Riforma del Concordato e culture della sinistra, di Carlo Cardia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /08 /2015 - 09:00 am | Permalink | Homepage
- Tag usati:
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito la Relazione svolta dal prof. Carlo Cardia a Pavia il 9 aprile 2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2015)

1/ Un panorama culturale composito.

Il titolo della Relazione che abbiamo scelto con Luciano Musselli oggi potrebbe avere poco senso perché la sinistra dell’epoca cui mi riferisco non esiste più, mentre la politica in materia religiosa ed ecclesiastica è divenuta una realtà più fluida, complessa. Ma negli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso gli attori, i protagonisti, delle riforme che si progettavano e realizzavano erano figli della storia appena precedente, che aveva dato la Costituzione all’Italia, con i suoi punti di riferimento, e che doveva ancora attuarla. Sarebbero stati superati, la storia di lì a poco sarebbe andata veloce, ma allora i dirigenti dell’area laica sono stati artefici in prima persona dei nuovi rapporti con le Chiese, come di altre riforme che si andavano progettando.

C’era attesa per l’attuazione degli articoli 7 e 8 della Cost., ed era un’attesa di lunga data, perché il costume, la legislazione unilaterale dello Stato, avevano eroso, superato le norme e la logica di un Patto che risaliva al periodo autoritario, ed era al centro dell’ordinamento (come in un sistema copernicano); da tempo si volevano cambiare le relazioni ecclesiastiche, attuare finalmente la Carta costituzionale.

La libertà religiosa penetrava nell’ordinamento, investiva la scuola, l’assistenza religiosa, la disciplina militare, cambiava il diritto di famiglia, e altri aspetti della vita civile. Il Concordato diveniva giorno dopo giorno qualcosa di antico, di periferico, una pittura sbiadita, cresceva un credito civile per la riconduzione dei suoi contenuti nell’alveo costituzionale, per l’apertura al nuovo pluralismo religioso.

Si trattava di una consapevolezza crescente, tra laici e cattolici, e Arturo Carlo Jemolo lo disse nel 1975 parlando delle “foglie secche” dell’Accordo del 1929. La sinistra chiedeva con insistenza che si avviasse la riforma, e il 1974, dopo il referendum sul divorzio, venne il momento decisivo che vide assieme personalità politiche eminenti della sinistra, Pietro Nenni, Enrico Berlinguer, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini (e ancora, per il suo prezioso contributo, Gaetano Arfé), e poi Bettino Craxi, Giuliano Amato, e Paolo Bufalini con Giorgio Napolitano: ciascuno di essi partendo dalla propria tradizione si convinse della necessità di avviare la riforma, e tutti chiesero nello spazio di pochi mesi di proporre al Vaticano l’apertura delle trattative per la revisione dei Patti lateranensi. Né va dimenticato che proprio in quegli anni si era sull’onda di un riformismo fiducioso, in sintonia con una più generale volontà di cambiamento.

Quest’orientamento ebbe una conseguenza immediata. Nel chiedere, e lavorare insieme alla riforma dei Patti del 1929 e alla stipulazione di Intese con altri culti, la sinistra si trovò a superare in concreto le divisioni sull’articolo 7 della Costituzione, e ad impegnarsi per nuovi assetti dei rapporti tra Stato e confessioni. Dispute e attriti si mantennero vivaci, erano all’ordine del giorno; ma tutti convenivano che il disegno costituzionale dovesse dispiegare le sue potenzialità, a cominciare dall’articolo 8, rimasto silente negli anni dell’evasione (come fu chiamata) costituzionale.                                                                

Questo accade nel 1974-76 mentre era attivo un altro polo, in cui si raccoglieva una cultura anticoncordataria che in Italia ha un’antica tradizione; un polo, che aveva realizzato tra l’altro il Convegno degli “Amici del Mondo” del 1957, e che s’era intanto arricchito di diverse anime. Quella radicale, in primo luogo, politicamente intransigente, per la quale la riforma del Concordato era il cono d’ombra del sistema politico, segno eminente d’un più generale consociativismo. Un’anima che non è mai venuta meno, che ha agito con coerenza fino ad oggi, anche se, va segnalato, non ha mai osteggiato le Intese con altri culti.

Un’altra anima si rifaceva alla tradizione laica, liberale e di sinistra, al pensiero di Salvemini e Calamandrei, viveva nel Partito liberale, si rinnovò nell’ambito degli indipendenti di sinistra, con personalità come Luigi Spaventa, Stefano Rodotà, caratterizzata da due elementi. Da un rigore più raffinato di quello radicale, con grande capacità critica, di cui v’è ampia traccia negli atti parlamentari, da una collocazione istituzionale che la teneva lontana dalle pregiudiziali  assolute che impedivano ogni interlocuzione.

La terza anima era quella del dissenso cattolico, negli anni ’70 molto forte, che s’era formata nella temperie conciliare e post-conciliare. Ispirato a un messianesimo anti-gerarchico, questo dissenso era cresciuto in alcune organizzazioni cattoliche, s’accostava ora alla sponda radicale ora a quella laica tradizionale, ma le superava entrambe in una visione apocalittica della Chiesa, del suo destino: all’epoca la voci erano molteplici, quella di Raniero La Valle, Giovanni Franzoni, Giulio Girardi, e poi i cristiani per il socialismo, alcune correnti delle ACLI, ancora riviste e associazioni che tendevano a tutto trasfigurare in una dimensione meta-politica.

Svolsero un qualche ruolo positivo queste correnti estreme sul processo riformatore che ottiene il risultato nel 1984? Direi di si, anche se con il tempo persero forza e vigore. Svolsero una funzione immediata, di controllo, e di sentinella, per ogni ipotetico compromesso al ribasso, e di raccolta del pensiero liberal-separatista radicato nella nostra società. L’altra funzione, più di lunga durata, è stata quella di tenere aperta una dinamica riformatrice continua, necessaria nei rapporti con le Chiese più che in altri settori dell’ordinamento, che s’è manifestata nel corso degli anni fino al più recente fenomeno dell’interculturalità che ha relativizzato la stessa legislazione pattizia.

Va ricordato, però, un altro punto. I collegamenti tra cultura riformista e radicale esistevano, erano frequenti, nel dibattito pubblico, sui media e in Parlamento, e se le strade divergevano al momento di alcune scelte conclusive, i segmenti di contatto e accordo nell’area laica erano più ampi di quanto si possa oggi immaginare.   

2/ Matrice umanistica dei protagonisti. Progetto comune, stato laico, insegnamento religioso.

Con maggior distacco rispetto al passato, oggi possiamo vedere che dietro le scelte politiche della sinistra stava un mosaico culturale che aveva più sfumature, ma con dei tratti comuni. Vi fu il tratto politico e decisionista di Bettino Craxi, che nel 1982-83 dette la spinta decisiva ad una riforma che cominciava a perdere consensi in una opinione pubblica sfiduciata per le lungaggini degli anni precedenti; e il tratto umanista di Gaetano Arfè e quello istituzionale di Giuliano Amato; ma, questo l’essenziale, tutti erano lontani ed estranei rispetto all’antico massimalismo della tradizione socialista.

Si mostrava in tutta la sua evidenza la complessità della cultura dei dirigenti del PCI, venata da sfumature valoriali cattoliche in Berlinguer, segnata da una formazione storicista con impronta crociana in Paolo Bufalini, caratterizzata dall’attenzione tipicamente istituzionale in Giorgio Napolitano: ma anche in questo caso c’era un elemento comune che univa le diverse sensibilità, e che poggiava sul riconoscimento della rilevanza storica e sociale della religione.

E sappiamo tutti, infine, che un’altra personalità decisiva nel processo di riforma fu Giovanni Spadolini, che era tra gli studiosi più attenti dei rapporti tra Stato e Chiesa nel periodo risorgimentale. Più d’uno di coloro che ho ricordato conoscevano la lezione di Tocqueville e di Francesco Ruffini sulla vera qualità del separatismo americano, amico della religione, ben diverso dal separatismo di derivazione francese, lontano e ostile dalla dimensione religiosa. Ho voluto fare questo breve ‘ritratto di famiglia’, perché esso spiega meglio di tante altre analisi la specificità del nostro schieramento laico, la loro lontananza dagli estremismi e dai massimalismi culturali della sinistra pre-costituzionale, e le ragioni delle scelte di contenuto che sono state fatte nella riforma legislativa.      

La più importante conseguenza di questa originalità delle culture di sinistra fu quella di non demandare la riforma della legislazione al Governo in carica, ma di chiedere, e ottenere, il coinvolgimento pieno delle diverse forze politiche nella elaborazione dei testi pattizi, e la partecipazione formale al negoziato della parte comunista, in sede parlamentare, e nelle relazioni dirette con il Vaticano. Ne scaturì la produzione di diverse ‘bozze’ di revisione, continuamente revisionate, e di relazioni multiple tra esponenti anche comunisti e la Santa Sede, che proseguirono negli anni successivi fino alla partecipazione intensa, con il consenso del Presidente Bettino Craxi, nell’ultimissima fase del negoziato nel 1982-83.

Si ebbe, in altri termini, un processo riformatore che, tenendo ferma la riservatezza proprio della trattativa diplomatica, si allargò al contributo esplicito delle forze politiche di sinistra. Presenti un po’ in tutte le fasi del processo riformatore e del negoziato fummo io stesso e Francesco Margiotta Broglio. Insomma, si può parlare di un’esperienza politico-legislativa inedita nella storia dei concordati.     

Già 1974-1976 (con l’avvio delle trattative), le componenti riformiste realizzarono una linea programmatica solida, che divenne piattaforma comune su alcuni punti, tre in specie: la fine della confessionalità dello Stato, e dell’apparato normativo che ne seguiva dentro e fuori il Concordato; la facoltatività dell’insegnamento religioso, e di numerose altre scelte individuali della persona; la riforma degli enti e dell’amministrazione ecclesiastica, con la revisione degli impegni finanziari. Un ulteriore obiettivo univa le componenti laiche, il superamento della giurisdizione sulle nullità matrimoniali, per legare gli effetti civili del matrimonio religioso alla libertà delle parti. Quest’ultimo obiettivo non fu raggiunto, e vorrei spiegarne i motivi.

Si comprese subito che si era di fronte ad un ostacolo insuperabile, una sorta di linea del Piave per la parte ecclesiastica, rafforzata indubbiamente dal fatto che la Corte costituzionale nel 1971-72 aveva censurato alcuni aspetti della normativa matrimoniale del 1929 ma non il sistema della giurisdizione delle nullità, che dunque risultava compatibile con i principi della Costituzione. Ne seguì un negoziato complicato volto ad adeguare quanto più possibile questo sistema ai diritti delle persone, a quelli del coniuge più debole, alla volontarietà delle scelte individuali, con l’introduzione della doppia giurisdizione civile e canonica. La soluzione che si è avuta è nota, e solo con il tempo la Cassazione ha fatto emergere le linee ispiratrici del testo, mentre l’evoluzione del costume sta cambiando oggi l’orizzonte complessivo, con il ricorso crescente al matrimonio civile, le convivenze di fatto, la rivoluzione in corso delle relazioni affettive. S’è avuta una prova aggiuntiva della chiusura sul punto quando, qualche anno più tardi (certamente l’amico Enrico Vitali lo ricorderà, perché partecipammo insieme alla  competente Commissione mista), il testo di legge di attuazione in materia matrimoniale fu ignorato, non venne mai discusso a livello parlamentare.

Su altri aspetti le componenti di sinistra hanno invece conseguito gli obiettivi che si erano proposti, e che divennero le colonne d’Ercole del negoziato. Credo che oggi si possa dire che sul carattere confessionale dello Stato incontrammo la resistenza più forte. Oggi si può rendere noto un breve, e intenso, segmento della trattativa che riguardò proprio la formula dell’art. 1 del Trattato del Laterano che era venuta meno nella elaborazione delle varie bozze del Concordato, con larga adesione dell’area cattolica. Però, proprio nell’ultima formulazione  ci fu una forte spinta ecclesiastica perché la laicità dello Stato fosse riferita ad una sola Parte, con esplicita riserva della Santa Sede. La nuova formula, scritta nel testo concordato tra Agostino Casaroli e Bettino Craxi diceva che “la Santa Sede prende atto che lo Stato italiano considera non più in vigore il principio …”.

S’era a pochi giorni dalla firma, e, pur nei tempi stretti disponibili, Enrico Berlinguer e Paolo Bufalini mi chiesero  di informare  il Vaticano che l’attenuazione di questo principio-cardine, avrebbe messo a rischio l’ampio consenso parlamentare che s’era formato, non potendosi accettare un passo indietro su un aspetto centrale della riforma, peraltro già acquisito negli anni scorsi.

Parlando con Achille Silvestrini e con Agostino Casaroli, in un clima di comprensione per le diverse esigenze, riuscimmo nello spazio di alcune ore a trovare la soluzione perché il rischio di un fallimento dell’intero progetto fece cadere le ultime remore: una riprova della volontà forte da parte della Chiesa di adeguare il testo pattizio ai principi conciliari. E credo di poter affermare, per i colloqui avuti nell’occasione, che il Cardinale Casaroli abbia provato sollievo per l’aver tolto dall’Accordo qualcosa che l’avrebbe offuscato, come legato al passato. Sulle altre questioni la trattativa è stata lunga, a volte estenuante, e chiunque può verificarlo dal confronto delle numerose bozze elaborate nel corso di sette anni, ma nel 1983 per l’accelerazione che tutti volevano impressa dal Governo Craxi si giunse alla conclusione.    

Con l’eccezione del matrimonio, quindi, quella sinistra variegata (comprensiva di un consenso cattolico forte) che lavorò alla riforma adeguò le basi della nuova legislazione ecclesiastica ai principi costituzionali provvedendo negli stessi giorni alla stesura delle prime Intese. Nel corso del negoziato non si registrarono vere divergenze tra le correnti del pensiero laico. Si ebbe un lungo negoziato, che trovò in Guido Gonella un interlocutore intelligente, radicato nella cultura del cattolicesimo democratico e nell’orizzonte del Concilio Vaticano II, disponibile a sentire le ragioni di tutti; nella fase che va dal 1976 al 1979 con la Commissione presieduta da Gonella, con Arturo Carlo Jemolo, e Roberto Ago, furono elaborate più bozze del nuovo testo pattizio, che confermarono la volontà di laici e cattolici di giungere a una conclusione positiva. Certamente, come in ogni trattativa, fu necessario acquisire riga dopo riga, parola dopo parola, per avvicinarsi al traguardo sulle specifiche materie, ma il clima e lo spirito dei negoziatori è stato sempre positivo con alcuni accordi su punti nevralgici

Ne ricordo solo due. Sull’insegnamento religioso nelle scuole si discusse la formula della facoltatività, ma esso non fu mai messo in discussione da nessuno. Anzi, Enrico Berlinguer, espresse una personale sottolineatura a favore di tale insegnamento, ritenendolo utile e necessario per la diffusione di valori e principi etici tra i ragazzi che volessero avvalersene. Altrettanto, tutte le componenti laiche, nel mentre mantenevano fuori del Concordato la materia delle scuole private, si trovarono d’accordo nel rivedere complessivamente la questione degli enti ecclesiastici e dei rapporti finanziari verso le Chiese.

3/ Enti ecclesiastici, impegni finanziari verso le chiese nell’orizzonte del welfare

La trattativa su quest’ultimo punto è stata effettivamente complessa, ma forse si può dire qualcosa di più rispetto a quanto già noto, sfatando ad esempio una leggenda, accreditata senza motivo. Nessuno di parte laica pose mai il problema di abolire gli impegni finanziari nei confronti della Chiesa, tantomeno cancellare il sostegno economico per il clero, le c.d. congrue beneficiali, introdotte peraltro già nel periodo liberale-risorgimentale. I maggiori esponenti della sinistra dichiararono esplicitamente, anzi raccomandarono ai negoziatori, di non voler rimettere il discussione il sistema stipendiale per i sacerdoti, per una scelta, possiamo dire di Welfare, a favore della funzione sociale del clero, generalmente riconosciuta e apprezzata.

Si sentì invece l’esigenza opposta, di rivedere il meccanismo dei finanziamenti estendendolo ad altre confessioni. Questo aspetto, più di altri, indica il distacco delle culture della sinistra dalla tradizione ottocentesca ostile al sostegno pubblico per le Chiese, e ci dice quanto la natura popolare dei partiti di sinistra costituisse un humus favorevole al ruolo sociale della religione. Si limitarono gli impegni finanziari ad una previsione normativa che fondò il nuovo sistema dell’8 per mille.

La novità del sistema scaturì all’interno della Commissione paritetica che nel frattempo s’era aperta al contributo di esponenti cattolici di prim’ordine, e ricordo soprattutto Mons. Attilio Nicora che presiedeva la parte vaticana, e con lui Giorgio Feliciani, mentre Cesare Mirabelli era tra i componenti della parte italiana. Nella Commissione si sperimentò al massimo grado  l’intreccio tra posizioni cattoliche e di derivazione laica che ormai lavoravano insieme con una dialettica e una sintonia capace di produrre risultati normativi di notevole rilievo.

Si può dire che si avvertiva concretamente il superamento di pregiudiziali storiche e ideologiche che pure avevano pesato nella politica e nella cultura italiane. La proposta conclusiva, quella dell’8 per mille, trovò sostegno soprattutto per due elementi: il finanziamento era mediato dal consenso periodicamente espresso dai contribuenti, e il meccanismo era concepito in modo tale da esser esteso ad altre confessioni religiose. Per queste ragioni, l’adesione delle componenti politiche laiche fu veramente convinta, e fece in modo che il testo della L. 222/1985, assai complesso e ricco di scelte impegnative, venisse discusso e approvato in Parlamento con la stessa maggioranza che aveva sostenuto il nuovo Concordato.

Ciò non vuol dire che le soluzioni tecniche non presentassero qualche problema, anche perché si trattava di un sistema inedito: ad esempio il meccanismo delle scelte non espresse era teso a garantire che alle Confessioni fosse garantito un minimo indispensabile, ma certamente suscitava delle perplessità. Inoltre, il livello dell’8 per mille era correlato al gettito IRPEF dell’epoca, mentre con il tempo sarebbe lievitato al punto tale che in alcuni Convegni ho espresso l’opinione che potrebbe essere rivisto al ribasso. Devo confermare, però, che sullo snodo essenziale del sostegno finanziario dello Stato alle confessioni, le culture delle sinistra non ebbero alcuna remora che ricordasse le pregiudiziali del passato.

Qualcosa voglio aggiungere sulla riforma degli enti. Nell’ambito della sinistra, in corso di negoziato, non c’erano tracce o residui di una mentalità giurisdizionalista, anzi fu il terreno di maggiore convergenza tra le componenti laiche e quelle cattoliche, in vista di un più corretto rapporto tra enti ecclesiastici e ordinamento. Però, andando con la memoria a questo segmento di riforma, desidero ricordare che le due ricorrenti tentazioni in questa materia son sempre state quella di una deriva statalista, e l’altra di una totale liberalizzazione che lasciasse gli enti ecclesiastici operare in qualsiasi campo come volevano e ritenevano meglio senza alcun controllo pubblico.

Negli anni successivi alla riforma del Concordato si è avuta la prevalenza di un indirizzo liberista che ha portato ad una nuova normativa sugli enti no-profit, ONLUS,  Associazione di Promozione Sociale (APS), ed ha lasciato il posto ad una valutazione positiva del volontariato, e di ciò vi ruota attorno. Forse, però, dobbiamo considerare che ogni eccesso presenta i suoi rischi. La mentalità liberalizzante, ad es., ha portato a esiti discutibili, quando ha abolito completamente l’autorizzazione agli acquisti per tutti gli enti, compresi gli enti ecclesiastici, creando situazioni difficili proprio in relazione agli enti confessionali.

Alcune recenti vicende, ormai di dominio pubblico, legate a Milano, Roma, e altre città, a clamorosi dissesti finanziari in aziende gestite da enti ecclesiastici stanno lì a dimostrarlo, e certamente un uso corretto della autorizzazione avrebbe evitato scelte che nulla hanno a che vedere con il profilo religioso, e investono direttamente la oculatezza, o correttezza, degli enti in materia economica o finanziaria. Potrebbe essere questo un motivo di riflessione per modifiche non secondarie soprattutto in materia di gestione economica di importanti strutture ecclesiastiche.

4/ Momenti critici e loro superamento. Intesa sulla scuola, 8 per mille

Se colleghiamo gli elementi appena richiamati, l’impegno per lo Stato laico, l’accettazione convinta dell’insegnamento religioso facoltativo, e degli oneri finanziari dentro la visione dello Stato sociale, scorgiamo che qualcosa di profondo ha portato la sinistra a sostenere la nuova legislazione, qualcosa che la teneva lontana da concezioni aventiniane o massimaliste del passato. E scorgiamo come l’incontro dialettico tra cattolici e laici, secondo linee che si sono intrecciate in modo originale, abbia portato a una visione condivisa, positiva della laicità come mai era avvenuto nella storia d’Italia.

Prima di passare alla parte conclusiva è giusto chiedersi se ci siano stati momenti di crisi nella attuazione dei principi richiamati, nel dispiegamento della riforma del Concordato e della realizzazione delle prime Intese.

Crisi vere, di sistema, tormentate vicende giudiziali non si registrano, tranne che nel 1987-89 per l’insegnamento religioso nella scuola. Fu crisi vera non tanto per l’intervento di Consiglio di Stato e Corte costituzionale, che risolsero la questione, confermando il testo pattizio e la facoltatività dell’insegnamento, quanto perché riaffiorarono per l’occasione qualche tentazione privilegiaria e qualcosa della cultura massimalista di cui ho parlato in precedenza: ma non dimentichiamo che nel frattempo era scomparso Enrico Berlinguer.

Oggi quella crisi è un lontano ricordo, ma è stata aspra, ed è stata superata con dei paradossi, molto italiani, che riguardano proprio la sinistra. La controversia si è talmente ricomposta che anche il partito che aveva osteggiato l’Intesa sulla scuola, finendo per far dubitare della sua permanente adesione ai nuovi principi di politica ecclesiastica, ha finito pochi anni dopo, soprattutto con l’impegno del Ministro Luigi Berlinguer, per inserire in ruolo gli insegnanti di religione; e la stessa forza politica ha elaborato e approvato il nuovo sistema scolastico integrato ponendo al suo interno le scuole paritarie in una collocazione dignitosa. Sono scelte più o meno condivisibili, ma fanno riflettere sull’evoluzione culturale lontana dalle asprezze del passato.

Un altro momento critico è stato quello dell’8 per mille, sul quale si riversarono all’inizio critiche aspre, anche da parte di alcune confessioni religiose. Però, a distanza di qualche decennio dal varo della riforma, si può dire che il tempo è stato galantuomo, perché tutte le confessioni hanno accettato e aderito al sistema dei due flussi finanziari, e il meccanismo stesso è stato poi preso a modello per il 5 per mille per le Onlus, per il 2 per mille destinato al finanziamento della politica.

Esso è stato inoltre ripreso, con spunti di originale applicazione, da qualche Paese europeo nella propria legislazione ecclesiastica. E’ anche vero che questo meccanismo potrebbe essere migliorato, ad esempio rapportando il livello della spartizione alla linea di evoluzione del gettito IRPEF, e riflettendo più attentamente sulla questione delle scelte non espresse. Per far ciò, però, occorrerebbe abbandonare una concezione rigida del sistema di bilateralità pattizia, e accettare una sua naturale e fisiologica riformabilità.       

5/ Accordi con le confessioni e cambiamento sociale. scuola, ideologia di gender, gestione degli enti, interculturalita’.

Dicevo all’inizio che la mia Relazione evoca un orizzonte culturale e politico che oggi non c’è più. Non c’è più per le vicende interne alla sinistra, ma anche per motivi di maggior sostanza. Le linee di demarcazione tra schieramenti ideologici, tra posizioni partitiche sui nostri temi, sono complicate, non seguono un confine certo e netto. Ad esempio, divisioni e contrasti sono a volte tracciabili più che sulle materie tradizionali, su questioni di nuova emergenza etica, che hanno conosciuto nell’ultimo decennio uno sviluppo inusitato.

Inoltre, s’è costituito una sorta di protezionismo per le confessioni con Intesa, cui corrisponde una minore attenzione per altre confessioni, di più scarse dimensioni o derivanti dal mondo dell’immigrazione. Ciò è stato d’ostacolo perché venisse discussa, e approvata, quella Legge sulla libertà religiosa preparata sin dal 1987 che doveva estendere e ampliare diritti e prerogative delle Confessioni senza intesa, e doveva riguardare più in genere il mondo dell’associazionismo religioso. Sull’argomento, credo si debba salutare con soddisfazione il fatto che alcuni nostri giovani colleghi si sono impegnati nel lavoro per un nuovo testo di legge, sperando si creino le condizioni parlamentari per la sua discussione.

Soprattutto, però, ogni cosa è cambiata attorno a noi, nell’ordinamento e nella società civile, sulle questioni antropologiche, sui confini del pluralismo religioso che s’è affermato nel nostro Paese. Pensiamo all’insegnamento religioso, a come è cambiata la scuola oggi, sottoposta alle tensioni delle ideologie di gender, ai tentativi di alterare il rapporto tra famiglia e educazione, che è giunto a lambire, con mia grande sorpresa, perfino il tema delle favole che i genitori raccontano ai bambini. Riteniamo che ciò non inciderà sull’insegnamento religioso, che deve interpretare valori umanistici essenziali? Io credo di sì, e penso che anche la questione della giurisdizione matrimoniale non possa essere valutata come trenta anni addietro, anche perché ci troviamo oggi in un contesto nel quale si annunciano riforme in tema di divorzio breve, convivenza, unioni civili, anche non eterosessuali. Ancora, l’aumento di reati finanziari, che sfiorano importanti strutture ecclesiastiche, pone dei problemi di regolamentazione che le confessioni per prime dovrebbero avere a cuore. Ho già detto, inoltre, che la crescita del gettito Irpef non può lasciare tutto come prima nell’ambito del sistema dell’8 per mille, concepito in una fase storica in cui non tutto poteva prevedersi. Infine, sono continue le innovazione che si producono o si annunciano a livello europeo su materie ecclesiastiche ed etiche, e credo che esse avranno alla lunga notevole incidenza anche ai livelli nazionali.

C’è poi un’altra ragione che forse sovrasta le altre. L’Italia ha cominciato a vivere i problemi e le tensioni dell’interculturalità connessi al fenomeno immigratorio in piena espansione dagli anni ’90 ad oggi, che è destinato ad allargarsi, ad incidere sulle future generazioni. Ebbene, di fronte a novità epocali come questa, sono affiorati timori, diffidenze, per costumi e tradizioni lontane dalle nostre, sembrano offuscarsi alcune convinzioni di base considerate indiscutibili: si insinua una lettura nuova, quasi pessimistica, del pluralismo confessionale, con il risultato di ostacolare le riforme in corso, anche vicine al traguardo.

Tra l’altro, proprio questa paura ha agito da freno per la Legge sulla libertà religiosa. Quando questa venne ripresentata in Parlamento, nel 2002, ci si accorse che il clima era diverso rispetto agli anni precedenti. Alcune norme sui diritti di libertà, fino ad allora accettate pacificamente, vennero rilette e interpretate alla luce dei rischi che si temevano per tradizioni lontane dalla nostra in materia di libertà matrimoniale, diritto di famiglia, condizione della donna, via di seguito.

Ci fu persino chi temeva che si aprisse la strada alla costruzione delle moschee (dimenticando che la libertà di culto è per tutti), che si legittimasse la poligamia (che non c’entra nulla con la legislazione ecclesiastica), e per anni non sono state approvate alcune Intese perché, si disse, prima o poi verrebbe il turno di una Intesa con l’Islam, e ciò bastò per alimentare un timore che fece breccia tacitamente in forze politiche di diversa natura. Timori infondati, che però riflettono  insofferenza verso le novità sociali e giuridiche che l’incontro interculturale tra le popolazioni a livello planetario porta con sé.                            

Naturalmente, non sono mancati progressi collaterali: la Chiesa ortodossa romena ha ottenuto il riconoscimento, è quasi pronta a presentare la domanda di Intesa, e ciò avverrà  anche per la Chiesa russa. Ma non dobbiamo dimenticare che spesso gli ortodossi romeni celebrano il culto nelle Chiese messe a disposizioni dalla CEI, o da singoli vescovi, sulla base di una concezione ecumenica molto bella e positiva, e che però svolge una supplenza nei confronti di compiti e funzioni che dovrebbero essere dello Stato e delle pubbliche istituzioni. Ancora, la questione dell’immigrazione è all’origine della Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione che ho avuto l’onore di elaborare insieme ai rappresentanti confessionali e dell’immigrazione di tutta Italia, e che è stata approvata e pubblicata nel 2007 da parte del Ministro dell’Interno Giuliano Amato. Anche in questo caso desidero segnalare che alcuni nostri giovani colleghi hanno partecipato con merito ai lavori del Comitato consultivo dell’Islam al Ministero dell’Interno contribuendo alla elaborazione di importanti documenti su alcune questioni controverse, la regolamentazione delle moschee, la formazione degli imam, il burqa.

Ecco, da tutto ciò io ricavo che gli ostacoli che abbiamo davanti oggi non sono più quelli del passato, sono altri. Una certa mentalità conservativa per la quale la legislazione ecclesiastica, di derivazione unilaterale o pattizia, non si può toccare, riformare, modificare, per timore di incrinare equilibri che non vanno messi in discussione. In realtà, io credo che la legislazione ecclesiastica mantiene la sua validità se è capace di adeguarsi alle innovazioni che di continuo affiorano nella realtà sociale, e quindi se è pronta ai cambiamenti quando questi si presentano necessari. Non dimentichiamo che in molti ordinamenti europei assistiamo ad un affacciarsi continuo di riforme, mutamenti, senza che ne nascano drammi o conflitti. Dobbiamo cercare di essere europei anche in questo.

C’è poi in giro una certa cultura difficile da qualificare con le nostre categorie tradizionali, e che definirei più semplicemente “retriva” che diffonde paure e timori per altre tradizioni, e religioni, fa perdere fiducia in noi stessi e nei nostri valori. Noi siamo fortunatamente (e per ragioni precise) un Paese che ha una laicità positiva, accogliente, non fa le guerre al velo, o ai simboli religiosi, ma tutti li difende e li difende bene come s’è visto a Strasburgo nel caso del Crocifisso, e non nutre ostilità pregiudiziali per questa o quella religione o tradizione.

Ciò vuol dire che non occorre inserire in una legge generale (sulla libertà religiosa) tutte quelle micro-questioni che possono essere risolte sulla base di principi ordinamentali, e sulla scorta di una saggezza che non è mai venuta meno nella nostra cultura giuridica: vorrebbe dire ricercare un perfezionismo inutile, forse dannoso. Le carenze, e le diffidenze, che ho citato possono essere superate se si tiene fermo, il rigoroso rispetto della libertà religiosa e dei diritti umani di chiunque, a prescindere dalla religione o tradizione d’appartenenza: questi principi di stretta derivazione costituzionale, confermati dalle Carte internazionali sui diritti umani, sono ancora oggi alla base di ogni vera capacità riformatrice, ma con una differenza rispetto al passato. Certe divisioni, linee di demarcazione, ad es. tra laici e cattolici, dentro e fuori il Parlamento, oggi non esistono più, e comunque sono assai più complesse e sfaccettate; forse il confine più insidioso passa tra chi vuole procedere e cambiare quanto è necessario, e chi si attesta su una linea di difesa dell’esistente solo per non muoversi da dove si trova, per pigrizia o per paura.

Concludo con un riferimento scientifico. Ho ricevuto negli ultimi giorni dei bei libri, di nostri colleghi, e di giovani ricercatori, sullo status delle confessioni in Europa, sul principio di non discriminazione religiosa in alcuni ordinamenti europei, e sulla legislazione per Intesa aperta ai nuovi soggetti della legislazione ecclesiastica. Ovviamente non sono i primi libri che nelle nostre discipline hanno questo respiro, ma io credo che vadano incoraggiate le ricerche in queste direzioni. In primo luogo per motivi di completezza scientifica sempre primari, poi perché ci tengono ancorati al diritto positivo (che è anche storia del diritto) e ci allontanano da alcune tentazioni sociologiche un po’ pericolose; infine perché ci aiutano a vedere il nostro ordinamento all’interno della famiglia europea che sta elaborando con fatica, e qualche successo, una graduatoria di principi e di valori che porterà a un sistema comune di libertà religiosa e di relazioni ecclesiastiche.