Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /12 /2012 - 16:20 pm | Permalink | Homepage
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Questo testo ripresenta, per gentile concessione dell'editore, il saggio di A. Lonardo, Il Catechismo della Chiesa Cattolica per imparare “la forza e la bellezza della fede”, in Cozzoli. M. (ed.), Pensare, professare, vivere la fede. Nel solco della lettera apostolica “Porta fidei”, Lateran University Press, Roma 2012, pp. 473-507. Lo riprendiamo dal sito Annus fidei del Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione.

Il Centro culturale Gli scritti (26/12/2012)

«Nella data dell’11 ottobre 2012, ricorreranno anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, testo promulgato dal mio Predecessore, il Beato Papa Giovanni Paolo II, allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede» (4).
«Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabile. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Nella Costituzione Apostolica “Fidei depositum”, non a caso firmata nella ricorrenza del trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, il Beato Giovanni Paolo II scriveva: “Questo Catechismo apporterà un contributo molto importante a quell’opera di rinnovamento dell’intera vita ecclesiale… Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede”. È proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede» (11).
«In questo Anno, pertanto, il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la formazione dei cristiani, così determinante nel nostro contesto culturale» (11). 

Indice

La questione

«Il Concilio non doveva per prima cosa condannare gli errori dell’epoca, ma innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede»[1]: così ha affermato Giovanni Paolo II pubblicando il Catechismo della Chiesa Cattolica[2]. Ma quale rapporto esiste fra il Concilio Vaticano II e il CCC? È quest’ultimo un frutto del Concilio, anzi uno dei suoi frutti più maturi, così come suggeriscono i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI[3]? Può quindi proporsi con diritto come strumento indispensabile per mostrare agli uomini del nuovo millennio “la forza e la bellezza della fede”? Oppure, come vorrebbero altri, il CCC rappresenta un passo indietro rispetto alle intuizioni conciliari?

La questione è decisiva, perché solo se il nesso fra il Concilio ed il CCC è fondato, la conoscenza di quest’ultimo aiuterà la Chiesa a proporre al mondo la fede in tutta la sua bellezza. Se fosse altrimenti, l’Anno della fede partirebbe con il piede sbagliato, giustapponendo in maniera inadeguata Concilio e CCC. L’unica scelta legittima sarebbe, in questo caso, quella dell’aut-aut: o il Concilio o il CCC.

Per rispondere alla domanda, esiste una sola via che offre garanzie di solidità: quella dell’analisi testuale del CCC.

1. La “forza e la bellezza” della Dei Verbum nella prima parte del Catechismo: La confessione della fede

La suddivisione in quattro parti - il Credo, i Sacramenti, i Comandamenti, il Padre nostro -, provenendo, come si vedrà, dal catecumenato della Chiesa antica, preesiste al CCC, ma esso vi inserisce un elemento estremamente innovativo. Ognuna delle parti è, infatti, preceduta da una sezione che la introduce, illustrandone i fondamenti. È innanzitutto in queste sezioni generali che emerge nel Catechismo tutta la novità conciliare e la sua capacità di fecondare la catechesi.

1.1. Una presentazione personalistica della rivelazione

Se ci si sofferma innanzitutto sulla prima parte - La professione della fede - ci si accorge immediatamente che il Credo è preceduto dalla presentazione della Parola di Dio, secondo il dettato della Dei Verbum, la costituzione conciliare che affronta appunto il tema della rivelazione divina. La presentazione abituale della rivelazione, prima della redazione della Dei Verbum, insisteva sulla comunicazione da parte di Dio di una serie di verità «soprannaturali»[4]. L’accento era poi posto sulla pluralità di queste affermazioni dogmatiche e sul loro valore oggettivo. La Dei Verbum, invece, scelse di privilegiare un approccio molto diverso, sottolineando che nella rivelazione Dio svelava il suo proprio “mistero”: «piacque a Dio rivelare se stesso». Il testo latino della Dei Verbum afferma testualmente placuit Deo Seipsum revelare[5]. Dio, cioè, non dava a conoscere delle verità astratte, bensì se stesso.

Con questa affermazione è detta immediatamente la libertà di Dio. Il verbo piacque lo sottolinea in maniera straordinaria: la rivelazione avviene per il “piacere” di Dio, per il suo godimento. Dio si rivela perché Egli, nel suo amore e nella sua saggezza, gode nel farsi conoscere. Egli non è una divinità impersonale, che agisce per necessità, guidato da ferree leggi che lo costringono. Egli non è semplicemente il Tutto – secondo una visione che potrebbe essere accolta da molte visioni religiose dell’estremo oriente abituate ad un Dio che non ha né passione, né libertà –  perché sostanzialmente identico con la natura o con lo spirito. No, Dio desidera farsi conoscere, Dio desidera essere amato.

1.2. Cristo, pienezza della rivelazione

De Lubac, uno dei grandi ispiratori della Dei Verbum, ha cosi sintetizzato in maniera splendida la prospettiva del documento: «Il Concilio, a proposito della rivelazione, non sostituisce semplicemente un’idea fatta di verità astratte e atemporali con l’idea dello sviluppo di una storia della salvezza. Ciò che afferma è l’idea di una verità concreta al massimo: l’idea della Verità personale, apparsa nella storia, operante nella storia, nella persona di Gesù di Nazaret, “pienezza della rivelazione”»[6].

Questa è la prospettiva che ritroviamo immediatamente nel CCC. La rivelazione è presentata alla luce di Cristo, pienezza di tutta intera la rivelazione[7]. Il CCC segue passo passo il testo della Dei Verbum, invitando la catechesi a partire dal suo cuore: in Cristo è il volto di Dio che finalmente si è manifestato agli uomini. Citando San Bernardo, afferma esplicitamente: «La fede cristiana non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”»[8].

In questa maniera la catechesi è invitata a problematizzare una presentazione del cristianesimo che tocchi il fondamento della bellezza della fede – la pienezza della rivelazione in Cristo – solo al termine di un lungo itinerario. È certamente vero che si può giungere a parlare dell’incarnazione procedendo come a gradini successivi dalla vita pubblica di Gesù, alle sue parole, ai suoi gesti, alla sua morte e resurrezione, per giungere solo alla fine alla figliolanza divina del Cristo: ma così facendo non viene evidenziata la rivelazione personale che Dio fa di se stesso nel Figlio e viene posta in ombra la portata teologica della rivelazione stessa.

La situazione dell’uomo contemporaneo che ignora ormai quasi tutto del cristianesimo rende ancora più necessario il primo annunzio della novità della rivelazione cristiana: Dio stesso non fa conoscere agli uomini alcune verità attraverso libri sacri, bensì viene personalmente «ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14)[9].

1.3. L’intima semplicità del cristianesimo: incarnazione, Trinità, grazia

Un guadagno evidente dell’impostazione della Dei Verbum – ed al suo seguito del CCC che la cita[10] - è quello di presentare immediatamente l’intima semplicità del cristianesimo. Il non credente ha bisogno di percepire che la fede non consiste in un insieme di verità disconnesse fra di loro, ma nell’incontro con il Dio vivo che si dona a noi nel Cristo. A questo proposito già de Lubac nel 1938 aveva affermato con un’intuizione ancora oggi attualissima per la catechesi che «è al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano»[11].La Dei Verbum permette di cogliere immediatamente l’unico nucleo pulsante della fede che è insieme cristologico, trinitario ed antropologico: in Cristo è rivelato il mistero dell’amore trinitario del Padre e del Figlio nello Spirito, ma è al contempo svelato il “mistero” dell’uomo, del suo fine e della sua salvezza: «gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura»[12].

La prospettiva di una presentazione sintetica del cuore della rivelazione viene ripresa nella riflessione teologica post-conciliare, come attestano, fra gli altri, Latourelle e Varillon. Il primo afferma: «Il disegno divino, espresso in termini di relazioni interpersonali, include i tre principali misteri del cristianesimo: Trinità, incarnazione, grazia»[13]. Varillon, dal canto suo, avvalora una simile impostazione: «La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo»[14].

Con il CCC questa prospettiva passa dalla teologia alla presentazione catechetica: il nucleo centrale della fede che deve essere annunziata è insieme cristologico, teologico ed antropologico[15].

1.4. L’unità della storia della salvezza

Questo sguardo unitario permette poi al CCC di presentare la storia della salvezza come unico disegno divino, non frammentato in episodi slegati fra di loro: l’economia della salvezza è il dispiegarsi dell’unico disegno di Dio che viene progressivamente manifestato e attuato. Anche qui CCC[16] fa eco a Dei Verbum[17] che tratteggia il dispiegarsi della rivelazione divina. Il CCC innova rispetto al documento conciliare perché si diffonde più ampiamente sulla storia veterotestamentaria, ma certamente l’accento è ancora una volta sull’unità del disegno salvifico prima che sulle sue parti[18].

Questa unità è attestata ovviamente dalla rivelazione stessa: è il messaggio biblico, infatti, ad insistere sul fatto che in Cristo si compiono tutte le promesse di Dio. Ed è la coscienza di questa unità ad aver forgiato il Lezionario liturgico: ogni domenica dell’anno liturgico ed ogni celebrazione sacramentale evidenziano l’intima corrispondenza che esiste fra Antico e Nuovo Testamento[19].

1.5. La fede della Chiesa e la Sacra Scrittura nella catechesi

Nella Dei Verbum la presentazione del significato più originario di Parola – da identificare con la rivelazione stessa - aveva poi permesso di affrontare in modo nuovo l’antica questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura. Il primo schema del documento, che portava il titolo De fontis revelationis, era stato rifiutato dai padri conciliari proprio perché era ancora immatura l’elaborazione di questo tema: lo schema venne respinto per l’equivoco linguaggio che ripeteva ossessivamente l’espressione “duplice fonte”, senza riuscire a mostrare il rapporto ed il nesso intrinseco tra la Tradizione e la Scrittura[20]. La redazione finale della Dei Verbum mostra invece la stretta relazione che esiste fra le due, poiché esse «sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine»[21]. Il testo conciliare prosegue poi utilizzando il termine locutio Dei per la Scrittura ed affermando che «la sacra Tradizione trasmette integralmente il Verbum Dei» di modo che «la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza».

Mentre alcuni padri conciliari volevano che si definisse che la sola Tradizione poteva contenere verità rivelate non espressamente manifeste nella Scrittura, la Dei Verbum si preoccupò di affermare piuttosto che Tradizione e Scrittura trasmettono la verità rivelata sempre e solo insieme e che separate l’una dall’altra inaridiscono.

Ovviamente la questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura è così importante che la discussione non si è arrestata agli anni del Concilio. L’allora cardinale Ratzinger, nel 1983, aveva avvertito che proprio la separazione tra Scrittura e Tradizione era alla radice della odierna crisi della catechesi[22]: «[La crisi della catechesi] si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. [...] la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica». Se la fede proposta dalle Scritture differisse da quella della Tradizione della Chiesa, ecco che credere sarebbe ormai impossibile: solo se il Credo battesimale è la corretta interpretazione del messaggio biblico ed entrambi rimandano alla reale rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, allora la fede ha forza e bellezza.

Il CCC si pone evidentemente l’esplicito obiettivo di lavorare, a partire dal dettato conciliare, a recuperare nella catechesi il nesso organico esistente tra Tradizione e Scrittura. È proprio il Concilio ad indicare al CCC la via da percorrere. La rivelazione personale di se stesso che Dio ha fatto agli uomini li raggiunge nelle due forme complementari della tradizione della Chiesa e del testo biblico ispirato, come ha lucidamente scritto Betti, che fu il teologo del cardinale Florit, relatore al Concilio della Dei Verbum[23]: «A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva». La catechesi ha bisogno dell’una e dell’altra: della Scrittura, testualmente ispirata dallo Spirito Santo, che ci conserva memoria dell’ultima cena, e della Tradizione, nella quale lo Spirito è operante, che ci dona la presenza reale del Cristo risorto e vivente.

1.6. L’importanza della sintesi nella catechesi

La fecondità del rapporto Tradizione-Scrittura in catechesi è evidente: è stata la Tradizione, meditando continuamente la Scrittura, a coglierne nel Simbolo di fede – e nelle altre formulazioni sintetiche siano esse liturgiche, morali o spirituali – il suo cuore comprensibile. Come ha scritto ancora l’allora teologo J. Ratzinger[24]: «I Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa [...] sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura».

Il nesso fra formulazioni catechetico-dogmatiche e Sacra Scrittura è così assolutamente intrinseco: queste formule sintetiche permettono di amare ancor più il testo biblico, evidenziandone i punti più ricchi ed interessanti. Proprio l’esperienza della Chiesa, attraverso la storia delle discussioni dogmatiche, ha evidenziato ciò che più interessava all’uomo del messaggio biblico, ciò che più era sconvolgente nella sua novità. Ed è per questo che il CCC ripropone la presentazione del Credo come elemento portante della trasmissione della fede.

1.7. La presentazione del Vangelo a partire dai “misteri” della vita di Cristo

Il CCC mostra concretamente l’intreccio esistente fra fede della Chiesa e Scrittura proprio negli articoli dedicati alla figura di Cristo. La presentazione delle vicende evangeliche è posta all’interno dell’esposizione del Simbolo di fede, ma proprio quei numeri del CCC sono quelli nei quali la Scrittura è più presente.

Di Gesù vengono presentati innanzitutto il nome proprio con il suo significato – “Gesù” appunto[25]  – ed immediatamente dopo tre suoi “titoli”: Cristo[26], Figlio unigenito di Dio[27], Signore[28]. La prospettiva scelta dal CCC si concentra così immediatamente sulla persona stessa del Cristo, prima ancora che su singoli aspetti della sua vicenda, proprio perché Egli è la pienezza della rivelazione di Dio. I singoli episodi della sua vita sono decisivi proprio perché manifestazione della sua persona.

Il CCC prosegue poi presentando i principali “misteri”[29] della vita di Gesù[30], illuminandoli con la testimonianza complessiva dei quattro Vangeli e degli altri autori neotestamentari, senza privilegiare un evangelista a discapito di un altro. In effetti, chi deve maturare nella fede non è interessato innanzitutto ad una prospettiva particolare su Gesù, quanto a Gesù stesso ed alla sua reale esistenza: è Gesù che vuole conoscere e non solo ciò che si dice di Lui. Il CCC, allora, afferma innanzitutto che tutta la vicenda di Cristo è “mistero”: «dalle fasce della sua nascita, (cfr. Lc 2, 7) fino all'aceto della sua passione (cfr. Mt 27, 48) e al sudario della Risurrezione, (cfr. Gv 20, 7) tutto nella vita di Gesù è segno del suo Mistero. Attraverso i suoi gesti, i suoi miracoli, le sue parole, è stato rivelato che “in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2, 9). In tal modo la sua umanità appare come “il sacramento”, cioè il segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice»[31].

Si sofferma poi sui singoli misteri che permettono di comprendere gli snodi fondamentali della sua esistenza: i “misteri” dell’infanzia e della vita nascosta, poi quelli della vita pubblica, infine quelli della sua morte, resurrezione e ascensione al cielo.

1.8. L’uomo “capax Dei”

Il CCC, però, non inizia la sua presentazione della fede a partire dalla rivelazione divina, bensì dalla considerazione dell’uomo come creatura “capace di Dio”. Lo afferma non basandosi su riflessioni ricavate dalla filosofia o dalle scienze umane, bensì a partire dall’antropologia teologica. Per affermare in apertura del capitolo che «il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio»[32], il CCC si rifà questa volta alla Gaudium et spes: «La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore»[33].

Questa natura dell’uomo come “essere religioso” non implica, però, che l’uomo abbia la capacità da se stesso di giungere alla conoscenza di Dio ed alla comunione con Lui. Anzi, l’uomo è in grado di comprendere con la propria ragione che solo se Dio liberamente si comunica a lui, solo allora egli potrà realmente “vedere il suo volto”. L’essere fatti per Dio non implica quindi una “capacità” umana di poterlo raggiungere con i propri mezzi, bensì piuttosto la necessità vitale di attendere la sua rivelazione che supera ogni desiderio[34].

1.9. La fede come risposta alla rivelazione di Dio e come risposta ecclesiale

Secondo il dettato della Dei Verbum, la fede è presentata dal CCC come la risposta adeguata dell’uomo alla rivelazione di Dio[35]. È risposta perché non ha origine nella ricerca umana, bensì segue radicalmente all’avvenimento primo che è la rivelazione portata a compimento nell’incarnazione del Figlio. Seguendo ancora una volta la Dei Verbum - «a Dio che rivela è dovuta “l'obbedienza della fede” (Rm 16, 26; cfr. Rm 1, 5; 2Cor 10, 5-6), con la quale l'uomo gli si abbandona tutt'intero e liberamente prestandogli “il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà” e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa»[36] - il CCC definisce allora la fede come “obbedienza”[37].

Infine, prima di giungere a presentare il Credo, la prima sezione riguardante la Professione della fede si chiude nel CCC con l’affermazione che la fede è contemporaneamente un atto sovranamente personale ed, insieme, pienamente ecclesiale. Se da un lato, infatti, è la singola persona che è invitata da Dio alla comunione con Lui, al contempo non si dà fede solitaria, poiché «nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere. Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri»[38].

1.10. La catechesi come proposta della credibilità della fede

Con la presentazione della rivelazione divina e della sua novità assoluta il CCC vuole invitare la catechesi, riprendendo il messaggio conciliare, a proporre la fede, dandone le motivazioni.

All’uomo del nostro tempo non è sufficiente conoscere singole verità dogmatiche della fede cristiana, o singoli precetti morali e nemmeno singole pagine della Sacra Scrittura: egli, per essere convinto della forza e della bellezza della fede, deve comprenderla come risposta alla rivelazione personale ed affidabile di Dio. Si potrebbe dire che il CCC, sulla scorta del Concilio, invita a recuperare in catechesi ciò che la teologia fondamentale è stata nel rinnovamento della teologia pre e post-conciliare.

La teologia fondamentale si è strutturata recuperando in un senso nuovo il ruolo dell’antica apologetica pre-conciliare, ponendo al centro le due grandi questioni della specificità della rivelazione cristiana e della sua credibilità[39].

Proprio di questo ha bisogno oggi la catechesi per un suo vero rinnovamento. Innanzitutto deve riuscire a proporre nuovamente il Dio che si rivela. In secondo luogo, deve mostrare come la fede della Chiesa abbia colto il cuore del messaggio biblico e come sia possibile incontrare il Dio nella viva Tradizione della Chiesa e nella Scrittura. Contemporaneamente deve condurre l’uomo a percepire la ragionevolezza della fede, perché egli la scopra come l’unica capace di illuminare realmente la propria esistenza.

Si potrebbe dire, ancora più sinteticamente, che la via scelta dal CCC è quella del “perché”. Il CCC sposta consapevolmente l’attenzione dalle questioni metodologiche - che troppe energie hanno preso alla riflessione catechetica negli ultimi decenni - per tornare a riflettere, sulla scia del Concilio, sul “perché” l’uomo possa e debba credere alla forza ed alla bellezza del cristianesimo. La catechesi ha bisogno, infatti, di essere più consapevole che solo quando il fondamento della fede è chiaro, gli uomini possono divenire realmente adulti e non essere più «come fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4, 14).

2. La “forza e la bellezza” della Sacrosanctum Concilium nella seconda parte del Catechismo: La Celebrazione della fede

2.1. La Liturgia come momento della storia della salvezza

Come nella prima parte del CCC al Credo viene premessa una presentazione della rivelazione personale di Dio, così nella seconda parte la tradizionale riflessione sui sette sacramenti viene

introdotta da una visione di insieme del valore che ha la liturgia nella fede della Chiesa, a partire dall’impostazione conciliare data dalla Sacrosanctum Concilium.

La seconda parte del CCC, intitolata La Celebrazione della fede, si apre, infatti, affermando: «Il dono dello Spirito inaugura un tempo nuovo nella “dispensazione del Mistero”: il tempo della Chiesa, nel quale Cristo manifesta, rende presente e comunica la sua opera di salvezza per mezzo della Liturgia della sua Chiesa, “finché egli venga” (1Cor 11, 26). In questo tempo della Chiesa, Cristo vive e agisce ora nella sua Chiesa e con essa in una maniera nuova, propria di questo tempo nuovo. Egli agisce per mezzo dei sacramenti; è ciò che la Tradizione comune dell’Oriente e dell’Occidente chiama “l’Economia sacramentale”; questa consiste nella comunicazione (o “dispensazione”) dei frutti del Mistero pasquale di Cristo nella celebrazione della Liturgia “sacramentale” della Chiesa»[40].

Come la rivelazione di Dio in Cristo viene presentata dal Concilio – e conseguentemente dal CCC – in maniera personalistica come l’auto-rivelazione di Dio in Cristo, così ora la liturgia è presentata non come oggetto, cosa, azione o rito, ma come presenza personale del Signore che nella storia continua ad offrirsi alla comunione degli uomini.

Ed è proprio questa la principale sottolineatura che il Vaticano II aveva espresso per un rinnovamento profondo e non esteriore delle celebrazioni cristiane. Così Marsili sintetizza la novità conciliare: «Siamo [...] di fronte a un’elevazione della Liturgia al rango di componente essenziale dell’opera di salvezza, e precisamente sulla linea “cristologica”. Questo significa che una conoscenza vera della Liturgia non si può avere arrestandosi alla pura ricerca scientifica sul piano storico delle origini, delle fonti, dell’evoluzione o dell’involuzione delle formule e dei riti, ma che al contrario è necessario, al fine di una comprensione autentica della Liturgia in se stessa e in riferimento alla sua funzione nella Chiesa, inquadrarla e approfondirla nella sua dimensione “teologica-economica” e cioè nella “teologia del mistero di Cristo”. La Liturgia infatti dovrà rivelarsi come il momento attuatore della storia della salvezza, creando così il “tempo della Chiesa” ossia l’estensione della salvezza nell’ambito della comunità umana, come l’Incarnazione era stata il momento attuatore della stessa storia di salvezza in Cristo»[41].

2.2. La liturgia come opera di Cristo

Il CCC attesta la bellezza della liturgia proprio perché essa è l’opera di Cristo nel tempo. Cristo è il vero liturgo che continua a donarsi nei santi segni, di modo che ogni generazione gli è sempre contemporanea. Il CCC riprende testualmente l’importantissimo passaggio di Sacrosanctum Concilium nel quale si afferma che è Cristo ad essere presente in ogni azione liturgica ed a presiederla: «Per realizzare un’opera così grande [la dispensazione o comunicazione della sua opera di salvezza] Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, “egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18, 20)»[42].

La liturgia, quindi, non è un elemento accessorio della trasmissione della fede. Piuttosto ne sottolinea l’assoluta specificità e novità, poiché il mistero pasquale di Cristo «è un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma è unico: tutti gli altri avvenimenti della storia accadono una volta, poi passano, inghiottiti nel passato. Il Mistero pasquale di Cristo, invece, non può rimanere soltanto nel passato, dal momento che con la sua morte egli ha distrutto la morte, e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente. L’evento della croce e della Risurrezione rimane e attira tutto verso la Vita»[43].

In questa maniera il CCC ricorda i due caposaldi della fede: essa è vera e credibile a condizione, da un lato, che il Figlio di Dio si sia veramente fatto carne e che, d’altro canto, sia possibile entrare in comunione con lui nel tempo tramite la liturgia. Se egli non fosse venuto, vana sarebbe la nostra fede, ma vana sarebbe anche se egli fosse venuto, ma risultasse oggi, per quanto vivo, lontano e irraggiungibile. Non a caso l’iconografia tradizionale della virtù teologale della fede la rappresenta con in mano la croce ed il calice, poiché essa crede che Cristo è morto e risorto e insieme che egli si dona oggi nell’eucarestia.

2.3. La liturgia come “esperienza” di Dio

Il CCC attesta che solo nella liturgia è possibile una piena “esperienza” di Dio, a motivo della sua indole sacramentale. Il concetto di “esperienza” è divenuto di uso tradizionale in ogni impostazione catechetica: CCC ricorda che la liturgia è l’unico luogo dove Cristo è totalmente presente e che, quindi, essa non è solo “culmine” della catechesi, bensì è anche “fonte”. Proprio la vita liturgica permette di maturare nella comunione con Cristo, facendo l’esperienza di un incontro reale con Lui. La fede stessa, così, se da un lato è condizione di accesso al culto cristiano, d’altro lato nasce solo dopo la liturgia ed a motivo di essa, poiché solo nei sacramenti si riceve il dono della grazia che salva.

Scrive, infatti, il CCC: «“La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù”[44]. Essa è quindi il luogo privilegiato della catechesi del popolo di Dio. “La catechesi è intrinsecamente collegata con tutta l’azione liturgica e sacramentale, perché è nei sacramenti, e soprattutto nell’Eucaristia, che Gesù Cristo agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini”[45]»[46].

Questa comprensione della liturgia permette che essa sia valorizzata non semplicemente come realtà che necessita della catechesi – con il rischio di un’invasione catechetica che la snaturi - bensì proprio come “catechesi in atto”. Permette, in questa prospettiva, di evidenziare che «l’anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, “un poema - come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia - al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra”. Esso è la trama dei misteri di Gesù nell'ordito del tempo»[47]. Chi vive l’anno liturgico, apprende Cristo e vive in comunione con Lui e la viva esperienza di Cristo che si ha celebrando con la Chiesa le feste liturgiche vale per la formazione della propria fede molto più di tutte le riunioni che la catechesi può proporre. La liturgia plasma così la vita dell’adulto, permettendogli anche di trasmettere la fede ai figli proprio introducendoli di domenica in domenica nel “mistero” di Cristo dispiegato nel tempo.

2.4. Non esiste “fede” senza “rito”

Ma l’apprezzamento dell’esperienza liturgica non trova fondamento solo nella sua comprensione teologica. Il CCC la esalta anche perché risponde ad un’esigenza tipica dell’uomo, quella di esprimersi attraverso riti e preghiere, dimensione che lo differenzia dagli animali. Il CCC scrive, infatti: «Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l’uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l’uomo ha bisogno di segni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio. [...] Le grandi religioni dell’umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Gesù Cristo»[48].

La liturgia cristiana pertanto non disprezza questa modalità di esprimersi tipica dell’uomo, bensì la accoglie e la purifica, cosciente che solo il rito ha la capacità di manifestare e di donare, per la grazia sacramentale, la comunione con il Dio vivente.

In questa maniera, il CCC indica la via per superare il rischio di un annullamento del valore della bellezza rituale, che è invece caratteristica peculiare del cristianesimo. Questo pericolo era emerso a partire dagli anni ’60, quando un utilizzo della distinzione barthiana fra “fede” e “religione” era divenuto quasi una parola d’ordine nella riflessione catechetica. Invece, come giustamente ha sottolineato l’allora cardinale Ratzinger, «Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d’altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza»[49].

3. La “forza e la bellezza” della Gaudium et spes nella terza parte del Catechismo: La Vita in Cristo

3.1. Una vita che nasce dalla figliolanza ricevuta nel Battesimo

Anche nella terza parte il CCC premette alla presentazione tradizionale dei comandamenti una sezione fondativa. Questo è significativo proprio nel contesto attuale, poiché oggi più che mai la catechesi si trova nella condizione non solo di dover proporre singoli comportamenti virtuosi, bensì più radicalmente di dover mostrare perché il bene sia da seguire.

Il CCC presenta la morale innanzitutto come un “essere”, prima che un “agire”[50]. E lo fa in primo luogo ricordando che la vita morale del cristiano è vita nuova che sgorga dalla grazia della fede ricevuta che non si origina da uno sforzo umano. Così si apre, infatti, la terza parte del CCC: «Il Simbolo della fede ha professato la grandezza dei doni di Dio all’uomo nell’opera della creazione e ancor più mediante la redenzione e la santificazione. Ciò che la fede confessa, i sacramenti lo comunicano: per mezzo dei “sacramenti che li hanno fatti rinascere”, i cristiani sono diventati “figli di Dio” (Gv 1, 12; 1Gv 3, 1), “partecipi della natura divina” (2Pt 1, 4). Riconoscendo nella fede la loro nuova dignità, i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai “da cittadini degni del Vangelo” (Fil 1, 27). Mediante i sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova»[51].

La vita morale è così “vita in Cristo”, cioè esistenza vissuta in comunione con Dio. La catechesi negli anni precedenti il Concilio correva talvolta il rischio di diventare essenzialmente moralistica. Oggi deve affrontare una problematica opposta, dinanzi a correnti di pensiero che ritengono che alla fede non appartenga una vita nuova. Il CCC intende così mostrare immediatamente che la conversione della vita è non solo necessaria, ma anche benedetta e che una fede che non conducesse ad una radicale trasformazione dell’esistenza sarebbe, in fondo, poco interessante, inutile ed incapace di convincere.

3.2. La dignità della persona umana nella sua relazione con Dio

La vita che nasce dalla grazia, a sua volta, rimanda per il CCC all’altissima dignità dell’uomo. Anche qui il CCC si fonda sulla novità della presentazione conciliare: la Gaudium et spes, infatti, nell’affrontare le questioni relative al rapporto fra la Chiesa ed il mondo, scelse di fondarsi sull’antropologia. L’antropologia conciliare, però, non è ricostruita a partire dalla filosofia o dalle scienze umane, bensì molto più radicalmente si incentra in quella visione di uomo che emerge dalla stessa rivelazione[52]. Il CCC accoglie e ripresenta questa prospettiva: «La dignità della persona umana si radica nella creazione ad immagine e somiglianza di Dio»[53].

L’uomo è visto così in prospettiva relazionale, come la creatura voluta da Dio e chiamata da Lui all’amore: «L’immagine divina è presente in ogni uomo. Risplende nella comunione delle persone, a somiglianza dell’unità delle persone divine tra loro»[54]. Ed «è in Cristo, Redentore e Salvatore, che l’immagine divina, deformata nell’uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio[55]»[56].

Il richiamo a questa dignità che si radica essenzialmente in Dio appare particolarmente importante oggi. Da un lato, permette di porre in rilievo la libertà tipica dell’uomo, chiamato a conoscere la verità ed a scoprire in Dio una speranza che supera la storia ed insieme lo rende protagonista in esso: senza la relazione con il Signore, infatti, la libertà umana sarebbe solo apparente, perché l’amore umano sarebbe solo un portato, per quanto estremamente sofisticato, di un meccanismo evolutivo. D’altro canto, proprio questa prospettiva consente alla catechesi di entrare in dialogo con culture diverse da quella europea: queste, infatti, ricevono scandalo non dalla fede cristiana, bensì piuttosto dalla freddezza della razionalità che sembra talvolta dominare nei paesi di vecchia cristianità[57].

3.3. Il fine e la pienezza della vita umana

In questa sede, si può solo accennare ad alcuni sviluppi della presentazione della vita in Cristo nel CCC. Il testo prosegue ricordando che essa «ha il suo compimento nella vocazione alla beatitudine divina». Si sottolinea così che tutta la morale è in vista della felicità, perché l’uomo è stato creato per essa. Ma solo nella «perfezione della carità»[58] è possibile raggiungere la felicità per cui l’uomo esiste: non si dà gioia vera se non nella comunione con Dio e con i fratelli. La carità, quindi, è proposta come la “perfezione” della vita morale, poiché è essa a dare significato ad ogni azione umana ed a conferirle pienezza.

In questa prospettiva, il CCC mostra che la maturità della vita morale non consiste nello spegnere le passioni, bensì piuttosto nel destare quelle buone, promuovendo la capacità di appassionarsi al bene: «La perfezione del bene morale si ha quando l’uomo non è indotto al bene dalla sola volontà, ma anche dal suo “cuore”»[59]. Il CCC vuole così mostrare che non solo non si dà opposizione fra beatitudine e vita morale, ma che anzi non esiste vera felicità senza una vita buona.

3.4. Il valore del comandamento per discernere il bene e il male

È in questa prospettiva che il CCC non tace dell’esistenza del peccato e della sua azione disgregatrice e devastante, capace di condurre l’uomo alla morte distruggendo in lui la relazione con Dio e con i fratelli[60]. La coscienza è presentata[61], ancora una volta alla luce del Concilio, come il luogo dove scoprire «una legge che non è l’uomo a darsi, ma alla quale invece deve obbedire, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male»[62]. Proprio la coscienza, dunque, attesta l’esistenza di una legge morale.

Ma la coscienza non funziona come un meccanismo già registrato una volta per tutte, bensì, a somiglianza degli organi del corpo, «deve essere educata e il giudizio morale illuminato»[63], perché può intorpidirsi o affinarsi. Per questo la coscienza non deve mai essere opposta ai comandamenti dell’Antica e della Nuova Alleanza[64], illuminati dai precetti della Chiesa[65]: questi sono, infatti, dati all’uomo per istruire la coscienza a scegliere sempre la via della vita[66].

La fondazione della vita morale proposta dal CCC appare tanto più necessaria nel contesto attuale, nel quale sono messi in discussione i fondamenti stessi della riconoscibilità di un ordine morale da parte dell’uomo e l’obbligatorietà del bene testimoniata dal comandamento.

Sempre in chiave fondativa, il CCC ricorda che la morale, proprio perché personale è anche costitutivamente comunitaria, poiché si è persone sempre e solo nella relazione: vivere in Cristo vuol dire pertanto scoprire la propria responsabilità nei confronti dell’intera società umana[67]. In una società che si appella continuamente all’esistenza dei diritti individuali, il CCC testimonia così che essi non si danno senza che tutti ne abbiano al contempo la responsabilità e siano quindi impegnati con i propri doveri a renderli possibili. 

Proprio perché l’uomo manifesta la sua dignità di figlio di Dio in ogni suo gesto ecco che il CCC può sfuggire allora al rischio di presentare la conversione della vita come riferita esclusivamente al rapporto con i più poveri. Piuttosto la “carità”, per il CCC, abbraccia ogni ambito della vita, dall’accoglienza della propria vocazione alle scelte matrimoniali, dalla carità intellettuale alle responsabilità professionali, dalla disponibilità verso la vita alla giustizia sociale, e così via. Tutti questi ambiti  non sono parti scorporabili l’una dall’altra, bensì elementi costitutivi di un tutto[68]. La catechesi è chiamata così dal CCC a non rinchiudersi in un orizzonte intra-ecclesiale, bensì a mostrare la fecondità del vangelo nella storia, illuminando le decisioni che gli uomini debbono prendere nella loro vita.

4. La “forza e la bellezza” della preghiera cristiana nella quarta parte del Catechismo

4.1. L’assenza di un documento conciliare di riferimento

Mentre la prima parte del CCC si rifà alla Dei Verbum, la seconda alla Sacrosanctum Concilium e la terza alla Gaudium et spes, la quarta parte del CCC, intitolata La preghiera nella vita cristiana, non ha un documento conciliare di riferimento per un semplicissimo motivo: il Concilio non ha parlato in maniera diffusa della preghiera cristiana. L’esistenza di questa quarta parte aiuta a problematizzare la trilogia Parola-Liturgia-Carità, relativizzandone l’utilità dell’uso in catechesi[69]. Per la tradizione cristiana non si dà maturità cristiana senza una crescita della vita interiore e del rapporto personale con Cristo, cioè senza una maturazione nella vita di preghiera. Proprio questa dimensione appare fra le più carenti nella proposta catechetica contemporanea, come appare evidente dalla fragilità e debolezza della vita spirituale sia nella generazione adulta che nelle giovani generazioni.

4.2. La preghiera come dono, alleanza e comunione

Anche questa volta il CCC, prima della tradizionale presentazione della preghiera del Padre nostro, sente l’esigenza di una fondazione della preghiera. Essa viene presentata come dono di grazia, come alleanza e come comunione con Dio, sottolineando, quindi, ancora una volta la dimensione relazionale di essa. Infatti, la quarta parte si apre affermando: «“Grande è il Mistero della fede”. La Chiesa lo professa nel Simbolo degli Apostoli (parte prima) e lo celebra nella Liturgia sacramentale (parte seconda), affinché la vita dei fedeli sia conformata a Cristo nello Spirito Santo a gloria di Dio Padre (parte terza). Questo Mistero richiede quindi che i fedeli vi credano, lo celebrino e ne vivano in una relazione viva e personale con il Dio vivo e vero. Tale relazione è la preghiera»[70].

All’uomo, definito secondo Sant’Agostino “mendicante di Dio”[71], viene rivelata nella storia della salvezza la preghiera cristiana perché egli possa crescere nella comunione con il Dio che personalmente si offre in Cristo[72]. Il CCC sottolinea poi come si impari la preghiera cristiana a contatto con la Parola di Dio scritta e con la Parola di Dio vivente nella Chiesa e nei suoi santi[73]: si mostra così la fecondità spirituale del rapporto esistente fra Bibbia e Tradizione di cui già la prima parte del CCC ha parlato. Alla scuola di questa Parola, fissata per iscritto ed insieme viva nelle mani della Chiesa, ogni uomo può maturare nella comunione personale con il suo Signore.

Conclusione

La quadripartizione del CCC nel solco dell’esperienza della Chiesa

Il CCC è realmente un catechismo nuovo, poiché recepisce e ripresenta la bellezza della fede e la forza delle sue motivazioni a partire dalle prospettive aperte dal Concilio Vaticano II. Al contempo, però, è saldamente radicato nella tradizione della Chiesa ed evidenzia, secondo un’espressione cara a de Lubac, che la tradizione è la sorgente di ogni vero rinnovamento[74].

La quadripartizione del CCC, infatti, proviene dall’esperienza stessa della Chiesa che, trovandosi ad accompagnare verso il Battesimo i catecumeni, acquisì pian piano la consapevolezza che la loro maturità nella fede dipendeva esattamente dalle quattro dimensioni costitutive che ritroviamo nel CCC.

Fu proprio l’allora cardinale J. Ratzinger, a quel tempo presidente della Commissione che curò la redazione del CCC, ad affermare: «Il Catechismo non procede [...] in maniera semplicemente deduttiva, perché la storia della fede è una realtà di questo mondo e ha creato la propria esperienza. Il Catechismo parte da essa e quindi ascolta il Signore e la sua Chiesa»[75].

Così il CCC ripresenta nell’oggi della vita della Chiesa ciò che la prassi catechetica della Chiesa antica aveva percepito: «Il catecumenato della Chiesa primitiva ha raccolto gli elementi fondamentali a partire dalla Scrittura: sono la fede, i sacramenti, i comandamenti, il Padre Nostro. In modo corrispondente esisteva la redditio symboli – la consegna della professione di fede e la sua “redditio”, la memorizzazione da parte del battezzando -, l’apprendimento del Padre Nostro, l’insegnamento morale e la catechesi mistagogica, vale a dire l’introduzione alla vita sacramentale. Tutto ciò appare forse un po’ superficiale, ma invece conduce alla profondità dell’essenziale: per essere cristiani, si deve credere; si deve apprendere il modo di vivere cristiano, per così dire lo stile di vita cristiano; si deve essere in grado di pregare da cristiani e si deve infine accedere ai misteri e alla liturgia della Chiesa. Tutti e quattro questi elementi appartengono intimamente l’uno all’altro»[76].

Ed è per questo radicamento nell’esperienza ecclesiale che questa quadripartizione, anche se mai sancita ufficialmente da documenti del magistero antico, emerse in tutte le confessioni cristiane all’epoca della riforma, quando vennero redatti i primi catechismi scritti (la si ritrova in Lutero e in Calvino, così come nel Catechismo Romano post-tridentino).

Il senso di un’ispirazione catecumenale per il rinnovamento della catechesi

La riflessione catechetica si sta interrogando oggi su quale contributo possa offrire il catecumenato per un corretto rinnovamento della catechesi. L’indicazione chiara del CCC è che ciò che è centrale nel recupero dell’esperienza della Chiesa antica non è tanto la scansione temporale del catecumenato stesso, quanto l’armonicità con cui esso ha coniugato le quattro dimensioni che lo hanno caratterizzato. Recuperare la prospettiva del catecumenato antico vuol dire allora divenire più consapevoli che la maturazione nella fede, la celebrazione dei “misteri” liturgici, la conversione della vita e la vita spirituale non sono quattro tappe successive, quanto piuttosto quattro dimensioni della catechesi che si intrecciano in un tutto indissolubile[77].

È questa consapevolezza che permette di non cadere nell’ingenua pretesa di rimodellare l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi assumendo tout court il catecumenato degli adulti come schema. Se, nel cammino degli adulti, infatti, spesso la maturazione della fede precede sia la preghiera personale, sia la celebrazione eucaristica, questo non vale assolutamente per i bambini che invece crescono nella fede proprio a partire dall’eucarestia domenicale e dalle preghiere.

La quadripartizione, d’altronde, aiuterà a ricordare che anche nel cammino degli adulti la celebrazione domenicale è elemento portante che deciderà del buon esito del cammino, come l’esperienza di ogni parrocchia può agevolmente dimostrare. Ma, d’altro canto, aiuterà a ricordare che alla maturazione della fede non basta l’esperienza liturgica, bensì occorre anche che si scopra la credibilità della fede della Chiesa, la bellezza della proposta morale cristiana, la fecondità della preghiera intima e personale.

Il Catechismo come strumento per riproporre la novità del Vaticano II nella catechesi

Se si torna, al termine di questo itinerario, alla domanda iniziale è possibile ora rispondere agevolmente: il CCC è un testo radicato nella novità della prospettiva conciliare. Non solo non vi è opposizione alcuna nella duplice indicazione dell’Anno della fede in merito al Concilio ed al CCC, ma anzi solo una maggiore conoscenza del CCC permetterà di ricentrare la catechesi sulle grandi prospettive aperte dal Concilio riguardo alla rivelazione, all’ecclesiologia, alla liturgia, all’antropologia. Il CCC, come catechismus maior[78], si presenta così come uno strumento indispensabile per fecondare un autentico rinnovamento della catechesi, per mostrare la forza e la bellezza della fede.

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Note al testo

[1] Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Fidei depositum, 11 ottobre 1992, AAS 86 (1994), pp. 113-118.

[2]  D’ora innanzi CCC.

[3] Il CCC è stato pubblicato nel trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II e la Costituzione di Giovanni Paolo II che lo ha promulgato l’11 ottobre 1992 reca nel suo titolo esplicita memoria del Concilio stesso: Costituzione Apostolica «Fidei depositum» per la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica redatto dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II. Fra le tante dichiarazioni di papa Benedetto XVI nelle quali ha più volte affermato il legame del Catechismo con la stagione conciliare basti qui ricordare Porta fidei, 11: «Il Catechismo della Chiesa Cattolica costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II».

[4]  H. de Lubac - E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 388.

[5] Come è noto il lungo iter conciliare del documento sulla rivelazione portò all’emergere del primo capitolo della Dei Verbum che non era originariamente previsto. La tematica della rivelazione personale di Dio pose così in secondo piano la questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura che era la più sentita prima della bocciatura del primo schema, permettendo di illuminarla in modo nuovo; cfr. su questo R. Fisichella, Dei Verbum. Storia, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, pp. 279-284.

[6] H. de Lubac – E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 394.

[7] CCC 50-73. Fra i catechismi moderni italiani, quello che più evidenzia la prospettiva conciliare ed esalta una presentazione personale della rivelazione è certamente il Catechismo degli adulti della CEI, La verità vi farà liberi, Fondazione di Religione Santi Francesco e Caterina da Siena, Roma 1995, pp. 36-40.

[8] CCC 108. Cfr. ancora, per la chiarezza dell’esposizione, le parole di H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354: «[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”».

[9]  Non si deve dimenticare, in proposito, che tutti e quattro i vangeli, prima di ripercorrere la vicenda terrena di Gesù, si aprono innanzitutto fornendone uno sguardo sintetico e dichiarando chi egli è in relazione al Padre: Marco con il titolo programmatico – Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio - e con la proclamazione della figliolanza divina nel Battesimo di Gesù, Matteo con la genealogia – Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide – nella quale Gesù è presentato come il Messia ed il discendente davidico e subito dopo come l’Emmanuele, il Dio con noi – Luca con il vangelo dell’Infanzia – dove la nascita di Giovanni Battista, pur miracolosa, si manifesta come qualitativamente diversa da quella di Gesù chiamato Figlio di Dio, opera dello Spirito Santo – Giovanni con il Prologo – dove il Dio che nessuno ha mai visto, si rende visibile nel Logos che si fa carne.

[10]  CCC 51.

[11] H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, in Paradoxe et mystère de l’Église, Cerf, Paris 2010, p. 265.

[12] Dei Verbum 2. 

[13] R. Latourelle, Dei Verbum. Commento, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, p. 285.

[14] F. Varillon, Beauté du monde et souffrance des hommes: entretiens avec Charles Ehlinger, Le Centurion, Paris 1980, p. 115.

[15] Cfr. su questo anche M. Tibaldi, Kerygma e atto di fede nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, dove il kerygma è analizzato nel suo spessore cristologico, trinitario ed antropologico, oltre che ecclesiologico.

[16] CCC 54-64.

[17] Dei Verbum 3.

[18] Fra i catecheti moderni, è stata soprattutto Cavalletti a fare tesoro della prospettiva conciliare: «Ogni opera educativa per essere costruttiva deve essere unitaria, condurre cioè a un punto di convergenza da cui tutto prende significato. Il frammentario non educa nel profondo. Il punto di convergenza però deve essere tale da far spaziare lo sguardo verso l’illimitato. A nostro avviso la narrazione delle singole bellissime storie bibliche va fatta in riferimento costante al tempo colto nella sua globalità come pure nelle scansioni fondamentali di passato, presente e futuro. È su questa base globale che potranno poi porsi tutte le successive considerazioni sui vari aspetti della storia e sui singoli eventi. La prima considerazione verterà dunque sulla vastità della storia biblica, vastità che va insieme al suo carattere unitario» (S. Cavalletti, Il potenziale religioso dei bambini tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di una esperienza, Città nuova, Roma 1996, pp. 47-48). I testi della Cavalletti lasciano, infatti, emergere la centralità dei tre grandi capisaldi della storia biblica: la creazione, l’incarnazione e la parusia. A partire da questi tre eventi, la storia tutta diviene significativa e non è più il regno del caso e della morte.

[19] È ancora Cavalletti a sottolineare come la tipologia sia non solo un elemento determinante dell’ermeneutica biblica, ma sia anche decisiva per una corretta presentazione biblica nella catechesi; cfr su questo S. Cavalletti – G. Gobbi, «Io sono il buon pastore». Guida per il catechista, IV anno, Tau, Todi 2009, pp. 65-76.

[20] Cfr. su questo R. Fisichella, Dei Verbum. Storia, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, p. 281.

[21] Dei Verbum 9.

[22] Nella relazione dal titolo Transmission de la Foi et sources de la Foi tenuta a Lione e a Parigi e successivamente pubblicata in J. Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della catechesi, Piemme, Casale Monferrato 1985 e disponibile in traduzione riveduta on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger020209.htm.

[23] U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann 1967, p. 234.

[24] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, p. 26. Così afferma, in proposito, il Direttorio generale per la catechesi, 128: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede. La Sacra Scrittura e il Catechismo della Chiesa Cattolica debbono ispirare tanto la catechesi biblica quanto la catechesi dottrinale, che veicolano questo contenuto della Parola di Dio».

[25] CCC 430-435.

[26] CCC 436-440.

[27] CCC 441-445.

[28] CCC 446-451.

[29] Fra gli altri è stato Cantalamessa a riproporre per la predicazione e la catechesi una presentazione della vita di Cristo a partire dai suoi “misteri”. Nell’introduzione a R. Cantalamessa, I misteri di Cristo nella vita della Chiesa, Ancora, Milano 1991, pp. 5-13, scrive: «Nell’accezione storica, misteri sono gli eventi stessi, prima prefigurati nell’Antico Testamento e poi realizzati da Cristo nel Nuovo, in quanto sono carichi di un significato salvifico che trascende lo spazio e il tempo. Indicano dunque il fatto, più il significatodel fatto. «Discese dal cielo per la nostra salvezza», «morì per i nostri peccati», «risorse per la nostra giustificazione»: queste frasi ed altre analoghe - formate da un verbo che indica l’evento e da un complemento che indica il significato dell’evento - entrarono ben presto a far parte dei simboli di fede. Esse designano quello che si intende, anche in questo libro, per «misteri della vita di Cristo». Nell’accezione sacramentale, la parola «misteri» (mysteria) indica invece i riti sacri o i segni, attraverso i quali quegli avvenimenti storici vengono rappresentati e attualizzati nella liturgia della Chiesa. [...] Si tratta, evidentemente, di accentuazioni diverse e complementari, perché è chiaro che il mistero cristiano, completo e integrale, comprende l’una e l’altra cosa insieme. [...] Nel medioevo, la meditazione dei misteri di Cristo era orientata quasi esclusivamente alla devozione privata. Ora, come si è accennato, essa sta tornando a essere orientata anche alla catechesi, alla teologia, alla predicazione e, in genere, all'edificazione e all’approfondimento della fede, proprio come era all’inizio, quando le narrazioni evangeliche presero «forma» nella Chiesa, e all’epoca dei Padri, quando non esisteva ancora una distinzione così marcata tra teologia, esegesi e spiritualità». La stessa prospettiva emerge ogni volta che si utilizza in catechesi la storia dell’arte, ricorrendo all’iconografia: ci si accorge immediatamente che gli artisti non rappresentano quasi mai i dettagli di un singolo vangelo, bensì ricostruiscono il “mistero” in sé a partire dall’evangelo quadriforme. I due volumi di J. Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007 e LEV, Città del Vaticano 2011, si pongono nella stessa prospettiva.

[30] CCC 429.

[31] CCC 515.

[32] CCC 27.

[33] Gaudium et spes 19.

[34] CCC 36-38.

[35] CCC 142.

[36] Dei Verbum 5.

[37] CCC 142-145.

[38] CCC 166.

[39] Su questo cfr. R. Latourelle, Nuova immagine della fondamentale, in R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, pp. 59-84, dove giunge ad affermare che i due aspetti della teologia fondamentale, cioè la rivelazione e la sua credibilità, «sono un blocco unico: la credibilità-della-rivelazione-di-Dio-in-Gesù-Cristo» (p. 79).

[40] CCC 1076.

[41] S. Marsili, Presentazione, in B. Neunheuser – S. Marsili – M. Augé – R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato 1974, pp. 5-6.

[42] CCC 1088.

[43] CCC 1085.

[44] Sacrosanctum Concilium 10.

[45] Catechesi Tradendae 23.

[46] CCC 1074.

[47] I. Biffi, Per l'inizio dell'anno liturgico. La corona che plasma il tempo, in «L’Osservatore Romano», 24/11/2010.

[48] CCC 1146; 1149.

[49] J. Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in J. Ratzinger, La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 72-73.

[50] Cfr. su questo, J. Pieper, La luce delle virtù. Alla ricerca dell’immagine cristiana di uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 7-8.

[51] CCC 1692.

[52] Cfr. su questo W. Kasper, L’antropologia teologica della Gaudium et spes, in «Laici oggi», 39 (1996), pp. 44-54.

[53] CCC 1700.

[54] CCC 1702.

[55] Cfr. Gaudium et spes 22.

[56] CCC 1701.

[57] Benedetto XVI ha ricordato che «l’anima africana e [...] l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. È importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente» (intervista a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006).

[58] CCC 1700.

[59] CCC 1775.

[60] CCC 1846-1876.

[61] CCC 1776-1802.

[62] Gaudium et spes 16 e CCC 1776

[63] CCC 1783.

[64] CCC 1950-1986.

[65] CCC 2030-2051.

[66] Cfr. su questo J. Ratzinger, Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio. In colloquio con Peter Seewald, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 142-162.

[67] CCC 1877-1948.

[68] Come è noto, l’unità delle diverse parti della morale è un tema su cui ha insistito Benedetto XVI fin dall’inizio del suo pontificato, ad esempio nel discorso ai vescovi della Conferenza Episcopale Svizzera in visita ad limina apostolorum il 9/11/2006.

[69] Cfr. sulla storia della triade Parola-Liturgia-Carità e sulle questioni pastorali collegate ad essa, A. Lonardo, Il cantiere delleducazione cristiana: annuncio - celebrazione - testimonianza e ambiti della vita quotidiana, disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/blog/entry/894.

[70] CCC 2558.

[71] CCC 2559.

[72] CCC 2566-2622.

[73] CCC 2650-2723.

[74] Così si espresse von Balthasar nel sintetizzare la teologia di de Lubac nel fortunato titolo: H. U. von Balthasar, Il padre Henri de Lubac. La tradizione fonte di rinnovamento, Jaca, Milano 1978.

[75] J. Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma 1994, p. 20.

[76] J. Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma 1994, pp. 26- 27.

[77] Le quattro dimensioni portanti della catechesi stanno emergendo pian piano sia in documenti ufficiali sia in riflessioni e proposte di catecheti. Si veda, ad esempio, la Lettera ai catechisti ed agli animatori. Il lievito e il buon pane, di A. B. Mazzocato, arcivescovo di Udine (21 novembre 2010), n. 15, il Sussidio per la verifica pastorale 2011-2012 della diocesi di Roma «Si sentirono trafiggere il cuore» (At 2, 37). La gioia di generare alla fede nella Chiesa di Roma, I, 2 ed il volume di E. Biemmi, Il secondo annunzio, EDB, Bologna 2011, pp. 74-76; 80-85. Gli Orientamenti CEI per il decennio sull’educazione registrano in merito un’interessante cambiamento terminologico in merito al problema di definire in cosa consista precisamente il riferimento catecumenale della catechesi: Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, 40, parla, infatti, di “ispirazione” catecumenale e non più di “modello” catecumenale per l’iniziazione cristiana.

[78] Sulla distinzione fra catechismus maior - come testo che non ha il compito di porsi direttamente come catechismo per una determinata cultura o età - ed i catechismi più specifici, cfr. quanto scrisse l’allora cardinale J. Ratzinger in Trasmissione della fede e fonti della fede, Piemme, Casale Monferrato 1985, pp. 30-31, a proposito del Catechismo Romano: «Sono dell’avviso che la distinzione fatta dal Catechismo Romano tra il testo base (il contenuto della fede della Chiesa) e i testi parlati o scritti della trasmissione, non sia una possibile strada tra le altre: essa appartiene all’essenza stessa della catechesi. Da una parte, è al servizio della necessaria libertà del catechismo nel trattamento delle situazioni particolari; dall’altra, essa è indispensabile per garantire l’identità del contenuto della fede». Pacomio, a commento di questo testo, scrive: «Ci sembra pertanto di riconoscere dalla letteratura sia della storia dei catechismi nei secoli, sia dell’attuale uso del vocabolo ‘catechismo’ la possibilità di qualificare “analogico” più che univoco l’uso del titolo catechismo, applicabile a testi di riferimento per la fede e a testi didattici per trasmettere a specifici destinatari i contenuti della fede» (L. Pacomio, Storia e struttura del Catechismo, in R. Fisichella (ed.), Catechismo della Chiesa Cattolica. Testo integrale e commento teologico, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 566).