Umberto Eco, un amante del medioevo. 8 articoli con una breve nota introduttoria di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /03 /2016 - 21:37 pm | Permalink | Homepage
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Breve nota di presentazione di Andrea Lonardo

Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia o il tag umberto_eco.

L’itinerario che proponiamo per avvicinarsi a conoscere Umberto Eco parte da 2 sue considerazioni sulla morte. In Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo (1) mostra che il ritenere anche un solo essere buono e amabile rende la morte ingiusta e inaccettabile, mentre in Dov'è andata la morte? (2) Eco ricorda come sia intellettualmente ed esistenzialmente pericoloso il nascondimento della morte. In un testo degli anni cinquanta, scritto quando era ancora cristiano, Servire gli uomini per amore (3) Eco riflette sulla necessità di élites culturali cristiane, ma anche sulla loro differenze essenziali rispetto ad ogni altra categoria di intellettuali, perché volte ad un servizio gratuito educativo e non ad aristocratico isolamento. Nell’articolo In difesa del Paradiso di Dante. Perché Eco, come Eliot, lo preferisce all'Inferno e al Purgatorio (4), Giovanni Reale invita a non dimenticare che il medioevo era per Eco un periodo splendido e carico di interesse. Per questo l’autore ha dedicato moltissime ricerche a quel periodo ed in esso ha ambientato i suoi romanzi più noti. Nell’articolo Umberto Eco da cattolico ad ateo, l’enigma del distacco dalla fede. L’intellettuale cresciuto nel culto cristiano era approdato a una posizione relativista (5), Vittorio Messori ricorda l’amore di Eco per Tommaso d’Aquino, amore conflittuale ma tale da fargli esclamare che solo quello di Tommaso potrebbe essere il vero Dio.
Nel famoso articolo L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco (6), Guido Sommavilla mostra come il primo e più famoso romanzo di Eco non sia stato all’altezza dell’amore per il medioevo dello scrittore. Eco ha invece, purtroppo piegato la narrazione de Il nome della rosa a fini ideologici, fornendo una visione dell’età di mezzo opposta alle ricerche scientifiche che andava conducendo. Nell’articolo La filosofia di Umberto Eco, dai nudi nomi al vetero-realismo (7), Mario De Caro illustra come Eco abbia rinnegato successivamente, in qualche modo, il nominalismo de Il nome della rosa, sebbene lo scrittore non si sia mai allontanato dall’idea che tutto sia interpretazione, anche se la realtà si oppone sempre e comunque alle forzature dell’interpretazione stessa (come insegna proprio Tommaso d’Aquino).  Infine, nell’intervento L'ossessione laica della nuova Apocalisse (8), è Umberto Eco a mostrare come un’etica che non sappia attingere all’idea di speranza non riesca a riscaldare e a motivare il cuore dell’uomo: «Solo avendo un senso della direzione della storia (anche per chi non crede nella Parusia) si possono amare le realtà terrene e credere - con carità - che ci sia ancora posto per la Speranza».

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)  

Indice

1/ Come prepararsi serenamente alla morte. Sommesse istruzioni a un eventuale discepolo, di Umberto Eco

Riprendiamo dalla rubrica La Bustina di Minerva de L’Espresso del 12/6/1997 un articolo di Umberto Eco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Non sono sicuro di dire una cosa originale, ma uno dei massimi problemi dell'essere umano è come affrontare la morte. Pare che il problema sia difficile per i non credenti (come affrontare il Nulla che ci attende dopo?) ma le statistiche dicono che la questione imbarazza anche moltissimi credenti, i quali fermamente ritengono che ci sia una vita dopo la morte e tuttavia pensano che la vita della morte sia in se stessa talmente piacevole da ritenere sgradevole abbandonarla; per cui anelano, sì, a raggiungere il coro degli angeli, ma il più tardi possibile.

Recentemente un discepolo pensoso (tale Critone) mi ha chiesto: "Maestro, come si può bene appressarsi alla morte?" Ho risposto che l’unico modo di prepararsi alla morte è convincersi che tutti gli altri siano dei coglioni.

Allo stupore di Critone ho chiarito. "Vedi," gli ho detto, "come puoi appressarti alla morte, anche se sei credente, se pensi che mentre tu muori giovani desiderabilissimi di ambo i sessi danzano in discoteca divertendosi oltre misura, illuminati scienziati violano gli ultimi misteri del cosmo, politici incorruttibili stanno creando una società migliore, giornali e televisioni sono intesi solo a dare notizie rilevanti, imprenditori responsabili si preoccupano che i loro prodotti non degradino l’ambiente e si ingegnano a restaurare una natura fatta di ruscelli potabili, declivi boscosi, cieli tersi e sereni protetti da un provvido ozono, nuvole soffici che stillano di nuovo piogge dolcissime? Il pensiero che, mentre tutte queste cose meravigliose accadono, tu te ne vai, sarebbe insopportabile.

Ma cerca soltanto di pensare che, al momento in cui avverti che stai lasciando questa valle, tu abbia la certezza immarcescibile che il mondo (sei miliardi di esseri umani) sia pieno di coglioni, che coglioni siano quelli che stanno danzando in discoteca, coglioni gli scienziati che credono di aver risolto i misteri del cosmo, coglioni i politici che propongono la panacea per i nostri mali, coglioni coloro che riempiono pagine e pagine di insulsi pettegolezzi marginali, coglioni i produttori suicidi che distruggono il pianeta. Non saresti in quel momento felice, sollevato, soddisfatto di abbandonare questa valle di coglioni?"

Critone mi ha allora domandato: "Maestro, ma quando devo incominciare a pensare così?" Gli ho risposto che non lo si deve fare molto presto, perché qualcuno che a venti o anche trent’anni pensa che tutti siano dei coglioni è un coglione e non raggiungerà mai la saggezza. Bisogna incominciare pensando che tutti gli altri siano migliori di noi, poi evolvere poco a poco, avere i primi dubbi verso i quaranta, iniziare la revisione tra i cinquanta e i sessanta, e raggiungere la certezza mentre si marcia verso i cento, ma pronti a chiudere in pari non appena giunga il telegramma di convocazione.

Convincersi che tutti gli altri che ci stanno attorno (sei miliardi) siano coglioni, è effetto di un’arte sottile e accorta, non è disposizione del primo Cebete con l’anellino all’orecchio (o al naso). Richiede studio e fatica. Non bisogna accelerare i tempi. Bisogna arrivarci dolcemente, giusto in tempo per morire serenamente. Ma il giorno prima occorre ancora pensare che qualcuno, che amiamo e ammiriamo, proprio coglione non sia. La saggezza consiste nel riconoscere proprio al momento giusto (non prima) che era coglione anche lui. Solo allora si può morire.

Quindi la grande arte consiste nello studiare poco per volta il pensiero universale, scrutare le vicende del costume, monitorare giorno per giorno i mass-media, le affermazioni degli artisti sicuri di sé, gli apoftegmi dei politici a ruota libera, i filosofemi dei critici apocalittici, gli aforismi degli eroi carismatici, studiando le teorie, le proposte, gli appelli, le immagini, le apparizioni. Solo allora, alla fine, avrai la travolgente rivelazione che tutti sono coglioni. A quel punto sarai pronto all’incontro con la morte.

Sino alla fine dovrai resistere a questa insostenibile rivelazione, ti ostinerai a pensare che qualcuno dica cose sensate, che quel libro sia migliore di altri, che quel capopopolo voglia davvero il bene comune.
È naturale, è umano, è proprio della nostra specie rifiutare la persuasione che gli altri siano tutti indistintamente coglioni, altrimenti perché varrebbe la pena di vivere? Ma quando, alla fine, saprai, avrai compreso perché vale la pena (anzi, è splendido) morire.

Critone mi ha allora detto: "Maestro, non vorrei prendere decisioni precipitose, ma nutro il sospetto che Lei sia un coglione". "Vedi", gli ho detto, "sei già sulla buona strada."

2/ Dov'è andata la morte?, di Umberto Eco

Riprendiamo dalla rubrica La Bustina di Minerva de L’Espresso del 29/11/2012 un articolo di Umberto Eco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Il "Magazine Littéraire" francese dedica il suo numero di novembre a "Quello che la letteratura sa della morte". Ho letto con interesse i vari articoli, ma sono rimasto deluso dal fatto che, tra tante cose che non sapevo, in fin dei conti mi ripetessero un concetto notissimo: che la letteratura si è sempre occupata, oltre che dell'amore, della morte. Gli articoli del periodico francese parlano della presenza della morte sia nella narrativa del secolo scorso, sia nella letteratura gotica pre-romantica, ma si sarebbe potuto discettare sulla morte di Ettore e sul lutto di Andromaca, o sulle sofferenze dei martiri in tanti testi medievali. Per non dire che la storia della filosofia inizia con l'esempio più consueto di premessa maggiore di un sillogismo: «Tutti gli uomini sono mortali».

IL PROBLEMA MI PARE piuttosto un altro, e forse dipende dal fatto che oggi si leggono meno libri: noi contemporanei siamo divenuti incapaci di venire a patti con la morte. Le religioni, i miti, i riti antichi ci rendevano la morte, seppure sempre temibile, familiare. Ci abituavano ad accettarla le grandi celebrazioni funerarie, gli urli delle prefiche, le grandi Messe da Requiem. Ci preparavano alla morte le prediche sull'inferno e ancora durante la mia infanzia ero invitato a leggere le pagine sulla morte dal "Giovane provveduto" di Don Bosco, che non era solo il prete allegro che faceva giocare i bambini, ma aveva un'immaginazione visionaria e fiammeggiante. Egli ci ricordava che non sappiamo dove ci sorprenderà la morte - se nel nostro letto, sul lavoro, o per strada, per la rottura di una vena, un catarro, un impeto di sangue, una febbre, una piaga, un terremoto, un fulmine, «forse appena finita la lettura di questa considerazione». In quel momento ci sentiremo la testa oscurata, gli occhi addolorati, la lingua arsa, le fauci chiuse, oppresso il petto, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto. Di qui la necessità di praticare l'Esercizio della Buona Morte: «Quando i miei piedi immobili mi avvertiranno che la mia carriera in questo mondo è presso a finire... Quando le mie mani tremule e intorpidite non potranno più stringervi, Crocifisso mio bene, e mio malgrado lascierovvi cadere sul letto del mio dolore… Quando i miei occhi offuscati e stravolti dall'orror della morte imminente … Quando le mie barra fredde e tremanti…. Quando le mie guance pallide e livide inspireranno agli astanti la compassione e il terrore, e i miei capelli bagnati dal sudor della morte, sollevandosi sulla mia testa annunzieranno prossimo il mio fine… Quando la mia immaginazione, agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi sarà immersa in mortali tristezze… Quando avrò perduto l'uso di tutti i sensi… misericordioso Gesù, abbiate pietà di me».

PURO SADISMO, SI DIRÀ . Ma cosa insegniamo oggi ai nostri contemporanei? Che la morte si consuma lontano da noi in ospedale, che di solito non si segue più il feretro al cimitero, che i morti non li vediamo più. O meglio, ne vediamo continuamente, che schizzano brandelli di cervello sui finestrini dei taxi, saltano in aria, si sfracellano sui marciapiedi, cadono in fondo al mare coi piedi un cubo di cemento, lascian rotolare sul selciato la loro testa - ma non siamo noi o i nostri cari, sono gli attori. La morte è uno spettacolo, persino nei casi in cui i media ci raccontano della ragazza realmente stuprata o vittima del serial killer. Non vediamo il cadavere straziato, perché sarebbe un modo di ricordarci la morte. Ci fanno vedere gli amici piangenti che recano fiori sul luogo del delitto e, con un sadismo ben peggiore, suonano alla porta della mamma per chiederle «Cosa ha provato quando hanno ucciso sua figlia?». Non si mette in scena la morte bensì l'amicizia e il dolore materno, che ci toccano in modo meno violento.

Così la scomparsa della morte dal nostro orizzonte di esperienza immediato ci renderà molto più terrorizzati, quando il momento si approssimerà, di fronte a questo evento che pure ci appartiene sin dalla nascita - e con cui l'uomo saggio viene a patti per tutta la vita.

L’Espresso © Riproduzione riservata

3/ Servire gli uomini per amore, di Umberto Eco

Riprendiamo da «Gioventù» dell’11 gennaio 1953 (allora settimanale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, Giac) un articolo di Umberto Eco che fu all’inizio degli anni Cinquanta uno dei militanti più attivi e dirigente degli Studenti di Azione Cattolica. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Nei giorni in cui la Gioventù ricorda la figura di san Sebastiano come un esempio, come un antesignano che apra la strada, come una guida, le Scuole Guide iniziano in tutta Italia, diocesi per diocesi, forania per forania. Per la quattordicesima volta dal 1938.

Non credo che ci si debba arrestare all’aspetto puramente organizzativo del fatto: sarebbe superficializzare l’avvenimento e ridurre a valore episodico quella che è una profonda realtà educativa della Gioventù Cattolica. Talmente profonda e piena di significato da oltrepassare i limiti della normale attività specializzata per apparire un aspetto essenziale della spiritualità cristiana.
Perché questo semplice fatto ripropone ancora una volta il problema dell’essenza delle “élites”, e lo propone e risolve su di un tono particolare, singolarmente cristiano.

Se pensiamo alla struttura organizzativa (diciamo pure la parola) che Cristo diede alla sua Chiesa, anche in vita, all’ordinarsi, secondo le regole di una gerarchia, inespressa ma vissuta, di Pietro, poi degli apostoli prediletti, quindi di tutti i dodici, dei discepoli, dell’umanità intera a cui Cristo si rivolgeva; se pensiamo a questo primo fatto che iniziò la serie di quelle iniziative individuali o limitate che via via sommossero la vicenda cristiana, vediamo come la vita del Cristianesimo sia stata sempre scossa e fecondata dal lievito di determinate élites.

Ma è il carattere di queste “élites” quello che le distingue da tutte le altre forme di aristocrazia che la storia chi presenta.

Al culmine di quello che abbiam voluto considerare il quadro organizzativo della prima comunità cristiana, Cristo stesso era il Capo. E fu Lui a chinarsi per lavare i piedi ai dodici e ad avviarsi a trascinare la croce a loro servizio. “Servizio”. Ecco la parola che ci definisce e singolarizza l’élite cristiana. Qualsiasi gruppo direttivo che si sia impadronito delle leve di qualsiasi comando in ogni tempo salì con la coscienza di una dignità e di un mandato e dettò legge ad altri; o assunse toni di indispensabilità; o distribuì paterni ma insindacabili consigli. Stabilì un rapporto di dipendenza e di discepolato.

Ed è una caratteristica soltanto cristiana quella di una élite di servi, di un’aristocrazia di uomini che è e vuole essere tale non perché possiede un comando, ma proprio perché si accolla degli incarichi e dei carichi; proprio perché intende quasi sgravare i fratelli dei servizi più pesanti per compierli da sola.
Si va a scuola per essere guide, nella vita cristiana; è un atto di umiltà, ma è anche l’esigenza di compiere una sana preparazione per realizzare un servizio, e realizzarlo bene senza altre ambizioni.

Da questo esempio silenzioso e attivo nascerà l’ammaestramento, ed in questo modo le élites educheranno; ma sarà un’educazione che agirà, come lievito, dal basso, fianco a fianco, sarà una comunicazione spontanea e inavvertita.

Da questa educazione al servizio nasce la coscienza della responsabilità ed il rispetto degli altri, nasce in una parola, l’uomo, che può inserirsi vitalmente nella società, perché non vorrà esserne né il burattinaio né il burattino, ma l’elemento che agisce nell’umiltà della sua sfera per fermentarla tutta.
Quando la Gioventù parla di guide o di élites in genere esce dalla limitatezza di un’esperienza organizzativa per colpire più in profondità. E non è male, ogni tanto, rinnovar la coscienza di una vastità di respiro che riscopriamo nelle cose apparentemente più scontate.

4/ In difesa del Paradiso di Dante. Perché Eco, come Eliot, lo preferisce all'Inferno e al Purgatorio, di Giovanni Reale

Riprendiamo dal Corriere della sera del 9/11/2012 un articolo scritto da Giovanni Reale. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Umberto Eco pubblica Scritti sul pensiero medievale, opera in cui raccoglie, con revisioni e ritocchi, tutto quanto ha scritto sull'argomento dal 1956 al 2010, compresi articoli composti per convegni, riviste e giornali, escludendo soltanto quelli ripetitivi (Bompiani editore). Lo scopo di questo libro, come dice l'autore, «è di offrire una immagine di un'epoca», incentrata sulla problematica estetica, includendo però nell'area semantica dell'espressione vari fenomeni e concetti filosofici connessi con la Bellezza, l'arte e i rapporti di questa con la morale e con la vita dell'uomo. Dai vari saggi emerge un quadro complessivo dell'età medievale di straordinaria ricchezza e originalità.

È nota la metafora con la quale Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dopo aver parlato con ampiezza e profondità della filosofia antica che si estende per un periodo di circa un millennio (dal VI secolo a. C. al VI d. C.), affronta la presentazione del pensiero medievale dicendo che, per percorrere l'altro millennio (dal VI al XVI secolo), dovrà calzare «gli stivali delle sette leghe». Hegel, in effetti, pensava che ci sarebbe stato ben poco nel Medioevo su cui sarebbe valsa la pena soffermarsi a lungo, e appunto per questo intendeva calzare «gli stivali delle sette leghe», ossia compiere una rapida cavalcata e trattare il pensiero di questo periodo nel modo più veloce possibile.

Le cose oggi sono cambiate. I testi dei filosofi medievali hanno incominciato a essere editi, tradotti e studiati soprattutto a partire dal secolo scorso, ma rimane ancora molto da fare. Per capire il Medioevo, e in generale autori e pensieri di un'epoca, due condizioni si impongono come necessarie: conoscere a fondo i testi, e affrontarli non con distacco come referti in vitro, ma con gusto, interesse e affetto. In Eco si verifica proprio questo: conosce assai bene autori e testi medievali, molti dei quali sono ai più ignoti, e li legge e interpreta con passione. A questo proposito egli confessa: «Questo gusto e questa passione non mi hanno mai lasciato, anche se poi ho battuto altre strade. Così il Medioevo è rimasto, se non il mio mestiere, il mio hobby - e la mia tentazione costante, e lo vedo dovunque in trasparenza, nelle cose di cui mi occupo, che medievali non sembrano e pur sono».

Il termine «Medioevo» è stato coniato - precisa Eco - «per trovare alloggio a una decina di secoli che nessuno riusciva più a collocare, dato che si trovava a mezza strada fra due epoche "eccellenti". E tra le accuse che venivano fatte a tale epoca, considerata priva di una precisa identità, "c'era proprio quella di non aver avuto sensibilità estetica"».

In questi scritti Eco dimostra invece la centralità dell'idea del Bello nei testi e nell'uomo del Medioevo: un dato di fatto che solo una «superficiale conoscenza dei testi» e una «incomprensione fondamentale della mentalità medievale» non hanno permesso di intendere. In effetti, ci si può ben accorgere «che la letteratura filosofica e teologica medievale non contiene soltanto delle trattazioni accademiche sul Bello, ma pullula di vere e proprie esclamazioni ammirative che operano come una mediazione tra dato filosofico e manifestazione del gusto e della sensibilità».

Nel corso del Medioevo il Bello si imporrà a livello metafisico addirittura come uno dei «trascendentali», ossia come una «perfezione ontologica», una delle proprietà dell'essere insieme alla «unità», alla «verità» e alla «bontà», come sostennero Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino: «Riconoscere la trascendentalità del Bello - precisa Eco - significa conferirgli una dignità metafisica, una stabile oggettività, una estensione universale: significa portare l'estetico a un livello cosmico, significa riconoscere che il problema del Bello assume un rilievo imprescindibile».

Uno dei capitoli più densi e pregnanti è quello sui criteri formali del Bello in Tommaso, che consistono in proportio, integritas, claritas, parole che - dice Eco - l'abuso che ne ha fatto la tradizione scolastica «ha rese ormai oscure per eccesso di esegesi». Questi tre concetti indicano la struttura e l'espressione di carattere ontologico della forma, che Eco così spiega: «Proporzione, integrità e chiarezza sono i tre modi in cui la forma può essere considerata come intera. La forma è integra proporzione che può manifestarsi come tale, è la totalità del rapporto manifestantesi, è la proporzione di un tutto che si significa». Con gusto squisito, Eco illustra questi concetti anche con splendide immagini, in tre degli otto gruppi di miniature tratte da preziosi codici, che non ci era mai capitato di trovare in altre opere.

Ci siamo soffermati sul fondamento metafisico della Bellezza, elevata a livello trascendentale e connessa con la forma, in quanto costituisce uno degli assi portanti dell'interpretazione del pensiero medievale di Eco. Ma molti altri sono i temi trattati, come quelli dei rapporti del Bello con la teologia, con l'etica, con la psicologia, con la dottrina dell'arte. Di rilievo sono anche i saggi sull'enciclopedia, sul concetto di metafora, sulla cabala e sul significato simbolico degli animali nel Medioevo.

Fra gli scritti minori emerge la Lettura del Paradiso. Eco capovolge il giudizio che si legge nella famosa Storia della letteratura italiana di De Sanctis, secondo cui il Paradiso è poco letto e poco gustato, in quanto «stanca soprattutto la sua monotonia». Eco scrive invece che «il Paradiso è la più bella delle cantiche della Commedia». È tutto un gioco di luci e di colori, espresso con il sentimento dell'uomo medievale: «Il Medioevo identificava la bellezza (oltre che con la proporzione) con la luce e con il colore». La poetica della luce si fonda sulla metafisica della luce, che nel Medioevo ha avuto un ruolo assai importante, come in Grossatesta e in Bonaventura.

Anche Eliot sosteneva che il Paradiso è la più bella delle cantiche della Commedia, che «non è mai arido», ed è «intensamente eccitante». Il fondamento della beatitudine - espresso in un verso messo in bocca a Piccarda: E 'n la sua volontade è nostra pace - è sempre lo stesso, ma presentato con variazioni e gradi di intensità sempre crescente, proprio come avviene per la luce. A nostro avviso, questo articolo di Eco è un vero gioiello, che meriterebbe di essere letto in tutti i Licei, per far comprendere come la cantica più bella non sia l'Inferno, come si continua a dire, ma proprio il Paradiso.

 Corriere della sera © RIPRODUZIONE RISERVATA

5/ «Sono convinto che se davvero un Dio ci fosse, sarebbe quello di quel san Tommaso con il quale in vita avrei litigato, ma che era un uomo col quale, malgrado tutto, sulle cose che contano si poteva ragionare». Umberto Eco da cattolico ad ateo, l’enigma del distacco dalla fede. L’intellettuale cresciuto nel culto cristiano era approdato a una posizione relativista, di Vittorio Messori

Riprendiamo dal Corriere della sera del 21/2/2016 un articolo scritto da Vittorio Messori. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Incontrandolo, intervistandolo, leggendolo, non potevo sfuggire a una sorta di rammarico. Proprio perché molto ne ammiravo l’intelligenza, la cultura, lo stile, l’ironia, il savoir vivre, sentivo (e glielo dissi anche, una volta, ricavandone un sorriso enigmatico), sentivo il dispiacere del credente davanti a un uomo che ti parlava della sua «definitiva apostasia» da ogni fede religiosa, a cominciare ovviamente da quella cattolica. Un giovane che fu tra i dirigenti della Giac, la Gioventù di Azione cattolica, che sino all’università si nutrì di credenti antichi e moderni, un uomo da comunione quotidiana e da confessione settimanale e che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e non a una laurea da conquistare.

Ed ecco che invece dello straordinario apologeta del cattolicesimo, dello scintillante polemista che i credenti avrebbero avuto in dono, ecco che dall’ateneo torinese uscì l’Umberto liberal. Un Eco divenuto sì apologeta, ma prima dell’agnosticismo e poi – come ammise – di un relativismo ateo (nomina nuda tenemus), affermato con la consueta leggerezza dall’apparenza svagata, ma in realtà non scalfibile. La delusione, non mi ha impedito, per quanto mi riguarda, l’affetto sincero e ora il dispiacere perché non avremo più battute come quella che gli sentii dire nel nostro primo incontro: «Se Pascal abitasse nel mio condominio ci saluteremmo con educazione ma non ci frequenteremmo proprio. Se, invece, sul mio pianerottolo ci fosse Tommaso d’Aquino, alla sera giocheremmo a briscola, ma finiremmo per litigare e andare per avvocati. E magari mi denuncerebbe alla Digos per sospetto di terrorismo».

Per una mia Inchiesta sul cristianesimo (il titolo del libro che uscì da molti dialoghi, soprattutto con ex credenti, per capire le loro ragioni) passammo insieme un pomeriggio milanese di cui approfittai non per parlare genericamente di cultura, ma di fede, di vita, di morte. A lui che conduceva il discorso verso la filosofia, replicai di lasciare le schermaglie verbali e di venire al concreto. La scommessa per Dio o contro Dio nasce più dal vissuto esistenziale che dall’argomentare teorico. Per quali motivi (ammesso che sia in grado di decifrarli) uno che abbracciava il Vangelo — e con tanto fervore — come il giovane Eco, decide di ritirare la sua speranza nel Cristo? Mi parve, con tutto il rispetto, che gli argomenti della sua risposta non sfuggissero al sospetto di essere stati elaborati post factum, per razionalizzare un ripudio venuto dal cuore e dalla vita più che dalla ragione. Glielo dissi. Fu pronto a replicare, con sincerità: «Le concedo volentieri che, qui, qualunque “prova” o ragionamento serve solo a convincerci di ciò di cui già siamo convinti. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia. Ma non basta neppure quello biografico.

Altri che hanno avuto vicende simili alla mia sono rimasti credenti. Mi è parso che la perdita della fede sia stata come l’interruzione di un circuito elettrico. Le cause vere, profonde? E chi può dirlo?». Parlammo della morte: un dramma che, mi disse, viveva nella carne, da quando suo padre morì in modo inaspettato. «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso ogni giorno. Io non cerco, alla Freud, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo. Anche da qui il mio darmi da fare sul piano professionale. Io, un collezionista di onori, come qualcuno dice? No, uno che vuol dare al suo genitore le soddisfazioni che sperava di avere da suo figlio e che non ha avuto». Eco, gli chiesi, dov’è suo padre? Dove sono tutti i morti? Dove saremo noi pure?

Rispose: «Al di là di quelle porte di bronzo c’è il caos, il buio. Oppure c’è il Nulla o un deserto piatto e desolato, senza fine». La morte, gli ricordai, è la scommessa per eccellenza, aperta a molti esiti possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù il Cristo a venirci incontro ? Non sembrò esitare, come chi ci ha più volte pensato: «Senta, se per caso quel Nazareno c’è davvero e vuole imbastirmi un processo, gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono giunto alla conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece è il Dio crudele e vendicativo di certe sette protestanti, allora meglio non avere a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno, dove almeno c’è gente per bene». Una pausa e poi: «Ma guardi che sono convinto che se davvero un Dio ci fosse, sarebbe quello di quel san Tommaso con il quale in vita avrei litigato, ma che era un uomo col quale, malgrado tutto, sulle cose che contano si poteva ragionare». Ora, pure Umberto Eco «sa». E al rispetto che da parte di ognuno merita una vita tanto operosa, i credenti, con discrezione pari alla convinzione, aggiungeranno una preghiera davanti a una bara per la quale — con coerenza, senza ipocrisie — non si è voluto una presenza religiosa.

6/ L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco, di Guido Sommavilla

Riprendiamo da La Civiltà Cattolica, 19 settembre 1981, un articolo di Guido Sommavilla SJ. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Ci riferiamo all'allegro nominalismo nichilistico che però Umberto Eco molto seriamente sostiene o, meglio, insinua nel suo recente romanzo Il nome della rosa,[1] ora vincitore del Premio Strega 1981. Che noi sappiamo, la critica finora ha avvertito in questo libro il nominalismo, ma non che esso è esattamente nichilistico e tuttavia allegro e perché, né tantomeno ha visto che questa era la fondamentale intentio operis et operantis

Eppure tutta l'idea era dogmaticamente scandita in latino in un esametro che fa da ultima riga nell'ultima pagina del romanzo: Stat rosa pristina nomine, nuda nomina tenemus. Non abbiamo che i nudi nomi, cioè che le nude parole, le quali non dicono nulla tranne se stesse, non significano nessuna verità. È o, meglio, era la tesi radicale dello strutturalismo francese. Un nudo nome è dunque e soprattutto quello della rosa a cui spetta il primo dei nomi, cioè Dio, che è dunque lo stesso nome del nulla. La rosa del titolo è dunque Dio e il suo senso è il nulla. Se non abbiamo con questo azzeccato il senso del titolo, abbiamo certamente, ci pare, azzeccato il senso del libro, dove nella stessa ultima pagina sopracitata, 10 righe sopra l'esametro, si era sentenziato, questa volta in tedescoGott ist ein lautes nichts («Dio è un puro nulla»: nel senso di caos primordiale e finale).

Trama interna ed esterna

Se così è (e lo proveremo), allora non è esattamente vero che l'autore abbia scritto questo libro «per puro amore di scrittura» (p. 15). Vero è che tutto l'amore dell'Autore, come almeno qui risulta, è che tutto non sia che scrittura, che tutte le verità non siano che vuote parole, ma con una eccezione, la sua, la verità che tutta la verità non sia che un nudo nome. Per questa verità egli lotta, dicevamo, molto seriamente e per tutto il libro e con tutte le sue parole. Che si suppongono quindi in questo senso non una pura e vuota scrittura

Ecco molto in breve la trama esterna. Mentre Ludovico il Bavaro è in Italia e il Papa ad Avignone, fra Guglielmo, un francescano inglese omonimo di Guglielmo di Occam, pure inglese e francescano e filosofo nominalista (e partigiano dell'Imperatore), si trova a inquisire in una abbazia benedettina italiana tra Appennino e Alpi marittime su certi orrendi fatti. In una settimana sette frati vengono trovati uno per notte uccisi in circostanze misteriose, che però hanno tutte un riferimento alla grande biblioteca del monastero. Questa è una vera fortezza- labirinto, fatta apposta, si direbbe, per scoraggiare il sapere invece che promuoverlo. Vigila su di essa la tetra figura di un monaco tedesco: Iorge (da würgen = strozzare?). Mortali vendette a spirale tra omosessuali o mortali contese di potere? Guglielmo scopre alla fine che era fin peggio: una mortale contesa circa un libro proibitissimo, protetto sopra ogni altro da segreti, divieti, trappole e da un veleno micidiale incollato sulle pagine. Chi, mosso da perversa curiosità, lo toccava, moriva. Che libro? Nientemeno che il presunto libro secondo della Poetica di Aristotele nell'unica copia esistente, dove il filosofo trattava, dopo la tragedia, la commedia ossia l'ironia

Vedremo più avanti le ragioni della sua estrema pericolosità. Prima occorre sapere della trama interna, ideologica, che attraversa quella esterna. L'intero romanzo si offre infatti ad essere fondamentalmente interpretato come una deriva di riduzioni, mediante identificazione, del valore o senso superiore all'inferiore o del supremo all'infimo e nullo o del diverso all'identico, dove l'identico è ogni volta l'inferiore o infimo o nullo. Si tratta ogni volta, naturalmente, di alti e di bassi presunti, quanto a valore, nella valutazione di chi scrive. I due antagonisti massimi, poi, della romanzesca vicenda, appunto Guglielmo e Iorge, sono interpretabili a massima profondità come, rispettivamente, colui che avalla e colui che frena una simile deriva. Ma ecco anzitutto alcuni esempi emblematici e di progressiva intensità in questo riduzionismo. 

Il tema attacca durante un dialogo tra Guglielmo e Ubertino da Casale là nell'abbazia: «Quello che volevo dire è che c'è poca differenza tra l'ardore dei serafini e l'ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un'accensione estrema della volontà […] temo di non sapere più distinguere, Ubertino». E Guglielmo cita a sostegno di questa sua «paura» un brano di Angela da Foligno, dove una sua mistica esperienza di amore con Cristo viene descritta con terminologia erotica. Ubertino, che è uno «spirituale», reagisce con sdegno: «Non è la stessa cosa, c'è un salto immenso» (p. 65 s.). Due pagine dopo sempre Guglielmo insinua che l'identificazione è, più precisamente, riduzione (freudiana) delle passioni anche più nobili e sante, come l'adorazione e l'umiltà, a «lussuria», a quella stessa a cui si riducono in fondo in fondo anche la superbia e la rivolta (p. 67). Chi leggerà con attenzione questo tema troverà che un filo unico unisce queste prime sue formulazioni con certe ultime, per esempio: «La radice […] dei peccati è la radice stessa della santità» (p. 480). Troverà che questa «radice» è ancora e sempre quell'«ardore», quell’«accensione della volontà» o quella «lussuria» di cui aveva detto Guglielmo, dove il significato di volontà non è evidentemente più quello classico di facoltà della libertà iscritta nell'intelligenza della verità, ma è quello di istinto vitale cieco in senso moderno schopenhaueriano-nietzscheano-freudiano, di cui il desiderio erotico-sessuale è il punto focale massimo (Schopenhauer) o il centro radicale onnicomprensivo (Freud), o la egualmente cieca volontà di potenza che viene prima dell'intelligenza e la determina (Nietzsche). Ed è già per il Guglielmo di Eco quello che sarà per tutti costoro: la sola fondamentale realtà dell'uomo, della quale tutto il resto (intelligenza, spirito, virtù, arte, ecc.) non è che l'alone, l'epifenomeno, il mito, non più realtà ma irrealtà e illusione.

Tutta la massa interna del romanzo conferma questa interpretazione nella linea di un riduzionismo sempre più totale dall'alto al basso mediante identificazione o eliminazione di tutte le differenze. Nessuna differenza viene stabilita, per esempio, tra «eretici» e «cardinali», che sono due «perversioni» uguali e contrarie (p. 73); e nessuna tra «eresia» e «ortodossia», di cui pure fra Guglielmo non vede più «la differenza» (p. 130). Si intende, non nel senso che entrambe sono o vere o false, ma nel senso che la verità in genere non esiste, «non è da nessuna parte» (p. 158). Anche verità e falsità, dunque, si identificano in un medium che le cancella entrambe. 

Ma più avanti sembra invece che la verità si trovi dalla parte degli eretici, identificati con gli esclusi di ogni tempo, a loro volta identificati con i «poveri» e i «semplici» di ogni tempo, che sarebbero da sempre gli «esclusi» dai «poteri». Ora i poveri e i semplici hanno «ragione [dunque hanno la verità] perché posseggono l'intuizione dell'individuale» (p. 209), che esclude ogni universale, come insegnava Occam. Peccato però che lo si dica così universalmente di tanti e come criterio universale di verità e dopo che si è detto che non c'è verità. 

Guglielmo è accompagnato là nell'abbazia da un giovane novizio benedettino tedesco di nome Adso, che gli fa da segretario. È lui il finto narratore di tutta la vicenda. Sarà via via sempre più conquistato dal riduzionismo radicale di Guglielmo. Ne fa anzi a un certo punto l'esperienza: sperimenterà cioè personalmente l'identità tra l'esperienza mistica di Angela da Foligno e quella erotico-sessuale che egli si prende una notte con una puttanella che i monaci, non contenti della loro omosessualità, avevano introdotto furtivamente in biblioteca (p. 251).

Una riduzione identificazione più vistosa e universale si ha alla fine: quella tra Dio e il caos primordiale (del possibile: presunto concetto occamistico di Dio), a cui aderisce Guglielmo (p. 496), e quella, che è però la stessa, a cui aderisce proprio nell'ultima pagina Adso: tra Dio e il nulla, già sopra riferita. Si intende il nulla di noi tutti singolarmente presi, di tutti i nostri io distinti, e di tutte le differenze della realtà, tutte cose destinate a disfarsi alla fine nell'unico, indifferenziato Dio-caos primordiale e finale. Allo stesso modo che tutta l'abbazia, uomini, animali, reparti, libri, sarà ridotta alla fine in cenere da un incendio apocalittico sviluppatosi da un libro che prende fuoco. E allo stesso modo che già Adso aveva profeticamente previsto in un suo sogno, dove aveva visto confondersi e rovesciarsi oscenamente l'una nell'altra le cose, i simboli e le persone più sante e più perverse e, per esempio, Cristo con Giuda e viceversa.

Due verità a sfida

Ma l'identificazione-riduzione più impressionante tentata (ma forse non riuscita) in questo libro è quella che lo stesso Adso intuisce per un lampo e «con un brivido» (p. 476): tra Guglielmo e Iorge, i due antagonisti massimi là nell'abbazia, che, ormai riconosciutisi a vicenda per tali, si sfidano mortalmente, ma guidati e istigati dalla stessa ambizione di fondo (dalla stessa «lussuria»: vedi sopra) a sopraffarsi a vicenda, l'uno per impadronirsi del libro di cui sopra, al fine di liberarne la verità, e l'altro per nasconderlo o, al limite, distruggerlo col fuoco, allo scopo di soffocarla. All'acme di un diverbio, il dialogo culminante di tutto il romanzo e decisivo dei suoi significati, essi si accusano a vicenda di essere «il diavolo» (pp. 480 e 481). 

Vale la pena analizzare un po' i termini di queste due «diavolerie» in contesa mortale. Nel dialogo di cui si tratta Iorge spiega perché il trattato aristotelico sulla commedia o ironia è pericoloso al punto da dover essere tenuto segreto a tutti i costi, non escluso il delitto. Perché in esso l'ironia vi era approfondita a tal punto fino ai principi da insegnare a ridere per principio di tutto, anche delle cose più venerabili, sante e terribili, quali la «santità», il «peccato», l'«Incarnazione» (p. 480), così che sarebbe stato allora possibile anche peccare senza paura (p. 478). Il libro avrebbe insegnato a riconoscere la sostanza ridicola di tutta la realtà, a confondere i valori più alti con i più bassi, e dunque a ridere dei primi come dei secondi, anzi addirittura «a tentare di redimere con diabolico rovesciamento l'alto attraverso l'accettazione delle più basso». Avrebbe insegnato, ad esempio, che tutto non è, in fondo e in realtà, che lussuria, istinto erotico-sessuale di vita, identico all'istinto di morte (come insegna Freud), ennesima identificazione riduzione. Era insomma un Aristotele, tutto romanzesco evidentemente, che aveva già intravisto la «verità» nominalistico-nichilistica di Umberto Eco, la verità che non esiste nulla di serio.

Precisamente questa era anche la «verità» che Guglielmo cercava, che già in fondo sapeva. Era davvero una «diavoleria» per Iorge. Una «diavoleria» erano invece per Guglielmo la contro verità di Jorge e le sue contromisure a impedire la diffusione dell'altra. Per Guglielmo «il diavolo è la fede senza sorriso la verità che non viene mai presa in dubbio […] verità che ha il sapore della morte […] la tetraggine» (p. 481).

Evidentemente un «romanzo» strutturato in modo da culminare in simili contrapposizioni, dove è chiara la scelta dell'una posizione contro l'altra, non è stato scritto «per puro amore di scrittura». Esso mira evidentemente a una «verità» contro un'altra «verità», dove la prima è allegramente avallata per vera e la seconda rabbiosamente denunciata per falsa, tenebrosa, disumana. La falsa verità di Iorge è poi evidentemente supposta come quella dell'inquisizione ecclesiastica e in genere della Chiesa cattolica. La vera verità di Guglielmo-Eco è non meno evidentemente quella di una inquisizione «illuministica» e poi inoltre «nominalistica», protesa ad abbattere la prima con l'abbattimento di ogni possibile verità, con il dogma dei nuda nomina.

Ma che cosa possono mai abbattere dei nudi nomi? Se poi la verità è che tutto è da ridere, è da ridere (direbbe proprio Aristotele) anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere dunque anche l'idea centrale di questo libro. È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo. Sarebbe ridicola allora anche per esempio l'intelligenza (magari di Eco) o la scienza, che pure questo nominalismo riduce a dei puri giochi tra parole. E sarebbe allora ridicolo anche il dolore, l'ingiustizia e tanti tragici errori, magari pure dell'inquisizione ecclesiastica.

Ma l’équipe di Bennassar[2] ha dimostrato che perfino l'inquisizione ecclesiastica spagnola è stata per i suoi tempi, a confronto dei tribunali «secolari», un tribunale modello per «serenità» e «discernimento». Neppure la peggiore delle inquisizioni è stata dunque come Eco qui ce la dipinge, come gli piacerebbe fosse stata.

Se c'è uno che non prende mai «in dubbio» la sua verità è l'Autore di Il nome della rosa nel suo dogmatico assoluto nominalismo e ateismo. Una «tetraggine», una «verità dal sapore di morte», è semmai, di nuovo, questa sua dei nudi nomi, della totale non verità e del nulla nichilistico, alla fine, di tutti noi e di tutte le differenze nel Dio-caos. È poi falso che la verità cattolica sia che tutto è da piangere o che tutto è mortalmente serio: essa distingue benissimo tra più o meno serio e faceto, come distingue tra tante altre cose, scale di valori e disvalori, ragioni di dolore e di gioia (flere cum flentibus, gaudere cum gaudentibus), che invece l'altra «verità» non sa più distinguere nel suo grigio anzi nero e banale riduzionismo.

Un'ultima curiosità. Perché francescano questo Eco dell'uscente Medioevo? Evidentemente perché erano francescani anche gli inglesi Occam e Ruggero Bacone, suoi maestri e supposti antesignani dell'età moderna. Guglielmo simpatizza con i movimenti francescani deviazionisti, è sottilmente ribelle al Papa e parteggia per l'Imperatore (per il potere laico sull’ecclesiastico). Ma la vera ragione originaria della scelta è san Francesco stesso come Eco se lo concepisce. Il «giullare di Dio» pure insegnava a ridere, e rideva, di tutto, e anticipava così a meraviglia l'idea che non c'è niente di serio al mondo. Era l'ispirazione originaria del Poverello (p. 481). 

Solo che poi egli stesso la tradita o gliel'hanno fatta tradire: quando accettò di rientrare sotto l'ombra del Potere, lasciandosi approvare la regola dal Papa. Come a dire che invece del buffone che era destinato a diventare ha accettato di diventare un santo. Ma con la sua vile «inclusione» sotto il Potere egli ha escluso gli esclusi, cioè i poveri e i semplici (p. 204 ss.). Che è un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell'etica, della civiltà e della vita.

7/ La filosofia di Umberto Eco, dai nudi nomi al vetero-realismo, di Mario De Caro

Riprendiamo da Avvenire del 21/2/2016 un articolo di Mario De Caro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Come la maggior parte degli italiani alfabetizzati, ho sentito parlare di Umberto Eco molto presto. Avevo, credo, dodici anni quando lessi la Fenomenologia di Mike Bongiorno, che nell'Italia del boom giocò un ruolo assai maggiore della Fenomenologia dello spirito di Hegel.

Entusiasta di quel testo, lessi poi un altro racconto di Eco, Nonita (per capire solo vari anni dopo che era una parodia di Lolita), e le sue formidabili stroncature dei classici da parte di immaginari critici coevi. Poi passai ai suoi testi di semiotica e di estetica e, soprattutto, al suo Come si fa una tesi di laurea, testo capitale per tutti i laureandi in discipline umanistiche prima dell'affermazione di internet.

Poi venne il 1980 e Il nome della rosa. Lo lessi due volte in una settimana, tanto fu il mio entusiasmo per le avventure di Guglielmo di Baskerville, di Adso da Melk e di Jorge da Burgos. Mi divertii moltissimo a decrittare i giochi letterari echiani: i giochi borgesiani, le citazioni di Voltaire, la ripresa di peso della Storia di fra Michele Minorita.

Allora, però, non avevo ancora gli strumenti culturali per capire che sullo sfondo di quel geniale romanzo c'era la veneranda questione filosofica del realismo, rispetto alla quale trent'anni dopo avrei collaborato con Eco nel volume Bentornata realtà (Einaudi). Cosa c'entri Il nome della rosa con il tema del realismo è presto detto. Come molti ricorderanno, uno dei temi classici della filosofia medievale fu la "questione degli universali". Il problema non era quello di stabilire se nel mondo reale esistono veramente le rose, le cose verdi e i professori: di queste cose nessuno dubitava nel Medioevo come nessuno dubita oggi (filosofi dadaisti a parte, naturalmente). Il problema, piuttosto, era quello di capire cosa le rose, le cose verdi e i professori sono effettivamente.

Su questo tema i filosofi medievali si dividevano in due scuole principali: i nominalisti e i realisti; e le conseguenze della disputa erano importanti, sul piano della morale, della scienza e, soprattutto, della teologia. Secondo i realisti, tutte le rose, tutte le cose verdi e tutti i professori condividono essenze comuni (la "rosità", la "verdezza", la "professorità"); secondo i nominalisti, invece, le singole rose (le singole cose verdi, i singoli professori) sono invece accomunate soltanto dai concetti mediante cui noi le descriviamo o addirittura dai nomi che noi attribuiamo loro: nella realtà non esiste nulla oltre le cose singole, insomma. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, recita la famosa chiusa del Nome della rosa.

La rosa originaria (intesa come l'essenza di tutte le rose) sta solo nel nome, perché i nomi delle essenze sono nudi, perché non rimandano a nessuna essenza reale. E, in effetti, nei suoi primi testi filosofici, come La struttura assente, Eco sembrava tendere verso il nominalismo.

Ad ogni modo, nella maturità (Kant e l'ornitorinco) prese a difendere invece una concezione esplicitamente realistica ("vetero-realismo", la chiamava scherzosamente, per distanziarsi almeno un po' dal "nuovo realismo" di Maurizio Ferraris).

La sua idea era che la realtà fa sempre attrito rispetto ai nostri tentativi di determinarla e di controllarla: le interpretazioni, insomma trovano sempre limiti invalicabili nel modo in cui il mondo è fatto. Ma, per fortuna, ora che Umberto Eco se ne è andato, ci resteranno almeno le sue interpretazioni.

8/ L'ossessione laica della nuova Apocalisse, di Umberto Eco

Riprendiamo da Carlo Maria Martini, In cosa crede chi non crede? l’intervento di Umberto Eco L'ossessione laica della nuova Apocalisse. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (6/3/2016)

Caro Carlo Maria Martini,

non mi ritenga irrispettoso se mi rivolgo a Lei chiamandola per il nome che porta, e senza riferimenti alla veste che indossa. Lo intenda come un atto dì omaggio e di prudenza. Di omaggio, perché sono sempre stato colpito dal modo in cui i francesi, quando intervistano uno scrittore, un artista, una personalità politica, evitano di usare appellativi riduttivi, come professore, eminenza o ministro. Ci sono persone il cui capitale intellettuale è dato dal nome con cui firmano le proprie idee. E così i francesi si rivolgono a qualcuno per cui il nome è il titolo maggiore, con «dites-moi, Jacques Maritain», «dites-moi, Claude Lévi-Strauss». È il riconoscimento di una autorità che tale resterebbe anche se il soggetto non fosse divenuto ambasciatore o accademico di Francia. Se dovessi rivolgermi a Sant'Agostino (e neppure questa volta mi giudichi irriverente per eccesso), non lo chiamerei "Signor vescovo di Ippona" (perché anche altri dopo di lui sono stati vescovi di quella città), bensì "Agostino di Tagaste".

Atto di prudenza, ho anche detto. Infatti potrebbe apparire imbarazzante, quello che questa rivista ha richiesto a entrambi, e cioè che avvenga uno scambio di opinioni tra un laico e un cardinale. Potrebbe sembrare che il laico voglia condurre il cardinale a esprimere pareri in quanto principe della Chiesa e pastore d'anime, e sarebbe far violenza, a chi è appellato e a chi ascolta la risposta. Meglio che il dialogo si presenti per quello che, nelle intenzioni della rivista che ci ha convocati, vuole essere: uno scambio di riflessioni tra uomini liberi. D'altra parte, rivolgendomi a Lei in questo modo, intendo sottolineare il Fatto che Lei è considerato maestro di vita intellettuale e morale anche da quei lettori che non si sentono vincolati ad alcun magistero che non sia quello della retta ragione.

Superati i problemi di etichetta, rimangono quelli dell'etica, perché ritengo che principalmente di questi ci si dovrebbe occupare nel corso di un dialogo che intenda trovare alcuni punti comuni tra il mondo cattolico e quello laico (e non vedrei realistico aprire su queste pagine un dibattito sul Filioque). Ma anche qui, essendo chiamato alla prima mossa (che è sempre la più imbarazzante), non credo ci si debba impegnare su questioni di immediata attualità - forse quelle su cui più immediatamente potrebbero delinearsi posizioni troppo divaricate. Meglio mirare alto, e toccare un argomento che è, sì, di attualità, ma affonda le sue radici abbastanza lontano, ed è stato ragione di fascino, timore e speranza per tutti gli appartenenti alla famiglia umana, nel corso dei due ultimi millenni.

Ho detto la parola chiave. Infatti ci stiamo avvicinando alla fine del secondo millennio; e spero sia ancora politically correct, in Europa, contare gli anni che contano partendo da un evento che certamente - e potrebbe consentirne anche un fedele di altre religioni, o di nessuna - ha profondamente influito sulla storia del nostro pianeta. L'appressarsi di questa scadenza non può non evocare una immagine che ha dominato il pensiero di venti secoli: l'Apocalisse.

La vulgata storica ci dice che gli anni finali del primo millennio sono stati ossessionati dal pensiero della fine dei tempi. È vero che gli storici hanno ormai bollato come leggenda i famigerati "terrori dell'Anno Mille", la visione delle folle gementi che attendevano un'alba che non si sarebbe mai mostrata. Ma ci dicono altresì che il pensiero della fine ha preceduto di qualche secolo quel giorno fatale e, cosa ancor più curiosa, lo ha seguito: e di qui hanno preso forma i vari millenarismi del secondo millennio, che non sono solo stati quelli dei movimenti religiosi, ortodossi o ereticali che fossero: perché si tende ormai a classificare come forme di chiliasmo anche molti movimenti politici e sociali, e di impronta laica e addirittura atea, che intendevano affrettare violentemente la fine dei tempi, non per realizzare la Città di Dio, ma una nuova Città Terrena.

Libro bifido e tremendo, l'Apocalisse di Giovanni, con la sequela di Apocalissi apocrife a cui si associa - ma apocrife per il Canone, e autentiche per gli effetti, le passioni, i terrori e i movimenti che hanno suscitato. L'Apocalisse può essere letto come una promessa, ma anche come l'annuncio di una fine, e così viene riscritto a ogni passo, in questa attesa del Duemila, anche da chi non l'ha mai letto: non più le sette trombe, e la grandine, e il mare che diventa sangue, e la caduta delle stelle, e le cavallette che sorgono col fumo dal pozzo dell'abisso e gli eserciti di Gog e Magog, e la Bestia che sorge dal mare, bensì il moltiplicarsi dei depositi nucleari ormai incontrollati e incontrollabili, e le piogge acide, e l'Amazzonia che scompare, e il buco dell'ozono, e la migrazione di orde diseredate che salgono a bussare, talora con violenza, alle porte del benessere, e la fame d'interi continenti, e nuove inguaribili pestilenze, e la distruzione interessata del suolo, e i climi che si modificano, e i ghiacciai che si scioglieranno, e l'ingegneria genetica che costruirà i nostri replicanti, e per l'ecologismo mistico il suicidio necessario dell'umanità stessa, che dovrà perire per salvare le specie che ha quasi distrutto, la madre Gea che ha snaturato e soffocato.
Stiamo vivendo (e sia pure nella misura disattenta a cui ci hanno abituato i mezzi di comunicazione di massa) i nostri terrori della fine; e potremmo persino dire che li viviamo nello spirito del bibamus, edamus, cras moriemur, celebrando la fine delle ideologie e della solidarietà nel vortice di un consumismo irresponsabile. Così che ciascuno gioca col fantasma dell'Apocalisse e al tempo stesso lo esorcizza, tanto più lo esorcizza quanto più inconsciamente lo teme, e lo proietta sugli schermi in forma di spettacolo cruento, sperando con questo di averlo reso irreale. Ma la forza dei fantasmi sta proprio nella loro irrealtà.
Ora azzardo che il pensiero della fine dei tempi sia oggi più tipico del mondo laico che di quello cristiano. Ovvero, il mondo cristiano ne fa oggetto di meditazione, ma si muove come se fosse giusto proiettarlo in una dimensione che non si misura coi calendari; il mondo laico finge di ignorarlo, ma ne è sostanzialmente ossessionato
. E questo non è un paradosso, perché non fa altro che ripetere quanto è avvenuto nei primi mille anni.

Non mi intratterrò su questioni esegetiche che Lei conosce meglio di me, ma ricorderò ai lettori che l'idea della fine dei tempi sorgeva da uno dei più ambigui passaggi del testo di Giovanni, il capitolo 20. Esso lasciava intendere questo "scenario": con l'Incarnazione e la Redenzione, Satana viene imprigionato, ma dopo mille anni ritornerà, e a quel punto dovrà avvenire lo scontro finale tra le forze del bene e quelle del male, coronato dal ritorno del Cristo e dal Giudizio Universale. Certamente Giovanni parla di mille anni. Ma già alcuni dei Padri avevano scritto che mille anni per il Signore sono un giorno, o un giorno mille anni, e che dunque il computo non andava fatto alla lettera; e in Agostino la lettura del passo sceglierà il senso "spirituale". Sia il millennio che la Città di Dio non sono eventi storici, bensì mistici, e l'Armageddon non è di questa terra; non si nega certo che un giorno la storia possa compiersi quando il Cristo scenderà a giudicare i vivi e i morti, ma quello su cui si pone l'accento non è la fine dei secoli, bensì il loro procedere, dominato dalla idea regolativa (non dalla scadenza storica) della Parusia.

Con questa mossa, non solo Agostino, ma la Patristica nel suo complesso, dona al mondo l'idea della Storia come percorso in avanti, idea che era estranea al mondo pagano. Persino Hegel e Marx sono debitori di questa idea fondamentale, come ne sarà prosecutore Teilhard de Chardin. Il cristianesimo ha inventato la Storia, ed è infatti il moderno Anticristo a denunciarla come malattia. Caso mai lo storicismo laico ha inteso questa storia come infinitamente perfettibile, così che il domani perfezioni l'oggi, sempre e senza riserve, e nel corso della storia stessa Dio si faccia e, per così dire, educhi e arricchisca se stesso. Ma questa non è l'ideologia di tutto il mondo laico, che della storia ha saputo vedere le regressioni e le follie; eppure c'è una visione originalmente cristiana della storia ogni qual volta questo cammino viene percorso all'insegna della Speranza. Talché, pur sapendo giudicare la storia e i suoi orrori, si è fondamentalmente cristiani sia quando con Mounier si parla di ottimismo tragico, sia quando con Gramsci si parla di pessimismo della ragione e ottimismo della volontà.

Penso vi sia millenarismo disperato ogni qual volta la fine dei tempi viene vista come inevitabile, e qualsiasi speranza cede il posto a una celebrazione della fine della storia, o all'appello a un ritorno a una Tradizione intemporale e arcaica, che nessun atto di volontà e nessuna riflessione, non dico razionale, ma ragionevole, potrà mai arricchire. Di qui nasce l'eresia gnostica (anche nelle sue forme laiche) per cui il mondo e la storia sono frutto di un errore, e solo pochi eletti, distruggendo entrambi, potranno redimere Dio stesso; di qui nascono le varie forme di superomismo, per cui sulla scena miserabile del mondo e della storia potranno celebrare i loro fiammeggianti olocausti solo gli adepti di una razza o setta privilegiata.
Solo avendo un senso della direzione della storia (anche per chi non crede nella Parusia) si possono amare le realtà terrene e credere - con carità - che ci sia ancora posto per la Speranza.

C'è una nozione di speranza (e di responsabilità nostra nei confronti del domani) che possa essere comune a credenti e a non credenti? Su che cosa si può ancora basare? Che funzione critica può assumere un pensiero della fine che non implichi disinteresse verso il futuro ma processo costante agli errori del passato?

Altrimenti è giusto che, anche senza pensare alla fine, si accetti che essa si approssimi, ci si metta davanti al teleschermo (al riparo delle nostre fortificazioni elettroniche), e si attenda che qualcuno ci diverta, mentre le cose intanto vanno come vanno. E al Diavolo coloro che verranno.

Note al testo

[1] U. Eco, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980 […].

[2] Storia dell’Inquisizione spagnola dal XV al XIX secolo, Milano, Rizzoli, 1980, 321.