La solitudine di Spinoza, il precursore scandaloso, di Paolo Mieli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /05 /2013 - 14:06 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal Corriere della sera del 30/4/2013 un articolo scritto da Paolo Mieli. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (5/5/2013)

Quando diede alle stampe il Trattato teologico-politico, Baruch Spinoza era consapevole dei guai a cui sarebbe andato incontro e non trascurò nessuna precauzione: scrisse il saggio in latino, lo destinò a una circolazione limitata e, soprattutto, lo pubblicò anonimo.

Ma erano trascorse poche settimane da quell'inizio del 1670 in cui il Trattato era stato messo in circolazione da un piccolo editore olandese, che contro quel libro si scatenarono tempeste. A dispetto delle sue cautele, Spinoza fu presto identificato come autore del libro: in una lettera del giugno 1670, Friedrich Ludwig Mieg, professore dell'Università di Heidelberg, metteva in guardia un suo collega dicendogli di esser certo che il Trattato era opera di «Spinoza, un tempo ebreo», già «conosciuto per essersi occupato dell'opera di Descartes».

Nell'agosto di quello stesso anno, Johan Melchior, pastore di un piccolo villaggio nei pressi di Bonn, scrisse una pesante «confutazione» del libro, in cui dava conto di voci che lo attribuivano a Spinoza. Sempre in quell'estate, un altro professore, stavolta di Groningen, Samuel Desmartes, rivelò che quel testo «atroce» andava ricondotto a «Spinoza, un tempo ebreo, empio e ateo dichiarato».

Prima di loro, in ogni caso, si era già messo in moto il concistoro di Utrecht, che il 6 aprile del 1670, pur senza fare riferimento diretto a Spinoza, aveva definito quel volume «profano e blasfemo» e aveva chiesto che fossero prese «appropriate misure preventive» contro la diffusione dell'opera. Un mese dopo fu la volta del concistoro riformato di Leida, che si pronunciò in termini ancora più severi.

In maggio intervennero anche gli organi ecclesiali di Haarlem e in giugno quelli di Amsterdam. Sempre in maggio il teologo tedesco Iacob Thomasius lo definì un «testo senza Dio» e il suo collega olandese Regnier Mansveld, docente all'Università di Utrecht, scrisse che sarebbe stato giusto seppellire il Trattato nell'«oblio eterno». In luglio si passò al sinodo distrettuale dell'Aja, che si rivolse al sinodo dell'Olanda meridionale perché decretasse essere il Trattato un libro «osceno e blasfemo, quale, a nostra conoscenza, il mondo non ha mai conosciuto». In agosto si conformò a tale giudizio il sinodo dell'Olanda settentrionale, che annunciò di essere «profondamente disgustato» da quel tomo nuovamente definito «osceno».

Ma non è tutto. Nella primavera del 1673 fu pubblicato La Religion des Hollandois di Jean-Baptiste Stouppe, uno svizzero di fede riformata che partecipava all'occupazione francese dei Paesi Bassi (ne parleremo più avanti). Il libro di Stouppe era molto aggressivo contro gli olandesi, messi sotto accusa per la loro «fiacca devozione religiosa» e per la loro «irragionevole tolleranza verso le differenze confessionali».

Stouppe si diceva scandalizzato per la mancanza di iniziativa nel contrastare Spinoza, «un uomo nato ebreo che non ha né ripudiato la religione ebraica, né abbracciato la religione cristiana, ed è pertanto un pessimo ebreo e di certo non è un cristiano migliore». «Questo Spinoza», scriveva Stouppe, «ha prodotto alcuni anni fa un libro in latino, il cui titolo è Tractatus Theologico-Politicus, nel quale sembra porsi come obiettivo principale di distruggere tutte le religioni, in particolare quella ebraica e quella cristiana, e di introdurre l'ateismo, il libertinismo e la libertà di tutte le religioni».

A quel punto toccava alle autorità politiche procedere contro Spinoza. Queste però - come ha ben ricostruito in uno studio accurato Jonathan Israel - procedettero a rilento, quanto meno fino all'uccisione del grande statista Johan de Witt (e anche su questo torneremo). Sicché il Trattato fu ufficialmente messo al bando nella Repubblica delle Sette Province Unite solo nell'estate del 1674.

L'intera vicenda è adesso raccontata dal più grande biografo del filosofo di Amsterdam, Steven Nadler (docente all'Università del Wisconsin), in Un libro forgiato all'inferno. Lo scandaloso «Trattato» di Spinoza e la nascita della secolarizzazione, che esce oggi da Einaudi nell'eccellente traduzione di Luigi Giacone.

La violenta reazione sollevata dal Trattato teologico-politico, scrive Nadler, fu senza dubbio «uno degli eventi più significativi della storia intellettuale europea, specie considerando che si verificò agli albori dell'Illuminismo». Dai contemporanei di Spinoza, il Trattato fu considerato «il libro più pericoloso che fosse mai stato pubblicato».

Ai loro occhi, «quell'opera minacciava di minare dalle fondamenta la fede religiosa, l'armonia sociale, politica e perfino la morale di ogni giorno». Era loro convinzione che il suo autore - la cui identità, come abbiamo visto, non rimase segreta a lungo - fosse «un sovversivo, impegnato a diffondere l'ateismo e il libero pensiero in tutta la Cristianità».

Che cosa contenesse di così minaccioso quel libro è stato ben messo in luce (comprese le innumerevoli sfumature) da Leo Strauss in La critica della religione in Spinoza (Laterza). Spinoza, riepiloga Nadler, fu il primo a sostenere che la Bibbia non rappresentava alla lettera il Verbo di Dio, ma era piuttosto un «frutto letterario dell'ingegno umano»; che la «vera religione» nulla aveva a che vedere con la teologia, le cerimonie liturgiche o i dogmi settari, ma era costituita unicamente da una semplice regola morale, quella che si riassume in «ama il prossimo tuo»; che alle gerarchie ecclesiastiche «non spettava alcun ruolo nella gestione di uno Stato moderno».

Spinoza sosteneva altresì che la «divina provvidenza» non era altro che «l'insieme delle leggi di natura»; che i miracoli (intesi come infrazioni all'ordine naturale delle cose) erano «impossibili» e che la fede in essi era solamente l'espressione «della nostra ignoranza sulle vere cause dei fenomeni»; che i profeti del Vecchio Testamento erano «semplici individui, come tanti altri», i quali, seppure dotati di qualità etiche superiori, possedevano «un'immaginazione particolarmente fervida».

Assai irridenti i passaggi del Trattato dedicati ai profeti nell'Antico Testamento: «Se il profeta era allegro, gli si rivelavano le vittorie, la pace, e in genere le cose che generano letizia, poiché simili cose tali temperamenti sogliono più spesso immaginare; mentre, se era triste, gli si rivelavano guerre, castighi e ogni sorta di mali; così a seconda che il profeta fosse di indole misericordiosa, mite, iraconda, severa eccetera, era più adatto a questo o a quel genere di rivelazioni».

In materia di miracoli, poi, (laddove Maimonide, in quanto rabbino e capo religioso, era stato, qualche tempo prima, maggiormente cauto) la posizione di Spinoza fu più radicale addirittura di quella che sarebbe stata assunta mezzo secolo dopo dallo scozzese David Hume, per il quale quei prodigi divini erano «talmente poco verosimili da rasentare l'incredibile». Per Spinoza, invece, «il miracolo, sia esso inteso come fatto contrario o come un fatto superiore alla natura, è soltanto un'assurdità». Un'assurdità. Più netto di quel «rasentare l'incredibile».

La vera remunerazione della virtù, diceva infine il filosofo di Amsterdam, «non sta in qualche ricompensa ultraterrena per un'anima immortale, dal momento che non esiste nessuna immortalità della persona; è soltanto un'invenzione usata da un clero manipolatore per costringerci in un eterno stato di paura e di speranza e in tal modo controllarci». La «beatitudine» e la «salvezza» consistono piuttosto nel «benessere e nella pace della mente che la conoscenza riesce a offrirci in questa vita».

I capitoli del Trattato dedicati alla politica, scrive Nadler, «rappresentano il più accorato appello alla tolleranza (soprattutto alla "libertà di filosofare", senza che qualcuno fosse costretto a subire interferenze da parte delle autorità) che sia mai stato scritto».

Anche se il filosofo era assai diffidente nei confronti della gente comune: «So», scriveva in un passaggio che attirò l'attenzione di Leo Strauss, «che è impossibile sottrarre le masse alla superstizione e alla paura e so che per il volgo è perseveranza l'ostinazione, e che non è guidato dalla ragione, ma dalla passione è trascinato ora alla lode ora al vituperio... Il volgo, dunque, e tutti coloro che ne condividono le passioni non sono da me invitati alla lettura di questo libro; preferirei anzi che lo trascurassero del tutto, piuttosto che interpretarlo, come fanno sempre, tendenziosamente, allo scopo di creare difficoltà».

È vero che, prima del Trattato, Spinoza aveva scritto l'Etica, un libro altrettanto importante. Ma, a differenza del tono freddo e distaccato dell'Etica, il Trattato, scrive Nadler, «è un'opera appassionata, perfino rabbiosa, non si può fare a meno di notare un fervore e una sorta di urgenza che percorrono in modo impercettibile (e a volte nemmeno così impercettibile) tutti i capitoli del libro».

Inoltre, prosegue Nadler, il Trattato appare, ben più dell'Etica, «un'opera polemica che esamina i fondamenti storici, psicologici, testuali e politici della religione tradizionale o popolare». E in quanto tale, assai più dell'Etica, si prestava a essere «interpretato» da un maggior numero di lettori. Cosa che preoccupava e infastidiva l'autore.

Quando diede alle stampe il Trattato, Spinoza aveva 38 anni. Era nato nel 1632 da un'agiata famiglia di mercanti della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam. Una comunità di sefarditi, fondata dai cosiddetti «nuovi cristiani», o conversos - ebrei che in Spagna e Portogallo, tra la fine del Quattrocento e l'inizio del secolo successivo, erano stati costretti a convertirsi al cattolicesimo.

Questi conversos, messi in difficoltà dall'Inquisizione spagnola che non credeva al loro cambio di religione, all'inizio del Seicento avevano abbandonato la penisola iberica e si erano trasferiti ad Amsterdam (o in qualche altro centro dell'Olanda settentrionale). Città che avevano offerto a questi profughi l'opportunità di «ritornare alla fede degli avi e di riprendere la loro vita secondo le consuetudini ebraiche».

L'ebreo Spinoza - il quale, contrariamente a quel che è stato più volte scritto, non cercò mai di diventare un'autorità religiosa - ebbe come insegnanti tre rabbini: Menasseh ben Israel, che all'epoca era probabilmente l'ebreo più famoso di tutta Europa, Isaac Aboab da Fonseca e il «sapientissimo» Saul Levi Mortera della comunità di Amsterdam, sotto la cui guida ebbe accesso alle opere di Maimonide, autore nel XII secolo dell'opera più importante di tutta la filosofia ebraica, La guida dei perplessi.

Per Maimonide - altro pensatore che, come Spinoza, avrebbe attirato l'attenzione di Leo Strauss - il contenuto della profezia sarebbe, almeno in parte, filosofico, sicché sia il filosofo sia il profeta sono «veicoli di verità»; e poiché «una verità deve essere di necessità coerente con le altre verità», filosofia e profezia, se correttamente intese, «devono sempre concordare».

Cosicché «la verità filosofica e la verità rivelata non entreranno mai in conflitto». Spinoza si sofferma su Maimonide, che userà nel Trattato a proprio vantaggio per polemizzare contro la tradizione («I profeti della Bibbia ebraica», sostiene Spinoza, «erano in effetti, come dice Maimonide, personaggi dotati di grande forza d'immaginazione ma non filosofi, né uomini particolarmente dotti»).

Successivamente, per dedicarsi al latino e ai classici, Spinoza sarà allievo anche di Franciscus Van den Enden, un ex gesuita di idee politiche radicali destinato a finire sul patibolo per aver preso parte a un complotto repubblicano contro il re di Francia Luigi XIV. E Van den Enden lo avrebbe introdotto ai Princìpi della filosofia di René Descartes, a cui il giovane dedicò in seguito una delle prime sue importanti opere.

Un intreccio, quello della sua formazione, che dà conto della complessità del personaggio. E che ci aiuta a capire i guai a cui, da uomo libero, andrà incontro. A 23 anni, il 27 luglio del 1656, Spinoza subì il primo grande trauma. Quel giorno gli ebrei di Amsterdam gli inflissero un herem, cioè un provvedimento di messa al bando: «(lo) espelliamo, malediciamo e danniamo... Che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra... La collera del Signore e la sua gelosia si abbatteranno su quest'uomo, e tutte le maledizioni penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo», sentenziò contro di lui la comunità a cui, fin lì, apparteneva.

Fu il cosiddetto «herem del mistero», dal momento che gli fu inflitto per non meglio identificate «abominevoli eresie da lui compiute e insegnate», nonché per «atti mostruosi» (anch'essi non definiti). La virulenza era del tutto inconsueta, quasi assurda, nelle righe che chiudevano il documento di messa al bando: «Nessuno comunichi con lui, neppure per iscritto, né gli accordi alcun favore, né stia con lui sotto lo stesso tetto, né si avvicini a lui più di quattro cubiti, né legga alcun trattato composto o scritto da lui».

Terribile. Tanto più che, fino a quel momento, il filosofo non aveva dato alle stampe neanche un libro. Per di più il bando, a differenza di numerosi altri provvedimenti dello stesso genere e della stessa epoca, non fu mai revocato. Secondo Jean-Maximilien Lucas, il primo biografo di Spinoza che scrisse poco dopo la sua morte, all'origine dell'herem era la testimonianza di due giovani, i quali avrebbero udito Spinoza mentre diceva che, «non essendoci nella Bibbia nessun riferimento al non materiale o all'incorporeo, non c'è motivo di credere che Dio non abbia un corpo»; che «per quanto riguarda gli spiriti, le Scritture non dicono che essi sono sostanze reali e permanenti, bensì semplici fantasmi, chiamati angeli poiché Dio li adopera per annunciare il suo volere; sono fatti in modo tale da restare invisibili, come gli angeli e ogni altra sorta di spiriti, dal momento che la loro materia è assai fine e diafana, tanto che li si può vedere solo come si vedono i fantasmi, negli specchi, in sogno, oppure di notte»; e che «ogni qual volta le Scritture ne parlano, la parola "anima" è usata solo per significare vita, o qualche essere vivente... Si cercherebbe invano un solo passo che parli di immortalità, mentre l'ipotesi contraria è confermata da centinaia di brani, ed è piuttosto facile da dimostrare».

Inoltre, sempre secondo i due delatori, Spinoza avrebbe definito gli ebrei «gente superstiziosa, nata e cresciuta nell'ignoranza, che non conosce Dio e tuttavia ha l'impertinenza di considerarsi il Suo popolo, mettendosi al di sopra di tutte le altre nazioni».A quanto riferisce Lucas, Spinoza accolse l'espulsione dalla comunità ebraica senza battere ciglio: «Meglio così», avrebbe detto, «non mi costringono a fare nulla che non avrei fatto di mia spontanea volontà se non avessi temuto lo scandalo... Ma dal momento che è questo che vogliono, imbocco volentieri la strada che mi si apre davanti». Strada che lo porterà ad avere nuovi scontri, stavolta con la Chiesa cattolica e con quella riformata.

Spinoza, dunque, non si perse d'animo e, come s'è detto, si dedicò alla filosofia di Descartes. Nel 1663 diede alle stampe l'unico volume che avrebbe pubblicato con il suo nome in copertina: Renati Des Cartes principia philosophiae more geometrico demonstrata, che gli conferì (a ragione) la fama di divulgatore del pensiero cartesiano e (a torto) la reputazione di suo seguace.

Forte fu invece la sua sintonia con Thomas Hobbes e con il suo Leviatano, pubblicato in inglese nel 1651, tradotto in olandese nel 1667 e in latino nel 1668. Hobbes e Spinoza avrebbero avuto, sì, idee diverse sull'organizzazione della società: mentre Hobbes riteneva che la sovranità dovesse essere affidata a un singolo individuo e che la monarchia costituisse la forma di governo più stabile ed efficace, Spinoza riteneva che all'efficienza dello Stato fosse più funzionale la democrazia.

Laddove compito della democrazia, per Spinoza, era quello di «evitare gli assurdi dell'istinto» e di «contenere gli uomini per quanto è possibile entro i limiti della ragione, affinché vivano nella concordia e nella pace». Ma, per tornare ai nostri discorsi, l'approccio di Hobbes e di Spinoza all'Antico Testamento fu simile.

Già Hobbes aveva analizzato la natura delle profezie e la veridicità dei miracoli, sollevando dubbi sulle Sacre Scritture. «Considerate dalla prospettiva di un sacerdote del Seicento e dei fedeli della sua congregazione», scrive Nadler, «le opinioni di Hobbes su molti problemi non potevano che apparire assai lontane dall'ortodossia e perfino blasfeme; nella sua visione materialista della natura e dell'uomo, Hobbes si spingeva fino a negare che potesse esistere una qualsiasi "sostanza immateriale", escludendo così la possibilità di un'anima incorporea, ma anche di un Dio incorporeo».

Tutto ciò con un tono (da parte del filosofo inglese) «spesso beffardo, che lasciava intendere di non nutrire troppo rispetto per le religioni settarie, prima di ogni altra il cattolicesimo». E fu per questo che molti dei detrattori di Spinoza lo accomunarono all'autore del Leviatano.

Eppure Hobbes, quando ebbe in mano il Trattato, disse di esserne rimasto «profondamente turbato» e che lui «non si sarebbe mai permesso di scrivere simili insolenze». Insolenze? La verità è che sia i seguaci di Descartes (morto a Stoccolma vent'anni prima della pubblicazione del Trattato), sia Hobbes ebbero paura di rimanere vittime degli stessi anatemi che, avvertivano, sarebbero stati scagliati contro Spinoza.

Il quale si risentì per queste prese di distanza. Soprattutto nei confronti di alcuni allievi di Descartes, come Regnier Van Mansvelt e Lambert Van Velthuysen che lo avevano apertamente criticato: in una lettera a Henry Oldenburg nel 1675, si disse indignato del fatto che «certi sciocchi cartesiani, i quali hanno fama di condividere le mie idee, per allontanare da sé questo sospetto non abbiano cessato e non cessino tuttora di screditare ovunque le mie opinioni».

Amsterdam non fu tenera con Spinoza. Singolare, perciò, appare a Nadler l'elogio che il filosofo fa della sua città. Una città, scrive, dove «convivono in perfetta concordia uomini di tutte le nazionalità e di tutte le religioni; e, per affidare i propri beni a qualcuno, i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto di sapere se costui sia ricco o povero, o se sia solito agire in buona o in mala fede... La religione o la setta cui egli appartiene non li interessa affatto, perché ciò non contribuisce per nulla a far loro vincere o perdere la causa dinnanzi al giudice... E non vi è alcuna setta così odiata, i cui seguaci (quando non rechino danno ad alcuno, rendano a ciascuno il suo e vivano onestamente) non siano protetti e tutelati dall'autorità dei pubblici magistrati».

Parole sorprendenti, dal momento che, quando furono scritte, uno dei più cari amici di Spinoza, Adriaan Koerbagh, era da poco morto in prigione, «condannato per le sue idee filosofiche e religiose proprio dalla città di Amsterdam, con un brutale atto di intolleranza istigato dal Concistoro calvinista». Il fatto era accaduto tra il 1668 e il 1669 (pochi mesi, anzi, poche settimane prima che Spinoza vergasse l'«elogio di Amsterdam»).

Koerbagh aveva dato alle stampe, proprio ad Amsterdam, un libro dal titolo Un giardino di fiori con ogni sorta di bellezze, in cui negava la paternità divina della Bibbia, attaccava l'elemento irrazionale presente nella maggior parte dei culti, con i loro dogmi, riti e «cerimonie superstiziose», e prendeva in giro tutte le religioni istituzionalizzate, compresa quella della Chiesa riformata.

Per sovraccarico Koerbagh scriveva in olandese, rendendo la sua opera accessibile al grande pubblico, e firmava il libro con il suo nome. Risultato: nel 1668 fu imprigionato, si ammalò gravemente e il 5 ottobre del 1669 morì. Per Spinoza fu un colpo durissimo. Ma ciò non gli impedì di trattare in modo assai benevolo la città in cui tutto questo era accaduto.

Nadler sospetta che l'«elogio di Amsterdam» contenga, opportunamente dissimulata, «una buona dose di amara ironia». Più probabilmente si trattò di parole dettate dal calcolo, calcolo politico. Il filosofo, come Nadler ha ricostruito in un altro grande libro, Baruch Spinoza e l'Olanda del Seicento (Einaudi), era un estimatore del più grande statista dell'epoca, Johan de Witt.

Non è provato che i due abbiano avuto rapporti diretti (anche se il coevo Lucas sostiene di sì e lo stesso affermarono a fine Ottocento Jacob Freudenthal e, all'inizio del Novecento, Carl Gebhardt), ma tutti e due ebbero, scrive Nadler, «il privilegio di essere maltrattati e spergiurati dalle autorità religiose olandesi ed entrambi furono vilipesi e disprezzati dagli stessi nemici».

I democratici radicali come Spinoza e Koerbagh, radicalmente laici e difensori di una concezione più ampia della libertà, racconta Nadler, erano fermi oppositori degli «orangisti» e, a dispetto di non poche diversità di vedute, alleati naturali di de Witt.

Un nemico dell'uomo politico giunse addirittura a dire che si avvertiva la presenza di de Witt nella stesura del Trattato teologico-politico. E questo nella battaglia tra orangisti (sostenitori della causa di Guglielmo I), «voetiani» (seguaci di Gisbertus Voetius, grande oppositore di Cartesio, nemici di de Witt), «cocceiani» (discepoli del teologo di Leida Johannes Cocceius, amici di de Witt) e perfino «sociniani» (ultimi adepti di una setta fiorita in Polonia alla fine del Cinquecento sotto la guida del teologo Fausto Sozzini, che continuò a battersi contro il dogma della trinità anche nella prima metà del Seicento) fu un elemento di destabilizzazione.

Uno dei nemici di de Witt arrivò a denunciare che, tra i libri presenti nella biblioteca dell'uomo politico, figurava anche quel Trattato, «forgiato all'inferno (di qui il titolo del libro di Steven Nadler) dall'ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan (de Witt, ndr)».

Al punto che anche de Witt - come Hobbes e gli allievi di Descartes - si sentì in dovere di prendere le distanze dal Trattato. Sostiene Abraham Gronovius, ricercatore all'Università di Leida, che quando a Spinoza fu riferito che de Witt aveva gradito assai poco il Trattato, «egli inviò qualcuno da Sua Eccellenza per dirgli che voleva parlare con lui, ma gli fu risposto che Sua Eccellenza non voleva vederlo varcare la soglia di casa».

Nonostante ciò, il grande protagonista politico del «secolo d'oro olandese» non riuscì a salvarsi dagli odi che aveva accumulato per via del supposto rapporto con quel filosofo in odore di zolfo. Luigi XIV, re di Francia, fece il resto. Nell'aprile del 1672 dichiarò guerra alle Province Unite e il 23 giugno i francesi entravano a Utrecht. De Witt fu la principale vittima di quel disastro militare.

Fu accusato da pamphlet anonimi di «essere del tutto incompetente», di essersi messo in tasca parte dei fondi pubblici, di volere «vendere la Repubblica ai nemici, per continuare a governare su loro mandato». Il tutto accompagnato dalle consuete insinuazioni sui suoi rapporti con il «malvagio» autore del Trattato.

La notte del 21 giugno 1672 de Witt fu ferito in modo abbastanza grave da un gruppetto di giovani di buona famiglia. Il 23 luglio suo fratello, Cornelis, fu arrestato con l'accusa di cospirazione. E quando Cornelis, a fine agosto, uscì di prigione, una folla si impadronì dei fratelli de Witt, li uccise, denudò i cadaveri, li appese a testa in giù e poi squartò i loro corpi.

Spinoza ne fu sconvolto. Nel corso di un soggiorno all'Aja, quattro anni dopo, Gottfried Wilhelm Leibniz così annotò sul diario una visita al filosofo olandese: «Dopo cena, ho chiacchierato a lungo con Spinoza; mi ha raccontato che il giorno dell'orrenda uccisione dei de Witt voleva uscire di notte per andare a riporre una lapide sul luogo del massacro, con sopra scritto ultimi barbarorum (più o meno «i peggiori dei barbari», ndr); ma il suo padrone di casa era poi riuscito a impedirglielo, chiudendo la porta a chiave, per timore che anch'egli fosse fatto a pezzi».

Quelli erano i tempi. Del resto, osserva Nadler, «se la Repubblica delle Sette Province fosse stata davvero libera come Spinoza sembra voler far credere, non ci sarebbe stato alcun bisogno di scrivere il Trattato».

Trascorsero pochi mesi da quell'incontro con Leibniz, e Spinoza, uno dei più grandi filosofi della storia, morì. Aveva 44 anni. Le idee contenute nel Trattato, scrive Nadler, ispirarono rivoluzionari di fede repubblicana in Inghilterra, America e Francia. E, agli inizi dell'Età moderna, incoraggiarono la comparsa di movimenti contrari a una concezione settaria della religione che avrebbero cambiato la storia dell'umanità. Talché tutti dobbiamo in qualche modo considerarci eredi di quello scandaloso Trattato teologico-politico.

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