Pagine a prova di alunno: la Letteratura nelle scuole difficili (due esperienze, una provocazione), di Roberto Contu

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /12 /2014 - 15:14 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da un post su FB di Flavia Marcacci un articolo di Roberto Contu pubblicato il 19/12/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Letteratura e la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia

Il Centro culturale Gli scritti (21/12/2014)

Volavano le sedie

Sono entrato in classe per la prima volta a ventisei anni non compiuti. Venni chiamato ad inizio Ottobre per una supplenza (che poi durò tutto l’anno) in un IPSIA della provincia in cui vivo. Prima di entrare venni ricevuto in presidenza. Il dirigente ci tenne a ragguagliarmi sulla classe (si trattava di una prima), che pareva avesse già collezionato tre consigli straordinari. Erano le undici di giovedì mattina, dovevo fare due ore, la bidella mi portò al piano. Ricordo perfettamente l’istante successivo in cui ho aperto la porta dell’aula. Una sedia volava da una parte all’altra, lanciata da uno studente contro un altro che per un pelo riusciva a schivare il colpo. Dell’immediatamente dopo ricordo solo che mi limitai ad accompagnare in malo modo il lanciatore in presidenza, con tutta la classe urlante al seguito. Consegnato il reo tornai in aula.

Le due ore durarono un’eternità, l’unica domanda geniale che mi venne di fare fu chiedere (a parte i nomi) «ma voi sapete chi sono Renzo e Lucia?». Il caos fu notevole, poi finalmente suonò la seconda campanella. Tornai a casa abbattuto, varcata la soglia di casa confidai a mia moglie che probabilmente mi ero sbagliato, che il sogno che avevo covato fin dai tempi del Liceo forse non era quello giusto, che insomma forse non ero tagliato per fare l’insegnante, meglio la ricerca. Passai un intero pomeriggio nell’angoscia sul come affrontare le due ore del giorno dopo. In quel periodo avevo sul comodino le Opere di Beppe Fenoglio e per caso lessi prima di addormentarmi Il gorgo. Racconto brevissimo e fulmineo. Incipit folgorante. Tensione dalla prima all’ultima riga. Due personaggi che dipingono un mondo emotivo in poche sequenze, un finale profondamente poetico. Un barlume nello sconforto mi suggerì che la mattina dopo avrei letto Fenoglio, del resto non ci avrei messo troppo a fare le fotocopie per tutta la classe. La notte portò dunque consiglio e alle otto in punto entrai per la seconda volta in aula. Un po’ più motivato ma soprattutto con le mie venti fotocopie de Il gorgo in mano.

In effetti fu un salto dalle stalle alle stelle in meno di ventiquattro ore. All’inizio feci un po’ la voce grossa ma poi il racconto prese il sopravvento. L’incipit catturò la maggior parte degli studenti: «Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l'ultimo»[1]. Dissi loro che si trattava di un annuncio di morte, il padre si andava a suicidare perché non ce la faceva più a reggere la situazione, se l’avesse fatto o meno lo avremmo scoperto nel giro di poche righe, l’unica speranza era il figlio di nove anni. Il miracolo avvenne.

In un’ora lessi e commentai tutto il racconto. Divisi la narrazione in sequenze, intervallando la lettura con osservazioni che man mano scrivevo sulla lavagna e che loro iniziarono a copiare sul quaderno. Alla fine avevo avuto modo di parlare della guerra d’Abissinia, dell’indigenza durante il tempo di guerra, del dramma di una madre che prega perché la figlia muoia («ma lei durava, solo più grossa un dito e lamentandosi sempre come un'agnella»[2]).

Ma non solo, parlai del padre, del figlio, del tempo del racconto e del tempo della storia, della focalizzazione e dello stile paratattico. Addirittura ci fu un momento in cui osai il nome Bergson sulla lavagna, per dire loro quanto si era dilatato il tempo durante l’inseguimento del figlio sul padre. L’ultimo appunto riguardava la distinzione tra linguaggio denotativo e connotativo e il Belbo con quell’«acqua ferma che sembrava la pelle d'un serpente»[3] mi permise di sperticarmi sulle infinite possibilità di una penna che sa fare il suo mestiere.

Il tempo di chiudere l’analisi con il meraviglioso finale di ricomposizione sul pollice del padre ad accarezzare il figlio («ma leggero come una formica, tra i due nervi che abbiamo dietro il collo»[4]) e la classe, stremata da un’ora di silenzio riiniziò a fare baccano. Ma avevo incassato un primo risultato, loro mi guardavano con altri occhi e tornato a casa potei dire a mia moglie che forse avevo una chance. Era venerdì e io sarei tornato a scuola il lunedì successivo.

Naturalmente non mollai il mio salvatore delle Langhe, così dopo un fine settimana di letture e riletture decisi che mi sarei presentato in classe con il racconto Un altro muro, tratto da I ventitré giorni della città di Alba. Si tratta di un testo decisamente lungo, nonostante il paziente lavoro di editing non riuscii a ridurlo a meno di otto pagine, ancora non sapevo come avrei fatto a giustificare tutte quelle fotocopie, ma il gioco valeva la candela: se Il gorgo era una rasoiata narrativa, Un altro muro era un vero e proprio epos di tensione. Trama semplice, due partigiani, un badogliano (Max) e un garibaldino (Lancia) che vengono catturati, portati e poi messi al muro, entrambi per essere fucilati. Alla fine la scarica crivella solo Lancia perché Max era stato riscattato in un cambio di prigionieri, il tutto in una prosa che trasuda tensione dalla prima all’ultima riga[5]. Anche in questo caso la narrazione in classe funzionò, stesso metodo della lettura intervallata ad appunti e spiegazioni sulla lavagna (rigorosamente da copiare per tenerli impegnati anche fisicamente). Un altro muro durò per ben due lezioni e il relativo coinvolgimento della classe fu direttamente proporzionale alla crescita della mia autostima.

Terminato il racconto di Fenoglio, ormai convinto di aver liberato l’insegnante modello che da sempre abitava in me, il giovedì mattina volli osare. Durante gli anni universitari mi ero innamorato (complici le lezioni del prof. Giovanni Falaschi) della prosa visionaria de Le città invisibili. A una settimana dal mio esordio scolastico mi presentai in aula con questo passo:

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l'uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d'argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d'oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s'accorciano e le lampade multicolori s'accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh! gli viene da invidiare quelli che ora pensano d'aver già vissuto una sera uguale a questa e d'esser stati quella volta felici[6].

In meno di un quarto d’ora le sedie riiniziarono a volare e il caos in classe fu ben peggiore del primo giorno, una vera e propria apoteosi dell’ingovernabilità.

Ovvio.

A dire il vero l’esperienza fallimentare di provare a portare quella classe a Diomira fu più utile dell’aiuto fornitomi da Fenoglio. Capii all’istante che se avessi voluto fare letteratura in quella scuola (e io volevo fare Letteratura) avrei avuto bisogno di un certo tipo di letteratura. E la letteratura nelle scuole difficili era, per via del tutto empirica: paratattica, realistica, diretta, asciutta. I voli pindarici di Calvino non avevano cittadinanza in quel contesto.

L’anno scolastico andò avanti tra alti e bassi, io imparai molto sulle modalità di gestione della disciplina (credo che al di là di qualsiasi percorso formativo iniziale, ogni insegnante dovrebbe sperimentare ad inizio carriera almeno un anno in un istituto professionale), ma soprattutto lessi tanto in classe. Fenoglio, Calvino (ovviamente il primo Calvino, specie i racconti di Ultimo viene il corvo), Pavese, Hemingway. Boccaccio e Galileo, Manzoni e Nievo (ricordo un’ora perfetta sulla pagina in cui Carlino Altoviti vede, a nove anni, per la prima volta il mare[7]). Buzzati e Bilenchi, Tozzi e anche Pasolini.

Non fu solo la scelta delle pagine giuste però a salvarmi. Con il tempo, tra giornate in cui sognavo ad occhi aperti l’ultimo giorno di scuola e giornate in cui tornavo a casa ringalluzzito da una lezione indovinata, misi da parte tante constatazioni. In ordine sparso capii che i libri di testo (specie quelli del biennio) erano pieni zeppi di brani scelti dall’autore e non da me (riprova scottante fu il fiume di fotocopie che produssi).

Capii l’importanza di creare un proprio archivio letterario di testi «a prova di studente», in cartelle ad hoc nel mio pc, che tutt’ora a più di dieci anni di distanza ancora rimpinguo settimanalmente.

Capii l’importanza di leggere personalmente i testi in classe a voce alta: tra il sacrificio a lungo termine delle mie corde vocali e l’inefficacia assoluta del fare leggere gli studenti mi immolai alla prima opzione. Capii l’importanza non scontata di leggere e conoscere bene il testo prima di arrivare in classe.

Soprattutto capii la necessità lapalissiana di trovarci, io per primo, interesse e bellezza in quel testo, pena il fallimento scontato della prova dell’aula. Capii infine (ma in questo caso si tratta di un dato soggettivo) l’importanza di stare in piedi e dominare la situazione, la necessità di delimitare bene il setting di lavoro (orari, tempi di attività e tempi di pausa) e la centralità del saper dosare momenti di attenzione con momenti di uso della lavagna o di coinvolgimento attraverso il dialogo guidato.

Come spesso accade, pur non negando l’essenzialità di tutto il patrimonio formativo cui siamo debitori, era stata l’esperienza sul campo a darmi la prima e decisiva impronta dell’insegnante che sarei stato. Tale impronta, dal rischio di essere segnata inizialmente da una sediata in faccia, a conti fatti fu determinata proprio dalla possibilità della Letteratura, anche in un contesto dove nei primi istanti il solo pronunciare quella parola mi era sembrato oggettivamente folle.

Anche la poesia

Dopo qualche anno in scuole decisamente migliori (dove tutti si complimentavano con me per l’ottima gestione della disciplina, mentre a fronte di gruppi classe assolutamente più facili, ero semplicemente tarato a fuoco sul livello di un professionale), tornai nello stesso IPSIA del primo anno, questa volta assegnato ad una seconda. Nel biennio generalmente si affronta il testo in prosa nel primo anno e il testo poetico nel secondo. Mi trovavo dunque difronte alla sfida di provare a fare poesia in una classe dell’indirizzo meccanico, con la consapevolezza che alunni che avevano a che fare con tolleranze, bielle e fasature variabili, difficilmente si sarebbero inchinati alla lucente bellezza di qualche fulmineo distico.

Avendo avuto questa volta il privilegio di iniziare dal primo giorno di scuola e non di subentrare a programma avviato, potei pianificare la mia strategia didattica. Il libro di testo presentava un’impostazione che da subito mi parve discutibile, ma che di fatto ricalcava la falsariga di gran parte dei testi tutt’ora in commercio. Una parte iniziale di introduzione teorica (significato-significante, strutture, figure retoriche, metrica etc.) alcuni percorsi tematici trasversali ad epoche e letterature (amicizia-amore-adolescenza-dolore) e infine due monografie (Leopardi e Pascoli). L’idea di affrontare la poesia in quel contesto, partendo dalla distinzione significato-significante o dalla storiella del verso un tempo legato alla musica, rievocava all’istante in me i fantasmi di Diomira sotto un bombardamento di sedie. Decisi quindi che anche in questo caso la Letteratura mi sarebbe venuta in soccorso: per definire cosa fosse la poesia avrei letto ex abrupto poesia, nel caso specifico avrei letto Ungaretti per un mese di fila. Poi e solo poi avrei ricostruito un impianto teorico di riferimento.

La scelta fu dettata da un’idea che tutt’ora sostengo, non solo in ambito scolastico. La conoscenza dei meccanismi che reggono una qualsiasi forma di espressione letteraria o artistica, presuppongono il riconoscimento del valore e dell’interesse (mettiamoci pure della bellezza) di quel determinato linguaggio. Tale assunto banale a scuola viene sistematicamente disatteso. Si impara l’esametro e (forse) poi si legge Virgilio, si impara l’endecasillabo e (forse) poi si legge Leopardi, ci sfinisce sulla nascita della prosa e (forse) poi si legge Boccaccio.

In quel contesto non mi sarei potuto permettere tanto. La scelta di Ungaretti come Cicerone del linguaggio poetico fu dettata da diverse considerazioni. In primis l’oggettiva e da tutti conosciuta spendibilità de L’ allegria in ambito scolastico. La biografia e il contesto di riferimento (la trincea) di quelle poesie, facilmente arricchibili in senso trasversale (grazie all’approfondimento storico ma anche alla disponibilità di un ricco apparato multimediale sulla prima guerra mondiale) erano un valore aggiunto. Infine la presenza di due poesie (Il porto sepolto e Commiato) che nella breve misura risultano essere due veri e propri trattati sull’essenza stessa del linguaggio poetico:

Il porto sepolto

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta quel nulla
d’inesauribile segreto

Commiato

Locviza il 2 ottobre 1916

Gentile Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso

Proprio questi due testi fornirono alla mia classe le prime tre definizioni di poesia che appuntammo su lavagna e quaderno:

Che cos’è la poesia?

Per Ungaretti poesia è:

-quel nulla / d’inesauribile segreto

-è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola

-la limpida meraviglia / di un delirante fermento

Ungaretti ci diceva inoltre che la poesia è di tutti ma non è per tutti, che solo il poeta arriva nel mitico porto sepolto e la porta a galla, (Vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti / e li disperde[8]), che quando ci riesce il peso della parola è enorme (Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso[9]). La classe rispose, in modo chiassoso ma rispose. A posteriori ripenso a quell’ora passata a discutere sulla poesia come un delirante fermento: continuo ad essere convinto di come sia stato più efficace e produttivo del partire dalla canonica distinzione significante/significato.

Nei giorni successivi lessi, commentai e analizzai I fiumi, che mi servì per raccontare la vita e le vicende del poeta. Lessi commentai e analizzai Soldati, San Martino del Carso, Sono una creatura, Veglia, Allegria di naufragi, Fratelli, Risvegli. Lessi commentai e analizzai In memoria e posso testimoniare come in una classe dove il numero di studenti stranieri era molto alto, la riflessione poetica sulla vicenda di Moammed Sceab fu forse il più efficace tra i tanti progetti sull’integrazione che poi a scuola negli anni mi sarei trovato a gestire (Fu Marcel / ma non era Francese / e non sapeva più vivere / nella tenda dei suoi / dove si ascolta la cantilena / del Corano / gustando un caffè / E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono[10]).

Alla fine di quel mese in balìa dei versi di Ungaretti, senza mai pronunciare le parole metafora, analogia, enjambement, distico, mi ritrovai con una classe acclimatata (non oso dire appassionata, ma di certo incuriosita) al linguaggio poetico. Solo a questo punto introdussi un primo gruppo di lezioni (tre unità da un’ora ciascuna sul piano del significante e del significato: verso, scelte fonetiche, rime, scelte lessicali, parole chiave, concetti chiave) in cui ricomposi in un quadro di riferimento teorico quanto letto. Decisi anche che per tutto l’anno avrei svolto monografie di poeti della nostra letteratura, intervallate da approfondimenti metodologici.

Nel documento di fine anno del programma svolto, ritrovo che in quell’anno lessi, commentai ed analizzai (oltre ad Ungaretti) testi di Cavalcanti (Voi che per li occhi mi passaste 'l core; Perch'io non spero di tornar giammai), di Petrarca (Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono; Solo et pensoso i più diserti campi; Erano i capei d'oro a l'aura sparsi; Pace non trovo, et non ò da far guerra; O cameretta che già fosti un porto; La vita fugge, et non s'arresta una hora), di Leopardi (L’infinito; A Silvia; Le ricordanze; Il passero solitario; Il sabato del villaggio; Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), di Saba (Amai; A mia moglie; Mio padre è stato per me l’assassino; Ulisse; La capra; Tre poesie alla mia balia; Goal). Tra un autore e l’altro inserii le altre unità di apprendimento teoriche (metrica: versificazione italiana e figure metriche. Accenti ritmici, tipi di rime, le strofe e i componimenti metrici. Figure retoriche, significato e utilizzi).

Volutamente scelsi solo autori della Letteratura italiana e previsti dal programma del triennio. In parte ciò si discosta da quanto si registra nella maggior parte dei testi del biennio in commercio, dove sono presenti spesso autori di altre letterature in traduzione, oltre ad altri generi espressivi (ultimamente sono sempre più presenti testi di canzoni della musica leggera
contemporanea). La scelta di utilizzare autori poi in programma nel triennio ha avuto a che fare con ragioni pratiche di ottimizzazione del lavoro in senso verticale. La scelta di utilizzare solo autori della nostra letteratura ha avuto a che fare con la persuasione sulla bontà di spendere l’anno (dei cinque) più incentrato sul testo poetico sulla nostra tradizione letteraria, per poi lasciare più spazio nel triennio ad un approccio più comparatista.

Anche in questa seconda esperienza dunque fu la prova sul campo ad indicarmi una strada produttiva per fare Letteratura in un contesto problematico. Il bilancio era stato positivo e oggi, a distanza d’anni, legato al ricordo di una verifica orale fatta a maggio ad uno degli alunni più problematici. Alban, in un Italiano stentato (era di origine albanese), colse brillantemente uno a uno tutti i concetti chiave della poesia I fiumi e terminò dicendo che «sta poesia è davero bela».

In piccolo avevo sentito di aver vinto.

Provocare il canone

In dodici anni di carriera scolastica (dieci da precario, gli ultimi due finalmente di ruolo) ho dovuto cambiare ogni anno scuola, sede, classi. Se per un verso ciò ha generato la fatica costante di dover sempre ripartire da zero (rinunciando soprattutto al valore prezioso della continuità didattica), da un altro punto di vista mi ha permesso di fare esperienza di situazioni estremamente eterogenee (ho insegnato dagli Istituti professionali ai Licei), territori diversi, organizzazioni scolastiche spesso del tutto differenti da un anno all’altro. Soprattutto ho avuto modo di sperimentare in classe tutta la Letteratura italiana dalle origini ai giorni nostri. Da ciò sono derivate anche una serie di considerazioni personali che hanno a che fare con la spendibilità del nostro canone letterario nella scuola d’oggi.

Mi spiego. Nei primi anni in cui ho fatto l’insegnante sono entrato in aula con un bagaglio di autori e pagine per me imprescindibili e derivanti dalla mia formazione liceale e poi universitaria. Alla prova della classe ho sperimentato però, specie nelle scuole difficili, come tale dato di fatto (chi metterebbe in discussione Leopardi o Manzoni) non lo fosse altrettanto dal punto di vista di certi studenti. Il fatto è che ogni anno sempre di più, gli studenti se leggono gli autori, li leggono non in sé ma per sé.

Si potrebbe obbiettare che tale prerogativa ci sia sempre stata. In realtà mentre in un passato nel quale anche io mi metto, la tradizione per quanto indigesta era comunque incontestabile, oggi credo che qualcosa sia cambiato. Per gli studenti non esiste alcun autore dovuto. Il fine di tale riflessione non arriva ovviamente e semplicisticamente alla necessità di piegare la scuola alle preferenze degli studenti (arriveremmo a sostituire Dante con i manga o Foscolo con Wu Ming), ci mancherebbe. Ammetto però che ad un certo punto, io stesso mi sono trovato più volte, nel procinto di presentare un’opera o un autore, a intuire con largo anticipo chi o cosa avrebbe funzionato e chi o cosa avrebbe miseramente fallito. E non solo per il livello sempre peggiore degli studenti.

La domanda impertinente e provocatoria che a un certo punto mi sono posto è stata invece questa: ma quest’opera o quest’autore falliscono in classe perché ho difronte un’accolita di «trogloditi analfabeti»[11] o forse quest’opera o quest’autore, nonostante i «trogloditi analfabeti», mostrano irrimediabilmente il fiato corto per l’epoca e per la sensibilità attuale? Nella libertà del contesto scolastico la prova degli alunni, anzi dei peggiori alunni, mi ha permesso quindi di violare un tabù inviolabile in sede accademica: mettere sotto processo i classici per appurare l’odierno grado di tenuta. Tenendo conto che il metodo adottato è stato appunto quello di registrare gli esiti di dodici anni di sperimentazione sul campo (con un’attenzione particolare alle scuole peggiori), i risultati sono stati interessanti per quanto ovviamente del tutto soggettivi.

Li elenco sinteticamente.

Partendo dal basso l’amore di lontano dei trovatori regge ancora, i ragazzi del mondo social si identificano alla grande nelle pene d’amore vissute nell’assenza. Jacopone vince su San Francesco. Il Dolce Stil novo regge abbastanza, ma solo perché regge Cavalcanti, di gran lunga più persuasivo nei suoi picchi in alto e in basso rispetto al tiepido Guinizzelli. Ovviamente regge la poesia comico-realistica come regge tutta la cultura del carnevale. La vita nuova è in grandissima ascesa specie se legato al progetto della Commedia. La tenzone con Forese Donati non regge, di più: «spacca» mi ha detto un alunno quest’anno. La Commedia è vittoria sicura in ogni dove in ogni come, soprattutto se si ha il coraggio di puntare su un aspetto che ho sperimentato essere decisivo: la fidelizzazione alla storia, ovvero provare a leggere l’opera senza saltare nulla, per quanto possibile.

Questa idea che sembra folle rispetto ai tempi scolastici è in realtà fattibile in una programmazione liceale dove gli ultimi tre anni coincidono con le tre cantiche: se si sacrifica un po’ l’esegesi del testo e si punta di più sullo sviluppo narrativo, è possibile arrivare a fine anno con un buon numero di canti letti. Tre anni fa, per fare un esempio, lessi i primi diciassette canti dell’Inferno per intero, poi ovviamente il XXVI e il XXXIII per un totale di diciannove canti. La ratio di tale scelta sta nella constatazione sperimentata in classe che gli alunni (come chiunque del resto) tendono ad appassionarsi alle storie se
sviluppate nel loro continuum originale. Ho avuto modo di constatare tale evidenza anche con I promessi sposi che possono essere sviluppati (per quanto sempre più messi nell’angolo) nei primi due anni
. Posso testimoniare come, se opportunamente ripulita di qualche digressione storica di troppo e letta settimanalmente e sistematicamente, la storia di Renzo e Lucia possa diventare la carta in più per catturare l’interesse anche dei più recalcitranti. A ciò aggiungo l’ampio spazio che il romanzo fornisce per introdurre tutte le alchimie narratologiche di cui noi insegnanti sembriamo proprio non riuscire a fare a meno: dalla focalizzazione alla fabula e l’intreccio, dal tempo del racconto al tempo della storia, dal sistema dei personaggi ai registri narrativi, I promessi sposi restano un ottimo laboratorio per fare narratologia.

Tornando ai promossi e ai bocciati, Il Convivio a sorpresa regge (l’introduzione soprattutto), Petrarca regge alla grande soprattutto se introdotto con il Secretum e le epistole, per poi sciorinare tutti i sonetti possibili che testimoniano sistematicamente la modernità della sensibilità petrarchesca. Boccaccio regge ma se si supera lo scoglio della lingua (ma ci sono Chiara, Pitzorno e Busi al nostro fianco), Ariosto ahimè regge poco nonostante io ne sia innamorato. Il grado di proliferazione della fantasia ariostesca paradossalmente spiazza le intelligenze paratattiche delle nuove generazioni. Molto meglio certi notturni del Tasso (Tancredi e Clorinda su tutti e mai come in questo caso ci sembra si rinverdire l’antichissima polemica). Machiavelli funziona per parlare della politica oggi. Galileo regge (spicca la conclusione della prima giornata del Dialogo). Il Barocco crolla, Foscolo traballa, i Sepolcri andrebbero seppelliti. Ortis no, soprattutto se rinvigorito con Werther. Alfieri ha molte cartucce in canna nella Vita.

Dato degli ultimissimi anni, horribile dictu, Leopardi crolla. Nelle scuole difficili crolla. Qualcuno smetterà a questo punto di leggere, ma non posso non registrare come (mio malgrado e malgrado tutti i miei sforzi) ogni anno che passa non ci sia nessun notturno della ginestra, ansia dell’infinito a suon di domande di senso o paesaggio lunare che tenga. Fatta eccezione per qualche sensazione da sabato del villaggio, la maggior parte degli studenti maltollera il monolitico pessimismo leopardiano.

Manzoni si salva invece. Un po’ per quanto detto sulla opportunità dei primi due anni, un po’ per l’ironia e la leggerezza della prosa, Manzoni si salva. Verga patisce la difficoltà della lingua, il Verismo viene meglio se reso più estremo con un’iniezione di De Roberto. D’Annunzio parte in quinta con la vita ma si affloscia immediatamente sulle opere, fatta eccezione per qualche pagina del Notturno.

Pascoli viene bollato senza complimenti dagli studenti come «uno strano» (per dirla bene) un secondo dopo il racconto della vita e la lettura de Il gelsomino notturno (per non parlare di Digitale purpurea). Pirandello e Svevo sono indistruttibili: la maschera e l’inetto attecchiscono ogni anno come piante rampicanti. Montale si fa a fatica ma se riesce si toccano vette di gratificazione e di coinvolgimento della classe davvero d’altri tempi. Saba funziona benissimo, di Ungaretti si è già detto, una garanzia. Calvino come detto regge fino al 1963 (La giornata di uno scrutatore, dopo sono lacrime e sangue), Pasolini è sempre di più un cavallo di battaglia (soprattutto il periodo corsaro), Primo Levi trema in modo preoccupante sotto certo abuso scolastico della giornata della memoria. Mi posso fermare qui.

Questa carrellata, discutibile, avrà sicuramente fatto sobbalzare più d’una volta il lettore. Ma è la riprova di quanto effettivamente dare in pasto la Letteratura al vaglio “selvaggio” degli studenti sia destabilizzante. Qualcuno concorderà, qualcuno inorridirà, qualcuno conterà gli assenti illustri, qualcun altro semplicemente contesterà il metodo. Certo, lo sappiamo tutti che alla fine ciò che conta è la qualità delle lezioni. Un mio caro amico sostiene (a ragione) che un bravo insegnante potrebbe farne una geniale sulla storia del ferro da stiro, sulla metrica o sui biscotti in Jack Frusciante. Ad aggravare la mia posizione va detto anche che con l’idea di mettere in crisi il canone sotto le randellate degli studenti, mi sono ritrovato comunque a fornire un canone, quello degli autori che per mia esperienza funzionano in classe. Canone eterodosso ma pur sempre un canone. Quindi, si declassi pure quella che ho intitolato come provocazione a gioco di circostanza. Ma mi si consenta di tenere per buono un dato.

Canone o non canone, la scuola chiamerà sempre a rapporto la Letteratura sulla necessità di farsi materia viva, pena la palude dell’incomunicabilità. Gli studenti avranno sempre e sicuramente meno rispetto di noi docenti verso gli autori che abbiamo amato e ai quali abbiamo deciso di dedicare un’intera vita lavorativa e non solo. Proprio per questo forse solo loro saranno ancora in grado di reclamare, da quegli stessi autori, quella parola «che squadri da ogni lato l'animo nostro informe».

Note al testo

[1] B. FENOGLIO, Il gorgo, in Opere, edizione critica di Maria Corti, vol. III, Einaudi, Torino 1978, p. 7.

[2] Ibid.

[3] Ivi, p. 8.

[4] Ivi, p. 9.

[5] «Max allargò un gomito a toccar Lancia, ma non ci arrivava, vide soltanto con la coda dell'occhio la nebbietta che faceva nell'aria l'ultimo fiato di Lancia. Si concentrò a fissare un segno rosso nel muro, una scrostatura che denudava il mattone rosso vivo tra il grigio vecchio e sporco dell'intonaco. Decise di fissare quel segno rosso fino alla fine. Dietro c'era assoluto silenzio. Le ginocchia gli si sciolsero, ma il segno rosso rimaneva all'altezza dei suoi occhi. Senti il rumore della fine del mondo e tutti i capelli gli si rizzarono in testa. Qualcosa al suo fianco si torse e andò giù morbidamente. Lui era in piedi, e la sua schiena era certamente intatta, l'orina gli irrorava le cosce, calda tanto da farlo quasi uscir di sentimento. Ma non svenne e sospirò: - Avanti! Non seppe quanto aspettò, poi riapri gli occhi e guardò basso da una parte. Rivoletti di sangue correvano diramandosi verso le sue scarpe, ma prima d'arrivarci si rapprendevano sul terreno gelato. Risali adagio il corso di quel sangue ed alla fine vide Lancia a terra, preciso come l'aveva visto dormire la notte in cella. Vide la mascella di Lancia muoversi un'ultima volta, come la mascella di chi mastica nel sonno, ma doveva essere un abbaglio della sua vista folle. Si voltò. I soldati alzarono gli occhi da Lancia per posarli su lui. Lo stesso fece il borghese, che stava tutto solo da una parte, finiva di riabbottonarsi l'impermeabile e l'arma non era più visibile tra le sue mani. A una voce del borghese i soldati si riscossero, vennero a prenderlo per le braccia e se lo misero in mezzo. Ripartivano, si lasciarono alle spalle quel muro, s'indirizzavano alla città. I soldati avevano preso un tranquillo passo di strada e giravano spesso gli occhi verso la faccia di Max. Lui cercò con lo sguardo il borghese: era rimasto indietro per accendersi una sigaretta, ora li raggiungeva tirando le prime bocca te. Tra il fumo lo fissò con gli occhi grigi e gli disse: Questo ti serva di lezione per quando sarai di nuovo libero. T'hanno fatto il cambio, fin da ieri sera è arrivato un prete dalle colline a proporcelo». ID., I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino 2006, pp. 90-91.

[6] I. CALVINO, Le città invisibili, in Romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Vol. II, I Meridiani, Mondadori, Milano 1992, p 362.

[7] I. NIEVO, Le confessioni di un italiano, vol. I, BUR, Milano 1989, pp. 96-98.

[8] G. UNGARETTI, Il porto sepolto, in Vita d’un uomo, a cura e con un saggio di Carlo Ossola, I Meridiani, Mondadori, Milano 2009, p. 61.

[9] Ivi, p. 96.

[10] Ivi, p. 59.

[11] L’epiteto non è mio ma del collega disilluso e a fine carriera di turno, che ogni scuola che si rispetti vede da sempre circolare in aula insegnanti.