Giovanni Pascoli, o del Mistero svelato, di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /06 /2013 - 08:41 am | Permalink | Homepage
- Tag usati: ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 4/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (26/6/2013)

La vita

«Io sento che a lei [a mia madre] devo la mia abitudine contemplativa, cioè, qual ch’essa sia, la mia attitudine poetica. Non posso dimenticare certe sue silenziose meditazioni in qualche serata, dopo un lungo giorno di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul greppio: io appoggiava la testa sulle sue ginocchia. E così stavamo a sentir cantare i grilli e a veder soffiare i lampi di caldo all’orizzonte». Così scrive Giovanni Pascoli nella «Prefazione» ai Canti di Castelvecchio, raccolta dedicata alla madre Caterina Allocatelli Vincenzi, scomparsa nel 1868, quando Giovanni ha solo tredici anni.

L’anno prima, nel 1867, a soli dodici anni, Giovanni ha già perso il padre in una circostanza tragica (ucciso mentre ritorna a casa). La morte della madre, a detta del poeta, sarebbe dovuta al dolore insopportabile a seguito della scomparsa del marito. Segni indelebili di questi dolori e della nostalgia dei suoi cari compariranno in tutta la produzione pascoliana, in particolar modo in Myricae e nei Primi e nuovi poemetti.

Insegnante di Liceo e professore universitario, Pascoli cercherà di ricostituire il nido familiare nella casa di Castelvecchio di Barga assieme alle sorelle Ida e Maria: illusione che, presto, si rileverà vana. Allievo del Carducci all’università di Bologna, se ne discosterà sempre per toni e ispirazione fino a quando nel 1905 non subentrerà come titolare della cattedra di Letteratura italiana dell’Università di Bologna sostituendo quel maestro che aveva ricoperto la cattedra per quarant’anni.

A questo punto, come investito del ruolo di poeta vate, Pascoli muta toni e argomenti delle poesie, che si fanno più retoriche, tronfie. Questa è la produzione pascoliana meno sentita e sincera, quella, a buon diritto, meno apprezzata. Esemplificazione del nuovo ruolo di cui si sente investito Pascoli è il discorso che tiene, pochi mesi prima di morire, al Teatro comunale di Barga per parlare dell’impresa di Libia, discorso che viene poi pubblicato su «La Tribuna» del 27 novembre. A lui, poeta, è affidato il compito di spronare l’esercito nell’impresa. Certo, non si vuole qui riflettere sull’efficacia del discorso, né tantomeno sulla sua opportunità. Preme, invece, sottolineare il ruolo e la considerazione che aveva un poeta all’interno della società un secolo fa. Era il 21 novembre 1911. Neanche cinque mesi più tardi, il 6 aprile 1912, sarebbe morto quello che è considerato uno dei più grandi poeti italiani contemporanei.

La poesia

Di lui, di solito, si leggono e si studiano i componimenti legati alla morte del padre («X agosto», «La cavallina storna») o quelli che descrivono la campagna («Novembre», «Lavandare», «Arano», «L’assiuolo») o la natura («Temporale», «Tuono», «Lampo») o ancora quelli che vagheggiano la dimensione del ricordo dell’infanzia e della famiglia («L’aquilone», «Digitale purpurea», «Suor Virginia»).

La critica si è soffermata sul simbolismo e sull’impressionismo della sua scrittura (Romano Luperini) o sull’ibridismo del linguaggio pregramatticale (commisto di onomatopee come «fru fru fra le fratte») e di quello postgrammaticale (specialistico o gergale come nei versi «un ribatte la porca con sua marra paziente»). Ha rintracciato nella sua poesia i legami con il simbolismo francese della seconda metà dell’Ottocento e vi ha intravisto le anticipazioni di tanta produzione del ventesimo secolo. Non si contano i saggi di critica letteraria che hanno perlustrato la scrittura pascoliana da un punto di vista tecnico

Di rado, però, gli studiosi di Pascoli si soffermano sulla domanda religiosa che anima le sue raccolte. A scuola la situazione non è certo diversa. Quale studente ha potuto leggere poesie come «La felicità», «La grande aspirazione», «La vertigine», testi in cui l’uomo è descritto come desiderio e capacità di infinito? Chi ha sentito nominare quei componimenti in cui Pascoli palesa la sua fede e la sua esperienza di incontro con Cristo, ad esempio «L’angelus», «L’Avemaria» o la sezione dei Poemi conviviali «La buona novella»?

Pascoli riecheggia Leopardi non solo nel titolo di alcune poesie (si pensi a «Il passero solitario») o nella poetica della rimembranza (nella prefazione ai Primi poemetti Pascoli scrive: «Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo»), ma anche nella considerazione e nella stima dell’uomo come «capacità di infinito». A differenza della bestia, che si accontenta soltanto di soddisfare il bisogno fisico, l’uomo ha una «grande aspirazione», come recita il titolo di una bellissima poesia di Pascoli che scrive: «Un desiderio che non ha parole/v’urge, tra i ceppi della terra nera/e la raggiante libertà del sole.//Voi vi torcete come chi dispera,/alberi schiavi! Dispergendo al cielo/l’ombra de’ rami lenta e prigioniera,/e movendo con vane orme lo stelo/dentro la terra, sembra che v’accori/un desiderio senza fine anelo». L’uomo è come un albero, ben radicato alla terra, ma che vorrebbe avere le ali per volare e si protende, così, verso il cielo. Questa brama di conoscere e quest’aspirazione al cielo non possono rimanere senza risposta.

In maniera fantastica, ma, al contempo, icastica Pascoli rappresenta questa condizione esistenziale come una vertigine nell’omonima poesia appartenente ai Nuovi poemetti. Un bimbo che ha perso il senso di gravità guarda gli uomini e li vede «immersi nell’eterno vento». Per questo esclama: «Voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,/ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,/[…] pender giù nel vuoto». Il bimbo si sorprende della condizione dell’uomo che è «pendulo», proprio lui che si sente eretto. Così, perso il senso di gravità, cerca di aggrapparsi «a una rupe, a un albero, a uno stelo,/ a un filo d’erba, per l’orror del vano!// a un nulla, qui, per non cadere in cielo!». La notte accentua il desiderio del bimbo di sprofondare nel cielo fino a giungere al termine ultimo, al fine e al senso di tutto, fino a incontrare Dio. Un desiderio intensissimo di trovare un ubi consistam, un fondamento, o forse un’origine e un fine.

Così lo spiega Pascoli: «Veder d’attimo in attimo più chiare/le costellazioni, il firmamento/crescere sotto il mio precipitare!//precipitare languido, sgomento,/nullo, senza più peso e senza senso:/sprofondar d’un millennio ogni momento!/[…]/forse, giù giù, via via, sperar…che cosa?/La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,/io te, di nebulosa in nebulosa,//di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!».

La storia del pensiero e della cultura è questa ricerca inesausta di senso, che può essere rappresentata da un libro sul leggio di un terrazzo, sfogliato dal vento. Le pagine ad un certo punto si fermano come se fosse stato svelato il Mistero, poi ad un certo punto il vento riprende a rigirare le pagine, in eterno, alla ricerca della verità ancora non pienamente raggiunta. Pascoli descrive così la storia della ricerca umana nella poesia «Il libro». Breve, troppo breve è il viaggio dell’uomo, di quella che il filosofo Blaise Pascal chiama «canna pensante». Urge innanzi tutto una serietà nel nostro impegno nella realtà e con le nostre domande che non possono essere assopite.

Per Pascoli ogni uomo, oltre ad esigenza di infinito e di felicità, è anche urgenza di amore e di perdono, necessità di una presenza che accompagni la nostra vita. Nella poesia «I due orfani» appartenente a I primi poemetti Pascoli ci racconta di due bimbi che, una sera, spaventati per un temporale, nella loro camera non riescono a prendere sonno e cercano di farsi compagnia parlando e riempiendo il silenzio con le parole. Ogni rumore, anche il più impercettibile, provoca in loro una sensazione di pericolo. L’andamento narrativo, tipico della terzina dantesca, è qui sostituito dalla forma drammatica, cioè teatrale, nell’incalzare repentino delle domande e delle risposte. Ne nasce un rapido e serrato dialogo dal tono colloquiale. I due bimbi sono ora più buoni solo perché non hanno più nemmeno il coraggio di giocare e di litigare, ora che non ci sono più i genitori. I bimbi fanno i capricci perché sanno che c’è qualcuno che li ama e che è disposto a perdonarli e ad abbracciarli nonostante i loro difetti e i loro continui errori.

Ecco il dialogo finale dei due bimbi: «Ricordi? Allora non si stava in pace/tanto, tra noi…» «Noi siamo ora più buoni…»/ «ora che non c’è più chi si compiace //di noi…» «che non c’è più chi ci perdoni». Quando non c’è una presenza amorosa che lo abbracci e che gli voglia bene, l’uomo è incapace di affrontare la realtà, è preso dal dubbio e dalla paura, che può tramutarsi in angoscia. Perché l’uomo possa vivere con entusiasmo e con baldanza deve riconoscere una presenza buona che gli permetta di rialzarsi nonostante tutti gli errori che possa compiere.

Nella tradizione e nell’esperienza cristiana è la chiesa che tiene desto il senso religioso dell’uomo e che, nel contempo, è compagnia nelle gioie e nelle fatiche quotidiane, come si evince dalle poesia «Angelus», tratta dalla raccolta Primi e nuovi poemetti. È un Pascoli dalla fede certa, sconosciuto e poco letto. Pascoli nella sua opera non è testimone solo della domanda del cuore dell’uomo, ma anche della risposta che nella realtà e nella storia si è rivelata, quel mistero che è entrato nella storia e si è fatto carne attraverso il «sì» di Maria. Così la preghiera si fa invocazione che il lavoro umano, la fatica e la sofferenza non siano inutilmente spesi, che nel quotidiano si riveli ancora quel Mistero che da piccolo seme è cresciuto in pianta, da grumo di cellule è divenuto uomo, da un sì di una donna si è tradotto in un’umanità cambiata: «Tu che nascesti Dio dal piccolo Ave,/dalla sorrisa paroletta alata/(disse la voce tremolando grave)://[…] fa’ che non in vano/ nei duri solchi quella gente in riga/ semini il pane suo quotidïano».

Nella poesia «Il viatico», poi, Pascoli descrive un piccolo quadretto di campagna, una scena di vita di paese, animata dal suono delle campane a martello che chiamano la gente a pregare per un vecchio che sta morendo. Una processione avanza verso la sua casa, i bimbi cantano, il prete gli sta portando l’eucarestia. L’unica richiesta di questo vecchio è Cristo, presente nell’ostia. In quel breve attimo che lo separa dall’eternità ignota egli vuole essere accompagnato da Gesù. Non c’è nulla che si possa mettere da parte, che si possa portar via con sé nell’eternità. Negli ultimi istanti il vecchio «ancor cerca, ancor pensa/ al niente, al niente che gli occorre,/a un piccolo perché,/nel piccolo passo, ch’è un volo/ di mosca, ch’è un attimo solo…».

Pascoli vede nella situazione di quell’uomo la condizione di ciascuno di noi. Il desiderio che Gesù sia vicino e compagno nell’ora del trapasso è anche il suo. La compagnia dei credenti si presenta, così, nel suo compito di testimoniarci Gesù, di annunciarcelo e di «portarcelo» anche e soprattutto in punto di morte. Cristo è la rocca incrollabile, che non delude. Così il poeta esprime la sua speranza: «Quel giorno anche per me, campane,/ sonate pur così,/quel canto, in quell’ora, s’inalzi,/ portatemi, o piccoli scalzi,/ portatelo anche a me quel pane,/ sul vostro mezzodì».

[Brano proposto alla lettura]

«Il libro» dai Primi poemetti

I

Sopra il leggìo di quercia è nell’altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora,
esercitata dalla tramontana,
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch’uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d’un tratto…) sia venuto, e lento
sfogli – se n’ode il crepitar leggiero -
le carte. E l’uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero…

II

Un uomo è là, che sfoglia dalla prima
carta all’estrema, rapido, e pian piano
va, dall’estrema, a ritrovar la prima.
E poi nell’ira del cercar suo vano
volta i fragili fogli a venti, a trenta,
a cento, con l’impazïente mano.
E poi li volge a uno a uno,
lentamente, esitando; ma via via più forte,
più presto, i fogli contro i fogli avventa.
Sosta… Trovò? Non gemono le porte
più, tutto oscilla in un silenzio austero.
Legge?… Un istante; e volta le contorte
pagine, e torna ad inseguire il vero.

III

E sfoglia ancora; al vespro, che da nere
nubi rosseggia; tra un errar di tuoni,
tra un alïare come di chimere.
E sfoglia ancora, mentre i padiglioni
tumidi al vento l’ombra tende, e viene
con le deserte costellazïoni
la sacra notte. Ancora e sempre: bene
io n’odo il crepito arido tra canti
lunghi nel cielo come di sirene.
Sempre. Io lo sento, tra le voci erranti,
invisibile, là, come il pensiero,
che sfoglia, avanti indietro, indietro avanti,
sotto le stelle, il libro del mistero.

[...]