dovrebbe andare per le spicce e suppliziarle! I giuristi vogliono avere troppe testimonianze, disprezzano quei fatti evidenti. Io, - disse, - ho avuto proprio in questi giorni un caso matrimoniale di questo genere: una moglie aveva voluto uccidere col veleno il marito, cosicché questi si era strappato di dosso delle lucertole, e inquisita con le torture, non dette alcuna risposta, perché tali streghe sono mute e disprezzano le pene; il Diavolo non le lascia parlare. Quei fatti portano testimonianze sufficienti sulla necessità che vengano punite in maniera esemplare per spaventare gli altri».

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, 3969 – 20 agosto 1538, Einaudi, Torino, p. 347

5670 – 1544.

Le annotazioni di Erasmo al Nuovo Testamento. «Io preferirei che fossero vietate a causa dell’epicureismo e perché vi sono inoculati molti veleni. Egli ha ucciso molti corpi, vite e anime. È una delle cause dei sacramenti. Quando fece progredire la filologia, tanto nocque al Vangelo. È stato un uomo infame. Zwingli fu sedotto da lui. Ha convertito anche Egrano, che crede altrettanto quanto lui. Anch’egli morì senza la croce e senza la luce. Se fossi giovane, vorrei studiare alla perfezione la lingua greca per conoscerla e così potrei farci altre annotazioni».

3.2/ presso i calvinisti

da Le Conseil de Berne au Conseil de la neuveville, 28 marzo 1544, in Calvino, Contro i nicodemiti, anabattisti e libertini, Claudiana, Torino, 2006, p. 36

Ci è stato riferito che uno dei vostri cittadini, chiamato (se inteso bene) le Pelloux ha fatto stampare in Germania circa 1500 libri contenenti le questioni discusse da quelli detti ribattezzatori [ ... ] essi sono già diffusi nel cantone di Neuchàtel, per cui c'è da temere molti disordini. Pertanto vi preghiamo ed esortiamo a voler provvedere e por rimedio con la massima diligenza possibile, prima che le cose vadano troppo oltre; giacché conoscete bene le conseguenze che possono derivare dai libri suddetti se non vi si provvede come si deve.

da Calvino, Contro gli anabattisti, 1544, Claudiana, Torino, 2004, p. 173

Non neghiamo certo che la scomunica sia una regola buona e santa; e non solo utile, ma anche necessaria alla chiesa. Per di più è da noi che questi miseri ingrati hanno appreso tutto quello che sanno; soltanto che per la loro ignoranza e la loro presunzione hanno corrotto la dottrina che da parte nostra avevamo insegnato loro correttamente. Comunque, per toglierei rapidamente di torno questo articolo, metterò in evidenza su che cosa concordiamo e in che cosa differiscono da noi. Come ho già detto, da parte nostra non ci stanchiamo di insegnare che la scomunica, secondo quanto Gesù Cristo ci ha prescritto, deve essere mantenuta e riteniamo che essa sia uno strumento necessario per custodire la Chiesa. Inoltre, siamo attenti e solleciti, per quanto attiene a noi, nel vigilare con premura che sia ristabilita nella sua autorevolezza e che sia esercitata come si deve, dichiarando ad alta voce che quando non si fa così si commette una grave colpa e un peccato davvero esecrabile. In questo, dunque, gli Anabattisti non differiscono in nulla da noi. Se noi condannassimo la scomunica, oppure facessimo credere che è cosa superflua e inutile, oppure fossimo ben felici se nella chiesa non ci fosse posto per essa, allora avrebbero ragione di brontolare contro di noi.

da Calvino, Contro gli anabattisti, 1544, Claudiana, Torino, 2004, p. 205

Noi riconosciamo di comune accordo che la spada è la legge di Dio, al di fuori della perfezione di Cristo. Dunque i principi e i potenti della terra sono stabiliti per punire i malvagi e metterli a morte. Nella perfezione di Cristo, invece, la massima pena è la scomunica, senza morte del corpo.

da A cinquecento anni dalla nascita di Giovanni Calvino. L'uomo di fronte all'incomprensibile volontà divina, di Jean-Blaise Fellay

Si è detto che il primo Lutero si domandava: come posso essere salvato? Zwingli, parroco di città, si inquietava: come riformare la mia parrocchia? E Calvino, giurista di formazione, e che non è mai stato prete, si diceva: come realizzare una città cristiana? È ciò a cui intende dedicarsi. "Prima del mio arrivo a Ginevra - dice sul letto di morte - non c'era alcuna riforma, si predicava appena un po'. (...) Non basta che ogni cittadino sia cristiano, ma bisogna che anche lo Stato lo diventi". Calvino organizza il controllo della città: una professione di fede che tutti gli abitanti devono sottoscrivere, e il concistoro, nel quale siedono pastori e magistrati. Essi sorvegliano l'ortodossia religiosa, le abitudini, i divertimenti e le forme di pietà degli abitanti. Ginevra diventa una città-Chiesa, dedita al servizio e alla gloria di Dio, un centro internazionale di esportazione ideologica.

-Sono noti, fra gli altri, i casi di Miguel Servet, Valentino Gentile, Sébastien Castellion, Jérome Bolsec, Jacques Gruet, o delle “centinaia di povere donne (spesso procuratrici di aborti), che Calvino ha fatto bruciare” (Franco Cardini su La stampa del 3 luglio 2009) – oppure sulla riforma da lui propugnata volta a trasformare la città in un luogo dove una certa morale governasse la vita pubblica, attraverso il controllo degli eventi privati e familiari, fino all’abolizione di ogni svago lascivo e, persino, del gioco delle carte.

-Teodoro di Beza

De haereticis a civili magistratu puniendis libellus, adversus Martini Bellii farraginem et novorum Academicorum secta

3.3/ presso gli anglicani

-arcivescovo John Fischer, decapitato nel 1535; la testa esposta per 10 giorni

-madre del cardinal Reginald Pole uccisa nel 1541, perché il figlio si rifiutava di appoggiare Enrico VIII

-Tommaso Moro, decapitato il 6 luglio 1535

da Antonio Maria Sicari, Ritratti di santi, Jaca, Milano, 2009 

Nel carcere [Tommaso Moro] scrive uno dei più bei testi filosofico-spirituali in lingua inglese: il Dialogo del conforto nella tribolazione; poi inizia un Commento alla Passione di Cristo. Negli atti del processo si legge:

Interrogato se riconosceva e accettava e riteneva il re quale Capo supremo della Chiesa inglese… si rifiutava di dare una risposta diretta dichiarando: «non voglio più avere a che fare con tutto questo, perché ho fermamente deciso di dedicarmi alle cose di Dio e di meditare sulla sua Passione e sul mio passaggio da questa terra».

Sa di dover morire, ma non vuol dare nessun appiglio. Quando – commentando la passione – giunge alla frase evangelica che dice «gli misero le mani addosso», il trattato si interrompe perché gli tolgono tutto ciò che gli serve per scrivere.

Il 1° luglio, viene condannato a morte per alto tradimento. Allora, con tutta la chiarezza giuridica di cui è capace, dichiara l’illegittimità dell’Atto di supremazia.

Il 6 luglio viene decapitato (p. 42). [...]

«Lascia i vivi e ripensa a quelli che sono morti e che Dio, spero, ha ricevuto in paradiso. Son sicuro che la maggior parte di essi, vivendo, avrebbe giudicato le cose come me… e prego Dio che la mia anima resti in compagnia della loro. Ancora non ti posso dire tutto. Ma, per concludere, figlia mia, come t’ho detto spesso, io non mi incarico di definire, né di discutere in queste materie, non attacco né condanno l’attitudine degli altri, non ho mai detto una parola, né scritto una riga contro la decisione del Parlamento e non mi impiccio per nulla della coscienza di quelli che pensano o dicono che pensano diversamente da me. Non condanno nessuno, ma la mia coscienza su questo punto è tale, che va della mia salvezza. Di ciò Meg, sono convinto come dell’esistenza di Dio» (p. 44). [...] 

«Certamente, Meg, tu non puoi avere un cuore più debole e più fragile di quello di tuo padre… e in verità, in ciò è la mia grande forza, che benché alla mia natura ripugni così grandemente il dolore, che un buffetto mi fa quasi traballare, tuttavia in tutte le agonie sofferte, grazie alla pietà e alla potenza di Dio, non ho mai pensato di acconsentire a tutto ciò che fosse contrario alla mia coscienza» (p. 45).

«Cristo sapeva che molti, per la loro stessa debolezza fisica, si sarebbero lasciati atterrire alla sola idea del supplizio… e ne volle confortare l’animo con l’esempio del suo dolore, la sua tristezza, la sua angoscia, la sua paura. E a chi sarebbe stato fisicamente costituito a quel modo, cioè debole e pauroso, volle dire quasi parlandogli direttamente: ‘Fatti coraggio, tu che sei così debole; per quanto tu ti senta stanco, triste, impaurito e piegato d’intima angoscia... Pensa che ti basterà camminare dietro a me… Affidati a me, se non puoi avere fiducia in te stesso. Vedi: io cammino innanzi a te per questa via che ti fa tanta paura, aggrappati all’orlo della mia veste e da lì attingerai la forza che tratterrà il tuo sangue dal disperdersi in vani timori e terrà saldo il animo al pensiero che stai camminando dietro le mie orme. Fedele alla mie promesse io non permetterò che tu sia tentato al di sopra delle tue forze’». (Nell’Orto… p.35) (p. 46). [...]

Discorso di Tommaso Moro dopo la condanna:

«Milord, dal momento che questa accusa si basa su un atto del Parlamento che è formalmente in contraddizione con le leggi di Dio e della santa Chiesa, secondo le quali nessun principe temporale, mediante nessuna legge, può arrogarsi il supremo governo o una qualche parte di governo che appartiene legittimamente alla sede di Roma, a causa della preminenza spirituale accordata come prerogativa speciale per bocca del nostro Salvatore presente di persona su questa terra, unicamente a san Pietro e ai suoi successori, i vescovi della stessa sede, tale atto è dunque tra i cristiani insufficiente in via di diritto a perseguire qualsiasi cristiano».

All’obiezione che tutti vescovi, tutte le Università e tutti i dotti del regno hanno sottoscritto quell’atto, risponde:

«Quand’anche l’insieme dei vescovi e delle Università fosse così importante quanto Vossignoria sembra credere, io non vedo affatto, Milord, per quale ragione questo debba portare qualche cambiamento nella mia coscienza. Poiché io non metto in dubbio che in tutta la cristianità, anche se non in questo Regno, non sono pochi ad essere del mio parere a tale riguardo.

Ma se parlassi di coloro che sono già morti, e tra essi ora molto sono santi in cielo, sono certissimo che di gran lunga la maggior parte di loro, da vivi hanno pensato come io penso ora; è per questo quindi che non sono tenuto, Milord, a confermare la mia coscienza al concilio di un solo regno contro il Concilio generale della cristianità».

Parole finali di Tommaso Moro davanti ai suoi giudici:

«Non ho nulla da aggiungere, Signori, se non questo: come l’apostolo Paolo, secondo quanto leggiamo negli Atti degli Apostoli, assisté consenziente alla morte di S. Stefano, custodendo addirittura gli abiti di coloro che lo lapidavano, e tuttavia ora è con lui , santo in cielo, e là essi resteranno uniti per sempre, veramente allo stesso modo io spero (e pregherò intensamente per questo) che io e voi, miei Signori, che siete miei giudici e mi avete condannato sulla terra, possiamo, tutti insieme incontrarci con gioia in cielo per la nostra salvezza eterna». (Dalla Biografia, scritta da Roper) (pp. 46-47).

3.4/ a “sinistra” di Lutero

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 84, p. 14 (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, p. 33)

Müntzer, Carlostadio, Campano sono proprio diavoli incarnati. Infatti non pensano altro che a nuocere e vendicarsi.

da Martin Lutero, Discorsi a tavola, n. 440, p.34 (cfr. anche n. 1793, p. 152) (in Discorsi a tavola. Passi scelti e chiose di G.B. Proja, Roma, 1983, pp. 33-34)

Perciò d’ora innanzi Butzer [collega e continuatore del morto Zwingli] non avrà presso di me alcuna speranza di indulgenza e di perdono, perché giustifica ancora Zwingli e non si pente ancora del falso dogma. Essi sono strumenti di Satana perché san vendere parole così belle che splendono con tanta grazia e tuttavia sono puro veleno.

da T. Müntzer, scritti diretti agli abitanti di Allstedt del 26 o 27 aprile 1525 (quando incitò i suoi seguaci , quali “servitori di Dio contro gli empi”, ad aderire alla guerra dei contadini “con la spada di Gedeone” (cfr. E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 161)

Io vi dico questo: che se voi non volete soffrire per amore di Dio, dovete essere martiri di Satana... Tutte le nazioni, la tedesca, la francese e quelle straniere in genere sono vigilanti... Non spaventatevi, dunque. Dio e con voi... Non dovete temere la gran massa: la lotta non è vostra, ma del Signore. Non siete voi a combattere.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, p. 86

Vidi falci trasformarsi in spade, zappe divenire lance e uomini semplici lasciare l’aratro per mutarsi nei più impavidi guerrieri. Vidi un piccolo falegname incidere un grande crocifisso e guidare le schiere di Cristo come il capitano del più invincibile esercito. Vidi tutto questo e vidi quegli uomini e quelle donne raccogliere la propria fede e farne bandiera di rivincita. L'amore stringeva i cuori in quell'unico fuoco che avvampava dentro di noi: eravamo liberi ed eguali nel nome di Dio e avremmo spaccato le montagne, fermato i venti, ucciso tutti i nostri tiranni per realizzare il Suo regno di pace e fratellanza. Potevamo farlo, finalmente potevamo farlo: la vita ci apparteneva.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, pp. 113-114

- Popolo di Mühlhausen, ascolta, la battaglia finale è prossima! Il Signore presto metterà l'empio nelle nostre mani, come fece con i Madianiti e con i loro re, sconfitti dalla spada di Gedeone, figlio di Ioas. Come le genti di Succot, anche voi, dubitando della potenza del Dio d’Israele, rifiutate di portare aiuto alle schiere degli eletti, e riservate i cannoni e le armi alla difesa del vostro privilegio, Gedeone sconfisse le tribù di Madian con trecento uomini, di trentamila che ne aveva chiamati a raccolta. Fu il Signore ad assottigliare le sue fila, perché il popolo non credesse di aver trionfato grazie alle sue sole forze. Coloro che temevano furono cacciati indietro. Non diversamente oggi, la schiera degli eletti si assottiglia, per la defezione dei cittadini di Mühlhausen. Io dico che questo è bene: perché nessuno potrà dimenticare quel che il Signore ha fatto per il suo popolo e, se fosse necessario, sarei pronto a muovere da solo contro i mercenari dei principi. Nulla è impossibile a coloro che hanno fede. Ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo ascoltate, gente di Mühlhausen: il Signore ha scelto i suoi, gli eletti; chi non ha il cuore gonfio del coraggio della fede, non ostacoli i progetti di Dio: se ne vada, ora, verso il suo destino di cane. Via! Torni alla bottega, torni al suo letto. Vada via, scompaia per sempre.

La gente comincia a urlare e a gridare, a spingersi e a ondeggiare e si accendono risse un po' dappertutto tra coloro che si ritengono degni e quelli che vogliono restare a casa e danno del pazzo a Magister Thomas, urlando a gran voce.

Alla fine, rimangono proprio in trecento, per lo più gente di fuori, vagabondi giunti in città per far razzia nelle chiese, poveracci e gente di San Nicola, che non abbandonerebbero Thomas Müntzer nemmeno se il sole si facesse nero. Il Magister, che non ha più aperto bocca, fa per rivolgersi al suo piccolo esercito, quando quello si divide in due, per lasciar passare alcuni miliziani che trascinano tre cannoni.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, p. 197

Le idee di Lutero si erano diffuse tra il popolino e anche tra i mercanti che si arricchivano alle sue spalle. Le faccende di Germania rimanevano lontane, l'ubbidienza a cui erano stati ricondotti i contadini tedeschi non poteva riguardare i lavoratori delle manifatture olandesi, i tessitori, i carpentieri dei porti, gli artigiani di quelle città in costante espansione. La religione riformata di Lutero portava con sé nuovi dogmi, nuove autorità religiose, che alienavano la fede ai credenti in modo appena più tenue di quanto facessero i papisti. L'eguaglianza nella fede, la vita comunitaria, avevano bisogno di una linfa diversa. Noi eravamo lì per portarla.

da Luther Blisset, Q, Einaudi, Torino, 2000, pp. 290-291;297;312

Cominciano i mendicanti di Münster, che entrano nella Cattedrale e da buoni ultimi si prendono un anticipo su quello che dovrebbe spettargli nel regno dei cieli: spariscono gli ori, i candelabri, i broccati delle statue e l’obolo per i poveri passa direttamente nelle mani degli interessati, senza che i preti possano farci la cresta. Quando Bernhard Mumme, filatore e cardatore, si trova di fronte all'orologio che per anni ha scandito il tempo della sua fatica, ascia in mano, non ci pensa due volte a far saltare quei marchingegni infernali. Intanto i suoi colleghi cagano nella biblioteca capitolare, lasciano ricordi maleodoranti nei libroni liturgici del vescovo, le pale d’altare vengono tirate giù, e, affinché possano servire da stimolo agli stitici, con esse viene edificata una latrina pubblica sull’Aa. Il battistero viene giù a suon di mazzate, insieme all’organo a canne. Ci si dà alla gozzoviglia sfrenata sotto le volte, un banchetto è allestito sull’altare, finalmente si mangia in quantità, finalmente si scopa contro le colonne della navata, per terra, lo spirito liberato d'ogni fardello, tutti a pisciare sulle pietre tombali dei signori di Münster, su quei nobilissimi scheletri che giacciono li sotto il pavimento. E dopo aver dato concime a volontà a quelle salme aristocratiche, tutti a lavarsi il culo nelle acquasantiere.

Piangete, santi, strappatevi la barba, il vostro culto è finito.

Piangete, signori di Münster, voi che con la devozione dell'oro circondate il presepe di Cristo: la vostra epoca è tramontata. Niente di tutto ciò che per secoli ha rappresentato il potere nefando dei preti e dei signori deve rimanere in piedi.

Le altre chiese subiscono lo stesso genere di visite, frotte di poveracci carichi di bottino si aggirano per le strade, regalano i paramenti da messa alle puttane, danno fuoco ai documenti di proprietà asportati dalle parrocchie.

Tutta la città è in festa, le processioni carnevalesche percorrono le vie sui carri. Tile Bussenschute vestito da frate attaccato a un aratro. La puttana più famosa di Münster portata intorno al cimitero di Uberwasser con l'accompagnamento di salmi, sventolio di vessilli sacri e suono di campane.

[...]

[parla Jan Matthys] - Questo è il luogo prescelto. Questa è la Nuova Gerusalemme: non c’è posto per i non rigenerati. Possono ancora scegliere, convertirsi. Ma il tempo è giunto agli ultimi rintocchi. Che facciano presto.

- E se non lo fanno?

- Saranno spazzati via insieme a tutto ciò che è decrepito.

[...]

A uccidere ogni curiosità, e ogni ingegno. Sale piano il fumo del rogo dei libri. A manciate raccolgono i volumi che vengono scaricati sul selciato dai carri, e li gettano nel falò; una colonna di fuoco alta fino a lambire il cielo, per richiamare gli angeli col fumo di Pietro Lombardo, Agostino, Tacito, Cesare, Aristotele...

Il Profeta, ritto in piedi sul palco, stringe in mano una Bibbia. Sono certo che mi vede. Sillabe che non superano il vociare esaltato della gente, né il crepitio del fuoco, ma sono pronunciate per me, da quelle labbra sottili.

- Vane parole d'uomini, non vedrete il giorno del tuono. La Parola, e soltanto essa, canterà il giudizio del Padre.

La catasta cresce e si consuma, si alza e incenerisce, scorgo una copia di Erasmo, a dimostrare che quel Dio non ha più bisogno della nostra lingua, e non ci darà pace. Il vecchio mondo si consuma come pergamena nel fuoco...

3.5/ l’iconoclastia

da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia el Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 99-100

La posizione di Lutero riguardo alle immagini si modifica sensibilmente intorno al 1520-22 in parte a causa del conflitto con Carlostadio. La svolta può essere forse individuata, in questo caso, nei sermoni della Quaresima del 1522. Pur mantenendo vivi gli attacchi contro la falsa sicurezza delle buone opere e il lusso inutile, Lutero sottolinea che nessuno, nemmeno il più semplice di spirito, è tanto sciocco da confondere l'immagine con chi essa rappresenta, e prendere per divini dei segni umani. Inoltre, Lutero contesta l'efficacia politica dell'iconoclastia.

L'iconoclastia luterana non esiste in sé. È tutta questione di contesto locale, di rapporti di forze tra il clero, il magistrato del luogo, la popolazione urbana. Non c'è un unico modello di ritiro delle immagini.

In un grande numero di casi, il magistrato cittadino, il Rat, intende conservare il controllo del processo di trasformazione delle chiese. Il fine e la giustificazione di questo atteggiamento sono quelli di evitare tumulti, di mantenere l'ordine, di impedire gli scandali. D'altronde, fu questo uno degli argomenti principali di Lutero nel suo scontro con Carlostadio: le violenze iconoclastiche scandalizzano i semplici, li turbano profondamente, urtando la loro sensibilità. Le violenze impediscono o allontanano il trionfo del Vangelo, più di quanto non lo favoriscano. Inoltre, la confisca o l'eliminazione delle immagini pongono immediatamente problemi giuridici complessi: a chi appartengono realmente questi beni dall'ambiguo statuto?

-cfr. Martin Lutero e Cranach, suo pittore ufficiale; cfr. la chiesa parrocchiale di Santa Maria di Wittenberg

da Olivier Christin, I protestanti e le immagini, in Arti e storia el Medioevo. IV Il Medioevo al passato e al presente, Einaudi, Torino, 2004, pp. 108-109

L'iconoc1astia è divenuta endemica nel corso degli anni 1550. Fino dagli anni 1560-61, vale a dire prima delle guerre, assume una dimensione rivoluzionaria, suscita le sommosse che radunano centinaia di partecipanti, tocca pressoché tutte le regioni del regno, specie quelle sudoccidentali. Una marea di pubblicazioni, anonime o no, di libelli, di canzoni, di componimenti poetici giustifica e celebra la distruzione degli idoli. Le prudenze di Calvino sono dimenticate: questi testi violenti e gioiosi invitano i fedeli ad agire, a non perdere tempo, a instaurare al più presto il regno del Vangelo in terra. Un canto anonimo di questi primi anni di guerra civile così chiama alla distruzione immediata delle immagini: «ôte la toile de tes yeux / Et reconnais le Dieu des cieux, / Peuple abruti. Tombe par terre / Tes idoles de bois et de pierre» («strappa il velo dai tuoi occhi /  E riconosci il Dio dei cieli, / Popolo abbrutito. Getta a terra / I tuoi idoli di legno e di pietra»). Abbattere gli idoli è dunque il primo passo verso la vera fede, il presupposto indispensabile, la condizione necessaria per riconoscere il vero Dio. Una volta fatto questo, il trionfo della Parola di Dio sarà imminente. [...]

[A Lione], da un lato, i soldati protestanti entrano nella chiesa di San Giusto e cominciano subito, secondo un testimone, ad «abbattere, demolire e frantumare tutte le immagini, i reliquiari e gli altari della chiesa». Allo stesso modo, si impadroniscono di «libri e abiti che offrono in strada al dileggio». Altri testimoni confermano che i soldati si sono introdotti nelle case dei canonici e hanno rubato o distrutto ciò che vi hanno trovato. Fanno nelle strade parate e sfilate parodistiche. Dall'altro lato, tuttavia, alcuni gesti si rifanno con tutta evidenza a un rituale più sofisticato. Quella stessa mattina, il pastore Ruffy entra nella cattedrale di San Giovanni e fa cadere a terra il grande crocifisso. Ci salta sopra a piedi giunti sguainando la sua spada; mozza la testa del Cristo e la brandisce in alto gridando: «Ecco la testa dell'idolo». Il pastore ordina quindi di ridurre il resto del corpo in quattro pezzi e si reca alla residenza episcopale con la testa in mano. Infine, qualche giorno più tardi, il barone des Adrets, comandante delle truppe protestanti della regione, giunge a Lione. Molto rapidamente, pone fine a questa prima iconoclastia, indotto a questo da una lettera di Calvino in data 16 maggio 1562. Da quel momento, l'iconoclastia cambia radicalmente. Sono stati stipulati dei contratti tra il barone des Adrets, i suoi rappresentanti o il consolato, e alcuni demolitori privati, pagati per il loro lavoro. Alcuni notai o librai sono incaricati di redigere inventari esatti dei beni sequestrati nelle chiese e di consegnarli alle autorità. Gli iconoclasti privati sono perseguiti dalla giustizia come razziatori.

3.6/ presso gli ebrei

da H. Méchoulan, Gli ebrei di Amsterdam all’epoca di Spinoza, ECIG, Genova, 1991, pp. 145-146

I Signori del ma'amad [consiglio degli anziani] comunicano alle vostre Grazie che, essendo venuti a conoscenza da qualche tempo delle cattive opinioni e della condotta di Baruch de Spinoza, si sforzarono in diversi modi e promesse di distoglierlo dalla cattiva strada. Non potendo porre rimedio a ciò e ricevendo per contro ogni giorno le più ampie informazioni sulle orribili eresie che praticava e sugli atti mostruosi che commetteva, e avendo di ciò numerosi testimoni degni di fede che deposero e testimoniarono soprattutto alla presenza del suddetto Spinoza, egli è stato riconosciuto colpevole; esaminato tutto ciò alla presenza dei Signori rabbini, i Signori del ma'amad hanno deciso, con l'accordo dei rabbini, che il suddetto Spinoza sia messo al bando ed escluso dalla Nazione d'Israele a seguito del cherem che pronunciamo ora in questi termini: Con l'aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi. Formuliamo questo cherem come Giosuè lo formulò contro Gerico. Lo malediciamo come Elia maledisse i figli e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l'Eterno accendere contro quest'uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge. E voi restiate legati all'Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l'avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.

3.7/ presso i cattolici

cfr. il monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori

Ma esso comprende, fra gli altri, anche:

-Lucilio (Giulio Cesare) Vanini, perseguitato dai cattolici perché si fa protestante e dagli anglicani perché torna ad essere cattolico, ucciso infine a Tolosa. Nel medaglione di Vanini, si vede in piccolo la testa di Lutero, perseguitato e a sua volta persecutore di eretici e di streghe.

-Aonio Paleario, ucciso come eretico dall'Inquisizione nel 1570 e Michele Serveto, ucciso come eretico dal tribunale di Calvino a Ginevra nel 1553.

3.8 appendice. la questione delle nuove inquisizioni laiche

dalla rivoluzione francese (4 gennaio 1791, obbligo per il clero di giurare fedeltà alla Costituzione: clero “giurato” e clero “refrattario” che viene dichiarato decaduto) ad oggi

3.9/ mentre matura lentamente l’idea della libertà di coscienza, è presente la consapevolezza complementare che il pensiero determina le coscienze

4.1/ L’uso della Sacra Scrittura

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp.. 21-22

Grazie al suo ordine, Lutero entrò precocemente e intensamente in contatto con la Sacra Scrittura. Lo ammette egli stesso nei discorsi a tavola: «I monaci gli consegnarono nel monastero una Bibbia rilegata in pelle rossa. Egli ne prese tale dimestichezza da sapere quel che era contenuto in ogni pagina, e subito, quando gli si presentava qualche versetto, era in grado di riconoscere dov’era stato scritto. Se io li tenessi a mente potrei essere un ottimo prontuario biblico. Nessuno studio mi dilettava allora, quanto quello della Sacra Scrittura. Lessi la fisica di Aristotele con grande ripugnanza, e il cuore mi arse quando potei finalmente ritornare alla Bibbia» (WATr 1, 44, n. 116). «Entrato nel chiostro, cominciai a leggere la Bibbia, a rileggerla ancora e sempre ripetutamente con grande meraviglia del dr. Staupitz» (WATr 3, 598, n. 3767). Lutero raggiunse così una stupefacente solidità in materia biblica, che lo mise in grado di fare lunghe citazioni a memoria. Ma più importante di questo formale dominio della Sacra Scrittura è il rapporto personale che egli vi trovò e che gli permise di chiamarla la sua sposa. La consuetudine con la Bibbia non fu per lui un’esperienza culturale come per alcuni umanisti, e nemmeno teologica, intesa come disciplina distinta dall’immediato incontro religioso con la parola di Dio; tale separazione per Lutero non esisteva: «Se vuoi diventare un cristiano, accogli la parola di Cristo e sappi che non l’apprenderai mai a fondo, e tu dovrai confessare insieme con me che non ne conosci ancora l’abc. Se valesse la pena di vantarsi, io lo potrei anche. Io ho passato infatti e giorni e notti in questo studio, ma in questo insegnamento devo restare uno scolaro. Io ricomincio quotidianamente come un alunno delle elementari» (WA 29, 383).

da C. M. Martini, La Sacra Scrittura nutrimento e regola della predicazione e della religione, (commento al capitolo VI della Dei Verbum), in La Bibbia nella Chiesa dopo la «Dei Verbum». Studi sulla costituzione conciliare, Paoline, Roma, 1969, pp. 157-172 (in particolare 165-172)

In [alcuni movimenti precedenti alla riforma] purtroppo lettura della Bibbia e resistenza all'autorità andavano non di rado di pari passo. Parve così a quei tempi che non fosse possibile trovare un rimedio al secondo atteggiamento se non stroncando anche il primo. È così che vediamo il Concilio provinciale di Tolosa nel secolo seguente (1229), assumere una posizione fortemente negativa nei riguardi di ogni traduzione biblica, anzi dell'uso stesso della Bibbia da parte dei laici.

È difficile per noi oggi giudicare del bene o del male di questi provvedimenti, presi in circostanze così diverse dalle nostre e così complesse. Forse è più saggio non pretendere di dare un giudizio definitivo e contentarci di registrare i fatti. E i fatti sono rappresentati da una serie di restrizioni nella lettura della Bibbia.

Assistiamo infatti nei secoli seguenti al ricomparire qua e là in Europa di simili proibizioni, dovute al diffondersi di analoghi movimenti. Troviamo così il Concilio provinciale di Oxford del 1408, che proibisce ogni traduzione della Bibbia che non avesse avuto una approvazione ufficiale. Più oltre andavano le norme stabilite in Catalogna a partire dal secolo XIII dall'autorità civile, poi riconfermate nel sec. XV e divenute leggi di Stato agli inizi del sec. XVI, sotto il regno di Ferdinando e Isabella, che stabilirono che nessuno potesse tener presso di sé alcuna versione biblica. Si trattava di disposizioni estreme, prese sotto la spinta di gravissime circostanze. Esse rimanevano inoltre locali e temporanee.

Non impedirono infatti che al tempo dell'invenzione della stampa, a partire dal 1450, la Bibbia, non solo in latino, ma anche nelle lingue volgari, fosse uno dei libri più stampati e venduti, specialmente in Germania e in Italia. Secondo ricerche fatte dal P. Vaccari, alla vigilia della riforma protestante erano in circolazione un grande numero di edizioni della Bibbia.

In Germania, tra il 1450 e il 1500 furono stampate oltre 25 edizioni della Bibbia latina e 15 in lingua volgare. In Svizzera, nella sola Basilea, si produssero 18 edizioni della Bibbia tra il 1450 e il 1500. In Italia nello stesso periodo erano uscite 27 edizioni, di cui 22 nella sola Venezia e una rispettivamente a Roma, Napoli, Brescia, Piacenza e Vicenza. Di queste 27 edizioni, 10 erano in volgare, tutte edite a Venezia: 9 edizioni della versione del Malermi, e una della versione anonima detta Bibbia d'agosto, perché pubblicata il 1° agosto 1471.

Non si può dunque sottoscrivere la frase di Lutero, pronunciata in uno dei suoi discorsi conviviali (Tischreden), il 22 febbraio 1538, secondo cui prima della sua riforma la Bibbia era «a tutti sconosciuta». «A vent'anni - dice Lutero - io non avevo ancora veduto una Bibbia». L'espressione è forse un po' esagerata, e certamente non indicativa della reale situazione di allora, se si pensa che del solo periodo 1459-1500 ci sono state conservate 5400 Bibbie stampate, che non sono se non una piccola parte delle decine di migliaia allora in circolazione. Oltre a ciò bisogna tener conto delle Bibbie manoscritte che ancora si producevano (si calcola che nel secolo XV siano stati trascritti almeno 3600 manoscritti biblici di versioni tedesche).

Bisogna inoltre ricordare le moltissime Bibbie, diremmo così, di divulgazione, che si chiamavano Bibbie istoriali, fioretti, lezionari o «Plenarien» (in Germania), specchi dell'umana salvezza, Bibbie dei poveri, che erano florilegi biblici, spesso provvisti di illustrazioni ad uso di chi sapeva leggere poco o nulla.

La Bibbia dunque, malgrado le restrizioni precedenti, era ancora abbondantemente diffusa anche tra il popolo. Con la riforma protestante tuttavia, verso la metà del secolo XVI, il regime di cautela che fino a quel momento si era espresso soltanto in restrizioni parziali, divenne universale. La Congregazione dell'Indice, prima nel 1559 sotto Paolo IV, poi nel 1564 sotto Pio IV, promulgando l'indice dei libri proibiti, vieta pure di stampare e di tenere Bibbie in volgare senza uno speciale permesso. È sintomatico il motivo portato per questa proibizione: «Essendo chiaro dalla esperienza che, se si permette la sacra Bibbia in volgare senza discriminazione, a causa della temerità degli uomini ne segue più danno che vantaggio». Anche se non si trattava di una proibizione assoluta di accedere personalmente alla Bibbia intera per chi non sapesse il latino, era questo tuttavia un provvedimento destinato a limitare assai l'uso della S. Scrittura.

Una prova concreta di questo fatto la possiamo vedere recensendo le edizioni delle Bibbie apparse in Italia in quel periodo. Nella Biblioteca del Pontificio Istituto Biblico, dove si trova una raccolta assai ricca di Bibbie antiche italiane, figurano le seguenti edizioni, a partire dalla metà del '500:

1541: Bibbia intera, tradotta dal Malermi;

1542: NT tradotto dal domenicano Fra Zaccaria di Firenze;

1545: Bibbia intera, tradotta in lingua toscana da Santi Marmochino, domenicano.

A partire da queste date, cessano le Bibbie tradotte e pubblicate da cattolici. Tutte le Bibbie italiane pubblicate dopo quegli anni sono di origine protestante o ebraica, e per lo più pubblicate fuori d'Italia: a Lione, a Ginevra, a Norimberga. Esiste una eccezione, cioè una Bibbia cattolica pubblicata nel 1567, tre anni dopo il decreto dell'Indice di Pio IV. È una ristampa della Bibbia del Malermi pubblicata a Venezia «con licentia della S. Inquisitione ». Ciò mostra che era ancora possibile pubblicare Bibbie italiane per i cattolici. Ma di fatto ciò non avvenne più, per quasi due secoli.

È infatti soltanto nel 1757 che si permisero di nuovo in maniera generale le edizioni in volgare, purché approvate dalle competenti autorità e munite di note. Abbiamo così ad esempio una edizione dei Salmi del 1770, una nuova edizione rifatta della Bibbia del Malermi nel 1773, e, a partire dal 1778, la nuova traduzione del Martini, che doveva rimanere in uso presso i cattolici italiani fin quasi ai nostri giorni.

da La lettura della Bibbia nella chiesa, tra protestantesimo e cattolicesimo. Appunti (almeno in parte) controcorrente, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )

Gli studi moderni tendono a ridimensionare l’incondizionato invito alla lettura della Bibbia nel mondo protestante che una certa vulgata aveva precedentemente accreditato.

Infatti da un lato l’esperienza della rivolta dei contadini e poi, via via, delle diverse eresie che luteranesimo e calvinismo si trovarono a combattere spinse a riservare un ampio utilizzo della Sacra Scrittura ai soli teologi e pastori e, solo per loro mediazione, al popolo.

Dall’altro, proprio nella riforma maturò la convinzione della necessità di un’esposizione sintetica della fede della chiesa riformata espressa dai diversi catechismi. Lutero redasse un Grande ed un Piccolo Catechismo e, dopo di lui, anche Calvino ed altri riformatori elaborarono i loro catechismi.

Se ha senso riportare un’esperienza personale, ricordo la risposta di un pastore valdese nel corso di un incontro del catecumenato europeo, svoltosi alcuni anni fa a Firenze. Chiamato a spiegare come avvenisse la formazione cristiana nella sua comunità, egli raccontò che la catechesi era incentrata sulla storia della salvezza nella Sacra Scrittura, sul Simbolo di fede, sui Dieci Comandamenti e sul Padre nostro.

A questa affermazione seguì la domanda sorpresa dei presenti: «Ma come? Voi protestanti non utilizzate la sola Scrittura per fare catechesi?». Il pastore, sorpreso a sua volta, replicò: «Ma i Comandamenti ed il Padre nostro non sono fra le parti più importanti della Sacra Scrittura? Ed il Simbolo di fede non è forse la sintesi di tutta la Scrittura?».

Lutero e gli altri leaders della riforma compresero ben presto che era necessaria una formazione cristiana che non si limitasse alla lettura della Bibbia, ma sapesse anche presentare in maniera catechistica una sintesi semplice ed insieme globale della fede.

Il passaggio in area protestante ad un più accorto ed addirittura sospettoso utilizzo della Scrittura nella formazione dei laici è presentato in dettaglio da Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Cavallo Guglielmo - Chartier Roger, Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma - Bari, 2009, pp. 243-275 e da Susanna Peyronel Rambaldi, Educazione evangelica e catechistica: da Erasmo al gesuita Antonio Possevino, in Ragione e “civilitas”. Figure del vivere associato nella cultura del ’500 europeo, Bigalli Davide (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1986, pp. 73-92.

Gilmont ricorda come Lutero, fin dal 1520, in Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, propendesse per un insegnamento della fede semplificato e controllato dalla nuova autorità:

«Quanto ai libri teologici, bisognerebbe anche ridurne il numero e scegliere i migliori. Non ci sarebbe neppure bisogno di leggere molto, bensì di leggere buone cose e di leggerle spesso, per poco che ciò sia. Ecco ciò che rende dotti nella Sacra Scrittura e pii al tempo stesso» (p. 251).

Ma soprattutto «dopo la Guerra dei Contadini e sotto l'effetto del proliferare di interpretazioni eterodosse della Scrittura, il suo discorso si evolve. Egli insiste a proposito del controllo della Chiesa sull'accesso alla Bibbia. La Parola racchiusa nella Bibbia resta lettera morta, se non è trasmessa dalla predicazione. “Il Regno di Cristo - afferma in una predica del 1534 - è fondato sulla Parola, che non si può afferrare né comprendere senza i due organi, le orecchie e la lingua”. Nel 1529, dopo aver composto i suoi due catechismi, egli insiste perché questo manuale sia messo nelle mani di tutti: “Il catechismo è la Bibbia del laico; contiene tutto ciò che un cristiano deve conoscere della dottrina cristiana”» (pp. 251-252).

Gilmont spiega come «parimenti, quando nel 1524 invita i magistrati a costituire buone biblioteche, Lutero assegna loro due funzioni: conservare i libri e consentire ai dirigenti temporali e spirituali di studiare. Niente a che vedere con la lettura popolare» (p. 252)[1].

Una analoga evoluzione si può riscontrare in Melantone:

«Nella Prefazione ai Loci communes del 1521, egli presenta il proprio libro come una modesta introduzione destinata a scomparire di fronte alla lettura della Bibbia; auspica ardentemente che “tutti i Cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle Scritture Sante”. Al contrario, nella Prefazione del 1543, egli insiste sulla necessità di questi ministri del Vangelo, che Dio desidera far preparare nelle scuole. Sono loro che Egli ha voluto come guardiani dei Libri dei Profeti e degli Apostoli e dei dogmi autentici della Chiesa» (p. 252).

Simile è il cammino di Zwingli, che passa anch’egli a maggiori cautele nei confronti di un utilizzo troppo popolare della Scrittura:

«L'evoluzione dei principi esegetici di Zwingli tra il 1522 e il 1525 è parallela a quella constatata in Lutero e Melantone. In un primo momento, egli tenta di destabilizzare la Chiesa tradizionale mediante un ampio appello all'opinione pubblica. Si fonda sulla dottrina del sacerdozio universale: tutti i Cristiani che affrontano la Bibbia con umiltà sono in grado di interpretarla. Lo proclama nelle dispute pubbliche come in diversi opuscoli del 1522. Ma presto la situazione si evolve. Il clero cattolico è rovesciato e i primi anabattisti si fanno minacciosi. Essi si appoggiano sui medesimi principi per rimettere in questione la legittimità del nuovo potere. Donde il voltafaccia di Zwingli. A partire dal 1525, egli riserva l'interpretazione della Bibbia a persone competenti, in effetti ad un gruppo composto dall'élite politica e dall’intellighenzia clericale» (pp. 252-253).

Anche nella nuova Inghilterra anglicana la direzione è la medesima:

«A lungo Enrico VIII interdice ogni diffusione della Bibbia in inglese. Infine, nel 1543, cede alle pressioni della propria cerchia. Ma l'autorizzazione a stampare la Bibbia in inglese è corredata da restrizioni significative. Egli distingue tre categorie di persone e di letture. Nobili e gentiluomini possono non solo leggere, ma anche far leggere a voce alta la Scrittura in inglese per se stessi e per tutti coloro che abitano sotto il loro tetto. Basta la presenza di un membro della nobiltà per autorizzare il libero accesso alla Scrittura. All'altro estremo della scala sociale, la lettura della Bibbia in inglese è totalmente interdetta a “donne, artigiani, apprendisti e dipendenti al servizio di persone di rango pari o inferiore a quello di piccoli proprietari, agricoltori e manovali”. Quanti si situano fra queste due categorie - di fatto i borghesi come le donne nobili, “possono leggere, per se stessi e per altri, tutti i testi della Bibbia e del Nuovo Testamento”. Questa categoria intermedia ha dunque la competenza bastante a non lasciarsi fuorviare, ma manca dell'autorità per imporsi sul proprio ambiente» (p. 253).

Nella Svizzera calvinista si incontrano analoghe cautele:

«Per Calvino, la Bibbia non è direttamente accessibile a chiunque. Si tratta - come spiega nel corso di una predica - di un pane dalla crosta spessa. Per nutrire i suoi figli, Dio vuole “che il pane ci sia tagliato, che i pezzi ci siano messi in bocca e che ci siano masticati”. San Paolo mostra riguardo alla Scrittura che “non basta leggerla ciascuno nel proprio  privato, ma occorre avere le orecchie colpite dalla dottrina da essa estratta e che ci sia predicata perché possiamo esserne istruiti”. Teodoro di Beza fornisce ancora una testimonianza delle resistenze da parte calvinista a mettere la teologia sulla pubblica piazza. Nella dedica alle sue Questions et responses chretiennes, del 1572, il successore di Calvino spiega di aver accettato a malincuore questa traduzione francese del proprio trattato. Si è sentito forzato dalla curiosità del pubblico, del quale denuncia la mania di volersi gettare nei “labirinti” di questioni delicate. L'opinione di Beza è evidente: la teologia costituisce un campo riservato, che esige di “conoscere tutte le vie e i passaggi per i quali bisogna passare e ripassare”» (pp. 253-254).

Gilmont conclude affermando che nelle chiese calviniste del tempo «alla fine, prevale il punto di vista opposto: “non tutti hanno i mezzi per leggere i commenti integrali, né la fermezza di giudizio per recepirne e selezionarne opportunamente la sostanza”» (p. 254).

Pesò evidentemente in tutti quei padri riformatori che spinsero verso una direzione istituzionale i nuovi fermenti il giudizio negativo sull’utilizzo della Scrittura fatto dai capi della rivolta dei contadini, così come da altre letture del testo sacro dissonanti con quella proposta dalle correnti ufficiali della riforma. Si ebbe insomma cura di vigilare affinché una “corretta” interpretazione della Scrittura non portasse al sovvertimento dell’autorità politica e della nuova autorità religiosa.

Gilmont ricorda che solo nelle frange più estremiste della riforma, in effetti, si mantenne la libera interpretazione della Scrittura.  Ma, anche qui, egli sfuma poi subito il giudizio, attestando che presto si giunse anche in quelle ad una nuova ortodossia che restringeva le letture possibili per uniformarsi a quella dei leaders dei gruppi stessi: «A Zurigo, gli anabattisti restano fedeli alle prime prese di posizione di Zwingli e aderiscono ad un'interpretazione radicale della Scrittura: “Dopo aver preso anche noi fra le mani la Scrittura e averla interrogata su tutti i punti possibili, siamo divenuti più istruiti e abbiamo scoperto gli errori enormi e vergognosi commessi dai pastori”. Con sfumature diverse, gli spiritualisti adottano posizioni vicine, rifiutando ogni intervento autoritario nel contatto con i libri sacri. La loro posizione è strettamente connessa alla convinzione della priorità dello Spirito sul testo. Nel Manifesto di Praga, del 1521, Thomas Münzer squalifica i preti che propongono una Scrittura “celata con fare sornione nella Bibbia, con la furberia dei briganti e la crudeltà degli assassini”. Solo gli eletti sono beneficiari della Parola vivente: “Quando il seme cade sul campo fertile, vale a dire nei cuori riempiti del timor di Dio, lì si trovano la carta e la pergamena su cui Dio scrive non con l'inchiostro, ma col suo dito vivente la vera Scrittura santa, di cui la Bibbia esteriore è autentica testimonianza.

Münzer però sa di vivere in una società poco adatta alla lettura individuale. Così egli auspica, in testa alla sua Predica ai prìncipi, del 1524, “che i servitori di Dio, zelanti e infaticabili, diffondano quotidianamente la Bibbia attraverso il canto, la lettura e la predicazione”. Nella stessa logica, egli desidera una liturgia che si svolga in una lingua compresa dal popolo. E si augura che la Bibbia sia letta ad alta voce di fronte al popolo, per consentirgli di appropriarsene. È vero che questo ideale fu disatteso e che Münzer sostituì ben presto la propria predicazione al dettato della Bibbia» (pp. 254-255).

Recentemente è stato Luther Blisset, l’autore collettivo di Q (Einaudi, Torino, 1999), a ricordare in forma romanzata come tutti i rami della riforma si siano presto irrigiditi a propugnare la loro visione dell’ortodossia. Nel romanzo storico Q i gruppi minoritari della riforma divengono alla fin fine ancora più integralisti dei gruppi maggioritari e la narrazione evidenzia non solo le tensioni fra cattolicesimo e mondo protestante, ma anche quella violenta  fra luteranesimo e calvinismo da un lato ed i gruppi più rivoluzionari dall’altro.

Gilmont evidenzia la fioritura dei catechismi nel mondo protestante del tempo fu corrispettiva alla nuova prudenza nell’utilizzo della Bibbia: i riformatori ritenevano che i Catechismi fossero necessari per permettere un’istruzione che garantisse una reale “ortodossia” riformata ed una formazione dei fedeli:

«Il catechismo conosce una fioritura considerevole con la Riforma e la Controriforma. Lutero ha fortemente incoraggiato un catechismo mirante ad un insegnamento cristiano semplice a partire dall'infanzia. Si riallacciava così ad un movimento che affondava le sue radici nel medioevo. Come Jean Gerson nel Quattrocento, Lutero si rende conto che il rinnovamento religioso si scontra tanto contro l'ignoranza delle masse quanto contro l'incapacità catechetica di molti pastori, come chiarisce nella prefazione al suo grande catechismo del 1529. Col suo piccolo catechismo egli va più lontano, prospettando un modello di catechesi da realizzare in famiglia: una volta memorizzati, i testi fondamentali - i Dieci Comandamenti, il Pater, il Credo - devono essere commentati dal padre di famiglia. Ben presto - lo si è visto - Lutero finisce col voler mettere questo tipo di opera nelle mani di tutti al posto della Bibbia.

La Riforma calvinista accorda un ruolo importante al catechismo, come conferma la bibliografia. Se il numero di edizioni della Bibbia e del Nuovo Testamento è impressionante, esso è nullo al confronto di quello dei catechismi e dei salteri. Ed è certo che le nostre stime sono inferiori alla realtà, a causa delle perdite importanti subite da queste opere di uso quotidiano.

Ora, la catechesi è un'attività in cui predomina l’oralità. L’apprendimento mnemonico del catechismo ne precede la spiegazione. Senza dubbio, il libro è indispensabile: il testo letto ad alta voce dal padre di famiglia o dal catechista è seguito in silenzio dagli occhi del fanciullo che ascolta. In quest'uso dello scritto, il libro fa da supporto alla memoria: non è affatto il luogo di scoperta di un messaggio inedito. Non bisogna peraltro svalutare questo tipo di apprendimento piuttosto rigido, né trascurarne gli effetti sull’iniziazione alla lettura» (p. 260).

Ovviamente nel complesso rapporto con il testo biblico giocarono un ruolo decisivo gli apparati di note che venivano redatti appositamente per aiutare il lettore a comprendere i passaggi più difficili. Ma le note avevano anche il fine di favorire una determinata interpretazione:

«L'utilizzazione di queste Bibbie pone un altro problema. Il testo sacro è infatti illustrato con vari strumenti di ausilio alla lettura, che propongono diversi approcci paralleli al testo. Alcuni di questi complementi al testo si situano al principio o alla fine del libro: introduzioni, tavole, riassunti. Ma compaiono anche annotazioni nei margini, con o senza rinvii a partire dal testo. Queste indicazioni marginali sono di natura filologica, teologica o liturgica. Si trovano anche rimandi a passi paralleli. Come si orientava il lettore in mezzo a queste glosse? La Bibbia diveniva oggetto di consultazione dotta? Non è senza interesse ricordare, a proposito di tale “paratesto”, che le autorità cattoliche temevano più questi commentari marginali che non le tradu­zioni realizzate dai protestanti» (p. 263).

Susanna Peyronel Rambaldi, nel giungere a conclusioni analoghe a quelle di Gilmont, sottolinea come le stesse cautele fossero presenti in maniera crescente nelle aree cattoliche. La studiosa ricorda come già Erasmo si fosse espresso in merito:

«Ci sono nelle Scritture – dirà nella famosa polemica con Lutero sul libero arbitrio – “dei santuari reconditi dove Dio non ha voluto che cercassimo di entrare e nei quali, se pur tentassimo di penetrare, saremmo avvolti da caligine vieppiù spessa [... ] Perciò resta lecito trattare di queste cose nelle conferenze per i sapienti o nei corsi di teologia, purché lo si faccia sobriamente; dibatterne invece sulla pubblica piazza davanti ad un uditorio molto vario mi sembra non solo inutile ma pernicioso”» (p. 78).

All’opposto alcuni dei vescovi più illuminati vedevano in maniera fortemente critica l’assenza di formazione dei laici in merito alla Sacra Scrittura. Il cardinale Madruzzo, principe vescovo di Trento, ad esempio,

«difendeva con espressioni quasi erasmiane la volgarizzazione dei testi sacri: “noi quasi neghiamo al santo popolo di Dio questa santa consolazione delle Sacre Scritture [...] nessuna età, nessun sesso, nessuno stato di fortuna, nessuna condizione vanno tenuti lontani dalla lettura delle divine Scritture”» (pp. 79-80).

Mentre, dal canto loro, «gli stessi “spirituali” italiani, che avevano assimilato lezioni e suggestioni non solo da Erasmo, ma anche dalla teologia di Lutero e Calvino (il Beneficio di Cristo ne è la prova più evidente), indietreggeranno spaventati, come aveva fatto anche Erasmo, di fronte alle conseguenze di una teologia ed una Bibbia messa alla portata degli “idioti” e delle “donnicciole”» (p. 80).

D’altronde, la convinzione che solo una maggiore formazione cristiana diffusa fra il popolo potesse permettere di far fronte al pericolo protestante, era chiaro in molti ambienti cattolici, come attestano le riflessioni del cardinale Possevino:

«Quando si dice – scriverà nel De necessitate, utilitate ac ratione docendi catholici catechismi – che non si possa provvedere meglio alla salvezza della repubblica cristiana se non che ciascuno rimanga in quella semplicità nella quale è stato allevato, è cosa che andava nel modo più assoluto contrapposta agli eretici, nel momento in cui hanno invaso la fortezza della chiesa cattolica con falsi catechismi; ma d’altra parte proibire un antidoto quando un tale veleno serpeggia e si sparge ovunque, cos’è se non negare la salvezza alle anime ed impedire in modo efficacissimo la diffusione del nome di Dio? Le tenebre invero sono l’ignoranza, per cui cadiamo nel peccato, vaneggiando sulla verità» (p. 87).

Considerazioni come queste furono alla base dello sforzo educativo messo in atto a partire dal Concilio di Trento, con un lavoro diffuso rivolto ai vescovi, al clero, ai laici.

Dal canto suo, Gigliola Fragnito (Fragnito Gigliola, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Il Mulino, Bologna, 1997)

ha studiato il processo che portò il mondo cattolico al divieto di leggere la Scrittura, senza previa autorizzazione ecclesiastica – tale provvedimento entrò in vigore nel 1596:

«Confrontati con la determinazione e la tempestività dei provvedimenti adottati dalle autorità civili di Spagna, Francia ed Inghilterra tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento per impedire la diffusione della Bibbia nelle lingue vernacole, il ritardo e la contraddittorietà degli interventi romani non mancherebbero in effetti di lasciare stupiti, ove non si tenga conto del numero rilevante di edizioni integrali della Scrittura stampate a Venezia prima della Riforma. La lunga ed incontrastata consuetudine degli italiani con la Bibbia che esse testimoniano dovette influire non poco sulle tergiversazioni delle autorità ecclesiastiche: perfino di fronte al proliferare di versioni “eterodosse” ed alla crescita del numero dei loro lettori in ogni strato della società, in seguito alla penetrazione nella penisola delle dottrine riformate, la Chiesa esitò a lungo prima di adottare misure restrittive. Bisognerà, infatti, attendere l’indice del 1559 per imbattersi nel primo divieto, che verrà, comunque rimesso in discussione fino alla promulgazione dell’indice clementino del 1596. L’azione incerta ed oscillante di Roma – che, pur rivolgendosi all’intera cattolicità, sapeva di poter contare tutt’al più sull’ubbidienza degli Stati italiani – sembra, quindi, essere stata fortemente condizionata dalla difficoltà – ma anche dall’imbarazzo – di sradicare una antica consuetudine, riconosciuta anche dai padri riuniti a Trento, i quali nel 1546 annoveravano l’Italia tra i paesi in cui vi era un’antica familiarità con i testi sacri» (pp. 12-13).

La Fragnito confuta l’errata convinzione che la cessazione dell’utilizzo privato della Scrittura sorga da un decreto tridentino. Ricorda, d’altro canto, come effettivamente si giunse solo a cavallo del secolo ad interrompere in Italia la lettura diretta del testo biblico che era abituale nelle epoche precedenti:

«Se è stato agevole dimostrare l’infondatezza di una tesi consolidata secondo cui sarebbero stati i padri riuniti a Trento a condannare definitivamente le traduzioni bibliche nelle lingue materne – grazie anche alla documentata persistenza di edizioni veneziane postridentine – più arduo è stato ricostruire l’evoluzione tutt’altro che lineare delle posizioni romane negli anni che intercorrono tra l’indice tridentino (1564) e l’indice clementino (1596). Durante quel trentennio, mentre i conflitti ai vertici della Curia facevano insabbiare ben tre indici pronti per la promulgazione, si susseguirono una serie di interventi da parte di Roma che di fatto stravolgevano la normativa dell’indice tridentino ancora ufficialmente in vigore, grazie alla quale vescovi ed inquisitori locali avevano la facoltà di rilasciare licenze per la lettura delle traduzioni» (p. 13).

La valutazione complessiva della Fragnito conferma le ricerche di storici come Gilmont e Peyronel Rambaldi, ma sottolinea come l’assenza della Scrittura nel mondo cattolico fu più sensibile dopo il 1596:

«Anche se è ormai acclarato che sia Erasmo sia i riformatori protestanti, dopo un’iniziale propaganda a favore di un accesso diretto e indiscriminato del popolo alla Sacra Scrittura nelle lingue materne, ripiegarono su posizioni di maggiore cautela, se non addirittura di diffidenza, e se è stato dimostrato che la Bibbia ebbe un ruolo assai meno preminente nelle letture individuali e nella formazione religiosa e culturale di coloro che avevano aderito alle nuove confessioni, la tendenza ad equiparare le posizioni dei protestanti – pur con la variante dei calvinisti, maggiormente propensi ad un approccio individuale alla Bibbia – a quelle dei cattolici è quanto meno fuorviante» (pp. 318-319).

Certo è che il nuovo decreto che vietava la lettura personale della Bibbia si impose lentamente, come dimostra il grande numero di Bibbie che risultano in possesso dei laici e che non destavano nelle autorità cattoliche alcun sospetto di eresia nei confronti di quei possessori:

«Quelle liste di fine secolo [che indicavano le Bibbie sequestrate a laici che non erano minimamente sospettati di eresia], in cui tanti volgarizzamenti biblici vennero inseriti senza destare in chi li sequestrava il sospetto che i possessori fossero eretici, documentano ancor oggi il tenace attaccamento ai testi biblici e l’audace e rischiosa difesa di un’antica tradizione» (p. 328).

Al termine del suo studio, la Fragnito cita, a livello esemplificativo della prassi di fine Cinquecento, la documentazione relativa alla concessione del permesso di tenere con sé la Bibbia ricevuto da una coppia, mostrandoci la prassi che intercorse dal 1596 fino ai nuovi decreti che renderanno nuovamente libero l’accesso alla Scrittura emanati nel 1758, con Benedetto XIV:

«Si veda la supplica inoltrata il 27 ottobre 1597 al Maestro del Sacro Palazzo da due coniugi vicentini, Bartolomeo e Maddalena Camiolo, i quali chiedevano “di potere tenere gli Evangelii latini et volgari ligati insieme quali desiderano leggere per loro devotione et dal detto loro curato si farà fede [...] che gli detti oratori sono buoni Christiani et senza alcun sospetto di heresia et tutto receveranno per gratia singulare”. Allegato alla supplica l’attestato del parroco di San Salvatore a Roma, Alfonso Baldini, il quale certificava che i suoi parrocchiani erano buoni cristiani, confitentes et communicantes saepe in anno, e liberi da ogni sospetto di eresia. L’autorizzazione venne concessa a condizione che si trattasse di un’edizione annotata da Remigio Nannini. Cfr. ASO, Indice, vol. XVIII/1, f. 219r» (p. 329).

Merita ricordare che il Concilio di Trento aveva esplicitamente chiesto, in maniera tassativa, che l’opera di riforma cattolica avvenisse tramite una conoscenza dei tesori della Scrittura che dovevano esser messi a disposizione del popolo, come afferma lungamente il Secondo decreto del Concilio stesso Sulla lettura della S. Scrittura e la predicazione:

«1. Lo stesso sacrosanto sinodo, aderendo alle pie costituzioni dei sommi pontefici e dei concili approvati, le fa sue; e volendo completarle, perché non avvenga che il tesoro celeste dei libri sacri, che lo Spirito Santo ha dato agli uomini con somma liberalità, rimanga trascurato, ha stabilito e ordinato che nelle chiese, in cui vi sia una prebenda o una dotazione, o uno stipendio comunque chiamato destinato ai lettori di sacra teologia, i vescovi, gli arcivescovi, i primati e gli altri ordinari locali obblighino, anche con la sottrazione dei frutti relativi, quelli che hanno questa prebenda, dotazione o stipendio, ad esporre e spiegare la Sacra Scrittura personalmente, se sono idonei, altrimenti per mezzo di un sostituto adatto, da scegliersi dai vescovi, dagli arcivescovi, dai primati e dagli altri ordinari stessi.

Per il futuro tale prebenda, dotazione o stipendio non dovrà esser conferito se non a persone adatte, che siano capaci di esplicare tale ufficio da se stessi.

Ogni provvista fatta altrimenti sia nulla e invalida. [...]

8. Gli insegnanti di Sacra Scrittura, nel tempo in cui insegnano pubblicamente nelle scuole, e così pure gli studenti godano ed usufruiscano di tutti i privilegi concessi dal diritto di percepire i frutti delle loro prebende e dei loro benefici anche durante la loro assenza.

9. Poiché, tuttavia, alla società cristiana non è meno necessaria la predicazione del Vangelo, che la sua lettura, e questo è il principale ufficio dei vescovi, lo stesso santo sinodo ha stabilito e deciso che tutti i vescovi, arcivescovi, primati, e tutti gli altri prelati di chiese siano tenuti a predicare personalmente il santo Vangelo di Gesù Cristo se non ne sono legittimamente impediti.

10. Se i vescovi e le altre persone nominate fossero impedite da un legittimo motivo, siano tenuti, conformemente a quanto prescrive il concilio generale, a farsi sostituire da persone adatte per questo ufficio della predicazione.

Se qualcuno trascurasse di adempiere ciò, sia sottoposto ad una pena severa.

11. Anche gli arcipreti, i pievani, e tutti coloro che abbiano cura d’anime nelle parrocchie o altrove, personalmente o per mezzo d’altri se ne fossero legittimamente impediti, almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni, nutrano il popolo loro affidato con parole salutari, secondo la propria e la loro capacità, insegnando quelle verità che sono necessarie a tutti per la salvezza e facendo loro conoscere, con una spiegazione breve e facile, i vizi che devono fuggire e le virtù che devono praticare, per evitare la pena eterna e conseguire la gloria celeste.

Se poi qualcuno di loro fosse negligente anche se pretendesse di essere esente dalla giurisdizione del vescovo per qualsiasi motivo o anche se le chiese fossero ritenute in qualsiasi modo esenti, o forse annesse o unite a qualche monastero, situato magari fuori diocesi, purché in realtà si trovino nella diocesi, non manchi la provvidenziale sollecitudine dei vescovi, perché non debba avverarsi il detto: I piccoli chiesero il pane e non vi era chi lo spezzasse loro».

Si noti come la sottolineatura è quella della predicazione, mentre è passata sotto silenzio la lettura personale del testo sacro. La Scrittura non è assente dalla visuale del Concilio di Trento, ma deve essere mediata dalla viva voce della catechesi.

A livello iconografico, l’importanza della Sacra Scrittura è manifesta anche nell’arte del Cinquecento ed in quella successiva dell’età barocca.

Si pensi allo straordinario dipinto di Lorenzo Lotto, Matrimonio mistico di Santa Caterina (1524, Roma, Galleria Nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini), dove vengono rappresentati insieme il valore del Libro Sacro, il valore della santità che legge e testimonia la rivelazione ed infine il ruolo di Cristo Bambino, Parola di Dio, che celebra le sue nozze con Santa Caterina. Nel dipinto la Vergine volta la pagina del testo sacro, poiché con il suo assenso all’Incarnazione la Parola di Dio diviene carne.

Si pensi anche al San Matteo e l’angelo del Caravaggio della Cappella Contarelli in San Luigi dei francesi (l’opera è del 1602), dove l’ispirazione divina delle Scritture è posta in rilievo.

4.2/ La figura di Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469-1536; prete, poi con dispensa; il papa gli offre il cardinalato nel 1535)

da Erasmo da Rotterdam, Il pugnale del soldato cristiano, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p. 26

Dunque, l'uomo è un animale stupefacente, fatto di due, anzi tre parti diversissime tra loro, con un'anima che lo fa simile a un nume e un corpo che lo fa simile a un animale bruto. Il nostro corpo, peraltro, è inferiore sotto tutti i riguardi a quello degli altri animali bruti; quanto all'anima, invece, siamo a tal punto capaci di divinità che ci è possibile sorvolare perfino le menti angeliche e diventare una cosa sola con Dio. Se non ti fosse stato aggiunto un corpo, saresti un dio: se non ci fosse stata inserita quest’anima, saresti una bestia. Queste due nature così diverse tra loro il grande artefice le aveva legate in armoniosa concordia, ma il serpente, nemico della pace, le ha divise in sterile discordia, di modo che ormai non possono né dividersi senza il massimo tormento né vivere insieme senza una continua guerra. Come si suol dire, ciascuno dei due lupi in lotta tiene l'altro per l'orecchio e ad entrambi si adatta l'arguta battuta «Non posso vivere con te, né senza di te».

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam (1516, insieme all’edizione del NT), Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 128-129

Mi dispiace dovere adesso, per prima cosa, rinnovare una vecchia lamentela: vecchia, ma, ahimé!, fin troppo giusta. E non so se sia mai stata più giusta di oggi, quando, mentre i mortali si dedicano con tanta passione ai loro studi, la sola filosofia di Cristo è addirittura derisa da certi cristiani, dalla maggior parte di essi è trascurata, e solo da pochi viene studiata - ma con indifferenza, per non dire con ipocrisia. Eppure, in tutte le altre discipline create dall'ingegno umano non c'è niente di cosi recondito e nascosto che non sia stato esplorato dalla sagacità dell'intelletto, niente di tanto difficile che non sia stato compreso grazie a un lavoro incessante. Perché allora accade che noi, che pure ci chiamiamo tutti col nome che ci viene da Cristo, non ci dedichiamo a quest'unica filosofia con l'animo che essa merita? Platonici, Pitagorici, Accademici, Stoici, Cinici, Peripatetici, Epicurei conoscono profondamente i principi della propria scuola, e li sanno a memoria, e per essi combattono, pronti a morire piuttosto che tradire l'insegnamento del proprio maestro. E noi, perché non dimostriamo una fedeltà anche maggiore al nostro fondatore e maestro Cristo? Chi non troverebbe assurdo che un seguace di Aristotele ignorasse il pensiero di quel filosofo sulle cause dei fulmini, sulla materia elementare, sull'infinito? Eppure, queste sono cose che non rendono felici a saperle, né infelici a ignorarle. E noi, che siamo stati iniziati e avvicinati a Cristo in tanti modi e con tanti sacramenti, non riteniamo disonorevole ignorare una dottrina che garantisce a tutti una felicità certissima? Ma a che serve ingrandire qui polemicamente l'argomento, quando è empio e folle il fatto stesso di paragonare Cristo con Zenone o Aristotele, e la sua dottrina con le loro - per parlare educatamente - formulette? Attribuiscano pure ai capi della loro setta quello che possono o che vogliono: questo è senza dubbio l'unico maestro venuto dal cielo, il solo che abbia potuto, essendo l'eterna sapienza, insegnare certezze; il solo a impartire insegnamenti salvifici, unico autore dell'umana salvezza; il solo ad essere assolutamente coerente con tutto ciò che ha insegnato; il solo che può mantenere tutto ciò che ha promesso. Se ci arriva qualcosa dai Caldei o dagli Egizi, bramiamo ardentemente di conoscerlo proprio perché viene da un mondo a noi estraneo, e l'arrivare da lontano fa parte del suo valore. Spesso sulle fantasie di un poveruomo, per non dire di un impostore, ci tormentiamo ansiosamente, non solo senza alcun frutto, ma con grande spreco di tempo - per non dir di peggio (sebbene sia già gravissimo non ottenere nessun risultato). Ma come mai una curiosità di questo genere non stuzzica l'animo dei Cristiani, che sanno benissimo che la loro dottrina non viene dall'Egitto o dalla Siria, ma dal cielo stesso? Perché non riflettiamo tutti che è necessario sia uno straordinario, mai visto, genere di filosofia quello per predicarci il quale colui che era Dio si è fatto uomo, colui che era immortale si è fatto mortale, colui che era nel cuore del Padre è sceso in terra? È necessario che sia qualcosa di grande, di nient'affatto comune, qualsiasi cosa sia, ciò che è venuto a insegnarci quel maestro tanto ammirevole, dopo tante scuole di filosofi e tanti insigni profeti. Perché, qui, non conosciamo, analizziamo, discutiamo, con pia curiosità, ogni singola cosa? Soprattutto visto che questo genere di sapienza - tanto esimio da rendere una volta per tutte stolta tutta la sapienza di questo mondo - lo si può attingere, come da limpidissime fonti, da questi pochi libri, con fatica di gran lunga minore di quella che costa attingere da tanti volumi spinosi, da tanto immensi e contraddittori commenti di interpreti la dottrina aristotelica - per non aggiungere con quanto maggior frutto. Qui infatti non è necessario avvicinarsi muniti di tante angoscianti dottrine. Il viatico è semplice e accessibile a chiunque, purché si abbia un animo pio e disponibile, e soprattutto dotato di fede semplice e pura. Perché tu sia docile, otterrai grandi risultati in questa filosofia. E lei che ci fornisce lo spirito maestro, che non si offre tanto volentieri quanto agli animi semplici.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, pp. 130-131

Io dissento infatti totalmente da coloro che non vorrebbero che il popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se Cristo avesse insegnato cose cosi astruse da poter essere capite solo da un gruppetto di teologi, o come se la massima sicurezza della religione cristiana consistesse nell'essere ignorata. Può darsi che sia opportuno tenere nascosti i segreti dei re: ma Cristo vuole che i suoi siano divulgati il più possibile. Vorrei che qualsiasi donnetta leggesse il Vangelo, leggesse le epistole di Paolo. E magari questi scritti fossero tradotti nelle lingue di tutti i popoli, in modo da essere letti e capiti non solo dagli Scoti e dagli Iberni, ma anche dai Turchi e dai Saraceni! Il primo passo sta senza dubbio nell’impararli in un modo qualsiasi. Va bene: molti ne rideranno, ma alcuni ne faranno tesoro. Mi piacerebbe che il contadino ne cantasse dei passi mentre guida l’aratro, e il tessitore mentre guida la spola, e che il viandante ingannasse la noia del viaggio con le storie della Scrittura. Tutte le conversazioni di tutti i cristiani dovrebbero basarsi su di essa. Noi siamo infatti quali sono i nostri discorsi quotidiani. Ciascuno capisca ed esprima ciò che può. Chi resta indietro non invidi chi gli sta avanti, e questi dia una mano a chi gli sta dietro, non lo scoraggi. Perché restringiamo a pochi un'attività che è di tutti? E infatti illogico che, mentre sono allo stesso modo comuni a tutti i cristiani il battesimo (prima professione della filosofia cristiana), poi tutti gli altri sacramenti e infine la promessa dell'immortalità, solo i dogmi siano stati relegati nelle mani di un gruppetto di persone, che oggi si chiamano comunemente teologi o monaci, ma che, pur essendo una parte minima del popolo cristiano, vorrei fossero migliori della fama che hanno. Temo infatti che tra i teologi se ne possano trovare di quelli che si discostano molto dal titolo che hanno, e cioè che discutono di cose terrene e non di cose divine. E che fra i monaci non se ne trovino molti che professino la povertà e il disprezzo del mondo insegnatici da Cristo, invece che la morale del mondo. Per me è un vero teologo colui che sappia insegnare - non con sillogismi contorti ad arte, ma con l'atteggiamento, con l’espressione del volto e degli occhi, con la sua stessa vita - che le ricchezze vanno disprezzate; che il cristiano non deve contare sulle sicurezze di questo mondo, ma deve affidarsi al cielo; che l'ingiuria non va restituita; che bisogna benedire chi ci maledice e fare del bene a chi ci fa del male; che i buoni vanno amati e aiutati tutti come le membra dello stesso corpo, e i cattivi tollerati, se non possono essere corretti; che coloro che vengono spogliati dei loro beni, che vengono scacciati dalle loro proprietà, che piangono, sono beati e non spregevoli; che la morte, non essendo altro che il passaggio all'immortalità, è desiderabile anche per le persone pie. Se qualcuno, ispirato da Cristo, predicasse, inculcasse ed esortasse a cose come queste, sarebbe un vero teologo anche se fosse uno zappatore o un tessitore. E se qualcuno le sostenesse con 1'esempio della sua condotta, questi sarebbe un grande Dottore. Su quale sia l'intelletto degli angeli può forse discutere sottilmente anche un non cristiano, ma persuadere gli uomini che in questo mondo dobbiamo condurre una vita angelica, questo è veramente il compito di un teologo cristiano. E se qualcuno strillasse che queste sono affermazioni volgari e sempliciotte, non avrei altro da rispondere se non che queste volgarità le ha insegnate prima di tutto Cristo, che su di esse hanno insistito gli apostoli e che ce le hanno tramandate schiere di autentici cristiani e di insigni martiri. Questa filosofia, che a loro sembra illetterata, ha sottomesso alle proprie leggi i massimi principi della terra ed un ben noto numero di regni e popoli, cosa che non era riuscita a fare né la forza dei tiranni, né la dottrina dei filosofi. Non voglio certamente oppormi, se coloro che hanno raggiunto la perfezione vogliono discutere nei loro circoli di codesta sapienza per pochi. Ma sarà una consolazione per l'umile volgo dei cristiani sapere che tali sottigliezze gli apostoli, ammesso che ne fossero a conoscenza (e questo non intendo stabilirlo io), certo non le insegnarono.

da Erasmo da Rotterdam, Paraclesis, ovvero esortazione allo studio della filosofia cristiana, in Erasmo da Rotterdam, Scritti religiosi e morali, Einaudi, Torino, 2004, p.134

Perché preferiamo imparare la sapienza di Cristo dagli scritti degli uomini piuttosto che da Cristo stesso? Lui che ha promesso che sarebbe stato con noi sempre, fino alla fine dei secoli, mantiene la promessa soprattutto con questi scritti, nei quali ancora oggi vive, respira, parla, direi quasi più efficacemente di quando viveva con gli uomini. I Giudei vedevano e udivano meno cose di quelle che tu vedi e ascolti negli scritti evangelici, purché tu ci metta occhi e orecchie tali da poterle distinguere.

Insomma, che storia è questa? La lettera di un amico la conserviamo, la baciamo, ce la portiamo dietro, la leggiamo e rileggiamo: e ci sono migliaia di cristiani che, pur essendo dotti, non hanno mai letto in tutta la loro vita i libri evangelici e apostolici. I maomettani custodiscono gelosamente i loro dogmi, i Giudei ancora oggi studiano Mosè nel testo originario. Perché noi non rendiamo lo stesso onore a Cristo? Coloro che seguono San Benedetto conservano, mandano a mente, si imbevono della sua regola, che pure fu scritta da un uomo, e da un uomo quasi ignorante, per gente ignorante. Gli agostiniani sono ferratissimi sulla regola del loro fondatore. I francescani adorano i poveri insegnamenti del loro Francesco, li accolgono incondizionatamente, in qualsiasi posto del mondo si spingano li portano con sé, e non si sentono sicuri se non hanno in seno quel libretto. Perché essi tributano a una regola scritta da un uomo più di quanto i cristiani in generale tributano alla propria regola, che Cristo ha trasmesso a tutti, a cui tutti egualmente si sono legati col battesimo, e che insomma - per quante tu ne voglia aggiungere - è la più sacra di tutte?

5/ La questione teologica al centro. Non le 95 tesi sulle indulgenze, ma le grandi questioni del peccato e della grazia e quella della chiesa e della tradizione

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 57-58

Lutero spedì [le famose 95 Tesi sulle indulgenze] la vigilia della festa di Ognissanti ai vescovi direttamente interessati. Soltanto allorché questi non ebbero risposto affatto o non in maniera soddisfacente, egli volle far recapitare le Tesi – così Lutero sostenne in tutta la sua vita – a persone dotte, dentro e fuori di Wittenberg ( WA 1, 528; WABr 1, 245; WA 51, 540; WA 54, 180; cfr. E. Iserloh, Luther zwischen Reform und Reformation, 41-55; vers. It., Brescia 1970).. Ma non si riesce a conciliare con questi dati, forniti da Lutero, l’affissione delle Tesi sulla chiesa del castello di Wittenberg il 31 ottobre del 1517. Di tale episodio non ci danno notizie né Lutero né alcuna delle molte fonti contemporanee. Solo Melantone, dopo la morte di Lutero – e precisamente nella «Prefazione» al II volume delle opere del riformatore (1546) – parla dell’affissione delle Tesi, prefazione che si rivela inattendibile anche quanto al resto (CR 6, 161 s; H. Boemer, Luthers Romfahrt, Lipsia 1914, 8; H. Volz, Martin Luthers Thesenanschlag, 37).

Prescindendo da molte altre contraddizioni, l’affissione delle Tesi, la vigilia della festa titolare della chiesa del castello, avrebbe avuto il carattere di una scena pubblica, nonostante l’uso della lingua latina, in vista del grande concorso di popolo provocato dalle numerose indulgenze che vi si potevano lucrare. Ma Lutero voleva, come ripetutamente afferma, instaurare un dialogare tra i dotti, a chiarimento della dottrina delle indulgenze, che non era stata ancora ufficialmente definita (WABr 1, 138; 152; WA 1, 311; 528. Cfr. l’intitolazione delle tesi: Quare petit, ut qui non possunt verbis presentes nobiscum disceptare agant id litteris absentes, WA 1, 233.). I colleghi, ai quali Lutero fece recapitare le Tesi dopo il 31 ottobre – ad esempio l’11 novembre del 1517 a Giovanni Lang di Erfurt (WABr 1, 122) – le diffusero. In poche settimane esse ebbero una così rapida e vasta pubblicità, in manoscritti e a stampa, quale nessuno – nemmeno Lutero stesso – avrebbe potuto prevedere (WABr 1, 170; WA 51, 540).

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 10-11

Ci si deve [...] chiedere: questa prassi esteriore aveva per fondamento una sana dottrina teologica e ne era chiarificata e illuminata?

Va qui ricordata, quale sintomo visibile e gravido di conseguenze, l’incertezza teologica. L’area della verità e dell’errore non era tracciata con sufficiente chiarezza. Si supponeva di trovarsi in accordo con la chiesa, mentre da tempo si erano adottate posizioni che contraddicevano al suo insegnamento. Lutero riteneva di trovarsi ancora nella chiesa quando insultava il papa dandogli dell’anticristo, e Melantone poteva ancora tentare nella Confessio Augustana (1530) di rendere credibile che non esistesse alcun contrasto con la «chiesa romana» nelle rispettive dottrine e che si trattasse soltanto di una opinione diversa quanto ad alcuni abusi. L’insicurezza era particolarmente notevole nei riguardi del concetto di chiesa. A causa dello scisma di occidente – l’ultimo antipapa Felice V, aveva rinunciato appena nel 1449 – non era più molto chiaro se il papato, fondato da Gesù Cristo, fosse essenziale per la chiesa. Incapaci di stabilire chi fosse il papa legittimo, si era spesso cessato di porsi questo problema e ci si era abituati a fare a meno del papa. Diede un forte impulso alla Riforma la circostanza che molti furono dell’opinione che Lutero apportasse soltanto la riforma lungamente maturata, e non si accorsero, o si accorsero soltanto in ritardo, che egli metteva in discussione dottrine essenziali della chiesa.

dal discorso tenuto da Benedetto XVI nell’incontro con i rappresentanti del consiglio della "Chiesa Evangelica in Germania" nella Sala del Capitolo dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011.

Per me, come Vescovo di Roma, è un momento di profonda emozione incontrarvi qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt. Abbiamo appena sentito che qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. E in questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.

“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, oggi si preoccupa ancora di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani,  oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più.

Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? E le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita.

La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.

E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.

Ora forse si potrebbe dire: va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito.

È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo per me il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro comune fondamento imperituro.

Certo, il pericolo di perderla non è irreale. Vorrei far brevemente notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale – che mi viene continuamente descritto dai vescovi di tutto il mondo – ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.

Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente.

Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale nel quale dobbiamo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore. E per questo lo preghiamo di imparare di nuovo a vivere la fede per poter diventare così una cosa sola.

da Benedetto XVI nella Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell'ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, del 23 settembre 2011.

L’unità fondamentale consiste nel fatto che crediamo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Che lo professiamo quale Dio trinitario – Padre, Figlio e Spirito Santo. L’unità suprema non è solitudine di una monade, ma unità attraverso l’amore. Crediamo in Dio – nel Dio concreto. Crediamo nel fatto che Dio ci ha parlato e si è fatto uno di noi. Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale.

L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita.

La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno. Naturalmente di questa testimonianza fondamentale per Dio fa parte, in modo assolutamente centrale, la testimonianza per Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che è vissuto insieme con noi, ha patito per noi, è morto per noi e, nella risurrezione, ha spalancato la porta della morte. Cari amici, fortifichiamoci in questa fede! Aiutiamoci a vicenda a viverla! Questo è un grande compito ecumenico che ci introduce nel cuore della preghiera di Gesù.

5.1/ La questione della grazia e del libero arbitrio (la giustificazione)

da Martin Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, Claudiana, Torino, 1993, pp. 78-80 e 416

Per affermazione (tanto per non giocare con le parole) intendo l’aderire costantemente a una dottrina, affermarla, confessarla, difenderla e sostenerla fino in fondo con perseveranza; né, credo, quel termine ha altro significato nei classici latini o nel nostro uso odierno. Inoltre mi riferisco a quelle cose che devono essere affermate, ovvero che ci sono state tramandate per via divina nella Sacra Scrittura. Non c'è del resto bisogno che Erasmo o qualsiasi altro maestro venga a insegnarci che nelle cose dubbie, inutili e non necessarie le affermazioni, le dispute e le contese sono non solo stolte ma addirittura empie; Paolo le condanna infatti in più di un luogo [I Tim. 1,4; II Tim. 2,23; Tito 3,9]. Né, credo, intendi qui riferirti a questo genere di cose, a meno che, come un oratore da strapazzo, tu non voglia alludere a una cosa e trattarne invece un'altra, oppure, per una follia degna di uno scrittore empio, tu ritenga l'articolo del libero arbitrio una questione dubbia o non necessaria.

Si tengano dunque lontano da noi cristiani gli scettici e gli accademici; ci stiano invece vicini coloro che sostengono la fede con un' ostinazione ancora più grande di quella degli stoici. Quante volte, mi chiedo, l'apostolo Paolo sollecita la plerophoría [I Tess. 1,5], cioè la più certa e convinta affermazione della coscienza? Nel capitolo 10 dell'epistola ai Romani la chiama confessione: «Con la bocca si fa confessione per essere salvati» [Rom. 10,10]. E Cristo dice: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio» [Mt. 10,32]. Pietro comanda di rendere ragione della speranza che è in noi [I Pie. 3,15]. Che bisogno c'è di molte parole? Nulla per i cristiani è più noto e familiare dell'affermazione. Togli le affermazioni e hai tolto il cristianesimo. Lo Spirito Santo è dato ai cristiani dal cielo affinché glorifichi Cristo [Giov. 16,14] e lo annunzi fino alla morte; e cos’altro vuol dire fare affermazioni se non morire per la confessione e l'affermazione? Lo Spirito infine fa affermazioni soprattutto per irrompere nel mondo intero e convincerlo del peccato [Giov. 16,8], quasi sfidandolo a battaglia. E Paolo comanda a Timoteo di riprendere e di insistere anche fuor di tempo [II Tim. 4,2]. Che bello spettacolo darà invece quel predicatore che non creda con certezza né affermi con tenacia tutto ciò per cui ammonisce gli altri! Naturalmente lo manderei ad Anticira.

Ma il più stolto di tutti sono di gran lunga io, che perdo tempo e parole in una questione più chiara del sole. Quale cristiano può mai sopportare che le affermazioni siano disprezzate? Questo non significherebbe altro che negare in un sol colpo l'intera religione e pietà, oppure affermare che la religione, la pietà e tutti i dogmi non sono nulla. Come puoi dunque affermare di non aver gusto per le affermazioni e di preferire questa disposizione d’animo a quella opposta? [...]

Ora, essendo un uomo, è facile che tu non intenda correttamente e non esamini con la dovuta attenzione le Scritture o i detti dei padri, sotto la cui guida credi di aver raggiunto la meta. Ciò è ben chiaro quando scrivi di non voler affermare nulla, ma di aver fatto soltanto dei confronti. Chi penetra fino in fondo una questione e la intende correttamente non scrive in questo modo. Io invece in questo libro NON HO FATTO DEI CONFRONTI, MA HO AFFERMATO E AFFERMO; e non voglio lasciare a nessuno il compito di esprimere un giudizio, ma consiglio a tutti di prestare obbedienza. Voglia il Signore, del quale tratta questa discussione, illuminarti e fare di te un vaso a suo onore e gloria. Amen.

dalla relazione tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella tavola rotonda tenutasi presso la Evangelisch-luterische Christuskirche di Roma il 19 ottobre 1998, pubblicata in Evangelisch-luterische Christuskirche Rom, Roma, 2010, pp. 39-43.

Per Lutero, l’esperienza di essere peccatore, la miseria di essere peccatore, di non essere riconciliato con Dio, e l’esperienza che Dio stesso ha dato la riconciliazione, sono state il grande dramma della vita. La prima lo sconvolgeva nell’intimo, l’altra era la reale esperienza della redenzione, sicché egli non sapeva solo attraverso le teorie e i libri di testo teologici che cosa significasse essere redento, essere riconciliato, ma lo sapeva attraverso l’incontro con la Parola di Dio che gli andava incontro.

Per quanto oggi possiamo interpretare bene questi testi dal punto di vista storico, non dobbiamo forse ammettere che siamo molto lontani da una simile esperienza e che è questa la miseria che ci opprime entrambi [cattolici e luterani] e che forse potrebbe avvicinarci ancora di più della valutazione del peso dei singoli termini, che è importante, ma che può anche allontanarsi dalla realtà?

In altre parole: per chi di noi, in realtà, il peccato è miseria della propria vita, per chi il fatto di non essere riconciliato con Dio è la cosa che lo turba di più e con più urgenza? Inversamente, chi considera il messaggio che Dio dona la riconciliazione ciò che dà alla sua vita un nuovo fondamento e un nuovo cammino? Ho l’impressione che tutti noi dobbiamo ammettere una grande mancanza, ammettere che ciò che ci preoccupa e ci muove è di natura completamente diversa.

La nostra preoccupazione e la nostra paura derivano dalla preoccupazione per la conservazione del creato, dal timore dinanzi alla crescente ondata di violenza che non può essere arginata; dallo sgomento per l’incapacità alla pace presente negli uomini, dalla loro incapacità di creare giustizia e di distribuire i beni della terra in modo tale che venga sconfitto il bisogno che sconvolge interi continenti, e che venga superata la sproporzione tra l’abbondanza del ricco Epulone e la miseria del povero Lazzaro che giace davanti alla porta. Sono certamente questioni pressanti, che devono toccarci nel profondo.

Ma se non erro, in realtà abbiamo la sensazione che dobbiamo fare da soli e prendere tutto in mano noi. E mi pare che nella nostra anima sia penetrata, in misura non lieve, una concezione teistica di Dio. Non solo pensiamo, a partire dalle scienze naturali, che Dio ha dato al mondo le sue leggi e ora ne rispetta la dignità – non sarebbe degno di Lui interferire – ma crediamo lo stesso anche riguardo all’uomo. Dio ci ha consegnati a noi stessi e quindi non interviene; in realtà è difficile per noi anche solo immaginare in che modo potrebbe intervenire. Per questo non ci disturba il nostro rapporto insufficiente con Lui, mentre invece ci disturba l’insufficienza del nostro agire.

Questo, a sua volta, se non erro ha come conseguenza che nel messaggio della Chiesa, da entrambe le parti prevale il moralismo e in realtà si parla molto poco di ciò che fa Dio. Entrambe le Chiese, per quanto mi è dato vedere, propongono spiegazioni significative e importanti riguardo ai bisogni dell’umanità, ma in fondo si tratta sempre di appelli morali, rivolti all’attività dell’uomo. Ciò è bene e necessario, ma se lanciamo solo degli appelli morali, per quanto ben ponderati, prima o poi stanchiamo le persone, che potrebbero pensare che quelle cose le saprebbero dire anche altri, talvolta con maggiore competenza. Anche se non se ne rendono conto, nell’intimo esse si aspettano dalla Chiesa una certa vicinanza.

E hanno ragione ad aspettarsi di più, poiché non abbiamo da trasmettere solo l’appello al nostro fare, non solo la chiamata al nostro lavoro, ma anche il messaggio che Dio oggi è attivo e presente nella storia come soggetto, e che le cose possono aggiustarsi davvero solo se lo lasciamo agire. Vorrei spiegarlo meglio citando un verso del quinto capitolo della Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi che continua a colpirmi, quando l’apostolo dice: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori [...]. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v. 20).

A questo proposito forse potremmo negare di non essere riconciliati con Dio, potremmo affermare di non fare nulla di particolarmente cattivo, dire che Dio sa come siamo, che la Bibbia dice che Lui sa che siamo carne e dunque non può aspettarsi più di tanto da noi, che in realtà non occorrerebbe che ci riconciliamo con Lui, poiché sa come siamo e per tutto il resto, se necessario, ci pensa Lui. Ma c’è comunque una sorta di non essere conciliati, e questa è proprio la nostra indifferenza, il nostro ritenere che non abbiamo bisogno di Lui, della riconciliazione.

Vorrei brevemente – e con questo ritorno alla dottrina della giustificazione – illustrarlo ricorrendo a tre esempi. Il primo è: non abbiamo tempo per Dio! C’è talmente tanto da fare nel mondo che siamo costretti a rimandare la cosa di Dio. Ma se davvero dobbiamo fare tutto, in realtà non basta nemmeno tutto il tempo. Per questo, più vogliamo utilizzare il tempo solo per noi, più velocemente esso fugge.

Solo se accettiamo nuovamente che il grande evento che Dio ha tempo per noi è entrato nel tempo e non esiste solo racchiuso nell’eternità, che Cristo è il tempo che Dio ha per noi, che in Lui Dio ha tempo, se, quindi, accettiamo che possiamo entrare in questo co-tempo di Dio, in questa co-temporaneità, Dio con noi che ha operato in Cristo, allora il tempo diventa strumento e quindi si apre nuovamente al fatto che in esso può avvenire la pace di Dio. E inversamente, ci accorgiamo che, quando questa relazione fondamentale languisce, tutto il resto diventa poco e vuoto e che il nostro moralismo diventa violento e distrugge più di quanto non costruisca.

Per il secondo esempio attingo da Sant’Agostino: in realtà viviamo con il viso rivolto lontano da Dio, crediamo di non dovere guardare in quella direzione, guardare verso il mondo e lontano da Lui. Ma lui ha girato il suo volto verso di noi e ci chiama, affinché noi giriamo il nostro verso di Lui.

E qui, ritengo, dal punto di vista storico emerge chiaramente una cosa: nell’età moderna l’uomo ha distolto sempre più lo sguardo dal volto di Dio, come Adamo, che non voleva essere visto da Lui. Non vuole essere visto perché ritiene di non aver bisogno di un sorvegliante, e non va bene se tutto è sotto gli occhi di Dio, perciò questi occhi non devono proprio esistere.

E infatti, poiché l’uomo è peccatore, può temere lo sguardo di Dio e volerlo allontanare. Ma proprio qui sta la novità portata dal messaggio della giustificazione, che è cristologia applicata in modo semplice: possiamo collocarci sotto gli occhi di Cristo, poiché non sono occhi che ci annientano, come sarebbe giusto, bensì occhi di bontà, che ci accettano e ci trasformano, bontà nella quale il nostro essere imperfetto viene trasformato e nella quale nasce in virtù dell’essere giusto. Penso che sia proprio questo l’aspetto autenticamente cristiano: i temuti occhi di Dio sono diventati occhi che ci lasciano vivere e che ci accolgono nella bontà, senza la quale non potremmo esistere.

Ed ecco il terzo esempio, quello di Pietro che cammina sul mare e sprofonda fintanto che non guarda a Cristo, ma a se stesso. È evidente che se vede solo se stesso, vale solo la sua forza di gravità. Solo quando guarda a Cristo sopravviene l’altra forza di gravità, che lo regge e lo solleva, e che gli dà la capacità di attraversare il mare. Ed è a partire da ciò che comprendo qual è il significato corretto di “simul iustus et peccator”. Con la nostra forza di gravità, inevitabilmente sprofondiamo, cediamo al peccato. E, se ci affidiamo solo a questa forza di gravità, affondiamo. Ma c’è l’altra forza di gravità, e se ci facciamo trascinare da lei, allora siamo salvi, siamo giusti.

5.2/ Calvino: la doppia predestinazione

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.
Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.

5.3/ La grande questione della Chiesa e della Tradizione

da E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 79

Io sono in grande angoscia, per il fatto che non dubito quasi più che il papa sia il vero e proprio anticristo, che secondo l’opinione generale il mondo si attende (WABr 2, 48 s).

da Martin Lutero, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano in E. Iserloh, La riforma protestante, in H. Jedin, Storia della chiesa, VI, Jaca, Milano, 1975, p. 79

I cristiani tutti appartengono allo stato ecclesiastico; né esiste tra di loro differenza alcuna, se non quello dell’ufficio (o ministero), e ciò avviene perché tutti abbiamo un solo battesimo, un solo vangelo, una sola fede... che ci fa tutti chierici e tutti popolo di Dio... Ciò infatti che si riceve dal battesimo ben si può vantare che valga come essere consacrati sacerdoti, vescovi o papi, sebbene non a ciascuno si addica di esercitare tali uffici (WA 6,407, Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, p. 130-132).

Se il papa e i vescovi hanno mancato, è compito delle categorie cosiddette terrene porvi rimedio: «Pertanto, ove necessità lo imponga e il papa sia di scandalo alla cristianità, il primo che lo può, come membro fedele dell’intero corpo, deve far sì che si tenga un concilio davvero libero; ma ciò nessuno può farlo bene quanto la spada secolare, in special modo perché essa è pure parte della cristianità, sacerdote come noi, spirituale come noi, con uguale potestà in tutte le cose, e perché il suo ufficio e l’opera sua, che da Dio le sono dati sopra chiunque, devono procedere liberi là dove sia utile e necessario procedere» (WA 6, 413; Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, 140-141). «...Orsù, svegliamoci, miei cari Tedeschi, e temiamo più Dio che gli uomini, acciocché non veniamo a far parte di tutte quelle povera anime, che così miseramente vennero perdute a cagione dello scandaloso e diabolico regime dei romani...» (WA 6, 415; Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, sulla riforma dell’ordine cristiano, 143).

-un’immagine chiave: Crocifissione di Lucas Cranach, dipinta per la chiesa dei SS. Pietro e Paolo a Weimar (1555)

da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 9-16
Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé; nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa struttura di incontro dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico se ci si porge da sé l’Eucarestia e la si prende da sé, ma è una ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona Christi” e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore, che vive completamente dall’accogliere il suo Dono. La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere questo difficile termine “comunità conformi al diritto”: Cristo è dovunque intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in unità coi fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.

da Joseph Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pp. 55-74

Questo “noi” [della Chiesa] non va inteso solo in senso sincronico, ma anche in senso diacronico. Il che significa che nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Nel corpo di Cristo il limite della morte non conta più; in lui passato, presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non rappresenta mai solo se stesso, né ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo è un inviato, e in quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che introduce nel messaggio è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente il “noi” della Chiesa di tutti i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi una maggioranza contro la fede della Chiesa di altri tempi, non sarebbe affatto maggioranza: nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte le epoche, e solo se si ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico.

da A. Sabetta, Sacramento e parola in Lutero, apparso  in “Rassegna di teologia” 51 (2010), pp. 583-606

La Confessio augustana (CA) definisce la chiesa «l'assemblea dei santi nella quale si insegna il Vangelo nella sua purezza e si amministrano correttamente i sacramenti» (VII), Parola e Sacramenti che, «in virtù della disposizione e dell'ordine di Cristo, sono efficaci anche se sono amministrati da malvagi» (VIII)[1].

Nell'Apologia della CA, redatta da F. Melantone, la Parola e i riti-sacramenti vengono accomunati e presentati come due forme dell'agire di Dio nel cuore dell'uomo perché si generi nei cuori la fede. Dunque, il sacramento e la Parola sembrerebbero inseparabili, in quanto hanno la stessa origine, Dio, e producono lo stesso effetto; nell'Apologia viene usata questa immagine: «come la Parola penetra nell'orecchio, per toccare il cuore, così il rito colpisce gli occhi, per agire sul cuore. La Parola e il rito producono un identico effetto, come dice magnificamente Agostino: il sacramento è il Verbo visibile»[2].

Colpisce, perciò, quello che all'inizio del sec. XX scriveva A. von Harnack. Nel suo Lehrbuch der Dogmengeschichte, egli giudicava la presenza e la riflessione luterana sui sacramenti come una ricaduta nel Medio Evo e un punto debole della riforma la cui originalità, invece, sarebbe consistita esattamente in una sorta di “desacramentalizzazione”[3].

Bisogna, tuttavia, riconoscere, allo stesso tempo, che è diventata opinione condivisa, tra gli studiosi di Lutero, l'insostenibilità di questa posizione che ridimensiona il senso dei sacramenti rispetto al primato della Parola. È vero, come leggiamo nell'Apologia della CA, che sussiste un'asimmetria tra Parola e sacramento[4]: «mentre infatti può accadere, e di fatto accade frequentemente, che la Parola biblica risuoni senza che vi sia celebrazione del sacramento, non può darsi il caso contrario. La Parola biblica è costitutiva anche del gesto della grazia, almeno nella forma delle parole evangeliche alle quali la chiesa si riferisce quando li celebra»[5].

Piuttosto è nella posizione di altri riformatori (Zwingli e Calvino) che il primato della parola predicata confina i sacramenti ad una funzione complementare. Sappiamo, però, quanto Lutero abbia polemizzato con una simile posizione difendendo il carattere esterno e oggettivo della Parola, tanto nella predicazione quanto nei sacramenti. È anche vero che la coordinazione fra Parola e sacramento, tipica di Lutero, si attenua nella tradizione riformata, tanto che per Ebeling se l'abolizione dei sacramenti comprometterebbe l'essenza stessa della Chiesa cattolica, non ne uscirebbe snaturata quella della Chiesa evangelica[6], pur ripetendo che il sacramento non comunica «doni diversi da quelli che ci comunica la parola orale, anche se in modo diverso»[7].

Direi, invece, che la questione dei sacramenti ha focalizzato ed è rimasta centrale nella teologia di Lutero, se si considera che tutto il decennio 1519-1528 è fortemente attraversato da una riflessione sulla tematica sacramentale, volta non solo a determinare la natura del sacramento e i suoi elementi costitutivi, ma anche ad analizzare i due sacramenti della fede, cioè il battesimo e la santa cena. [...]

Per concludere, in aggiunta alle considerazioni svolte durante il testo circa il rapporto parola-segno, centralità della parola ed ineliminabilità del segno, possiamo affermare che la tematica dei sacramenti in Lutero per essere adeguatamente compresa va inserita nel più ampio processo della giustificazione.

La riflessione del riformatore appare segnata dal confronto e dall'opposizione a due prospettive, quella cattolica, rea di ridurre la giustificazione a questione di opere e non di fede, e quella riconducibile al fronte spiritualista e radicale della riforma, che tendeva a minimizzare la rilevanza della parola esterna e del segno nel processo della giustificazione e della vita cristiana.

Così Lutero da un lato sviluppa una dottrina dei sacramenti come segni esterni della promessa di Dio (verbum promissionis), a cui l'uomo risponde accogliendoli con una fede fiduciale che deve fondarsi solo sulla Parola di Dio, poiché, ripetendo Agostino, non sacramentum sed fides sacramenti justificat; dall'altro, discutendo con alcuni riformatori, enfatizza il fatto che la salvezza, come dono gratuito dall’esterno (ab extra), è portata alla persona attraverso segni esterni veri e reali dati da Dio, la Parola e il sacramento, come leggiamo negli articoli di Smalcalda: «ci incombe il dovere e l'obbligo di tener fermo questo punto: Dio non vuole entrare in rapporto con noi uomini se non per mezzo della sua Parola esterna e dei sacramenti»[8]. E allora l'obbedienza alla volontà di Dio diventa l'argomento per l'esistenza, l'uso e l'irrinunciabilità dei sacramenti secondo l’ermeneutica letterale delle parole della Scrittura.

Parola e sacramento sono le forme dell'agire di Dio sui cuori, poiché è mediante la parola e i sacramenti che Dio si manifesta e viene incontro all'uomo, il quale si salva in forza dell'affidarsi a delle realtà a lui esteriori. In questo modo è bandito ogni soggettivismo o spiritualismo, poiché la fede si dà di fronte a realtà oggettive che rappresentano le mediazioni scelte da Dio.

La grazia di Dio, come leggiamo negli articoli di Smalcalda, si manifesta a noi in modi diversi: il Vangelo, infatti, viene in nostro aiuto anzitutto tramite la parola orale «mediante la quale il perdono dei peccati viene predicato nel mondo intero - ed è questa la funzione specifica del Vangelo. In secondo luogo, tramite il battesimo. In terzo luogo, tramite il sacramento dell'altare. In quarto luogo, tramite il potere delle chiavi e anche tramite il colloquio e la reciproca consolazione dei fratelli»[9].