«Lo studente che sta lì solo a scaldare il banco perché non si interessa che di belle donne e di sport mi è sempre stato particolarmente simpatico. Non perché non studia, il che non sarebbe che una qualità negativa, ma perché è vicino al termosifone: ha il gusto del calore concreto, non vuole essere comprato con le parole. La sua sonnolenza è una richiesta. Dinanzi a lui si deve porre la domanda: Che cos’è la verità?». Appunti di Andrea Lonardo su di un intervento di Fabrice Hadjadj

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /03 /2015 - 14:24 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori scritti di e su Fabrice Hadjadj, vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (22/3/2015)

Per rispondere alla domanda Che cos’è la verità?, F. Hadjadj ritiene che non ci sia risposta migliore che quella che interesserebbe lo studente scanzonato che non vuole studiare e che è solo interessato alle belle donne e al calcio[1]:

«Di primo acchito, sa di lezione di filosofia: «Che cos'è la verità?». La domanda è molto astratta, e sento già l'allievo in fondo alla classe dire che il professore ricomincia a spaccare il capello in quattro. E io voglio proprio dare ragione a quest'allievo. Voglio proprio sentire, per cominciare, la richiesta dello scaldabanchi. Lo scaldabanchi mi è sempre stato particolarmente simpatico. Non perché non è «scolastico», il che non sarebbe che una qualità negativa, ma perché è vicino al termosifone: ha il gusto del calore concreto, non vuole essere comprato con le parole. La sua sonnolenza è una richiesta. Il suo zero spaccato ci conduce a qualsiasi numerazione.

In fondo, all'ultimo banco, con la sua inclassificabile inerzia, lo scaldabanchi va più lontano di tutti gli altri. Quando gli si domanda: «Che cos'è?», egli risponde alzando le spalle: «Che cos'è questo che cos'è?». Sottraendosi alla domanda, interroga la domanda stessa. Con il suo rifiuto, esige che gli si fornisca non soltanto il perché, ma il perché del perché, il «che cos'è» del quid. Un «causeur» ... che ci porta verso la causa delle cause. E questo non in maniera teorica, ma in maniera concreta, materiale, pesante.

Dico «pesante» e non viva, perché la sua concretezza, lo riconosco, non è tanto legata all'assiduità vivace quanto all'assegnazione di una palla al piede. Di questo perché del perché non ne sente l'esigenza, poiché ha la testa fra le nuvole, si concentra sulle boccacce - invece che su Boccaccio -, sonnecchia, chiacchiera o disegna nel suo angolino. E, tuttavia, egli è questa esigenza, lo è proprio nella misura in cui non ce l'ha, e sta a noi, di conseguenza, averla per lui. In realtà, colui che pone le domande è il primo della classe, non lo scaldabanchi. Per il primo della classe la domanda scolastica va da sé; per lo scaldabanchi non significa niente. Ora, appunto, non ponendosi domande ma disponendosi pesantemente sulla sedia, lo scaldabanchi conduce al di qua o al di là dell' ambito scolastico e diventa fonte di domande per il suo insegnante.

Come fare affinché la lezione di filosofia coinvolga tanto quanto il campo da calcio? In che modo far risuonare la domanda «che cos'è la verità?» affinché essa diventi interessante almeno quanto quest'altra domanda: «Chi è quella bella ragazza di seconda con il piercing alla narice destra?». Ecco un interrogativo profondo. Sembra che impedisca la riflessione filosofica. In realtà, la introduce. Esso, infatti, si trova all'origine stessa della filosofia - per lo meno, prima che questa fosse sequestrata da procedure universitarie.

La filosofia è essenzialmente una disciplina da cattivo alunno. È come la giudicava l'Areopago quando accusava Socrate di corrompere i giovani. E, in realtà, secondo Socrate o Platone (nel Simposio, per esempio, o nel Fedro), la filosofia non si scopre inizialmente nei libri, ma nell'incontro con un bel corpo. Georges Bataille si fa eco di questa tradizione quando dichiara: «Penso allo stesso modo in cui una ragazza si toglie il vestito». E, nella seconda strofa della sua poesia intitolata proprio Socrate e Alcibiade, Holderlin non ha paura di cantare:

Chi ha pensato a ciò che è più profondo ama ciò che è più vivo. Nobile giovinezza intende, chi ha gettato lo sguardo dentro il mondo. E i saggi propendono molte volte al Bello, alla fine.

Questo canto ci porta a radicalizzare la domanda dello scaldabanchi e la sua preferenza per la signorina della seconda superiore: la vertigine davanti alla bellezza degli esseri non si colloca soltanto all'inizio, ma anche al termine della filosofia. La fine ritrova l'origine. Ma quest'incontro non è un ritorno alla casella di partenza. Lo spirito della «prima giovinezza» non è regressione puerile o adolescenziale. In effetti, la ragazza non colpisce più il saggio in maniera superficiale o epidermica, ma «nella parte più profonda».

Così è con la massima serietà che devo chiedermi comicamente: in che modo rendere il pensiero più vivo di una partita di calcio e forte come una bella donna? Ed ecco già una verità che si profila ancor prima della risposta alla nostra domanda. Ne abbiamo l'intuizione, come lo scaldabanchi che fa della metafisica senza saperlo: bisognerebbe che la domanda prendesse vita, che il Logos si facesse carne o che la Verità fosse una Persona, una Persona bella almeno quanto la graziosa ragazza di seconda superiore con il piercing alla narice destra o, meglio ancora, che questa Persona fosse il principio stesso della bella ragazza e di tutte le altre, ornata di piercing ancora più sconcertanti …»

L’occasione per queste affermazioni è la disputatio che si è tenuta nella cattedrale di Rouen in Francia il 4 giugno 2010 fra Fabrice Hadjadj appunto ed il pensatore buddista Fabrice Midal, in un incontro organizzato dalla diocesi francese e coordinato dal vicario generale di Rouen, Philippe Maheut (tutti gli interventi sono editi in F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011.

Hadjadj prosegue affermando che la verità fa male. Non è un discorso da salotto, perché, impietosamente, non può che svelare le zone d’ombra dell’esistenza umana superficiale ed inautentica[2]:  

«Mi è stata chiesta la verità. Bisogna ben che la dica. È normale che faccia male. È normale che la sua splendida luce non illumini soltanto ciò che è rilucente. Forse veniamo qui come dei consumatori, e intendiamo andarcene con il massaggio di un gentile messaggio, ma soprattutto niente che sia come i raggi X che rivelerebbero in noi il tumore del midollo ... Sant'Agostino lo diceva: «Gli uomini amano la verità allorché si rivela, e l'odiano allorché li rivela».

Oh meravigliosa luce! Oh sublime luminosità! Che bella la rossa! Che bella quella blu! Ma che i fuochi d'artificio si fermino, si puntino i riflettori sulle nostre turpitudini, che la verità riporti alla luce la parte meno bella del nostro cuore, ed è finita con gli «oh!» e gli «ah»! Sono piuttosto dei «puah», degli «uh», dei «boh». Che la Bella vada a rivestirsi! In caso contrario, potrebbe essere lapidata ...

Ed eccoci di nuovo, prima ancora di esserci avvicinati alla risposta, a fare una seconda scoperta: quando la Verità sarà diventata carne appetitosa, è probabile che, dopo essere stati stuzzicati dai suoi primi fru fru, cercheremo di metterla a morte, perché la sua luce, che ci attraeva quando essa illuminava il mondo, ci spaventerà nel momento in cui smaschererà i nostri lati oscuri».

Parlare di verità vuol dire domandare se si può essere felici e se, poiché ciò è necessario per esserlo, se si può vincere la morte. Non si può sorvolare su questi due temi politicamente scorretti che sono la felicità e il morire[3]:

«La verità è che noi siamo qui, io, Fabrice Hadjadj, voi, che mi sentite, che mi ascoltate forse, con quel maledetto desiderio di beatitudine nelle viscere e, al tempo stesso, la paura terribile di fronte alla morte, e poi quella vergogna nei confronti della nostra mediocrità, forse anche quell'amarezza davanti ai nostri sogni di bambino infranti in mille pezzi, oppure quel lutto di una persona cara che nulla può sostituire. Sì, prima di essere i «disputatori» e gli uditori di una dottrina, siamo tutti protagonisti di un dramma, nella stessa barca, negli stessi guai. In modo che, per sentire bene la domanda «che cos'è la verità?», bisogna ricavarla dai libri e dalle conferenze, e rimetterla al centro di tale dramma.

Questa evidenza, l'evidenza della nostra situazione reale come dramatis personae, «protagonisti di un dramma», implica due osservazioni, a seconda che si insista sul termine «dramma» o sul termine «protagonista». La prima, relativa al dramma, è che la verità rinvia necessariamente a questo duplice fine: il fine in quanto scopo, e si tratta della felicità o della beatitudine, e la fine come termine, e si tratta della morte fisica o morale.

Se prendo come esempio il mio scaldabanchi che si interessa più alla coppa del mondo che a quella della salvezza, posso rivolgergli la domanda: «Tu vuoi che la tua squadra segni un goal o vada in meta. Finalmente! Ma qual è la meta della meta?». Perché dev'esserci una meta delle mete, come c'è un Cantico dei Cantici, ed è proprio quello che si chiama in sordina felicità. Non la contentezza, non la piccola soddisfazione a buon mercato, non mangiare patatine e sorseggiare Pastis mentre si guarda solennemente una trasmissione sulla seconda guerra mondiale o sul futuro del patto repubblicano, no, ma qualcosa che provochi lo sfolgorio di tutto l'essere, la gioia traboccante e contagiosa, simile a quella dei bambini piccoli quando si mettono a ridere con tutto il corpo e tutta l'anima tanto da far sciogliere il ghiaccio dei nostri cuori.

E, nello stesso tempo, questa meta delle mete sembra contraddetta da un grande cartellino rosso, che è anche un velo nero o un sudario bianco: il nostro desiderio di gioia cozza contro l'imminenza della morte. Ed è questo a essere straziante. Prova ne è che l'angoscia davanti alla morte aumenta contemporaneamente alle gioie terrene. Più provo gioia nel tenere Élisabeth tra le braccia (Élisabeth è la mia quarta figlia), più ho anche l'angoscia di perderla.

In questo mondo non dovrei tenere a niente in modo che la morte non riesca a raggiungere la mia anima: essa raggiungerebbe soltanto la mia prostata o il mio cervello. Da qui la strategia di certe saggezze vecchie come il mondo: il distacco. Non ci si attacca a niente per non esserne privati. Si fa il morto per non sentire la morsa della morte. Ma perdere l'angoscia di fronte alla morte implica l'aver perso la meraviglia di fronte alla vita. Perché è solo nella misura in cui mi meraviglio ancora di fronte alla vita, quella di Jacob  (Jacob è mio figlio), o persino quella di Françoise (questa volta è mia suocera), che la morte, in quanto mi priva di questa vita che amo, può apparirmi angosciante. Ed è perché l’angoscia di fronte alla morte non è l’amore fondamentale per l’esistenza, ma innanzitutto, a un livello più profondo, la meraviglia di fronte alla vita».

Non si può raggiungere una felicità che superi lo scorrere del tempo e gli dia significato se non attraversando il dolore del morire,

«Perché per fare un buon risorto, vi ricordo, bisogno essere innanzitutto un cattivo morto…»[4].

Dinanzi ad ogni generico amore per l’umanità e dinanzi al buddismo che evita di insistere sull’unicità della persona, Hadjadj ricorda che conta solo il singolo[5]:

«Non dovrei dire l'uomo, che è già una generalizzazione pericolosa. Il filantropo ama l'uomo, manda un grosso assegno all' associazione di beneficenza Coscienza Tranquilla (deducibile dalle tasse) e per questo può ignorare il prossimo che si trova di fronte. Anche il totalitarismo ama l'uomo, intende persino realizzare per lui il paradiso in terra: società senza classi, Reich millenario, planning familiare, e per questo può eliminare il tal dei tali come un parassita. Non si tratta dell'uomo, ma di Robert, Corinne, Fatima, Chögyam o anche Fabrice. Questa è la realtà, benché la Verità non solo non sappia ignorare la diversità dei volti, ma non possa che operare per il loro amore e la loro comunione. Non è tanto nella guida che fornisce notizie generiche, quanto piuttosto nella festa che riunisce invitati di ogni lingua, popolo e nazione».

Proprio il cristianesimo rifiuta una verità generica, astratta e disincarnata, perché sa che la persona di Cristo, proprio quella concretissima persona, è la verità: chi è dalla verità lo ascolta[6]:

«Un'altra osservazione importante. Nel seguito della sua risposta alla domanda «sei tu re?», e quindi poco prima che arrivi la domanda «che cos'è la verità?», Cristo opera un rovesciamento completo dei valori. Infatti, ci si aspetterebbe che dicesse: «Chiunque ascolti la mia voce è verità». Non è forse quello che dicono i nostri catechisti moralizzatori? «Ascolta quello che ti dice Gesù e sarai nel vero».

Ma Gesù dice l'opposto: «Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce». Questo significa, da un lato, che si possono sentire i comandamenti di Dio, e persino obbedire a essi, senza che siano verità, e quindi senza ascoltare la voce di Gesù. È il caso dei demoni. I demoni possono dire la verità, come a Cafarnao: «Io so chi sei: il Santo di Dio!» (Mc 1,24). E possono anche ubbidire a Dio, quando fuggono su suo ordine: «Sta' zitto ed esci da costui!» (Mc 1,25). Tuttavia, anche se la loro frase è veritiera, non proviene dalla verità ma dall'arroganza dell'orgoglio. E, anche se la loro obbedienza è sollecita, non proviene dall'amore ma dalla sottomissione al più forte. Essi si sottomettono all'ordine, non ascoltano una voce.

D'altra parte, è ciò che questa parola significa: la verità non si compie in un sistema disincarnato, ma nell'ascolto di una voce. Non si tratta di ascoltare soltanto per sottomettersi a un ordine, ma di ascoltare la voce di per sé, come si ascolta quella di un cantante e, ancor di più, come si ascolta quella dell'amato. La voce è una parola fatta carne ed è l'espressione di una persona. Ho parlato poco fa dei volti, ma avrei potuto parlare delle voci.

Nella verità, la voce è soltanto il veicolo di un'idea o il legante di un segno. L'opposto, in effetti, è più vero ancora: l'idea esiste solo per farci comprendere il tratto insostituibile di ogni voce e spingerci ad accoglierla nella corale immensa di coloro che ascoltano la voce del Verbo incarnato come quella di direttore di coro e dell’amico del cuore.

Terza e ultima osservazione. Proprio mentre egli ha detto di venire nel mondo per testimoniare della verità, quando Pilato gli domanda: «Che cos'è la verità?», Gesù non risponde. Eppure era il momento giusto. L'occasione sognata di rendere una testimonianza di quelle che si sentono di solito: una sorta di lungo discorso autobiografico, con aneddoti commoventi, uscite dal tunnel verso la luce, epiloghi da success story. Così come poteva convocare uno stuolo di angeli per farsi difendere, Cristo poteva proferire una testimonianza irresistibile. Ma non risponde. Pilato esce dal pretorio. E Gesù si lascia portare come un agnello al macello.

Eccolo sopportare in silenzio che il popolo gli preferisca un brigante che si chiama ironicamente Barabba, ovvero Figlio del Padre. Eccolo sopportare in silenzio che i soldati lo flagellino, gli intreccino una corona di spine, lo rivestano di una porpora di derisione. Eccolo, infine, non fare più nulla per impedire che coloro che ama lo crocifiggano. Nel frattempo, Pilato ha pronunciato queste parole: «Ecco l'uomo». Per lui è una frase banale gridata ai quattro venti: «Eccolo, il poveraccio che volete condannare». Ma quelle parole hanno un altro senso che gli sfugge.

È una risposta che non sembra esserlo alla sua domanda che non era tale. «Che cos'è la verità?» «Ecco l'uomo.» Tutto si gioca qui, nel passaggio da una domanda astratta a una presenza concreta, nel capovolgimento di una soluzione teorica a una richiesta di carne e di sangue. Lo scaldabanchi non aveva una domanda, perché era lui stesso una grande domanda di sonno. Così il Cristo non ha risposta, perché è lui stesso la risposta».

Tutta la possibilità di entrare in contatto con la verità è che essa si avvicini a noi nella persona concreta del Cristo. Di questa verità concreta e perciò appassionante e capace di parlare di felicità visse anche Giovanna d’Arco che proprio a Rouen fu bruciata dagli inglesi[7]:  

«Siamo obbligati a constatare che la nostra domanda ripresa nella Passione di Cristo si manifesta in maniera quasi incredibile nell’avventura di una ragazza che visse nei dintorni, simile a una ragazza di seconda superiore, o il suo equivalente del XV secolo, una signorina qualunque e perciò unica, che visse e morì proprio perché seppe rispondere alla domanda sulla verità in maniera tale da sollevare gli scaldabanchi intorno a lei.

Alla ragazza di poco fa non ho ancora dato un nome. Supponiamo che si chiami Giovanna e che il mio scaldabanchi si chiami Carlo, per esempio, oppure La Hire. Poco fa mi hanno condotto nel cortile, proprio dietro di me, alla mia sinistra, dove Giovanna, 19 anni, fu giudicata da monsignor Cauchon (lì io, invece, sono stato accolto con un cocktail); e i miei ospiti mi hanno promesso di portarmi più tardi nella piazza coperta di ortensie in cui quella stessa pulzella fu bruciata (dico «Pulzella ma qui, all'epoca, non la chiamavano «Pulzella d'Orléans»: preferivano darle della «Puttana degli Armagnac»

Anche per lei, il re non era il più forte, ma colui che aveva bisogno dell'aiuto della fragilità di un giovane compatriota; anche per lei, la «voce» era più importante delle interpretazioni sistematiche del suo contenuto; anche per lei, la risposta alla fine non era in un discorso - «Passate oltre!» ordinava all'inquisitore troppo curioso - ma nell'offerta di tutta se stessa, con la mano sul fuoco, insieme con il corpo, fino alle cene gettate nella Senna: la luce della Verità scaturita dalla torcia della sua anima e della sua carne per illuminare la «grande pietà del Regno di Francia»…».

Deboli sono le risposte di Fabrice Midal che cerca di sfuggire all’insistenza di Hadjadj sulla rilevanza della persona per la felicità e sulla necessità di vincere il morire concreto degli uomini[8]:

«Un'osservazione: io parlo qui in quanto buddhista. Sono legato alla fedeltà verso la mia tradizione, in cui il ruolo dell'istituzione ovviamente è molto diverso. Non essendo cattolico, non mi pronuncio sull'istituzione cattolica che conosco troppo vagamente. Nel buddhismo l'istituzione è la custode tradizionale della verità, trasmessa di maestro in discepolo. Essa è l'unico spazio possibile della vita mistica, vale a dire della vita che non mette il benessere dell’Io al centro del proprio progetto. L’importante per essa è quella disapprovazione radicale che scopre essere il solo spazio in cui emerge la verità».

Hadjadj sottolinea come nel cristianesimo e nell’ebraismo abbia senso parlare di Dio solo se egli ha un volto ed una libertà[9]:

«Il problema è stato posto molto bene dagli ebrei. Un conflitto dello stesso genere è emerso nella comunità ebraica all'incirca nella stessa epoca, o appena un po' più tardi, dopo la comparsa dei movimenti chassidici. Questi movimenti insistono su un rapporto più diretto con Dio, una relazione di tipo affettivo e mistico. Contro questa tendenza è subito insorto il movimento dei mitnagdim, più rabbinico e più legale (non dico legalistico). Grosso modo, dava questo avvertimento: «Attenzione al rapporto diretto con Dio nell'estasi o in un'esperienza che si presenterebbe come un rischio assoluto di giungere al trionfo del soggettivismo». Infatti, come rapportarsi a Dio così come ci si rapporta a un altro? Come rapportarsi a un essere che esprime una parola e che esige che io entri in relazione con gli altri? La tendenza dei mitnagdimsarà quella di arrivare a dire - cosa abbastanza aberrante per un cattolico - che bisogna «amare la Torah più di Dio». Perché, se dico semplicemente «amo Dio», rischio di orientarmi verso una religiosità vaga e privata. Ma se dico «amo la Torah», allora ascolto i comandamenti di Dio, che non sono vaghi e che mi impegnano all'interno di una comunità. Divento parte di qualcosa di articolato, che articola anche il mio rapporto con gli altri. Dio viene con un volto proprio che non ho costruito io, che non è semplicemente il «non-Io» o l'assenza dell'Io. In effetti, con il «non-Io», sono ancora io l'unica realtà positiva che conta - e tutto il resto non è altro che negativo...

Il vero problema è sapere come mi aprirò a una trascendenza concreta, a un tutt'altro che viene con una faccia che non ho costruito e che semplicemente non è la negazione dell'Io, ma un altro che viene a reclamarmi, che si rivela con la sua parola sorprendente e il suo volto inaspettato».

La fede è esattamente fede in un volto concreto di Dio che viene a noi incontro nella concretezza del reale[10]:

«I dogmi della Chiesa non sono chiusure, sono aperture del Cielo. In questo senso tutti i dogmi sono problematici, in quanto aprono fratture e rivelano abissi: essere uno e trino, vero Dio e vero uomo, essere immacolata e redenta, oppure l'infinita misericordia di Dio e la possibilità dell'inferno ... In questa tensione estrema, i dogmi esprimono una trascendenza che viene a me con un volto che non potevo inventare. Che non è assurdo, no, ma che oltrepassa la mia ragione, come ogni volto d'altronde. I dogmi sono come i lineamenti del volto di Dio e i sacramenti sono come toccare il suo Corpo. Essi mi impediscono di affidarmi a un idolo che mi costruirei io stesso. Mi impediscono anche un'idolatria più sottile, ovvero la distruzione degli idoli, in cui sono affascinato dal mio piccolo martello e quindi anche dalla forclusione del mio io verso me stesso».

La fede cristiana chiama ad una mistica radicale, che passa per la carne, altrimenti Dio sarebbe un’astrazione[11]:

«Ho scritto un libro che si intitola Mistica della carne. La profondità dei sessi". In questo libro dico che il matrimonio è qualcosa di misterioso e di particolarmente mistico. In effetti, andare verso Dio andando al monastero è abbastanza ovvio. Ma andare verso Dio andando verso mia moglie Micheline che ha appena bruciato la blanquette di vitello, questa è mistica radicale! Siamo chiamati proprio a questa mistica concreta, una mistica che passa attraverso la ricettività verso l'altro in quanto altro. Di qui i dogmi, i sacramenti, la mediazione del prossimo. Senza di ciò, rischio di andare verso un misticismo che è un'amorfa religiosità del «non-Io».».

A motivo di questo nostro essere corporei non si da rapporto con Dio che non passi per la comunione concreta con i fratelli e con la Chiesa[12]:

«Tengo a insistere sull'importanza dell'istituzione della Chiesa, che è l'istituzione fondata da Cristo stesso. Dopo, naturalmente, si può essere membri della gerarchia della Chiesa e diventare, come dice Fabrice Midal, un ramo secco. Purtroppo esistono dei rami senza linfa, che saranno gettati nel fuoco come avverte Cristo a proposito dei sarmenti secchi. Ma deplorare questi rami senza linfa non deve portarci all'aberrazione non meno grande di sperare in una linfa senza ramo. Questa fantasia di una linfa che scaturisca così, senza i rami e senza le radici, fuori dalla storia e dalla quotidianità, è la fantasticheria di un misticismo cieco che, se posso osare, rientra in una sorta di onanismo mentale».

Il momento più alto della mistica è la comunione eucaristica, così tangibile e così spirituale[13]:

«Non ho fatto una critica della mistica ma del misticismo. La mistica alla portata di tutti, come esperienza diretta, tangibile, ma anche discreta, per i cristiani si realizza attraverso l'istituzione della Chiesa: si tratta della manducazione eucaristica. Mangiare la carne di Dio, se questa non è un'esperienza forte!»

Non si può e non si deve mai ridurre un uomo e, a maggior ragione, il Cristo ad una idea di uomo. Non si danno uomini in generale, ma nomi concreti e volti concreti ed è l’incarnazione di Gesù che ha portato Dio nel mondo[14]:

«Definire Cristo, anche come un essere per gli altri, non è soltanto riduttivo, è un delitto. Cristo è Cristo. È innanzitutto Gesù, figlio di Maria, che diviene parte attraverso Giuseppe di una genealogia di sangue ed è distinguibile in tutte le sue parentele. È quindi una persona unica che è nata in quel momento del tempo, che ebbe la sua Ascensione in un altro momento del tempo e che, nella gloria del suo corpo, ricapitola tutti i momenti del tempo. Spesso noialtri filosofi o teologi dobbiamo recitare questo Miserere: «Signore, perdonaci per aver parlato di te come di un'astrazione! Fa' che nella mia bocca non si senta una dialettica ma un dialogo! Fa' che io non abbia soltanto l'aria di un professore, ma anche di una persona che ama!».

La vera questione è la seguente: si parla di Dio in senso generale, come di un sistema, oppure siamo di fronte a una persona che ha un nome proprio? La questione non è «essere per gli altri», la questione sono io, Fabrice, di fronte a lei, Georges ... ah, no, non è Georges, è Gérard, non è vero? Ecco, Gérard. Ci siamo. Perché ciò che importa è ritrovare il senso del nome proprio, dell'irriducibilità del nome proprio che designa una persona unica.

Si ricordi la parola di Gesù al ritorno dei settantadue discepoli: «Non vi rallegrate perché gli spiriti vi sono sottoposti, ma rallegratevi perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Le 10,20). Ecco una cosa straordinaria. Quando si parla del paradiso nel Canone della messa, non si dice «facci entrare nella tua luce meravigliosa in cui noi scompariamo come una goccia d'acqua nell'oceano», ma il prete chiede: «Uniti in una stessa comunione veneriamo anzitutto la memoria della gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo, e veneriamo pure quella di san Giuseppe, Sposo della stessa Vergine, e dei tuoi beati Apostoli e Martiri» e snocciola allora tutti i nomi propri di una lista di cui il fedele deve dirsi che non è finita, che potrebbe durare centinaia di ore, e che, una volta che avrà ascoltato quella lista per centinaia di migliaia di ore, avrebbe bisogno di sentire il proprio nome alla fine ... Questo è straordinario! La designazione del Cielo non avviene attraverso un concetto, ma attraverso una comunione di nomi propri. Ed ecco quello che ho cercato di dire e quello che devo dire ancora e ancora».

Note al testo

[1] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 35-38

[2] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 39.

[3] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 40-42.

[4] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 42.

[5] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 43.

[6] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 47-49.

[7] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 50-51.

[8] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 67.

[9] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 69-70.

[10] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 71.

[11] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 73.

[12] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 74.

[13] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, p. 77.

[14] F. Hadjadj – F. Midal, Che cos’è la verità?, Lindau, Torino, 2011, pp. 81-83.