“Il cantiere dell’educazione cristiana”: annuncio – celebrazione – testimonianza e ambiti della vita quotidiana. Relazione al XLV Convegno nazionale dei direttori UCD “Adulti testimoni della fede, desiderosi di trasmettere speranza”, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /06 /2011 - 00:30 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la relazione preparata da d. Andrea Lonardo per il XLV Convegno nazionale dei direttori UCD “Adulti testimoni della fede, desiderosi di trasmettere speranza”. La relazione effettivamente pronunciata il 21/6/2011 sintetizzava questa relazione scritta che aveva invece lo scopo di fornire un materiale più ampio. Per approfondimenti, vedi la sezione Catechesi e pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (21/6/2011)

Indice

Due cose mi rassicurano all’inizio di questa relazione. Innanzitutto le parole di don Guido che mi disse, proponendomi di scrivere questa relazione, che era importante soprattutto allargare gli orizzonti della discussione piuttosto che fossilizzarla in una sterile opposizione fra due impostazioni diverse – è un “cantiere” appunto.

In secondo luogo, la fraternità che esiste fra noi direttori e collaboratori degli Uffici. Vi presento allora questa relazione solo come un contributo a pensare ancora, pronto ad accogliere la vostra parresia nei confronti delle sue mancanze.

1/ Per iniziare: breve apologia del valore della sintesi

Voglio iniziare soffermandomi sul valore che la Tradizione cristiana attribuisce alla possibilità di fare sintesi e di utilizzare schemi e, conseguentemente, sul valore che questo ha per la catechesi. Non è scontato, nel discorrere comune, che gli “schemi” siano utili. Qualcuno potrebbe dire che utilizzando uno “schema” si impoverisce la vita, si perde la vitalità e la freschezza della comunicazione, si trascura un atteggiamento pedagogico che dovrebbe attendere i tempi dell’altro e far sì che l’altro maturi il suo punto di vista, e così via.

Proprio il nostro tempo ci sta ponendo invece sotto gli occhi che la capacità di sintetizzare, di essere “semplici” in fondo nella complessità, è al cuore di ogni questione educativa[1].

Vorrei sottolineare soprattutto come sintesi e “vivacità”, come capacità di schematizzare e “passione”, solo ad uno sguardo superficiale sono opposti, mentre nella concretezza della vita e dell’elaborazione culturale sono invece continuamente correlati. Lina Bolzoni, docente di Letteratura alla Normale di Pisa, ha studiato come nei secoli si sia strutturata la trasmissione del sapere utilizzando la capacità di schematizzare e sintetizzare unitamente a quella di appassionare e comunicare per immagini[2]. Soffermandosi sulla Commedia di Dante, ad esempio, ha mostrato come il Poeta, da un lato, riuscisse a presentare una visione dell’universo intero, dove tutto trova una sua collocazione, dove è evidente la meta del cammino, le sue tappe, gli ostacoli, i peccati, le virtù, e così via.

Ma, contemporaneamente, la stessa Commedia non si limita a schematizzare, bensì attraverso la poesia e la “carnalità” dell’immagine si imprime nel cuore dell’ascoltatore che ne esce con la consapevolezza di un ordine e con un “cuore ferito” – si pensi, solo per fare un esempio, alla presentazione del peccato più grave come tradimento di amore, non come sensualità, ed all’immagine che lo rappresenta, il ghiaccio in cui Lucifero è conficcato, perché il suo rifiuto del “calore” dell’amore e della relazione è totale, perché egli non ama ormai nessuno, né Dio, né alcun uomo. La Bolzoni l’ha chiamata “la memoria appassionata”, cioè una visione retrospettiva di sintesi, che però è appassionata ed appassionante, non algida.

Questo bisogno dell’uomo di “fare sintesi”, di possedere una visione del mondo, ma senza perderne la vivezza, può aiutare a comprendere quanto sia importante la questione di cui ci occupiamo oggi. Essa non è una questione “di lana caprina”, ma tocca invece un aspetto che è essenziale per la catechesi. L’adulto “maturo”, infatti, è colui che ha sviluppato una comprensione organica della vita e l’ha sviluppata non solo senza perdere il gusto del particolare, ma anzi sapendone godere in maniera raffinata. E non è proprio questo il dramma dell’adulto oggi? E dell’adulto cristiano in particolare? Uno dei passaggi più belli degli Orientamenti pastorali Educare alla vita buona del Vangelo sottolinea questo problema come decisivo: «La formazione integrale è resa particolarmente difficile dalla separazione tra le dimensioni costitutive della persona, in special modo la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità. La mentalità odierna, segnata dalla dissociazione fra il mondo della conoscenza e quello delle emozioni, tende a relegare gli affetti e le relazioni in un orizzonte privo di riferimenti significativi e dominato dall’impulso momentaneo»[3].

L’orizzonte più ampio, all’interno del quale si pone la questione che vogliamo affrontare, è allora: quale sintesi, quali “schemi”, utilizza oggi la catechesi degli adulti? Oppure essa è semplicemente “disordinata”? Ma, insieme: quelle “sintesi” sono «sorgive come l’acqua, semplici come il pane, chiare come la luce, potenti come la vita»[4] o stantie e ripetitive?

2.1/ L’origine del dilemma

La proposta del Convegno di Verona di riflettere su quelli che vengono da allora chiamati “i cinque ambiti”[5] - Vita affettiva, Lavoro e festa, Fragilità, Tradizione, Cittadinanza - ha generato una discussione che credo feconda per tanti motivi. Soprattutto ha riproposto alla Chiesa italiana una questione importante: come “pensare” il proprio orizzonte, come “strutturare” la propria pastorale? Dal Convegno in poi, infatti, si ripropone ogni volta di nuovo la questione di come utilizzare proficuamente la nuova proposta di schematizzazione, ma anche di come continuare a beneficiare della precedente schematizzazione, il trinomio Parola-Liturgia-Carità con le sue varianti, che si era imposto nell’uso nei decenni precedenti. In questo senso il Convegno di Verona ha generato un duplice guadagno; da un lato, ha aperto nuove prospettive, dall’altro ha obbligato a riprendere in mano con maggiore consapevolezza gli schemi a cui ci era abituati.

Ma, al contempo - perché di guadagno si possa parlare realmente - bisogna comprendere prima come questi due “schemi”, queste due “prospettive” possano operare insieme non come rette parallele, bensì interagendo in maniera feconda, senza paralizzare la pastorale in sterili discussioni.

Il tentativo di proposta che farò con questa relazione – lo dichiaro subito – non è oppositivo, bensì cercherà di mostrare come le due prospettive possano fecondarsi reciprocamente e come abbiano in fondo bisogno l’una dell’altra. Le due “schematizzazioni” si ritrovano ovviamente anche negli Orientamenti pastorali per il prossimo decennio[6] – il n. 33 tratta degli “ambiti” di Verona, il n. 39 di “catechesi”, “liturgia” e “carità. Può allora, proprio la questione educativa – e la catechesi degli adulti in particolare – essere un banco di prova della fecondità di questa duplice prospettiva?

2.2/ La sua storia remota e recente

Per comprendere la complessità della questione vale la pena ricordare almeno che «lo schema dei tria munera ha una lunga e controversa storia», come afferma F. G. Brambilla[7]: nato in ambito protestante, nella polemica fra Calvino e Osiander, per descrivere l’azione soteriologica di Cristo (a partire da un testo paolino che parla di Cristo «sapienza, giustizia, santificazione», 1 Cor 1,30) ha poi collegato questo triplice aspetto alle dimensioni sacerdotale, profetica e regale della sua identità messianica[8].

Dalla cristologia il triplice schema è poi passato all’ecclesiologia protestante per caratterizzare il sacerdozio battesimale dei credenti[9]. Nell’ottocento il triplice munus comincia ad affermarsi progressivamente anche nell’ecclesiologia cattolica, ma con riferimento ancora alla funzione sacerdotale, profetica e regale dei ministri ordinati, dovendo essi esercitare il magisterium verbi, il ministerium gratiae, il regimen animarum (magistero della Parola, ministero della Grazia e governo delle anime). Finalmente è stato il Concilio Vaticano II a riprendere il triplice ufficio nel contesto di un «ampio ricorso al repertorio del “pastore” per descrive l’azione propria dei diversi soggetti nella Chiesa»[10]. Da qui, pian piano, la terminologia si è evoluta divenendo nel gergo comune “Parola” (dall’ufficio profetico di Cristo), “Liturgia” (dall’ufficio sacerdotale), “Carità” (dall’ufficio regale).

Lanza sintetizza così gli sviluppi recenti dell’utilizzo terminologico del triplice munus: «questo trinomio passa [...] a caratterizzare anche il mondo laicale, quando si comincia, anche in ambito cattolico, a partire dalla metà del '900, a parlare di sacerdozio comune dei fedeli, il sacerdozio battesimale. Naturalmente con qualche modifica: non sarà più magisterium verbi, ma ministero della Parola, non sarà più ministero della grazia o dei sacramenti, ma partecipazione liturgica ed il governo delle anime diventerà vita della carità. Per cui nella formula più usata diverrà: catechesi, liturgia e carità».

Infatti, dopo il Vaticano II, l’utilizzo del trinomio è divenuto abituale in moltissimi documenti, anche se spesso solo implicitamente e conservando un’oscillazione di espressioni (“compiti”, “dimensioni”, “uffici”, “ambiti”[11]).

Ovviamente la presenza del trinomio è notevole anche in documenti relativi alla catechesi. Ad esempio, il Documento di base, al n. 9 sottolinea che «la missione della Chiesa si fa testimonianza e servizio, con la varietà di uffici e la ricchezza di doni che Cristo le elargisce, per mezzo dello Spirito Santo, e che convergono nel triplice ministero: profetico, regale, sacerdotale. Sono tre ministeri dell’unica missione della Chiesa, intimamente connessi tra loro. Il ministero della parola ha anche valore liturgico e regale; il ministero sacerdotale anche valore profetico e pastorale; il ministero regale anche valore liturgico e profetico». La Lettera dei Vescovi per la riconsegna del testo «Il rinnovamento della catechesi», al n. 6 scrive invece, con una terminologia a cui siamo oggi più abituati, che «il DB guida la comunità a prendere coscienza che la catechesi, mentre mantiene un suo ambito specifico di azione, non deve essere isolata nel cammino pastorale, ma inserita in un piano organico. Tale piano, che ogni comunità deve darsi, comprende in una visione globale lo sviluppo unitario della pastorale catechistica, liturgica, caritativa».

Sempre si sottolinea comunque che si tratta di «triplice ministero, appunto, ma non [di] tre differenti compiti dell’unico mediatore che è Cristo; piuttosto tre aspetti di un’unica azione salvifica, o tre punti di vista»[12].

Nel magistero pontificio il trinomio appare nella Deus caritas est di Benedetto XVI che al n. 25 afferma: «L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia), servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l'uno dall'altro»[13], ma soprattutto – ci torneremo – si specifica che sono “compiti” della Chiesa.

Dal punto di vista della catechesi, che è quello che qui ci interessa, un vantaggio enorme che è stato apportato dal trinomio è stato quello di radicare nella mentalità pastorale che dimensioni diverse come la formazione dell’intelligenza, la ritualità sacramentale, la maturazione del cuore nell’amore, non sono elementi separabili e qualsiasi cammino che li dividesse, privilegiando un aspetto e trascurando gli altri, sarebbe alla fine povero ed inefficace e, soprattutto, infedele alla ricchezza del Vangelo.

Vale la pena ricordare che anche gli autori che hanno fatto oggetto di critica il trinomio non l’hanno fatto per negare questo innegabile apporto, bensì per sottolineare il rischio che il trinomio restringesse gli orizzonti dell’agire pastorale all’ambito intra-ecclesiale[14].

Da parte sua il Convegno di Verona non ha inteso cancellare la precedente impostazione basata sul trinomio, bensì integrarla a partire da un punto di vista complementare che consentisse una maggiore attenzione «alla vita quotidiana della gente». Lo ha affermato fin dall’inizio la relazione iniziale di F. G. Brambilla[15] e lo ha confermato la relazione conclusiva del cardinale C. Ruini[16]. L’enunciazione dei cinque ambiti aveva così il fine di concretizzare la testimonianza cristiana nelle concrete coordinate dell’esistenza umana, come afferma chiaramente la Nota pastorale redatta dopo il Convegno[17].

2.3/ Una prima chiave di lettura

Proviamo ad offrire a questo punto una prima immagine per illuminare la relazione che esiste tra il trinomio ed i cinque ambiti, prima di considerarli singolarmente.

La teologia morale ha elaborato una distinzione tra due grandi categorie di scelte che l’uomo compie nella sua vita. C’è una scelta che si potrebbe chiamare “fondamentale”, perché orienta tutta l’esistenza, ad esempio la scelta di credere o di essere atei. C’è una scelta che si potrebbe chiamare “vitale”, perché delibera un indirizzo dell’intera vita, ma ad un livello diverso della precedente, ad esempio maturando la decisione di uno “stato di vita”, come sposarsi o farsi sacerdote[18]. Le due scelte sono di ordine diverso, ma chiaramente correlate. Bisogna essere credenti, per celebrare le nozze in Chiesa o per diventare sacerdoti, ma non basta essere credenti, per affidare la propria vita a Dio: bisogna anche decidere se essere celibi o sposi.

Si potrebbe dire che il trinomio riporta continuamente la catechesi alla sua scelta “fondamentale”, mentre i cinque ambiti la riportano alle scelte “vitali” che gli adulti compiono e che caratterizzano ulteriormente la loro vita.

Certamente le scelte “fondamentali” sono, per definizione, più importanti e fondative, ma esse non raggiungono i frutti che il Signore desidera se non si concretizzano in scelte vocazionali concrete. Ognuno di noi ha in mente persone che, per paura di scegliere, restano tuta la vita in mezzo ad un guado e la loro fede non diviene mai matura. D’altro canto, solo una fede viva permette di mantenere vivace il proprio sacerdozio o la propria professione, ma le due cose hanno statuti e regole di maturazione che non sono identiche. Eppure sono così correlate che mancanze in uno dei due orizzonti avrà conseguenze decisive anche nell’altro. Questo è particolarmente vero oggi, perché il nostro tempo è caratterizzato, come si ripete spesso, da una frattura fra la fede e la vita. L’adulto, spesso, non è in grado di vivere il Vangelo proprio lì dove è chiamato a scelte quotidiane e decisive: negli affetti, nella cultura, nella politica, nell’educazione dei figli, ecc. Ma, d’altro canto, proprio questo non lascia la sua fede immune. Se la vita non viene illuminata dal Vangelo ecco che la fede diviene meno convincente, ecco che la persona perde convinzione nella bontà stessa della fede, ecco che la sua testimonianza si impoverisce.

Così è dei tria munera e dei cinque ambiti. Essi sono distinti, eppure correlati. Abbisognano di attenzioni peculiari, ma insieme non finiscono mai di condizionarsi a vicenda.

Per questo una catechesi degli adulti avrà bisogno, da un lato, di radicarsi sempre maggiormente nell’ascolto della Parola di Dio e, dall’altro, avrà bisogno di accompagnare le persone a comprendere la bontà della dottrina sociale della Chiesa (solo per fare un esempio). Se l’adulto non si ponesse in ascolto del Dio che parla, non potrebbe nutrire la sua fede, ma se non avesse gli strumenti per interpretare il mondo professionale in cui è chiamato ad operare, parimenti vivrebbe una schizofrenia fra la fede e la vita.

Se la fede cristiana non avesse una fecondità culturale, politica, affettiva, ecc., vorrebbe dire che essa è inutile, vorrebbe dire che il suo DNA[19] è incapace di generare vita nuova e unica. In fondo è questo il dilemma dinanzi al quale sembra trovarsi oggi la fede. Una certa ideologia anticlericale vorrebbe che la fede cristiana non entrasse nell’agone pubblico, non si esprimesse sulle grandi questioni della vita, bensì si esprimesse solo nelle aule liturgiche, nelle stanze di catechesi, nei centri di accoglienza della Caritas; ma non appena la Chiesa si ritirasse in quei luoghi ecco che dichiarerebbe automaticamente che la fede non ha nulla da dire sulla vita degli uomini e questa fede sarebbe quindi superflua e inutile. Voi capite bene che un adulto, invece, accoglie con gioia la fede solo se percepisce che essa è il “grande sì”[20] di Dio alla vita, che essa dice delle parole assolutamente nuove sulle realtà vitali che lo toccano.

Ma, d’altro canto, una catechesi che non aprisse l’uomo alla meraviglia della presenza di Dio, alla liturgia, alla maturazione di un amore capace di offrire la vita senza attendere niente in cambio, si tramuterebbe presto in un attivismo o in un buonismo senza prospettive o prenderebbe la strada di illusorie utopie sociali e politiche alla fine non solo inconcludenti, ma anzi pericolosamente fuorvianti.

2.4/ Un secondo punto di vista, quello della speranza

Come vi accorgerete, il procedimento che utilizzerò per chiarificare la questione che mi è stata affidata è quello di un progressivo approfondimento, quasi girando intorno alla questione per vederne via via diverse sfaccettature da punti di vista diversi prospetticamente. All’immagine della diversa tipologia di scelte voglio ora aggiungere una seconda immagine per arricchire questo primo abbozzo di connessione. Benedetto XVI ha svolto nell’enciclica Spe salvi una semplicissima e straordinaria riflessione. Ha spiegato che esiste una “grande speranza” e che essa porta il nome di Dio. Senza Dio, in fondo, non esiste speranza alcuna, perché qualsiasi cosa l’uomo faccia è destinata al nulla, all’abisso della morte. Solo perché Dio è Dio, ultimamente ha senso generare un bambino, amare una donna, farsi preti, scrivere un libro, fare catechesi. Ma, d’altro canto - ha affermato - esistono anche quelle che potrebbero essere chiamate le “piccole speranze”. La straordinaria bellezza del cristianesimo è che anche esse sono importanti: la fede non le spegne, ma anzi le esalta. Spesso il cristianesimo è stato criticato proprio con l’accusa che la fede spegne il gusto di vivere, di mangiare, di produrre, di creare, di amare, di generare. Benedetto XVI risponde che la proposta del Vangelo è esattamente all’opposto. Chi ha la “grande speranza” si impegna ancor di più per le “piccole speranze”, per la cultura, la scienza, la famiglia...

Il trinomio ci riporta continuamente alla “grande speranza”, mentre i cinque ambiti ci provocano sul versante delle “piccole speranze”. Senza la “grande speranza” la catechesi smetterebbe di essere teologale, senza le “piccole speranze” la catechesi diverrebbe alienazione e fuga dalla vita[21].

3.1/ Approfondire per comporre in unità: l’annuncio della Parola di Dio (kerygma/martyria)

Bastino per ora queste due immagini ancora provvisorie. Non ho voluto ancora definire né il “trinomio”, né gli “ambiti”. Ho voluto lasciare ancora aperta la questione se sia più corretto chiamarli “compiti” o “ambiti” ed in che senso riguardino la Chiesa e l’uomo. Non ho nemmeno affrontato ancora la questione se l’una e l’altra suddivisione siano la strutturazione più utile da utilizzare nella catechesi e se ne esistano altre complementari. Mi interessava solo, all’inizio, mostrare come esista una complementarietà e non un’opposizione di prospettive. Vorrei adesso “lavorare ai fianchi” ancora un po’ il nostro problema proprio dal punto di vista della catechesi degli adulti, sottolineando alcune questioni chiave che – mi sembra – sono sul tappeto oggi.

Se la via da percorrere non è quella dell’opposizione, bensì quella della composizione, ecco che appare subito evidente che non si deve trascurare l’annuncio della Parola, bensì invece “esaltarlo” ancor più, a partire dalla catechesi degli adulti.

3.1.1/ Se vogliamo che un adulto maturi in prospettiva di una testimonianza negli ambiti di vita non possiamo più accettare che egli non frequenti la Scrittura e dobbiamo invece lavorare ad una catechesi che la valorizzi. Se le iniziative in questa direzione non mancano – forse la maggior parte degli itinerari offerti agli adulti oggi è composto da itinerari biblici – è certo però che sono molto pochi coloro che sono raggiunti da esse.

La tradizione ebraica, che di Dio se ne intende, ha elaborato nel Medioevo una codificazione dei precetti, indicando come ultimo e quindi riassuntivo fra i comandi divini che debbono essere assolutamente adempiuti quello di scrivere con le proprie mani un rotolo del Sefer Torah, cioè del Pentateuco[22]. La nostra catechesi deve far sì che, se anche un adulto non arrivasse a copiare di proprio pugno il Nuovo Testamento, certamente lo frequenti ogni giorno della sua vita. Questo rapporto costante è decisivo perché egli sia testimone del Signore negli ambiti della sua vita. Penso anche alla proposta della messa quotidiana per i laici, all’introduzione alla preghiera delle ore, alla lectio continua di singoli libri biblici, alla costituzione di gruppi del Vangelo nelle parrocchie e nei palazzi. Ovviamente tutto questo ha bisogno di una preparazione e di una passione da parte del clero, dei religiosi e dei catechisti laici, perché l’adulto, che ha fame della Parola, possa trovare chi la sa spezzare con lui. L’attenzione ai cinque ambiti non può mandare dispersa l’accresciuta passione per la Parola, anzi ne ha bisogno.

È evidente, infatti, che la Sacra Scrittura non cessa di parlare di affetti, di malattie, di questioni sociali, di genitori e di figli, di festività e lavoro[23]. Un recente Laboratorio Biblico promosso dalla CEI, come ben sapete, ha lavorato proprio sui cinque ambiti di Verona a partire dalla Scrittura[24], con ottimi risultati, mostrando la fecondità di questo approccio. I cinque ambiti sono talmente connessi con la storia della salvezza, che non si tratta di aggiungerli ex novo, poiché essi sono presenti ab origine in ogni piega della Scrittura.

3.1.2/ Ma il contatto con la “sola Scrittura” non è sufficiente. L’adulto ha bisogno, oggi più che mai, di essere condotto dalla Parola a saper discernere i sentimenti che prova nel cuore, a maturare decisioni, a saper discernere la voce di Dio. Uno dei grandi maestri della Scrittura che il Signore ha donato al nostro tempo, il cardinale Carlo Maria Martini, ci ha mostrato quanto sia fecondo leggere la Scrittura a partire dagli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, a partire cioè da uno “schema” che nasce dall’esperienza spirituale di un santo che ha saputo illuminare il combattimento che si compie nel cuore umano[25].

Ma non esiste solo Ignazio: Martini ci ha mostrato come sia prezioso e addirittura necessario illuminare la Scrittura con le testimonianze dei maestri ebrei e poi dei Padri della Chiesa e dei Dottori. L’adulto oggi cerca non solo una conoscenza della Scrittura, ma una Parola che illumini la sua vita. L’esperienza delle nostre diocesi ci dimostra che non appena qualche saggio credente inizia a presentare i grandi temi della vita spirituale, dalle virtù, alla preghiera, ai peccati, ai vizi capitali, al discernimento degli spiriti, molti accorrono “assetati”, in un tempo che trascura la profondità dell’animo, per “mettere ordine nella propria vita”.

3.1.3/ Ma l’esigenza di una catechesi che risponda al tempo presente, esalta la Parola ancora più oltre. Nelle famose conferenze sulla catechesi di Lione e Parigi[26], l’allora cardinale Ratzinger dichiarò che una delle cause più profonde della crisi della catechesi doveva essere ravvisata nel fatto che si ritenesse l’interpretazione storica della Scrittura e la fede della Chiesa irriducibili l’una all’altra. Ed, in effetti, se l’adulto non matura la convinzione che la fede della Chiesa gli permette di comprendere la Scrittura, ma anzi lo allontana dalla sua verità, si troverà esitante, “come una banderuola al vento”, incapace di articolare la sua testimonianza, senza alcun fondamento solido su cui poggiare la propria fede.

La catechesi degli adulti, invece, è chiamata a mostrare che «i Simboli [della fede], intesi come la forma tipica ed il saldo punto di cristallizzazione di ciò che si chiamerà più tardi dogma, non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa [...], sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura»[27]. Proprio l’esperienza della Chiesa, nel dogma ha individuato i punti più della rivelazione, i nodi più originali della novità cristiana e li ha sintetizzati nelle formule di fede. La Chiesa, con i suoi dogmi, «difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori»[28].

Ma non penso solo ai Simboli di fede tout court, penso anche ad autori come Romano Guardini, professore di Weltanschauung, di “visione del mondo”[29]. Credo che figure come la sua potrebbero essere assunte nella catechesi degli adulti, proprio perché aiutano a riflettere in maniera sintetica su cos’è il cristianesimo, su qual è la sua novità, qual è la sua visione del mondo e della vita, permettendo di fare sintesi dell’intera rivelazione. Autori come Guardini riportano la fede all’essenziale e, per questo, nutrono.

3.1.4/ Mi sembra che un passo ancora debba essere compiuto per accennare almeno a quanto è grande – e per niente diminuito dall’attenzione ai cinque ambiti – il compito che è assegnato alla Parola nella catechesi degli adulti. La Parola della rivelazione, affidata alla Chiesa, prosegue la sua corsa fecondando la storia e rivestendosi di infiniti colori. Se questo non fosse vero, la Parola sarebbe morta ed avrebbe terminato la sua corsa. Invece, nella storia della Chiesa, essa continua a manifestare il volto di Dio. Giovanni Paolo II ha scritto in Trittico Romano, riferendosi alla volta michelangiolesca della Sistina:

«Ma il Libro aspetta l'immagine.- E' giusto. Aspettava
un suo Michelangelo.
Perché Colui che creava, "vedeva" - vide, che "ciò era buono".
"Vedeva", ed allora il Libro aspettava il frutto della "visione".
O uomo che vedi anche tu, vieni -
Sto invocandovi "vedenti" di tutti i tempi.
Sto invocandoti, Michelangelo!
Nel Vaticano è posta una cappella, che aspetta il frutto della tua visione!
La visione aspetta l'immagine.
Da quando il Verbo si fece carne, la visione, da allora, aspetta
»[30].

È apparentemente scandaloso ciò che afferma il pontefice in questi versi: la Bibbia aspettava Michelangelo. Dio aspettava Buonarroti! È come se dicesse che la Bibbia non bastava! Possiamo dire che è così: la Bibbia non bastava per far comprendere la meraviglia della rivelazione. Questo ricorda alla catechesi degli adulti che si può fare catechesi – anzi che si “deve” fare catechesi – anche con Dante e con Manzoni, con Caravaggio e Michelangelo. Un personaggio che tutti – penso – amiamo come Roberto Benigni, ci sta insegnando che si può parlare di Gesù Cristo spiegando i Canti della Commedia. Io penso, anzi, che una catechesi degli adulti che non sapesse spiegare la Bibbia con Dante diventerebbe più povera e meno capace di toccare il cuore dell’adulto. Un “sussidio” di catechesi per adulti che non si misura con i “grandi” è necessariamente debole, incapace di quella sintesi appassionante di cui l’adulto è assetato. Possiamo oggi pensare di poter parlare in maniera interessante del desiderio o del male rinunciando ad Agostino, della credibilità del cristianesimo rinunciando a Pascal, del valore della coscienza rinunciando a Newman, della rivelazione rinunciando a de Lubac? I sussidi catechetici per adulti che spazio danno a questi grandi autori? Un’esperienza che abbiamo iniziato da alcuni anni a Roma è proprio quella di commentare i grandi autori della storia della Chiesa - approfittando anche della bellezza dell’arte, ma questo è per noi secondario – per parlare della fede cristiana[31].

Voglio aggiungere un piccolo ricordo personale. Il nostro vice-parroco ci fece leggere nelle nostre riunioni la Bibbia: 1 Tessalonicesi ed Efesini, versetto per versetto, per un anno intero. Lì imparai ad amare la Scrittura ed a leggerla ogni giorno. All’inizio delle riunione dell’anno seguente, a ottobre, ci disse che proponeva adesso di leggere i Documenti del Concilio, Dei verbum ed Apostolicam actuositatem. Nacque una discussione accesissima, perché nessuno di noi voleva smettere di leggere la Bibbia. Alla fine ci convinse. Ci spiegò che ormai eravamo in grado di leggere la Scrittura, che c’era la liturgia, che il Concilio è pieno di Scrittura. Ci educò a capire la rivelazione ed a riflettere sull’apostolato dei laici: un anno intero su quei due documenti Ho ancora i miei appunti su 1 Tessalonicesi, su Efesini, su Dei Verbum ed Apostolicam actuositatem: compresi allora l’ampiezza del tema della Parola di Dio che è attestata nella Scrittura e che parla a noi nella viva voce della Chiesa.

Dove tutto il dinamismo della Parola è messo in atto ecco che già le porte sono spalancate nei confronti dell’affettività, della tradizione o degli altri ambiti, mentre dove la Parola è in sordina il cammino è molto più arduo. La Parola di Dio è et... et..., è Scrittura e Tradizione, non aut... aut...

3.2/ Approfondire per comporre in unità: la celebrazione dei Sacramenti (leiturgia)

Se l’amore per la Parola non solo non deve diminuire o passare in secondo piano al cospetto degli ambiti, lo stesso vale per la Liturgia. Anzi proprio oggi noi siamo chiamati ad “esaltarla”. La liturgia libera la catechesi dall’intellettualismo. Se certamente, la fede di un adulto ha bisogno di comprendere, ha bisogno di parole da ascoltare e da dire, è certo che le parole non le bastano. La liturgia restituisce sempre la catechesi all’“esperienza” di Dio.

3.2.1/ Quando si insiste sulla natura anche “esperienziale” della catechesi non si deve dimenticare che l’“esperienza” cristiana raggiunge il suo culmen proprio nell’azione liturgica. Ogni volta che la liturgia è posta in ombra, immediatamente la catechesi cessa di essere “esperienziale”, impedisce una reale esperienza di Dio e si allontana dal vissuto della gente, dalla vita reale ed ordinaria del popolo di Dio.

Recentemente è stato Grillo – ma si potrebbero citare molti altri autori sulla stessa linea – a mostrare come la liturgia realizzi un’“esperienza” unica, assolutamente diversa e per questo arricchente rispetto ad altre “esperienze” umane caratterizzate dal “produrre”, dal “fare”: «il soggetto liturgico e la partecipazione attiva di questo soggetto, non sono anzitutto il controllo che il soggetto ecclesiale acquisisce della celebrazione. [...] La partecipazione attiva dovrebbe tendere alla perdita del controllo, all’affidamento, a quella che Louis-Marie Chauvet chiama demaitrise (“perdita di controllo”): la mediazione liturgica serve a perdere il controllo sulla rivelazione, sulla propria fede, per lasciarsela di nuovo donare, in modo sorprendente. In liturgia, [...] è essenziale un “prendere” l’iniziativa di perdere l’iniziativa” (Jean-Luc Marion) [...] Dobbiamo ricordare che l’agire liturgico non è semplicemente coordinabile con i “doveri” dell’uomo. Come l’antico comandamento della festa, il precetto è un comandamento perché si esca dalla logica dei comandamenti, cioè dalla logica dei doveri e dei lavori. [...] Tutti quei “doveri” ci sono perché il dovere non sia più la prima parola»[32].

La liturgia realizza la comunione con il Dio vivente che non è solo il Dio dei nostri padri, bensì anche il Dio che oggi agisce nell’hic et nunc della storia. Come scriveva Marsili «la Liturgia chiaramente appare come momento della Rivelazione – storia della salvezza, in quanto attuazione del mistero di Cristo, oggetto di tutta la rivelazione»[33]. In questo senso anche la Liturgia è Parola non solo perché contiene la Liturgia della Parola, ma molto più profondamente perché essa ci consegna la Parola vivente, Gesù Cristo. Anzi, da questo punto di vista, essa è ancora più Parola della stessa Parola! Come diceva il grande Umberto Betti: «a differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva»[34]. Si potrebbe dire che il punto supremo nella storia dove parola umana e Parola di Dio si fondono si realizza nella Consacrazione, come negli altri Sacramenti: lì le parole dette da un uomo - «Questo è il mio corpo» - sono parole dette da Dio stesse, pronunciate “oggi” da Cristo stesso - ma ovviamente è l’intera “parola” della Liturgia a partecipare della presenza divina.

Il trinomio ci consegna così non tre funzioni staccate le une dalle altre, bensì una unità di tre compiti indissolubilmente congiunti – si vede qui anche come Parola-Liturgia-Carità non corrispondono a catechesi, celebrazione ed azione caritativa.

3.2.2/ La Liturgia ricorda in particolare alla catechesi degli adulti che l’uomo non incontra Dio solo con la mente e con il cuore, ma che ha comunione con Lui per ritus et preces, che l’uomo è salvato attraverso l’azione dei sacramenti e non prima di essi. La Liturgia immerge l’adulto nel bagno vivo dell’azione liturgica, del canto, del gesto, del silenzio, e così via[35]. È straordinario – come insegna anche la storia del catecumenato antico – che la liturgia non segue la Parola, non viene dopo di essa, ma la accompagna, senza mai sostituirla[36]. I catecumeni partecipavano ai riti ben prima di essere battezzati, vivevano l’anno liturgico ed i suoi tempi già prima di essere ammessi all’Eucarestia.

Ma, in questa maniera, è già gettato il ponte verso l’ambito della Festa, che dà senso al Lavoro. Proporre agli adulti di ritrovare il senso ed i ritmi della festa, vuol dire camminare con loro nello scoprire che non si dà festa, se non esiste un motivo per gioire, se non esiste una salvezza da celebrare, un evento che rende nuova la vita. J. Vanier, in un bellissimo testo[37], ricordava che «le società diventate ricche hanno perso il senso della festa perdendo il senso della tradizione. La festa si ricollega ad una tradizione familiare e religiosa. Non appena la festa si allontana dalla tradizione tende a divenire artificiale e occorrono, per attivarla, degli stimolanti come l’alcool. Non è più festa. La nostra epoca ha il senso del “party”, cioè dell’incontro in cui si beve e si mangia; si organizzano dei balli, ma è spesso una questione di coppia e a volte addirittura una faccenda molto individuale. La nostra epoca ama lo spettacolo, il teatro, il cinema, la televisione, ma ha perso il senso della festa. Molto spesso oggi abbiamo la gioia senza Dio o Dio senza la gioia. È la conseguenza di tanti anni di giansenismo in cui Dio appariva come l’Onnipotente severo; la gioia si è staccata dal divino. La festa, al contrario, è la gioia con Dio».

E tutta la cultura ebraica ricorda, da par suo, come sia proprio il tempo liturgico nella sua scansione settimanale, a permettere al popolo di Israele di continuare a vivere e ad esistere[38].

3.2.3/ La liturgia va ad incidere così sul tempo dell’uomo. E lo fa attraverso l’anno liturgico, che è forse il cammino catechetico più importante e più efficace che mai la Chiesa abbia inventato, anche per gli adulti: «l’anno liturgico è tra le più originali e preziose creazioni della Chiesa, “un poema - come diceva il cardinale Ildefonso Schuster di tutta la liturgia - al quale veramente hanno posto mano e cielo e terra”. Esso è la trama dei misteri di Gesù nell'ordito del tempo. Così, lungo il corso di ogni anno, la Chiesa rievoca gli eventi della sua nascita, della sua morte e della sua risurrezione, così che il susseguirsi dei giorni sia tutto improntato e sostenuto dalla memoria di lui. Una memoria d'altronde che, se fa volgere lo sguardo a quando quegli eventi si sono compiuti, subito fa tendere lo sguardo sul Presente, cioè sul Cristo vivente, che sovrasta e include in se stesso tutta la storia»[39].

Ma, d’altro canto, proprio l’azione liturgica, con i suoi tempi, le sue feste, i suoi canti, i suoi gesti, corrisponde perfettamente all’esigenza dell’uomo che è uno spirito incarnato e che ha bisogno del rito per esprimere il proprio cuore.

Si comprende qui nuovamente – se ce ne fosse bisogno – come sia necessaria all’uomo la Liturgia per poter poi vivere il lavoro, la fragilità, la cittadinanza e così via. Non è forse vero che la crisi delle relazioni uomo-donna, ad esempio, non ha solo delle cause prossime, ma anche delle cause remote che debbono essere tenute presenti e che hanno attinenza proprio con la vita Sacramentale? Ad un occhio attento, non può sfuggire che la lontananza dall’Eucarestia domenicale e dalla Confessione, solo per fare un esempio, è determinante in tante separazioni e divorzi: tante coppie avrebbero potuto ritrovare unità se nel momento della crisi fossero state sostenute dalla Parola e dalla presenza di Dio nella Liturgia. È certamente vero che la vita affettiva ha bisogno di una cura peculiare da parte della comunità cristiana, ma resta allo stesso modo vero che senza una vita sacramentale matura la vocazione personale manca della sua linfa vitale. E come può oggi, per citare un secondo esempio, un genitore trasmettere non solo la fede, ma anche i valori del buon vivere, privandosi della condivisione con la moglie ed i suoi bambini del momento liturgico?

3.2.4/ La dimensione liturgica ricorda inoltre alla catechesi che essa dovrà sempre conservare uno stile “popolare”, rivolgendosi a tutto il popolo di Dio” e non solo a gruppi più formati e maturi. Io credo non si debba mai dimenticare che non è necessario far parte di un gruppo per essere cristiani, che Dio non salverà solo gli appartenenti ai gruppi. Certo è molto utile, è molto formativo farne parte - io stesso, come tutti voi, ho passato e passo gran parte della mia vita ad animare gruppi. Ma questo lavoro non ci deve portare a sottovalutare la maggior parte del popolo di Dio che non farà mai parte di gruppi determinati, se non per periodi brevi e comunque conchiusi della propria vita. Ma non per questo non appartiene alla Chiesa – alla comunità, come siamo abituati a dire[40].

La Chiesa nasce intorno all’eucarestia e la parrocchia è garante dell’ecclesialità, tramite la liturgia, di tutti coloro che non hanno una ulteriore partecipazione ad attività comunitarie determinate. La maggior parte dei credenti non svolge alcun servizio in parrocchia, ma serve Dio nel servizio della propria famiglia e della società. Un ulteriore esempio dell’importanza di questa prospettiva lo traggo da un incontro che ho avuto recentemente con sacerdoti del centro di Roma. Essi mi dicevano di aver compreso che non si doveva assolutizzare la realtà della comunità: si rendevano conto, infatti, dell’esigenza di tanti adulti - che passano l’intera giornata in centro-città per lavoro - di momenti specifici di formazione, dell’esigenza di trovare un confessore, del desiderio di partecipare all’eucarestia feriale o all’ora media, se solo qualcuno si fosse preso cura di loro. Chiedere a queste persone di far attivamente parte di “una vita di comunità del centro” sarebbe stato – a loro parere - un contro senso, sarebbe stato il rifiutare una richiesta di amore e di fede che emergeva da queste persone.

3.3/ Approfondire per comporre in unità: il servizio della Carità (diakonia)

Ciò che si è detto dell’annunzio della Parola e della celebrazione, vale anche per il servizio della Carità. I cinque “ambiti” non solo non possono metterlo da parte, ma anzi lo pretendono, poiché senza di esso nessuna azione ecclesiale in quei campi avrebbe alcun senso. La Chiesa, infatti, ha il compito di servire, ha la missione di amare.

3.3.1/ Merita sottolineare che è la Chiesa ad avere il compito di amare il mondo degli adulti, prima che l’adulto abbia un suo servizio di amore nella Chiesa e verso il mondo. Essa, infatti, non è stata inviata solo per annunciare il Vangelo, non è stata voluta da Dio solo per celebrare la Sua presenza: essa è sorta per amare nel nome di Dio. La Chiesa così, mentre illumina le menti perché accolgano la verità, mentre celebra i sacramenti perché gli uomini abbiano “esperienza” di Dio, allo stesso tempo tocca con la sua carità i cuori degli uomini perché scoprano di essere amati.

Si manifesta qui la maternità della Chiesa. Essa ama prima di essere amata. Essa sa che l’amore che è già nel mondo deve a sua volta essere amato per essere purificato, perché dal peccato di origine in poi, anche l’amore è rimasto ferito. L’uomo a fatica si avvede che deve ancora essere amato prima di poter amare a sua volta, che deve esser colmato della misericordia di Dio per poter amare veramente. Sequeri ha ricordato acutamente che l’affermazione «Dio è amore» è stata scambiata con l’espressione assolutamente non corrispettiva «l’amore è Dio», creando un corto circuito[41]. Solo l’incontro con l’amore trinitario rivela all’uomo che cosa sia l’amore e gli rivela al contempo che non ha mai amato pienamente. Senza ricevere questo amore, l’impresa di trasformare il mondo si rivela fallace per i credenti. Proprio questa “riserva d’amore” diviene l’antidoto contro l’illusione che l’uomo possa costruire da solo l’“uomo nuovo” ed il “mondo nuovo”.

Ma proprio perché questo amore è a disposizione nel mondo solo a partire dall’Incarnazione ecco che la Chiesa è chiamata a donarlo senza accezione di persona. Ne ha bisogno l’adulto che deve trovare accoglienza, ascolto, rispetto, valorizzazione nella Chiesa. Mi sembra di percepire una maggiore disponibilità nella Chiesa oggi a donarlo anche a chi non si dimostra all’altezza della chiamata di Dio. Sarebbe una contraddizione che si guardassero con grande simpatia le domande di vita ed i valori di coloro che sono atei o provengono da altre religioni e non si sapesse apprezzare la vita di chi bussa alle porte della comunità cristiana per la celebrazione di un Sacramento o, addirittura, la abita anche se solo nella messa domenicale.

3.3.2/ Ma certo appartiene alla missione della Chiesa anche chiedere all’adulto di essere protagonista a sua volta nella testimonianza della carità e riconoscere che egli è già inserito pienamente nel “dramma” dell’amore. Se egli è adulto in pienezza, come sposo e genitore, se con il suo lavoro egli costruisce la città degli uomini, come dimenticare il fatto che egli vive già il dono di sé? Certo la proposta della Chiesa è un cammino di conversione non solo della mente (una metanoia), ma anche del cuore e “dei costumi”, delle scelte di vita, degli orientamenti, ma questa tensione si radica nel riconoscimento che già l’adulto è tale ed è adulto proprio perché ha una responsabilità d’amore che già vive.

Vorrei sottolineare, a questo proposito, uno dei punti sensibili dove è evidente che si è creata una situazione di stallo nella catechesi degli adulti e nella catechesi in genere, che invece è importante sbloccare. La nostra prassi pastorale ha talvolta teso a identificare in Francesco d’Assisi il modello tout court del credente e dell’uomo di carità. San Francesco comprese ben presto invece che la sua vita non era “il” vangelo, ma era un carisma all’interno della Chiesa. Si pensi alla sua decisione di fondare il Terz’ordine francescano, che permetteva a chi era sposato e professionista di continuare ad esserlo, senza dover rinnegare la famiglia e la vita comunale del tempo per essere cristiano. Il grande scrittore Chesterton ricorda che fu una grazia di Dio che la Chiesa del tempo comprendesse che non tutti dovevano diventare francescani e che, nello sviluppo della teologia medioevale, San Francesco e Dante venissero visti fianco a fianco come testimoni della stessa fede[42].

3.3.3/ Neanche la carità allora è innanzitutto un ambito di azione della Chiesa, bensì è prima ancora una dimensione fondante della sua vita e, proprio per questo, la informa interamente. Ma proprio per questo essa ha che fare con gli ambiti di vita e spinge nella loro direzione. Solo se l’educazione è “carità” allora si può perdere la vita per essa. Solo se la “cultura” è carità si può faticare per essa. Solo se il matrimonio è “carità”, allora si può lasciare tutto per esso. Se il servizio della carità riguardasse solo i poveri, o peggio ancora alcune categorie di essi, avrebbe a che fare solo con l’ambito della Fragilità, ma non sarebbe in grado di aprire gli orizzonti di una pastorale e di una catechesi informati dalla carità a 360 gradi. Il trinomio, correttamente inteso, è allora un invito a vincere il rischio di restringere la carità ad un ambito e, quindi, automaticamente a ghettizzarla!

Questa ampiezza del servizio della carità permette, a sua volta, di uscire da quella logica di continua emergenza che attanaglia talvolta le nostre comunità in relazione al servizio di carità. Permette, infatti, di far crescere ancor più l’attenzione ai “piccoli” del Vangelo in un contesto dove esiste una prospettiva “preventiva” - per riprendere la terminologia di don Bosco – che sia salda, mentre altre energie vengono impiegate per le urgenze del momento.

Bisogna ben comprendere allora che la charitas cristiana riguarda anche la Parola e la Liturgia: la catechesi è una forma altissima di carità, così come la liturgia è l’opera dell’amore di Dio che si offre nella Chiesa all’uomo.

3.4/ Una prima sintesi sui tre compiti della Chiesa

Guardando il cammino percorso, possiamo confermare a questo punto che il trinomio non ci consegna tre ambiti della pastorale, né tantomeno della catechesi, bensì tre aspetti – tre “compiti”, possiamo dire – della missione della Chiesa. Questi tre compiti sono amplissimi. L’annuncio della Parola non è certamente la catechesi più che non la nuova evangelizzazione, l’arte sacra più che non l’utilizzo dei nuovi media, e così via. Non è in questione un ambito, quanto una finalità: che il Figlio di Dio sia conosciuto integralmente e da tutti. Lo stesso dicasi per la celebrazione che riguarda la comunione del creato intero con Dio attraverso l’azione liturgica dei sette Sacramenti, ma anche attraverso il modo in cui la liturgia plasma il tempo e lo spazio della Chiesa. Il servizio di carità, dal canto suo, informa di sé anch’esso tutta la vita della Chiesa. Il trinomio presenta, insomma, tre dimensioni dell’unico compito della Chiesa o – che è lo stesso – tre compiti che si intersecano continuamente nell’unica missione della Chiesa.

Il trinomio non fornisce così eccessive determinazioni concrete che dovranno essere affidate ad altre “schematizzazioni”, ma certo manifesta la robusta struttura della Chiesa dalla quale non è lecito allontanarsi per nessuna ragione. Non è allora una ferita al trinomio l’affermazione che esso tralascia – non è questo il suo compito, infatti – il modo in cui quei tre compiti debbono essere realizzati nella concretezza storica della vita delle persone e delle comunità.

4.1/ Il percorso inverso: i cinque ambiti

Qui si rivelano preziosi i cinque “ambiti”. Essi ci dicono che non basta annunziare il Vangelo o celebrare, o servire nella carità, ma che questo deve assumere le forme concrete di un’esistenza personale e sociale che viene plasmata dal Vangelo. È vero che senza l’annuncio, la celebrazione ed il servizio non si dà vita cristiana, ma è anche vero che non si dà vita cristiana se non si costruisce una famiglia, se non si arreda una casa, se non si percorre un itinerario di studi, se non si accetta un lavoro, non ci si preoccupa dello Stato, e così via.

Questo che è vero di ogni credente, è vero in particolare del laico. Un autore medioevale, il beato Giovanni Taulero, affermava che nella Chiesa ci sono coloro – li chiameremmo oggi appunti i “laici” – che vanno a Dio «in mezzo alle cose e con le cose»[43]. Di questo si occupano gli “ambiti”.

La riflessione che è sfociata a Verona viene da più lontano ed è nata dalla constatazione che era carente nella Chiesa italiana un’attenzione a cosa volesse dire appunto questo andare a Dio coinvolgendo le cose e le persone dell’esistenza quotidiana.

Mons. Naro, prematuramente scomparso, scriveva subito dopo il Convegno di Palermo[44] che era necessaria una «conversione pastorale»[45] e che questa doveva essere individuata nell’assunzione di responsabilità della pastorale verso «“il compito di plasmare una mentalità cristiana”, che una volta era affidato alla tradizione familiare e sociale e ora è in gran parte da reinventare a opera di una comunità ecclesiale che viva la sua dimensione comunitaria e riscopra la sua vocazione missionaria in rapporto alla società circostante. [...] In questa richiesta o esigenza di una “conversione” pastorale e della pastorale mi pare si esprima una valutazione forse non negativa ma che, comunque, registra un limite delle forme dell’attuale pastorale delle Chiese d’Italia [...] Quando si lamenta la scarsa incidenza dei cattolici sul terreno culturale, mentre si rileva la consistenza della testimonianza cristiana sul terreno della carità e della solidarietà, non solo si solleva un problema reale, che è stato colto pure da osservatori “laici”, ma anche si evidenzia un limite del cattolicesimo italiano». Cataldo Naro proseguiva dicendo che questa direzione da prendere era «una conseguenza dell’assunzione radicale di responsabilità cristiana di fronte agli enormi spazi di non credenza, di povertà spirituale e morale, di richiesta di senso, di domanda diffusa ma vaga di religiosità che si aprono davanti a noi nel nostro tempo e nel nostro paese. Ma è, primariamente e più radicalmente, la conseguenza della fede in Cristo Figlio di Dio e nostro unico Salvatore». Il Convegno di Verona è il punto di arrivo di considerazioni come questa appena citata.

La proposta dei cinque “ambiti”, allora, non ha primariamente il senso di indicare cinque zone di intervento, bensì molto più profondamente ha la pretesa di porre la questione di come la novità cristiana illumini, attraverso queste dimensioni, la vita umana.

Ognuno di noi si rende conto di quale sia il disorientamento che esiste oggi nel Paese ed anche nei nostri catechisti in merito a ciò che i cinque “ambiti” schematizzano.

Chi educa oggi all’affettività e come educare ad essa? Perché l’assoluta “libertà” in questo campo non genera famiglie più salde? Cosa rispondere a chi ritiene che il termine “famiglia” vada allargato a comprendere qualsiasi tipo di relazione?

Chi risponde alla domanda quale sia il senso della sofferenza, conscio che solo la risposta a questa questione permette poi di dire se abbia o meno senso vivere in condizioni di apparente “non dignità”? Cosa dire della diminuzione numerica di alcune tipologie di “malati”, non perché la “malattia” viene vinte, ma perché coloro che ne sono portatori vengono selezionati alla nascita?

Chi aiuta a comprendere che non esiste festa senza significato e che la festa non è l’oblio del tempo del lavoro, ma piuttosto la scoperta delle ragioni per cui vale la pena lavorare, la scoperta che il lavoro ha un fine? Che il lavoro ha quindi una moralità che lo deve contraddistinguere?

Chi aiuta oggi la famiglia e la scuola a ritrovare il senso dell’autorità? A divenire progettuali, a sostenere regole e comandamenti, a sostenere con i propri “no” ed i propri “sì” le giovani generazioni? Chi ricorda che la cultura non è solo metodo, ma soprattutto contenuto e che si apprende un metodo esattamente studiando un contenuto? Cosa sono allora i “classici”, i punti di riferimenti senza i quali non vi è cultura e passione per essa?

Chi aiuta a comprendere il peculiare ruolo del credente nella compagine pubblica, rifuggendo dal duplice rischio dell’integralismo e dell’irrilevanza del Vangelo nell’agone pubblico? Quali sono i punti di riferimento dell’agire cristiano in politica sui temi sopra espressi?

Ho voluto accennare a questo tipo di domande per indicare che qui si apre una prospettiva che non può vedere la catechesi assente. Se l’annuncio, la celebrazione, il servizio ci danno le coordinate fondamentali della missione della Chiesa, i cinque “ambiti” ce ne mostrano l’incidenza concreta negli orientamenti vitali dell’esistenza degli adulti oggi.

Non è difficile concretizzare questa problematica in merito agli itinerari di catechesi degli adulti. Un adulto avrà bisogno – e desiderio – da un lato di conoscere il Vangelo di Giovanni, di scoprire come nella Samaritana, nel cieco nato, in Lazzaro, si manifesti il bisogno di Dio presente in ogni uomo – dimensioni “fondamentali” – ma ha poi bisogno anche di sapersi orientare nelle questioni pubbliche ed ha bisogno quindi di conoscere la dottrina sociale della Chiesa, di leggere la Caritas in veritate, di riflettere con una catechesi sistematica sulla famiglia e l’affettività.

Ciò che già si dimostrava vero a partire da un’analisi del compito dell’annunzio della Parola è altrettanto vero se considerato dal punto di vista degli “ambiti” di vita proposti da Verona. La catechesi deve, da un lato, proporre itinerari teologici e biblici, ma deve, al contempo, saperli “interrompere” per presentare in altri momenti itinerari rivolti alle coordinate necessarie per orientarsi nella vita quotidiana. Una catechesi degli adulti che non passasse mai per Giovanni o per la Dei Verbum mancherebbe di fondamento, una catechesi che non si soffermasse mai sul perché la “sussidiarietà” è uno dei fulcri della dottrina sociale della Chiesa lascerebbe l’adulto in una condizione di “minorità” nei confronti di problemi cui deve invece dare il suo contributo come laico nel mondo.

Ovviamente se risalta in primo piano la questione dei contenuti, non è meno importante quella delle “esperienze” che li accompagnano. Ben diverso è che sia catechista di un gruppo di adulti un single, oppure una coppia di persone sposate che testimonia della bellezza del dialogo uomo-donna. Ben diverso è se si valorizzano i ruoli professionali delle persone o se si prescinde da essi. Ben diverso è se, mentre si riflette sull’educazione, si mettono in piedi anche progetti di collaborazione fra genitori, scuola e comunità ecclesiale.

Mi piace anche qui aggiungere un ulteriore ricordo della mia giovinezza. Quando giungemmo al momento in cui per la prima volta avremmo votato, il nostro vice-parroco ci guidò a realizzare un gruppo di studio sulla storia dei partiti italiani e ci presentò i documenti della Chiesa sulla politica. Fu, in particolare, il Centro culturale della parrocchia che si occupò di questi incontri: mentre alcuni di noi erano diventati catechisti ed altri animavano la liturgia o il servizio agli anziani, alcuni si erano dedicati, su suo suggerimento, alla creazione di questo Centro culturale – si chiamava il CCGP, perché allora andavano di moda le sigle. Nel frattempo continuava il cammino di ascolto della Parola e la lettura dei testi del Concilio ed era a tutti evidente che quell’esperienza particolare non toglieva niente al resto del cammino, bensì era complementare ad esso.

4.2/ La grande “questione dell’uomo” che sottostà ai cinque “ambiti”

Se avanziamo di un altro passo, ci accorgiamo che le problematiche dei cinque “ambiti” non sono in realtà solo problematiche settoriali, come se esse fossero, in fondo, non correlate fra loro. Il Convegno di Verona, infatti, le ha prospettate a partire dalla ben più ampia “questione antropologica”[46] che - come è dichiarato chiaramente nella relazione introduttiva di F. G. Brambilla[47] e come appare sempre di nuovo nei testi successivi - è alla radice di tutte le altre e le condiziona. Non è possibile approfondire qui in dettaglio tutti i termini della questione. Basta solo accennare a due punti centralissimi.

4.2.1/ In primo luogo è in questione se l’uomo – questa è la visione cristiana di un antropologia fedele all’uomo stesso – sia portatore di diritti in quanto essere di una dignità assoluta e, conseguentemente, anche soggetto di una responsabilità costitutiva nei confronti degli altri uomini. Il mio eventuale suicidio, ad esempio, priverebbe gli uomini della mia presenza e del mio contributo e, quindi, non è un mio diritto. Anzi, la mia libertà si esplica esattamente nel costruire relazioni e nel non sottrarmi a contribuire al bene degli altri.

In secondo luogo è in questione se l’uomo sia caratterizzato nativamente dalla relazione con Dio – e per questo capace anche di un rifiuto cosciente di essa. Uno straordinario – e commovente – intervento del filosofo francese Fabrice Hadjadj sollevava tale questione – essa è, in effetti, la questione dell’uomo oggi, ben al di là dei confini italiani - a Parigi, nel recente incontro del Cortile dei Gentili: «L’essere umano è l’animale che si meraviglia di esistere. Siamo delle scimmie evolute, dei primati giunti al culmine della perfezione? Dubito che sia così. [...] Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte. [...] Quando si pretende di fondare l’umanesimo sull’uomo stesso accade la medesima cosa che si verifica quando si pretende di erigere un edificio senza alcun appoggio esteriore: l’edificio crolla. Per elevare un palazzo, c’è bisogno di un terreno. Affinché l’uomo si elevi, ha bisogno di un Cielo. Per Cielo intendo una speranza. Gli altri animali si generano attraverso l’istinto. L’uomo ha bisogno di ragioni per dare la vita. Senza queste ragioni, senza una speranza, certamente egli non si suiciderà – perché vi è in lui questa forza d’inerzia che lo spinge a continuare la sua corsa, come un solido nello spazio vuoto –, ma quantomeno non donerà più la vita, perché non vede la ragione di fare figli, se tutto è destinato alla putrefazione».

La peculiarità – e la ricchezza – dell’antropologia cristiana si radica ovviamente nel DNA della fede cristiana che ha origine dalla Parola, dalla grazia della Liturgia, dalla Carità che l’uomo riceve e che è tenuto a condividere: la dignità dell’uomo risale alla relazione con Dio stesso, creatore e salvatore.

4.2.2/ Questa prospettiva di fondo, a sua volta, implica una ulteriore questione che è estremamente illuminante per la catechesi degli adulti. La consapevolezza che l’uomo ha origine in Dio, ma che, insieme, dopo il peccato originale non ha più la pienezza di quella relazione con Dio e con i fratelli che costituisce la bontà e la bellezza della sua stessa vita, apre la grande proposta del discernimento. Parlare di discernimento implica la consapevolezza che nella condizione attuale dell’uomo sono presenti il bene e il male, il desiderio della relazione con Dio ed il rifiuto di essa, la tensione alla relazione con i fratelli e la fuga da essa. Da un punto di vista cristiano, allora, non si dà mai un puro rifiuto di ciò che nasce dall’esperienza umana, ma nemmeno un’accoglienza senza riserve. Un netto rifiuto indicherebbe la sfiducia nell’opera creativa di Dio e nel fatto che l’uomo è costitutivamente rivolto a Dio ed al bene comune, una pura accoglienza implicherebbe che nell’uomo non si dà più il peccato. Il discernimento cristiano è tenuto sempre di nuovo ed in maniera mai conclusa ad accogliere il bene che scorge ed a denunciare il male che esiste.

Non solo: la venuta di Cristo indica l’esistenza di una pienezza che può essere solo donata e non raggiunta dalle sole forze dell’uomo. All’accoglienza ed al rifiuto, deve ulteriormente essere aggiunta la categoria del compimento. Accoglienza, rifiuto, compimento: ecco il triplice compito che consegue alla catechesi ogni volta che si trova a dover illuminare l’affettività, la fragilità, il lavoro e la festa, la tradizione, la cittadinanza[48]. Ritorniamo ai nostri cinque “ambiti” per concretizzare il discorso. Cosa la fede riconosce come buono, come indirizzato al bene, a Dio addirittura, dell’attuale concezione dell’affettività? Cosa la fede discerne come contrario al bene dell’uomo, perché contrario al disegno di Dio in essa? Ma, soprattutto: quale luce getta oggi il Vangelo sull’affettività per cui l’uomo possa viverla in quella pienezza che non gli sarebbe data se non avesse il Vangelo stesso? Come mostrare che l’eros si compie nell’agape e che senza agape si traduce nel suo contrario? Queste questioni sono talvolta inevase dalla catechesi. Capite bene che il compito è enorme, ma per questo è appassionante.

4.2.3/ Non abbiamo tempo di approfondire un ulteriore aspetto che vorrei però almeno accennare: la necessità di ricostruire un’antropologia condivisa emerge anche dalla necessità di superare la spaccatura in due parti della morale nel vissuto delle persone e nelle corrispettive visioni della politica e della testimonianza cristiana in essa, spaccatura per la quale alcuni privilegiano i temi della vita e della famiglia, altri quelli della pace, della giustizia e dell’ecologia, ma raramente si trova chi componga in un unica visione morale condivisa gli uni e gli altri[49].

4.3/ Logos e agape: il valore della cultura, delle parole e dell’esperienza

Questa opera di discernimento implica un corollario che ritengo utile mettere in campo per arricchire la nostra discussione. Dinanzi a questi temi è evidente che la fede cristiana non è solo “esperienza” ed “amore”, ma anche “parola”, “saggezza” ed “intelligenza”. Che oggi ci è richiesta una seria pastorale dell’intelligenza e dei contenuti proprio perché vogliamo essere adulti. Un adulto non chiede alla Chiesa solo accoglienza, serenità e benevolenza: chiede cosa il Vangelo dice di “nuovo” al mondo. E se certamente viene scandalizzato da comportamenti che non danno testimonianza della fede, altrettanto è scandalizzato se non trova nella Chiesa parole che illuminano le questioni che gli bruciano. Consentitemi solo un esempio, che vale per noi sacerdoti: quante volte sentiamo i laici protestare, pur con l’affetto enorme che hanno per i loro sacerdoti, per la banalità delle omelie e quante volte sentiamo ripetere, in positivo, la gioia di aver trovato preti la cui parola illumina la vita. L’adulto oggi cerca parole sagge sugli affetti, sulla malattia, sulla politica, sull’educazione, sul lavoro – così come su Dio, sui Sacramenti, sulla Carità. Il laico sa bene che lui stesso, la comunità ed anche i suoi sacerdoti non riusciranno ad essere forse sempre coerenti, ma invoca ugualmente che ci sia chi è in grado di mostrare la verità.

Proprio il Convegno di Verona ha riproposto la necessità di una nuova alleanza fra la capacità di manifestare la qualità dei contenuti della fede cristiana e l’autenticità della testimonianza nel viverli nell’amore. In un passaggio del suo discorso, che ritengo importantissimo, Benedetto XVI ha detto a Verona: «La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell'intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall'amore reciproco e dall'attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l'evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l'evangelizzazione dell'Italia e del mondo di oggi»[50].

Anche da questo punto di vista, il magistero di Benedetto XVI mi appare in profonda sintonia con quelli precedenti, pur nella novità dei tempi. Se si torna a leggere con attenzione la straordinaria esortazione di Paolo VI Evangelii nuntiandi ci si accorge subito dell’equilibrio con cui Paolo VI la pensò, ben al di là dei facili stereotipi con cui la si cita talvolta. Egli sottolineò in quel testo altissimo da un lato come l’uomo contemporaneo esiga una testimonianza autentica[51], non solo un insegnamento, e dall’altro come fosse necessario proprio un insegnamento capace di affrontare «la rottura tra Vangelo e cultura [che] è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture» (EN 20).

5/ Il valore relativo del trinomio e dei cinque ambiti e la presenza di ulteriori schemi da non dimenticare

Detto questo, possiamo ora tornare ai nostri schemi iniziali. L’analisi ci ha confermato nella nostra convinzione che essi non solo non vanno opposti, bensì necessitano l’uno dell’altro.

È stato detto da più parti giustamente che il trinomio è essenzialmente ecclesiologico, mentre i cinque ambiti sono essenzialmente antropologici[52]. L’affermazione deve essere precisata solo nel senso che il trinomio ha valenza anche per l’identità personale del credente e che i cinque ambiti hanno implicazioni ecclesiologiche. Fatte queste premesse, si può concordare con la proposta di Lanza in proposito che suggerisce di diversificare tre tipi di schematizzazioni.

Una prima articolazione si potrebbe chiamare “costitutiva” o “fondamentale” o “ontologica”: qui il trinomio annunzio della Parola/celebrazione della Liturgia/servizio della Carità – con i suoi corrispettivi “greci” - ha una sua ragion d’essere come DNA di tutto l’agire ecclesiale.

Una seconda articolazione si potrebbe chiamare “antropologica” o attinente all’“orientamento sulle grandi questioni esistenziali”: qui i cinque ambiti, ma anche ulteriori ambiti che non sarebbe difficile identificare, hanno il loro posto.

L’articolazione insieme “costitutiva” e “antropologica” della pastorale permette di non cadere nei due rischi opposti, quello, da un lato, di enunciare affermazioni che non dicano nulla al nostro tempo e quello, dall’altro, di utilizzare il linguaggio di questo tempo senza più dire Dio e la sua diversità.

Una terza articolazione si potrebbe chiamare “morfologica” o “fenomenologica” o ancora “organizzativa”: qui andrebbero collocate le concrete aree di azione ecclesiale ed i corrispettivi uffici che si volesse eventualmente creare perché si occupino di esse (catechesi, scuola, giovani, famiglia, lavoro, ecc.) in una curia o in un consiglio pastorale.

La terza articolazione non può essere derivata direttamente dalle altre due. Infatti, la questione della concreta organizzazione della pastorale è ulteriormente diversa dalla relazione che esiste fra il trinomio ed i cinque ambiti. Io ritengo utile, solo per fare un esempio, che esista un Ufficio per l’animazione culturale in una diocesi ed un Centro culturale in ogni parrocchia o almeno in ogni zona pastorale, ma non lo deduco né dal trinomio, né dai cinque “ambiti”, bensì da un discernimento operativo che mi fa valutare che senza una struttura che se ne occupi, dei fondi destinati per questa esigenza, ecc. ecc., la pastorale sarà mancante in quella direzione.

Invece la relazione tra il trinomio ed i cinque ambiti permette oggi di avere più chiaramente dinanzi agli occhi quanto afferma il Documento di base, presentando la missione fondamentale della catechesi: «Educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede: questa è la missione fondamentale di chi fa catechesi a nome della Chiesa»[53]. Il trinomio manifesta chiaramente che tutto ha origine dalla fede così come la Chiesa la trasmette e che senza questo radicamento non si dà costitutivamente la novità evangelica. I cinque ambiti ricordano invece che tale novità deve manifestarsi in una capacità di orientarsi nella storia ed anzi di orientare la storia stessa verso quella pienezza che il Vangelo annunzia.

5.1/ Lo schema quadripartito del Catechismo della Chiesa cattolica

Ma è importante, a questo punto, sottolineare un fatto ulteriore che ha una importanza non secondaria: i due schemi fin qui esaminati sono da conservare, anzi da approfondire. Ma non sono esaustivi. Bisogna esser coscienti che ne esistono altri, proprio perché i livelli di lettura sono diversi e ciò che è saggio ad un livello risulta parziale ad un altro. Abbiamo già visto che una concreta organizzazione di una curia avrà bisogno, ad esempio, di una schematizzazione diversa.

Solo per fare un ulteriore esempio, si potrebbe pensare ancora al trinomio “verità”, “bellezza”, “bontà” ed alla inseparabilità dei tre dall’unum che è Dio. Meriterebbe soffermarsi sulla questione della “bellezza” nella nostra catechesi – non in relazione all’utilizzo o meno delle opere d’arte, ma ben più radicalmente in merito alla capacità di presentare la “gloria”, il “pulchrum” di Dio, ma non abbiamo il tempo di soffermarci su questo.

Ciò che invece è essenziale per una completezza del discorso è domandarsi se esiste uno “schema” che sia proprio della catechesi.

Lo schema che la tradizione ci consegna in merito è la quadripartizione che è stata elaborata dalla Chiesa nel corso dei secoli, senza una decisione presa a tavolino da qualcuno in particolare al punto che non è facile individuare le tappe del suo sorgere e del suo diffondersi. Certamente, però, la quadripartizione che oggi ritroviamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, ci deriva dal catecumenato della Chiesa antica che iniziò a celebrare la traditio e la redditio del Simbolo e del Padre nostro, a verificare la conversione dei catecumeni ed a celebrare la liturgia con loro, prima condividendo la Liturgia della Parola, poi introducendoli definitivamente nei “sacri misteri”.

Se la guardiamo con simpatia ci accorgiamo che è straordinariamente semplice. Chi diviene credente impara a creder ciò che crede la Chiesa (il Credo), riceve nella liturgia la grazia di essere figlio di Dio (i Sacramenti), vive la vita nuova del Vangelo (i Comandamenti), prega Dio, perché è abilitato al dialogo con Lui (il Pater).

Vale la pena notare che il trinomio è già presente in questa quadripartizione: la quadripartizione – che non è ecclesiologica, ma insiste piuttosto sulla struttura formativa della catechesi - lo comprende, dal suo punto di vista, all’interno. Ma la quadripartizione non nasce dall’esigenza di dire le dimensioni costitutive della Chiesa, quanto piuttosto dal dover individuare le dimensioni costitutive del credente per aiutarlo a maturare.

I quattro pilastri del CCC fanno sì, fra l’altro, che anche i cinque ambiti siano compresi nell’orizzonte del cammino. Fare riferimento ai Comandamenti, ad esempio, implica automaticamente ritrovarsi nella questione affettiva, in quella educativa, in quella sociale, e così via. Anche da questo punto di vista, al suo livello che è quello catechetico e non quello ecclesiologico o antropologico, la quadripartizione si rivela preziosa.

Dal punto di vista proprio della formazione del credente si tratta di giungere a professare il Credo nel quale è contenuto l’essenziale di ciò che la Parola annunzia. Si tratta di vivere i sette sacramenti e l’intera liturgia per avere comunione con il “mistero pasquale”. Si tratta di vivere in Cristo, vivendo nella carità tutto lo spettro dei comandamenti perché la fede informi di sé il desiderio, la fedeltà della parola data, la vita familiare e così via. Si tratta di imparare a pregare, anche quando si è soli - senza lo schema quadripartito, la preghiera diviene quasi una Cenerentola negli itinerari di catechesi. Si sottolinea con questa quarta dimensione che l’uomo è abilitato a parlare con Dio, evidenziando la novità enorme che è il Padre nostro.

In questo senso, nella quadripartizione non è questione semplicemente dei contenuti fondamentali della fede, ma insieme ed in modo indissolubile con essi, delle dimensioni dell’esistenza cristiana e, quindi, delle strutture portanti dell’esperienza della catechesi stessa. La catechesi conduce alla fede, alla celebrazione, alla conversione, alla preghiera personale e, conseguentemente, si sostanzia di momenti formativi, di momenti celebrativi, di condivisione esistenziale, di maturazione spirituale. La struttura quadripartita emerge con evidenza poi, a livello liturgico, nel momento del battesimo degli adulti: viene battezzato chi professa il Credo, chi ha convertito la sua vita, chi prega con il Padre nostro.

La quadripartizione ovviamente è in un dialogo continuo con l’esposizione della storia della salvezza, proprio perché, come abbiamo detto all’inizio di questa relazione, Credo e Scrittura hanno bisogno l’uno dell’altra.

Vale la pena sottolineare che questa quadripartizione non nasce da una teoria, bensì dall’esperienza della Chiesa. È una decisione “esperienziale”, non codificatasi a partire da visioni teologiche particolari. La Chiesa, nell’esperienza secolare della catechesi, l’ha maturata pian piano, di modo che, al tempo della Riforma, quando sono stati scritti i primi catechismi, è stata adottata in maniera similare nei Catechismi di Lutero e di Calvino, in quelli dei missionari spagnoli in America latina, infine in quelli nati a ridosso del Concio di Trento[54].

Mentre affermiamo con forza che il trinomio ed i cinque ambiti sono riferimenti preziosi è importante dire, ad un passo dal ventesimo anniversario della promulgazione del Catechismo della Chiesa cattolica, che anche questa quadripartizione è preziosa. Che è intelligente e che ci è utile. Che ci è utile proprio nella catechesi degli adulti!

Ricordo sempre, divertito, un incontro dei referenti del catecumenato europeo a Firenze nel quale un pastore valdese era stato invitato a presentare gli itinerari di catechesi nella sua comunità: egli aveva spiegato che questi si strutturavano con lo studio della Bibbia, la spiegazione del Credo, il commento dei Comandamenti, la presentazione del Padre nostro - ovviamente presso i valdesi i sacramenti hanno una valenza differente! Subito alcuni dei partecipanti all’incontro lo interrogarono incuriositi: «Ma come, voi valdesi non leggete la sola Scriptura ed utilizzate per la catechesi il Credo, i Comandamenti, il Padre nostro?» Lui rispose seraficamente e splendidamente: «Scusate, ma il Credo non è la sintesi della Scrittura? Ed i Comandamenti ed il Padre nostro non sono due dei testi più importanti della Scrittura?».

Voglio sottolineare che queste considerazioni hanno delle conseguenze anche in vista di una adeguata comprensione del catecumenato e di uno “stile catecumenale” della catechesi giustamente invocato oggi. Il Simbolo di fede appartiene al catecumenato solo come rito di una consegna liturgica o ben più profondamente, in quanto elemento strutturante la catechesi stessa? Io credo che sia vera la seconda opzione. Una catechesi di stile catecumenale dovrà sostare per mesi sul Credo, proprio per essere fedele all’esperienza della Chiesa che ha individuato nel Simbolo di fede uno dei luoghi determinanti della maturazione di una fede adulta.

La quadripartizione ha il pregio di puntare sull’essenziale e l’essenziale è proprio ciò di cui l’adulto va in cerca per orientarsi. Pensate a quanto è interessante oggi un itinerario sul Credo. Basterebbe fare riferimento alla caterva di libri che ne parlano[55]. Lo stesso si potrebbe dire dei Comandamenti, come dimostrano non solo l’esperienza dei 10 Comandamenti nata a Roma recentemente, ma anche il numero spropositato di testi che escono sul Decalogo[56] – per non dimenticare la sua presenza nelle arti, come nel famoso Decalogo del regista polacco K. Kieślowski[57].

Fare propria senza remore la strutturazione quadripartita della catechesi non vuol dire ovviamente che si deve usare il CCC come testo di base per dettare le singole tappe né di una catechesi di stile catecumenale, né della catechesi con gli adulti in genere. Il CCC è un catechismus maior[58] che ha bisogno di mediazioni e questo non deve mai essere dimenticato.

5.2/ Le parti generali del CCC ed il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi

Se la quadripartizione del Catechismo della Chiesa Cattolica viene dal catecumenato ed è antichissima c’è un elemento che, invece, è nuovissimo nel CCC e sul quale mi voglio soffermare ancora per evidenziarne l’utilità in vista della catechesi con gli adulti. Tutti i catechismi antichi, dalla fine del ‘400 in poi, esponevano direttamente il Credo, i Comandamenti, e così via. Invece il CCC premette alle quattro parti delle sezioni generali. Lo fa, evidentemente, per manifestare la novità del Concilio Vaticano II: la I sezione generale ha come base la Dei Verbum, la II ha come base la Sacrosanctum Concilium, la III ha come base la Gaudium et spes, mentre la IV non ha un documento di riferimento del Concilio perché non esiste – purtroppo – un testo conciliare sulla preghiera.

La sezione generale della I parte si sofferma così sulla rivelazione, premettendovi una riflessione sull’uomo capax Dei. Emerge così immediatamente la centralità di Cristo come rivelazione di Dio, del Dio che comunica se stesso, ed è manifesta immediatamente la novità del cristianesimo. Vengono in mente le parole di de Lubac: «Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una “religione del Libro”: è la religione della Parola – ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, “non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo”. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza»[59]. E così via. Sono i temi della teologia fondamentale. Ecco uno straordinario itinerario di catechesi per adulti: che cosa è la Rivelazione, quindi, qual è la peculiarità del cristianesimo!

Non dobbiamo dimenticare che questa impostazione non è solo proficua per il nostro futuro, ma appartiene già al Progetto catechistico italiano ed a noi spetta riscoprirla e valorizzarla. Se prendiamo il Catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, ci accorgiamo subito che esso è sulla stessa linea. Esso presenta la figura di Gesù seguendo passo passo i Vangeli – cfr. i nn. 106-281 – ma insieme la inserisce in quella prospettiva sintetica che è tipica della catechesi, premettendo una presentazione della rivelazione che riprende a piene mani la Dei Verbum per indicare subito che Cristo è la Parola definitiva di Dio, prima di iniziare una lettura dettagliata della sua vicenda.

Alla presentazione della rivelazione è premessa ancora, proprio come nel CCC, una riflessione sull’uomo capax Dei – a partire dalla Samaritana si riflette sulla sete inesauribile che ci caratterizza, citando poi autori come B. Pascal, R. M. Rilke, F. Nietzsche, Agostino, Anselmo, Tommaso, fino agli affreschi di S. Angelo in Formis. Inoltre, al termine della presentazione dei Vangeli, si giunge – nei nn. 306 ss. – alla presentazione del Credo.

È possibile vedere qui non solo in teoria, ma nel concreto di un itinerario, il passaggio da un catechismus maior ad un catechismo nazionale ed, insieme, una presentazione della Parola di Dio armonica, capace sia di analisi biblica, sia di sintesi teologica. Non è difficile, insomma, accorgersi che esiste una relazione feconda e positiva fra La verità vi farà liberi ed il CCC, indicandoci una via che è da proseguire anche ad altri livelli.

I temi delle parti generali del CCC sono di una straordinaria attualità nella catechesi degli adulti. E ci rimandano a quella visione globale e armonica della vita che sostiene i cinque ambiti di Verona. Oserei dire che oggi questi temi generali sono ancora più decisivi delle sezioni particolari: nei dialoghi con i nostri contemporanei la questione non verte su di un singolo articolo del Credo, ma prima ancora sulla realtà stessa del Dio creatore che si rivela. Lo stesso per la liturgia: è l’idea stessa della necessità di un sacramento per la salvezza che è in discussione. Così come nelle scelte etiche è in questione primariamente chi sia l’uomo. Ma proprio per questo i grandi temi essenziali lì affrontati sono carichi di freschezza e di novità. Proprio perché l’adulto è una persona che deve saper inserire il frammento di vita che sta vivendo, il frammento di pensiero che elabora, in una sintesi che lo sostiene.

Note al testo

[1] Lo ricordava uno stupendo libretto di P. Sequeri dedicato all’educare alla scuola della Parola: P. Sequeri, L’oro e la paglia, Glossa, Milano, 1989.

[2] L. Bolzoni, Dante, o della memoria appassionata, disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/blog/entry/324 . Per approfondimenti, vedi l’opera maggiore L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi, Torino, 2002.

[3] Educare alla vita buona del Vangelo, 13. L’intero numero 13, con le successive citazioni di Paolo VI e Benedetto XVI, è straordinario.

[4] Riprendo alcune espressioni utilizzate dal cardinale C. M. Martini, Cercate una verità semplice e sicura, in C. M. Martini, Educare nella postmodernità, La scuola, Brescia, 2010, pp. 153-154.

[5] Cfr. gli atti del Convegno stesso, Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, EDB, Bologna, 2008.

[6] Educare alla vita buona del Vangelo, nn. 33 e 39.

[7] F. G. Brambilla, La pastorale della chiesa in Italia tra annuncio, celebrazione, carità e ambiti di vita della persona, (relazione pronunciata in occasione del Laboratorio della Segreteria della CEI del 3 febbraio 2010 sullo stesso tema e disponibile on-line al link www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/9641/Brambilla.pdf ). B. Seveso, La pratica della fede, Glossa, Milano, 2010, p. 310, da parte sua, definisce il cammino di questa nozione “lungo ed anche fortunoso”. Cfr. sull’evoluzione storica del trinomio, anche M. Semeraro, Con la Chiesa nel mondo. Il laico nella storia, nella teologia, nel magistero, Vivere in, Roma, 1991, pp. 197-204, con specifico riferimento alla definizione del “laico” nella Chiesa.

[8] L’evoluzione storica che porterà al nostro trinomio è stata studiata innanzitutto da J. Fuchs (con introduzione di Y. Congar), Origines d'une trilogie ecclésiastique a l'époque rationaliste de la théologie, Rev. Sc. ph. th., 1969, 185-211 e dallo stesso Y. Congar, Sur la trilogie: prophète-roi-pretre, Rev. Sc. ph. th., 67 (1983) 97-115.

[9] Afferma F. G. Brambilla che la «fissazione “sistematica” dello schema dei tria munera ha richiesto, mentre passava dalla soteriologia all’ecclesiologia, di trovare una giustificazione biblica e patristica. Ora, su questo punto gli studi sono molto controversi» (nella relazione sopra citata). G. Benzi ha recentemente sottolineato in una relazione tenuta a Pozzuoli il 17/4/2010 come in 1 Corinzi emerga già la rilevanza delle tre dimensioni che saranno poi elaborate successivamente.

[10] B. Seveso, La pratica della fede, Glossa, Milano, 2010, p. 312.

[11] P. Bazzichetto, in una tesi di licenza presso la Pontificia Università Lateranense, purtroppo non pubblicata, dal titolo Gli ambiti dell’azione ecclesiale nel dibattito recente, ha studiato la terminologia utilizzata in merito da diversi pastoralisti e teologi (V. Schurr, W. Kasper, L. Roos, C. Bäumler, K. Lehmann, A. Charron, J. W. Flower, J. B. Bagot, R. Zerfass, B. Seveso, D. Borobio, K. Rahner, C. Floristan, D. Wiederkehr, E. Alberich, G. Otto, J. A. Van Der Ven, S. Lanza, L. Bressan), oltre a presentare i testi relativi del magistero di Giovanni Paolo II.

[12] M. Semeraro, Con la Chiesa nel mondo. Il laico nella storia, nella teologia, nel magistero, Vivere in, Roma, 1991, p. 199.

[13] Cfr. anche Commissione Teologica Internazionale, Alcune questioni sulla teologia della Redenzione, 29.11.1994, IV/1,9: «Il significato della redenzione e l'unicità del Redentore sono rivelati dalle attività costitutive della Chiesa in questo mondo: martyria, diakonia, leitourgia» (il documento è pubblicato in Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004, ESD, Bologna, 2010, p. 521).

[14] La diffusione del trinomio Parola-Liturgia-Carità avviene «in chiave remissiva; in altri termini, cedendo a quella spinta socioculturale che delimita il campo della religione al privato e il senso pubblico della Chiesa a ruoli di supplenza socioassistenziale» (S. Lanza, Parola-Liturgia-Carità: un trinomio “da superare”. Un’intervista a mons. Sergio Lanza (a cura del Centro culturale Gli scritti, disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/conferenze/lanza_trinomio.htm ). Così anche P. Asolan: «a me sembra che sia stata la mappatura dell’azione ecclesiale – così come si è venuta configurando nel trinomio evangelizzazione/liturgia/carità – ad aver contribuito in maniera decisiva all’isolamento della pastorale sociale dal resto della pastorale diocesana» (P. Asolan, Il tacchino induttivista, Il pozzo di Giacobbe, Trapani, 2009, p. 158). Similmente D. E. Viganò, I Laterani del Redemptor hominis, in La teologia pastorale oggi, Lateran University Press, 2010, pp. 7-9: «il trinomio evangelizzazine-liturgia-carità spinge verso un’azione pastorale fortemente squilibrata: dedica molto alla parte ad intra (strutturando organicamente le celebrazioni, i sacramenti, i vari momenti della vita interna di una comunità...) e fatica molto ad organizzare il resto (configurando la pastorale ad extra più come una pastorale di iniziative che una pastorale strutturata organicamente».

Altri autori, per contro, ne hanno difeso invece la pertinenza, come recentemente B. Seveso: «È nozione teologica in grado di illustrare con efficacia l’azione della Chiesa e di veicolarne il significato ultimo», B. Seveso, La pratica della fede, Glossa, Milano, 2010, pp. 309-310; già l’Enciclopedia di pastorale (L. Pacomio – B. Seveso, Enciclopedia di pastorale, Piemme, Casale Monferrato, 4 voll., 1992-1993) si strutturava secondo il trinomio.

[15] «La rappresentazione diffusa delle funzioni della pastorale (annuncio, celebrazione, comunione, carità, missione, animazione culturale, presenza sociale, lavoro, turismo, migrantes, ecc.) ha sovente preso nella pratica un andamento molto settoriale e autoreferenziale. [...] Occorrerà, dunque, un atteggiamento coraggioso e lungimirante nell’affrontare i cinque ambiti. [...] Pertanto, il confronto che avverrà dentro gli ambiti dovrà essere preoccupato di mantenere una sorta di interdipendenza orizzontale e verticale. Orizzontale, perché la discussione dovrà mostrare l’intreccio del nostro tema con le altre sfere di esperienza della vita umana e cristiana. Verticale, perché dovrà sempre mettere il tema sotto la luce luminosa della speranza cristiana che viene dall’incontro con il Risorto» (F. G. Brambilla, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, EDB, Bologna, 2008, p. 160).

[16] «Il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità» (C. Ruini, Intervento conclusivo, in Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, EDB, Bologna, 2008, p. 542).

[17] «Il linguaggio della testimonianza è quello della vita quotidiana. [...] Abbiamo declinato pertanto la testimonianza della Chiesa secondo gli ambiti fondamentali dell’esistenza umana. È così emerso il volto di una comunità che vuol essere sempre più capace di intense relazioni umane, costruita intorno alla domenica, forte delle sue membra in apparenza più deboli, luogo di dialogo e d’incontro per le diverse generazioni, spazio in cui tutti hanno cittadinanza. [...] Si tratta di cinque concreti aspetti del “sì” di Dio all’uomo, del significato che il Vangelo indica per ogni momento dell’esistenza» (Nota «Rigenerati per una speranza viva» (1 Pt 1,3): testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo, 12).

[18] L’importanza del concetto di “opzione vitale” è stato elaborato dalla “scuola della Gregoriana” con le riflessioni in merito di K. Demmer e S. Bastianel. Si veda, ad esempio, K. Demmer, Introduzione alla teologia morale, Piemme, Casale Monferrato, 1993, pp. 85-87, che afferma: «Un secondo centro gravitazionale [dopo l’opzione vitale] della prassi morale può essere identificato con una scelta di vita. Ogni uomo lega del tutto spontaneamente alla sua vita un senso di unicità che per essere tradotto nella realtà necessiterà di una vita intera. [...] Nella vita ecclesiale si incontrano i tre stati classici di vita: il matrimonio, il sacerdozio e la vita consacrata che come tali godono della pubblica protezione canonica. [...] Può accadere che qualcuno scopra nella propria professione una vocazione ed impegni tutta la vita». L’opzione vitale si colloca così fra l’opzione fondamentale e le scelte particolari che siamo chiamati a compiere ogni giorno, operando una mediazione fra le due.

[19] L’utilizzo dell’immagine del DNA per descrivere il trinomio è quella più frequentemente utilizzata da Lanza; cfr. S. Lanza, Parola-Liturgia-Carità: un trinomio “da superare”. Un’intervista a mons. Sergio Lanza, già citato.

[20] Come è noto, “il grande sì di Dio alla vita” è una delle straordinarie espressioni inventate da Benedetto XVI, si potrebbe dire proprio come pontefice catechista. Il papa l’ha utilizzata nel suo discorso al Convegno di Verona ed essa è stata poi ripresa dalla Nota pastorale «Rigenerati per una speranza viva» (1 Pt 1,3): testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo, nel titolo e particolarmente nei nn. 10.12.

[21] Lo notava, con termini simili a quelli di Benedetto XVI, F. G. Brambilla nella relazione a Verona, commentando alcuni straordinari testi di G. Marcel: «Gli stessi linguaggi della speranza mettono in evidenza la tensione tra la speranza di ogni uomo e donna (“io spero…”) e la ricerca dei beni sperati (“io spero che…”). Questa tensione deve però prestar credito alla promessa (“io spero in…”) che è presente nei beni sperati, ma che supera sempre i beni ottenuti» (F. G. Brambilla, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, EDB, Bologna, 2008, p. 145).

[22] Cfr. J. Simcha Cohen, The 613th Commandment. An analysis of the Mitzvah to Write a Sefer Torah, Jason Aronson, Northvale, 1994; esistono differenti codificazioni, ma la più utilizzata risale a Maimonide.

[23] Solo per citare un testo straordinario, si pensi ad L. Alonso Schökel, Dov’è tuo fratello? Pagine di fraternità nel libro della Genesi, Paideia, Brescia, 1987, in merito alle pagine sull’affettività e la tradizione in Genesi.

[24] Laboratorio Biblico del 22 aprile 2009, dal titolo “La Parola che nutre e vivifica l’impegno pastorale della Chiesa. Bibbia, persona e relazioni per una pastorale integrata”, con introduzione di G. Benzi, relazione portante di R. Vignolo e ambiti affidati a cinque biblisti italiani. Tutti i testi sono disponibili on-line al link http://www.chiesacattolica.it/cci_new_v3/allegati/9032/SchemiLabBilbl.zip

[25] Si pensi ancora a maestri come il cardinale T. Špidlik o F. Rossi De Gasperis.

[26] J. Ratzinger, Transmission de la Foi et sources de la Foi, conferenze tenute a Lione ed a Parigi il 15 ed il 16 gennaio 1983, on-line in traduzione italiana non ufficiale al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger020209.htm .

[27] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, p. 26. Anche il Direttorio generale per la catechesi, 128, ricorda la profonda correlazione che esiste tra Scrittura e fede della Chiesa: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cui la Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede». Nella Lettera ai seminaristi del 18/10/2010, Benedetto XVI scriveva: «ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità: ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell’unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi».

[28] G. K. Chesterton, Perché sono cattolico e altri scritti, Gribaudi, Milano, 2002, p. 12.

[29] Fra gli altri, è G. Ruta, Romano Guardini e l’essenza del cristianesimo, Messina, 2005, a suggerire la figura e l’opera del grande pensatore come uno dei punti di riferimento per la formazione oggi.

[30] Giovanni Paolo II, Trittico romano. Meditazioni, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2003, pp. 20-21.

[31] Cfr. gli incontri dei primi due anni nella sezione Roma e le sue basiliche del sito Gli scritti al link http://www.gliscritti.it/approf/luogiub/roma_basiliche.htm .

[32] Andrea Grillo, I nodi fondamentali dell’esperienza liturgica oggi, in “Come ad amici”: incontrare il Dio Vivente nell’ascolto della Parola e nel mistero celebrato. Scritti dedicati al cardinale Carlo Maria Martini per il suo ottantesimo compleanno, a cura di M. Maccarinelli, Il Poligrafo, Abbazia di Praglia, 2007, pp. 47-48.

[33] Salvatore Marsili, La liturgia, momento storico della salvezza, in B. Neunheuser, S. Marsili, M. Augé, R. Civil, Anàmnesis 1. La liturgia, momento della storia della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, 1974, pp. 91-92.

[34] U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 219-262, in particolare p. 234.

[35] L’importanza della Liturgia nella Chiesa rende subito evidente come sia approssimativa la distinzione proposta dal pur grandissimo K. Barth fra “fede” e “religione”, distinzione che ha fatto scuola nei decenni scorsi. Se è vero che è la “fede” in Cristo che salva, è altrettanto vero che la fede in Cristo è fede nel Cristo che è presente nella liturgia e, quindi, nell’azione sacra della Chiesa. Da un punto di vista cristiano non si dà mai vera divisione possibile fra “fede” e “religione”, fra “fede” e “liturgia”, fra “fede” e “rito”: non si dà “fede” senza “religione”. Lo ricordava anche Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi, 47: «Peraltro non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l'evangelizzazione non si esaurisce nella predicazione e nell'insegnamento di una dottrina. Essa deve raggiungere la vita: la vita naturale alla quale dà un senso nuovo, grazie alle prospettive evangeliche che le apre; e la vita soprannaturale, che non è la negazione, ma la purificazione e la elevazione della vita naturale. Questa vita soprannaturale trova la sua espressione vivente nei sette Sacramenti e nella loro mirabile irradiazione di grazia e di santità. L'evangelizzazione dispiega così tutta la sua ricchezza quando realizza il legame più intimo e, meglio ancora, una intercomunicazione ininterrotta, tra la Parola e i Sacramenti. In un certo senso, è un equivoco l'opporre, come si fa talvolta, l'evangelizzazione e la sacramentalizzazione. È vero che un certo modo di conferire i Sacramenti, senza un solido sostegno della catechesi circa questi medesimi Sacramenti e di una catechesi globale, finirebbe per privarli in gran parte della loro efficacia. Il compito dell'evangelizzazione è precisamente quello di educare nella fede in modo tale che essa conduca ciascun cristiano a vivere i Sacramenti come veri Sacramenti della fede, e non a riceverli passivamente, o a subirli».

[36] Infatti, come non basta la Parola, nemmeno basta la Liturgia. Anche in merito al catecumenato, ad esempio, non bisogna mai dimenticare che il RICA non è un libro catechistico, bensì un “rituale”. Esso non dice, solo per fare un esempio, quale spazio riservare al Simbolo di fede nella catechesi, limitandosi ad affermare che deve essere consegnato e restituito: i nn. 184 e 189, ad esempio, ricordano che le consegne del Credo e del Pater potrebbero essere fatte anche precedentemente e non nell’ultima Quaresima, «per utilità del tempo del catecumenato», come afferma il n. 125 del RICA.

[37] J. Vanier, La comunità, luogo del perdono e della festa, Jaca book, Milano, 2980, p. 217. Merita ricordare anche un testo di Benedetto XVI, omelia del 9/9/2007, nel Duomo di Santo Stefano di Vienna: «Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l'insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea. Il tempo libero necessita di un centro - l'incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: “Dà all'anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima”».

[38] Achad Ha-am, Al parashat derakim, III, c. 30 (citato in Le livre du chabbat. Recueil de textes de la letterature juive, a cura di A. Pallière- M. Liber, Paris 1974, p. 61; Achad Ha-Am= “uno del popolo” è pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg, 1856-1927) ha scritto: «Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele». Y. Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p. 89, invece ha detto: «Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato». Chajjim Nachman Bialik (1873-1934), Epistole (Iggherot), 5 voll. 1938-39 afferma a sua volta: «Senza lo Shabbat, né Israel, né Erez Israel, né la cultura ebraica possono sopravvivere».

[39] I. Biffi, Per l'inizio dell'anno liturgico. La corona che plasma il tempo, L’Osservatore Romano, 24/11/2010, on-line al link http://www.gliscritti.it/blog/entry/594 .

[40] È utile qui non solo ricordare le riflessioni di autori come Franco Garelli (ad esempio F. Garelli, Le diverse formule organizzative dell’associazionismo ecclesiale: gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento, in “Note di pastorale giovanile” 6/1982, pp. 39-45) che hanno indicato diverse tipologie di gruppo e scandagliato quelle più tipiche della vita dell’adulto, ma ancor più le parole dell’allora cardinale J. Ratzinger che scrisse: «È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell'attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all'interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un'attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso. Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l'amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano» (J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, in J. Ratzinger, La Bellezza. La Chiesa, LEV-Itaca, Roma-Castel Bolognese, pp. 44-46).

[41] P. Sequeri, Dono verticale e orizzontale: tra teologia, filosofia e antropologia, in Giovanni Gasperini (a cura di), Il dono tra etica e scienze sociali, Edizioni Lavoro, Roma, 1999, 107-155.

[42] «San Francesco era un uomo così grande e originale che aveva in sé qualche cosa della sostanza che forma il Fondatore di una religione. Parecchi dei suoi seguaci erano più o meno pronti, nei loro animi, a trattarlo come tale [...] Francesco, quel fuoco che correva attraverso le contrade d'Italia, doveva essere l'iniziatore di una conflagrazione nella quale si sarebbe consumata l'antica civiltà cristiana. Questo era l'argomento che il papa doveva chiarire: o il cristianesimo assorbiva l'opera di Francesco o questa assorbiva il cristianesimo [...] Nella Chiesa del Signore ci sono diverse magioni. Ogni eresia è stato uno sforzo per rimpicciolire la Chiesa. Se il movimento francescano si fosse risolto in una nuova religione, questa sarebbe stata, dopo tutto, una religione meschina» (G. K. Chesterton, Francesco d’Assisi, Mursia, Milano, 2007, pp. 151-152).

[43] G. Tauler, Opere, Paoline, Alba, 1977, p. 556. L’espressione appare in un’omelia pronunciata nella festa di Ognissanti alla metà del XIV secolo. Vi accenna M. Semeraro, Con la Chiesa nel mondo. Il laico nella storia, nella teologia, nel magistero, Vivere in, Roma, 1991, p. 54.

[44] C. Naro, Progetto culturale e pastorale della Chiesa, relazione in occasione del primo Incontro nazionale dei Referenti diocesani per il Progetto culturale, Roma il 15-16 maggio 1998. Il testo è on-line al link http://www.gliscritti.it/blog/entry/365 .

[45] Come aveva indicato la Nota della CEI a conclusione del Convegno, Con il dono della carità dentro la storia.

[46] Come è noto, la questione emerge a partire dalle riflessioni del Progetto culturale; cfr. il testo sopra citato di C. Naro.

[47] «Abbiamo bisogno di speranza, soprattutto per quanto riguarda la questione antropologica» (F. G. Brambilla, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in Conferenza Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, EDB, Bologna, 2008, p. 148). Merita sottolineare che il modo proposto da Verona di affrontare la questione antropologica si radica implicitamente nell’esperienza del Concilio Vaticano II che si è trovato ad affrontarla quando si è trattato di redigere la Gaudium et spes. W. Kasper (W. Kasper, L’antropologia teologica della Gaudium et spes, “Laici oggi”, 39 (1996), pp. 44-54, disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/papers/kasper170209.htm) ha sottolineato che la Gaudium et spes procede a partire dall’uomo, ma non a partire dall’uomo così come viene visto dalle scienze umane, pure preziosissime, e nemmeno a partire da una antropologia filosofica. Il punto di partenza scelto dal Concilio fu quello dell’antropologia teologica e cioè dall’uomo “come immagine di Dio”. Se si scorre il testo della Costituzione conciliare ci si accorge che un certo spazio viene riservato alle condizioni storiche peculiare del tempo, ma, non appena il discorso entra nel suo momento fondativo, ecco comparire subito l’affermazione della dignità umana, data dal suo peculiare rapporto con Dio. Il Concilio pensa l’uomo a partire dalla relazione ineliminabile che egli intrattiene con Dio, almeno come orizzonte del suo interrogare, e con gli altri uomini dei quali è costitutivamente responsabile. In questo senso il Concilio afferma conseguentemente con grande acutezza che l’uomo, se da un lato è un essere storico, che muta continuamente al mutare dei contesti culturali nei quali è inserito e dai quali è forgiato e che contribuisce a forgiare, da un altro punto di vista è un essere che «non cambia» (Gaudium et spes 10)! Tutta l’antropologia del Vaticano II è in equilibrio fra la storicità dell’uomo e la sua permanenza e identità stabile attraverso i secoli.

[48] Cfr. su questo J. Ratzinger, Cristo, la fede e la sfida delle culture, relazione all’incontro dei vescovi della FABC (2-6 marzo 1993), pubblicato da Asia News, n. 141, 1-15 gennaio 1994 e disponibile on-line al link

http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger200609.htm .

[49] Così Benedetto XVI, nel discorso ai vescovi della Svizzera, 9/11/2006: «La società moderna non è semplicemente senza morale, ma ha, per così dire, “scoperto” e rivendica un'altra parte della morale che, nell'annuncio della Chiesa negli ultimi decenni e anche di più, forse non è stata abbastanza proposta. Sono i grandi temi della pace, della non violenza, della giustizia per tutti, della sollecitudine per i poveri e del rispetto della creazione. [...] L'altra parte della morale, che non di rado viene colta in modo assai controverso dalla politica, riguarda la vita. Fa parte di essa l'impegno per la vita, dalla concezione fino alla morte, cioè la sua difesa contro l'aborto, contro l'eutanasia, contro la manipolazione e contro l'auto-legittimazione dell'uomo a disporre della vita. [...] In questo contesto si pone poi anche la morale del matrimonio e della famiglia. Il matrimonio viene, per così dire, sempre di più emarginato. [...] Certo, per il problema della diminuzione impressionante del tasso di natalità esistono molteplici spiegazioni, ma sicuramente ha in ciò un ruolo decisivo anche il fatto che si vuole avere la vita per se stessi, che ci si fida poco del futuro e che, appunto, si ritiene quasi non più realizzabile la famiglia come comunità durevole, nella quale può poi crescere la generazione futura. [...] Noi dobbiamo impegnarci per ricollegare queste due parti della moralità e rendere evidente che esse vanno inseparabilmente unite tra loro. Solo se si rispetta la vita umana dalla concezione fino alla morte, è possibile e credibile anche l'etica della pace; solo allora la non violenza può esprimersi in ogni direzione, solo allora accogliamo veramente la creazione e solo allora si può giungere alla vera giustizia». Benedetto XVI prosegue qui la linea già tracciata da Giovanni Paolo che aveva parlato, nel discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede del 10/1/2005 di quattro grandi sfide da affrontare, quella della vita, quella del pane, quella della pace, quella della libertà.

[50] Dal discorso di Benedetto XVI del giovedì, 19 ottobre 2006, ai partecipanti al Convegno di Verona.

[51] La famosa espressione di Paolo VI «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» rimanda, fra l’altro, a quattro caratteristiche del testimone - testimone dell’invisibile, testimone gioioso perché libero dall’angoscia e dalla paura, testimone dell’Assoluto che rende giovani con la sua grazia, testimone dell’aver trovato un senso alla vita – che il papa aveva indicato in un suo precedente discorso da cui riprese l’espressione utilizzata poi in Evangelii nuntiandi 41: «L’homme contemporain écoute plus volontiers les témoins que les maîtres, ou s’il écoute les maîtres, c’est parce qu’ils sont des témoins. Il éprouve en effet une répulsion instinctive pour tout ce qui peut apparaître mystification, façade, compromis. [...] On pourrait ramener à quatre les motifs de cet attrait du monde actuel pour le vrai témoin du Christ.

L’homme moderne, engagé dans la conquête et l’utilisation de la matière, éprouve une faim d’autre chose, une solitude étrange. Le chrétien tout donné à Jésus-Christ connaît un autre mystère plus insondable que la matière: le mystère de Dieu qui invite l’homme à un partage de vie dans une communion sans fin avec le Père, le Fils et l’Esprit Saint. Mystère de transcendance et de proximité! En vérité, l’homme du vingtième siècle aspire à cette plénitude de dialogue personnel que lui refuse la matière. II faut aujourd’hui plus que jamais des témoins de l’invisible.

Les hommes de ce temps sont des êtres fragiles qui connaissent facilement l’insécurité, la peur, l’angoisse. Combien se demandent s’ils sont acceptés par leur entourage. Nos frères humains ont besoin de rencontrer d’autres frères qui rayonnent la sérénité, la joie, l’espérance, la charité, malgré les épreuves et les contradictions qui les atteignent eux aussi. Etre le témoin de la Force de Dieu opérant dans l’étonnante et renaissante fragilité humaine, ce n’est pas aliéner l’homme, mais lui proposer des chemins de liberté.

Les générations montantes sont spécialement assoiffées de sincérité, de vérité, d’authenticité. Elles ont horreur du pharisaïsme sous toutes ses formes. Dès lors on conçoit qu’elles s’attachent au témoignage d’existences pleinement engagées au service du Christ. Elles courent le monde pour trouver des disciples de l’Evangile, transparents à Dieu et aux hommes, demeurés jeunes de la jeunesse de la grâce divine. Les jeunes générations voudraient rencontrer advantage de témoins de l’Absolu. Le monde attend le passage des saints.

L’homme moderne se pose aussi, et souvent douloureusement, le problème du sens de l’existence humaine. Pourquoi la liberté, le travail, la souffrance, la mort, la présence des autres? Or voici que dans les ténèbres celui qui essaye de vivre l’Evangile apparaît comme celui qui a trouvé un sens, un achèvement à sa vie, bien loin des systèmes anthropocentriques et oppressants» (Udienza al Pontificio Consiglio per i laici del 2/10/1974, AAS LXVI (1974), p. 567-570, disponibile on-line al link http://www.gliscritti.it/blog/entry/279 ).

[52] Così, ad esempio, F. G. Brambilla, La pastorale della chiesa in Italia tra annuncio, celebrazione, carità e ambiti di vita della persona (già citato) e S. Lanza, Parola-Liturgia-Carità: un trinomio “da superare” (già citato).

[53] Documento di base, 38.

[54] Cfr. A. Amato, Il Catechismo nella storia della Chiesa. Un sintetico sguardo storico, in R. Fisichella (a cura di), Catechismo della Chiesa Cattolica. Testo integrale e commento teologico, Piemme, Casale Monferrato, pp. 549-555.

[55] Basti fare riferimento al volume del primate anglicano R. Williams, Ragioni per credere, Qiqajon, Magnano, 2009, allo straordinario volumetto di Alexander Men’, prete ortodosso assassinato in Russia, Io credo. Il Simbolo della fede, Nova Millennium Romae, Roma, 2007, al volume Introduzione al cristianesimo di J. Ratzinger del 1968, ad H. U. von Balthasar, Il Credo. Meditazioni sul Credo apostolico, Jaca, Milano, 1990, agli studi iconografici di R. Mastacchi, I padri spiegano il Credo, Cantagalli, Siena, 2004 e Il Credo nell’arte cristiana italiana, Cantagalli, Siena, 2007, a C. Dufour, 5 catechesi sul Credo, LDC, Leumann, 2008, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo. Non si deve dimenticare al riguardo l’esigenza che avvertì il papa Paolo VI e che lo spinse a scrivere il Credo del Popolo di Dio, testo altissimo del suo magistero. Recentemente anche la rivista Lumen vitae ha dedicato un numero – Le Credo dans la catéchèse – alla questione (“Lumen vitae, LXIV 2009, n° 1).

[56] Lo ricordava recentemente Lorenzo Fazzini su Avvenire, Le 10 regole di vita spopolano in libreria, 10/672011.

[57] K. Kieślowski, Decalogo, 1988.

[58] Cfr. fra gli altri, L. Pacomio, Storia e struttura del Catechismo: «[il cardinal J. Ratzinger scrisse] a proposito del Catechismo Romano: “Vi si legge, in effetti, che era enormemente importante sapere che un certo insegnamento doveva essere impartito in questo o in quel modo. Perché la catechesi per essere veramente adatta a tutti, deve essere esattamente al corrente dell’età, delle capacità di comprensione, delle abitudini della vita e della situazione sociale degli uditori. Il catechista doveva sapere chi aveva bisogno di latte e chi di alimenti solidi, al fine di adattare i suoi insegnamenti alla capacità di ciascuno... Sono dell’avviso che la distinzione fatta dal Catechismo Romano tra il testo base (il contenuto della fede della Chiesa) e i testi parlati o scritti della trasmissione, non sia una possibile strada tra le altre: essa appartiene all’essenza stessa della catechesi. Da una parte, è al servizio della necessaria libertà del catechismo nel trattamento delle situazioni particolari; dall’altra, essa è indispensabile per garantire l’identità del contenuto della fede”. Ci sembra pertanto di riconoscere dalla letteratura sia della storia dei catechismi nei secoli, sia dell’attuale uso del vocabolo ‘catechismo’ la possibilità di qualificare “analogico” più che univoco l’uso del titolo catechismo, applicabile a testi di riferimento per la fede e a testi didattici per trasmettere a specifici destinatari i contenuti della fede».

[59] Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma, 1972, pp. 353-354.