Inferno di famiglia nell'era Stalin (dalla rassegna stampa)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /02 /2008 - 22:39 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

I figli delatori. Inferno di famiglia nell'era Stalin, di Sandro Viola
(da Repubblica, 20 gennaio 2008, pp.34–35)


Riprendiamo da Repubblica questo articolo. Siamo a disposizione per l'immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l'unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Il novecento: il comunismo nella sezione Storia e filosofia.



"Io, Nikolaj Ivanov, rinuncio a mio padre, perché per molti anni egli ha ingannato il popolo...". Dichiarazioni come questa venivano regolarmente pubblicate dai giornali sovietici durante il Terrore. Denunciare un genitore - e condannarlo così a morte - fu per molti l´unico modo di salvarsi, dimostrando la propria fedeltà al partito. Il libro di uno storico ricostruisce questa tragedia privata e collettiva.
Il quindicenne Pavel Morozov, ucciso a bastonate probabilmente dai parenti del papà che aveva fatto arrestare e fucilare, fu dato a modello a un´intera generazione.



Nel settembre 1932, quando il potere di Stalin sul partito e sulla Russia era ormai consolidato, in un villaggio della Siberia occidentale, Gerasimovka, venne scoperto il cadavere d´un ragazzo di quindici anni, Pavel Morozov, ucciso a bastonate. In paese Pavel era conosciuto per aver denunciato suo padre Trofimov con l´accusa d´essere un oppositore del partito e d´aver cercato di proteggere alcuni kulaki, i contadini che s´erano opposti alla collettivizzazione finendo (quando la polizia politica, la Nkvd, non li aveva messi al muro già nei loro villaggi) nei campi di lavoro del Gulag.

Durante il processo contro il padre, Pavel aveva affermato di non riconoscerlo più come tale. «Non sono più suo figlio», aveva detto: «Adesso io sono un Pioniere, e la mia famiglia è il partito». Il ragazzo si riferiva all´organizzazione giovanile dei Pionieri, i Balilla della Russia staliniana, che in quegli anni era divenuta uno degli strumenti più invasivi con cui il partito esercitava il suo controllo sulla società sovietica. I giornali della regione dettero subito un enorme risalto all´episodio, descrivendolo come un contributo essenziale a quella costruzione dell´«uomo nuovo» su cui si concentrava da tempo la propaganda comunista. E infatti il processo terminò senza sorprese. Il padre di Morozov venne prima spedito in un campo di lavoro, e più tardi fucilato.

Così, quando alcuni mesi dopo il ragazzo venne ucciso (probabilmente dai parenti del padre) nacque nei giornali della gioventù, nelle scuole, al cinema e in teatro, il culto di Pavel Morozov. Da un capo all´altro dell´Urss si celebrò il suo eroismo. Venne plasmato il modello del Pioniere pronto a mandare i genitori o i fratelli dinanzi al plotone d´esecuzione, pur di ribadire la sua fedeltà al partito. La delazione contro i familiari venne incensata come il massimo del patriottismo, la prova decisiva dell´attaccamento all´ideale comunista e a Stalin. Maxim Gorki (che era da poco rientrato in Russia dopo l´esilio italiano) propose di erigere un monumento al martire Morozov. Vennero composte canzoni, girati film, messi in scena drammi, tutti inneggianti al «perfetto Pioniere» che aveva perso la vita per non tradire gli ideali del comunismo.

Il culto si diffuse rapidamente, ingenerando l´emulazione: nei tre o quattro anni successivi, i casi di figli che denunciavano i padri per motivi politico-ideologici si moltiplicarono, l´uno più atroce dell´altro. Un Pioniere di nome Sorokin denunciò il padre che aveva sottratto qualche chilo di grano dai depositi del kolchoz. Un altro, Seriozha Fadeev, si levò in piedi a scuola dichiarando che suo padre aveva nascosto un sacco di patate invece di consegnarlo, come avrebbe dovuto, all´ammasso. Un tredicenne - Pronia Kolibin - fece arrestare sua madre, colpevole d´avere anch´essa portato in casa un po´ di grano del raccolto del kolchoz. Pronia venne premiato con una vacanza nel campo dei Pionieri in Crimea, la madre sparì nel Gulag.

La Pionerskaia Pravda pubblicava regolarmente i nomi dei giovanissimi delatori con tutti i dettagli sulle loro imprese. Nel pieno del culto di Pavel Morozov, verso la metà dei Trenta, la prova dei sentimenti patriottici e della corretta formazione politica d´un Pioniere finì quasi con l´identificarsi nella disponibilità a denunciare i propri parenti. Non solo: un foglio provinciale della gioventù comunista giunse a teorizzare che un Pioniere il quale non si fosse mostrato zelante nel dare informazioni sulla sua famiglia, avrebbe dovuto essere visto lui stesso come un elemento sospetto.

In molti casi, la denuncia non scaturiva dalle convinzioni ideologiche del Pioniere (o dai suoi fantasmi), bensì da motivi più concreti. Bastava infatti il timore che un familiare già sorvegliato dalla Nkvd potesse rappresentare un ostacolo ai programmi dell´adolescente, costargli l´espulsione dal Komsomol o addirittura dalla scuola, ed ecco la delazione. In questi casi non si trattava propriamente di denunce quanto d´una pubblica rottura dei rapporti familiari. Il Pioniere s´affrettava a dichiarare di non considerarsi più legato a tale o tal´altro membro della famiglia, a causa delle loro idee e comportamenti anti-partito.

C´erano perciò degli appositi formulari da riempire, che venivano poi pubblicati dai giornali. Per esempio: «Io, Nikolaj Ivanov, rinuncio a mio padre, un ex prete, perché per molti anni egli ha ingannato il popolo sostenendo che dio esiste, e questa è la ragione per cui io rompo ogni rapporto con lui». Tali atti di separazione, di distacco legale dal gruppo familiare davano così luogo a due destini diversi. Il figlio delatore s´avviava verso una normalità di "homo sovieticus", un lavoro, una carriera, mentre i parenti denunciati scomparivano dietro i reticolati del Gulag.

Queste vicende al limite dell´inverosimile, forse mai accadute nella storia se non nella Russia sovietica, si leggono nelle settecento pagine dell´ultimo libro di Orlando Figes, The whisperers, i sussurranti. Docente di storia all´Università di Londra, Figes aveva già scritto due bellissimi libri d´argomento russo. Uno, La tragedia d´un popolo, sulla rivoluzione bolscevica; e l´altro, La danza di Natascia, sugli intrecci tra cultura popolare e cultura "alta" nella Russia dell´Otto-Novecento.

Mentre The whisperers è un grande affresco della vita familiare nella «patria del comunismo». L´impressionante descrizione dei timori, dei silenzi obbligati, delle avversioni e dei traumi affettivi che lacerarono le famiglie negli anni della tirannia di Stalin, e poi ancora sin quasi all´agonia dell´Urss.
Partendo dagli anni immediatamente post-rivoluzionari, il libro racconta come la voce dei russi finì ridotta, per il terrore che incuteva la polizia politica, ad un sussurro, un bisbiglio, un linguaggio cifrato. Qualsiasi frase o commento poteva divenire infatti la materia d´una denuncia alla Ceka prima, alla Ghepeù dopo, quindi alla Nkvd e infine al Kgb, gli organi della sicurezza statale che per decenni, con le loro diverse sigle, ebbero potere di vita e di morte nella Russia sovietica. La paura s´estese anche a persone mature, colte, e ormai uscite dall´ambito familiare. Nel 1931 il poeta e critico letterario Alexandr Tvardovskij, per esempio, che molti di noi giornalisti incontrarono a Mosca, nei primi Sessanta, come segretario della potente Unione degli scrittori, rispose con parole agghiaccianti ad una lettera inviatagli dalla famiglia esiliata per motivi politici negli Urali: «Io non posso scrivervi, e voi non scrivetemi».

Il pericolo del parlare con voce udibile dipendeva dalla quantità e dallo zelo dei delatori. Qualcuno poteva riferire un mugugno, una lamentela, un´imprecazione realmente uditi, per fanatismo ideologico. Convinto cioè di lottare contro i «nemici del popolo». Ma la delazione poteva avere ben altro scopo: liberarsi d´un rivale in amore, per esempio; ottenere una promozione; assicurarsi qualche metro quadrato in più nelle kommunalki, gli appartamenti in coabitazione dove vissero sino agli anni Settanta milioni di famiglie russe.

Un altro caso molto comune era quello del ricatto con cui le polizie obbligavano a trasformarsi in delatori persone incorse in un´infrazione, o loro stesse già denunciate per aver sparlato del regime, che divenivano così i sorveglianti dei colleghi, degli amici, del coniuge. Costoro potevano pensare per un momento d´essersi messi in salvo, al riparo dagli arbitri polizieschi. In realtà la loro sicurezza restava relativa, precaria, condizionale, affidata agli umori dell´agente che li aveva reclutati, il quale poteva sempre, un giorno o l´altro, rispolverare il dossier delle colpe e infrazioni del delatore decidendone l´invio in un campo di lavoro.

L´originalità e l´interesse storico del libro di Figes sta nel fatto che esso non è una nuova denuncia dei crimini stalinisti, o più in generale del sistema poliziesco dell´Urss. Ricavato da centinaia d´interviste, diari tenuti accuratamente nascosti, giornali dell´epoca, The whisperers cerca di spiegare in che modo lo stato di polizia mise radici tanto robuste in quello che secondo la propaganda comunista era il «paradiso dei lavoratori», coinvolgendo nella gigantesca macchina della delazione milioni di persone comuni. Le quali potevano scegliere soltanto tra due ruoli: o assistere in assoluto silenzio alla terribile repressione in atto, o collaborare con i persecutori.

Emerge così un inventario di centinaia di vite private nella Russia comunista, e da esse vengono molte risposte alle domande che gli storici si fanno da quando gli archivi dell´Urss hanno cominciato ad aprirsi. Come fecero i russi a gestire i loro più intimi rapporti, vale a dire quelli familiari, in un sistema governato dal terrore. Che cosa provavano e pensavano quando un marito o una moglie, un padre o una madre venivano improvvisamente arrestati come «nemici del popolo». La «doppia vita» cui essi furono costretti, dice Figes nell´introduzione al suo libro, angosciosamente divisi tra le norme della condotta pubblica nel paese dei Soviet e i valori, gli affetti, le tradizioni della famiglia d´origine. Come fecero a trovare un minimo di equilibrio tra il loro naturale, inevitabile senso d´ingiustizia e alienazione nei confronti del sistema, e la loro stringente necessità di sopravvivere ritagliandosi un posto all´interno di esso.

«Attento alla tua lingua», «I muri hanno le orecchie»: queste erano le frasi che i genitori ripetevano ininterrottamente ai figli. E una donna il cui padre venne arrestato nel ‘36, ricorda: «Fummo cresciuti con la consegna di tenere la bocca chiusa. Finirai con l´avere dei guai per colpa della tua lingua, era l´usuale rimbrotto che ci veniva rivolto. Così, entrammo nella vita con la paura di parlare. Mia madre ci diceva continuamente che eravamo circondati dagli informatori della polizia. E infatti eravamo sospettosi di tutti, a cominciare dai vicini». Non bisogna d´altronde dimenticare, spiega ancora Figes, che furono poche le famiglie non investite dal Terrore staliniano. Secondo stime prudenti, tra il 1928, l´anno in cui Stalin assunse il pieno controllo del partito, e la sua morte nel ‘53, i russi finiti negli artigli della polizia politica e poi destinati alla fucilazione o al Gulag, furono venticinque milioni.

La «doppia vita», vale a dire la scissione tra sentimenti personali e bisogno (cosciente o incosciente) di mimetizzarsi nell´universo sovietico, s´incarna al meglio in uno dei personaggi centrali del libro, Konstantin Simonov. Nato nel 1915 in una famiglia della piccola aristocrazia travolta dalla rivoluzione, facendo quindi parte della prima generazione comunista educata nel mito della Guerra civile e del trionfo bolscevico, Simonov è già da adolescente un fervido seguace del regime. Riesce ad occultare totalmente, anzi a rimuovere, la sua origine sociale, e si trasforma in un devoto del culto di Stalin. Il suo zelo politico-ideologico e le sue doti gli consentono una rapida ascesa nelle organizzazioni culturali del partito. Ma il giovane è dominato dal timore che la sua fedeltà al partito possa esser messa in dubbio, e questo lo porterà ad attaccare duramente un paio di colleghi con l´accusa di scarsa convinzione nei principi marxisti.

Con l´invasione nazista del ‘41, Simonov diventa un bravo e coraggioso corrispondente di guerra. Ma il grande successo verrà con una sua poesia, Aspettami, in cui un uomo al fronte assicura la donna amata che prima o dopo ritornerà a lei. Stampata in milioni di copie, messa in musica, Aspettami diventa il talismano dei soldati in battaglia, commuove le famiglie in attesa, entusiasma persino Stalin. La carriera e la fortuna di Simonov toccano così l´apice, e intanto lievita senza sosta, si fa fanatica, la sua devozione per il tiranno. Eppure l´uomo è a suo modo onesto. Adesso che è divenuto un personaggio influente, quando può dà una mano per togliere un amico dai guai. Ma sarà solo alla metà dei Cinquanta, con la morte di Stalin, che comincerà a riflettere sulla sua «doppia vita»: su quanto fosse dissennato il suo sforzo d´apparire un comunista senza macchia, sull´aver vissuto come un automa della propaganda sovietica.

Niente di simile alle storie raccolte da Figes s´era finora letto, se non forse (anche se in misura infinitamente più ridotta) nelle pagine di Vita e destino, il grande romanzo di Vasilij Grossman. Un filone letterario che in Russia, dopo Vita e destino uscito nell´88, non ha avuto più seguito. Sicché toccherà ancora agli storici, e probabilmente agli storici stranieri, descrivere che cosa fu la vita dei russi nel tragico settantennio comunista.