L’esperienza dello Spirito Santo nel Vangelo secondo Luca e in Atti, di Ermenegildo Manicardi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /02 /2010 - 23:29 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal web un articolo di Ermenegildo Manicardi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (13/2/2010)

1. Novità pasquale dell’esperienza dello Spirito Santo

L’esperienza dello Spirito Santo, come conseguenza dell’evangelizzazione e della fede, è l’esperienza centrale e assoluta della Chiesa delle origini: “centrale”, perché è a partire da essa che si illumina tutto il resto del vissuto, e “assoluta” perché essa è staccata da tutto ciò che il mondo circostante viveva. L’esperienza dello Spirito fu qualcosa di nuovo perfino rispetto al vissuto di coloro che avevano seguito Gesù di Nazaret nel suo ministero terreno. Il fatto che l’effusione dello Spirito sia stata un elemento nuovo anche rispetto alle molte esperienze vissute con il Maestro e ascoltate da Lui in Galilea e nella salita a Gerusalemme, appare chiaramente a tutti i livelli del Nuovo Testamento (NT). Ricordiamo qualche testo esemplare scelto dalle lettere di san Paolo e dagli scritti di san Giovanni.

Rievocando per i Tessalonicesi l’esperienza della predicazione del vangelo appena dopo alcuni mesi o forse dopo poche settimane, Paolo dice loro: «Il nostro Vangelo (che significa poi concretamente: l’evangelizzazione che io, Sila e Timoteo abbiamo operata presso di voi) non avvenne tra voi soltanto con parola, ma anche con potenza e Spirito Santo e pienezza grande» (1Ts 1,5). Ancora più esplicito è un passaggio della lettera ai Galati, di qualche anno dopo, in cui Paolo attacca i cristiani, appartenenti a varie comunità della regione della Galazia, che corrono il rischio di passare ad un altro vangelo (che in realtà non c’è!) accettando la proposta della circoncisione: «Siete così stolti, che avendo incominciato con lo Spirito, ora volete perfezionare con la carne?» (Gal 3,3).

Paolo sta ironizzando causticamente sul regresso dei Galati: «Grazie alla predicazione siete entrati nell’esperienza dello Spirito e adesso pensate di “perfezionare” la vostra situazione con la circoncisione del prepuzio, cioè passando alla carne?». Da entrambi questi due testi paolini appare con chiarezza che l’Apostolo vede l’inizio dell’esperienza cristiana come esperienza dello Spirito ricevuto. Questo è il dato iniziale, anzi si potrebbe dire sorgivo, di tutto ciò che è cristiano. Lo Spirito non rappresenta solo la pienezza escatologica a cui la “caparra” ci prepara, ma anche il primo momento e il vero principio dell’essere cristiano. La prima predicazione avviene nello Spirito Santo stesso e il vangelo, appena viene accolto, trasmette al credente il dono dello Spirito Santo.

Anche nel vangelo di san Giovanni troviamo affermazioni, che tradiscono una tale comprensione dell’esperienza cristiana dello Spirito. Nel corso del ministero Gesù parla raramente dello Spirito (cfr., oltre alle menzioni per il battesimo, solo in Gv 3,5; 4,23; 6,63). Anzi, in un punto cruciale l’evangelista si preoccupa di precisare che comunque allora lo Spirito non era ancora stato dato: «Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (Gv 7,39).

Nella narrazione giovannea è Gesù stesso che, nei discorsi della cena (Gv 13-17) presenta ripetutamente la futura novità del dono dello Spirito Santo, del Paraclito, dello Spirito di verità, dell’altro Consolatore. Un passo è sufficiente a confermare che anche nella visione giovannea lo Spirito Santo è qualcosa di nuovo, riservato al tempo dopo la Pasqua: «Molte cose ho ancora da dirvi, me per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera… Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà» (Gv 16,12-14). Anche da queste parole di Gesù si coglie chiaramente l’assolutezza dell’esperienza dello Spirito fatta nella Chiesa primitiva. Naturalmente essa è in relazione a ciò che si è vissuto con Gesù di Nazaret, per mezzo delle sue parole e delle sue azioni.

2. La testimonianza allo Spirito nella duplice opera lucana

La duplice opera lucana permette di rilevare le osservazioni di un autore cristiano, che ha voluto ripensare «daccapo» (Lc 1,3) «gli avvenimento portati a compimento tra noi» (1,1). Luca intende proporre a Teofilo – vale a dire a un cristiano che (non a caso?) si chiama “Amico di Dio” – di ripercorrere con nuova e maggiore profondità «la solidità delle parole della catechesi già ricevuta» (cfr. 1,4).

Facendo attenzione a tale prospettiva del prologo del vangelo lucano, si vede con chiarezza che l’opera di Luca non è pensata come un’opera per principianti. Poiché Luca scrive dopo che «molti hanno già posto mano a stendere un racconto» (1,1), è evidente che il suo impegno ha lo scopo di permettere un approfondimento dopo la catechesi iniziale, proponendo qualcosa di più ordinato e sistematico. L’opera lucana è perciò particolarmente adatta per sostenerci nell’approfondimento della catechesi dello Spirito che ciascuno di noi ha a suo tempo ricevuto.

Riflettere sulla visione dello Spirito Santo nella duplice opera lucana è impresa di notevole impegno. È vero che esiste di fatto anche un modo che giudico – perdonatemi se lo dico con molta chiarezza – piuttosto sbrigativo ed è quello di concentrarsi sugli Atti degli Apostoli, presentando uno schema di lettura unificata degli oltre cinquanta riferimenti espliciti allo Spirito, che si riscontrano in questa opera, ricavandone poi per così dire una tabella di classificazione delle funzioni dello Spirito Santo. L’operazione non è difficile: giustamente gli “Atti” sono stati chiamati anche il “vangelo dello Spirito”. In effetti essi non raccontano le azioni degli Apostoli per presentare quanto essi hanno compiuto, ma, narrando le vicende di questi uomini, Luca intende mostrare quanto lo Spirito di Dio ha operato nello sviluppo della Chiesa e nell’annuncio che da Gerusalemme arriva a Roma.

Certamente è una presentazione simpatica del NT immaginare che anch’esso – come l’Antico Testamento (AT) – cominci con un “Pentateuco” di cinque vangeli: ai quattro vangeli di Gesù Cristo ne viene aggiunto un quinto, il vangelo dello Spirito Santo.

Luca però non è definibile come “l’evangelista dello Spirito Santo” solo a causa della narrazione contenuta in Atti degli Apostoli, ma soprattutto a causa del suo tentativo di leggere unitariamente – anche in riferimento allo Spirito Santo – la vicenda di Gesù di Nazaret e la storia paradigmatica di alcune comunità cristiane fondate da Pietro, da Filippo, da Saulo e da altri.

Tenendo conto dell’unitarietà delle due parti dell’opera lucana e del fatto che esse siano apparse anonime (i due titoli attuali “Vangelo secondo Luca” e “Atti degli apostoli” sono chiaramente denominazioni maturate nella tradizione posteriore), mi sono permesso di immaginare un nuovo titolo unitario per il lavoro portato a termine da Luca. Sulla scorta di altri casi occorsi a opere dell’antichità potremmo immaginare per la duplice opera lucana il titolo “Ad Theofilum libri duo” (= i due libri a Teofilo). Questa titolatura diventa simpatica e forse addirittura affascinante se si tiene conto dell’etimologia greca del nome Teofilo. I due libri di Luca sono “due libri per l’amico di Dio”: l’amico di Dio, disposto a scavarvi a fondo, finirà con il percepire la solidità degli insegnamenti nei quali è stato già catechizzato.

Per riflettere veramente su Luca come evangelista dello Spirito Santo, è dunque necessario tenere conto di entrambe le opere da lui scritte o, forse meglio, delle due parti di una stessa opera. Solo da questa ampiezza di osservazione può emergere il significato dell’esperienza dello Spirito Santo così come la percepisce Luca. Il cammino piuttosto lungo cui ci troviamo di fronte comincia dalla narrazione evangelica. Per comprendere bene il valore delle menzioni dello Spirito Santo in questa prima parte dell’opera lucana, è necessario impostare un paragone con le affermazioni sullo Spirito Santo che si trovano nel vangelo secondo Marco, che – visto dal punto di osservazione di Luca – è una delle narrazioni preesistenti a cui fa allusione Lc 1,1.

3. Lo Spirito Santo nel vangelo secondo Marco

Nel corso della narrazione marciana del ministero lo Spirito Santo viene menzionato da Gesù in tre passi. Uno di questi non ha, però, grande rilievo: «Ha detto Davide in Spirito Santo: ‘Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra’» (Mc 12,36). In questo caso, infatti, Gesù semplicemente ripete l’affermazione di ogni ebreo credente. Di conseguenza tale testo, pur essendo molto interessante per il suo significato cristologico, non aiuta a cogliere il modo in cui Gesù guarda allo Spirito Santo. Del resto, che Gesù consideri la Sacra Scrittura del suo popolo come un testo ispirato, è un dato già noto per il modo in cui, secondo tutta la narrazione evangelica, Egli si rapporta ai testi biblici.

Di grande rilievo, invece, sono gli altri due testi in questione. «‘Amen vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli d’uomo, e le bestemmie quante ne bestemmieranno; chi invece avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non ha perdono in eterno, ma è reo di colpa eterna’. Dicevano infatti: ‘Ha uno spirito immondo’» (Mc 3,28-29). Questa parola è pronunciata nel momento in cui gli scribi vengono da Gerusalemme in Galilea per vedere cosa significa l’operato di Gesù, di cui si comincia a parlare. Essi danno una valutazione terribile sugli esorcismi da Lui compiuti: «Egli caccia i demoni nel nome del principe dei demoni» (cfr. 3,22). La bestemmia contro lo Spirito Santo appare proprio essere questo non riconoscere che in Gesù agisce la potenza di Dio, anzi agisce in Lui lo stesso Spirito di Dio. Lo Spirito Santo va riconosciuto come presente nell’azione di Gesù. Vale la pena notare già da subito che tale riconoscimento dello Spirito va fatto in un contesto difficile e conflittuale. Non siamo di fronte a un’affermazione serena e pacifica, ma ad uno scontro molto forte.

Il secondo testo si trova in un punto molto più avanzato nella narrazione di Mc. All’interno del discorso escatologico – l’ultimo e forse l’unico discorso vero e proprio secondo Mc – Gesù dichiara: «E quando vi condurranno via per consegnarvi, non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, ma dite ciò che in quell’ora vi sarà dato: perché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo» (Mc 13,11). Anche in questo caso il contesto dell’affermazione sullo Spirito Santo è segnato da una situazione di conflitto molto grande. Il discepolo non solo deve scegliere di vedere e di accettare che in Gesù agisce lo Spirito in momenti di tensione (come nel caso del capitolo terzo di Mc), ma il credente, già prigioniero a causa del nome di Gesù, deve accettare di non essere preoccupato del processo a cui sta andando incontro, perché lo Spirito Santo lo sosterrà direttamente nella lotta.

Queste due parole di Gesù, le uniche sullo Spirito testimoniate nel vangelo di Marco, mostrano con evidenza che il discorso sullo Spirito Santo non viene fatto mai in un contesto semplice, tranquillo, di libero sviluppo – in un contesto per così dire “roseo” –, ma appare nei punti decisivi, vitali e di conflitto a riguardo del mistero di Gesù. Lo Spirito Santo è menzionato in relazione a Gesù anzitutto nel momento della prima grande verifica, quando per accettarlo è necessario allontanarsi dal parere degli importanti scribi discesi da Gerusalemme. Viene menzionato cioè nel momento in cui si deve riconoscere Gesù, mentre si è tentati di non ammettere la profondità del suo mistero e di risolvere banalmente la realtà della sua azione come azione di fatto demoniaca.

La seconda parola di Gesù sullo Spirito Santo è legata al momento in cui il suo discepolo, dopo averlo riconosciuto, è chiamato alla prova grande della testimonianza anche a prezzo del carcere e della vita. Se in Mc abbiamo soltanto due testi, è evidente però che essi sono di grande importanza. È facile osservare che essi si trovano nel primo grande bilancio dell’inizio del ministero di Gesù (entro Mc 3,7-35) e nel momento conclusivo della sua attività pubblica, cioè nel discorso escatologico che precede immediatamente l’inizio del racconto della sua Passione (entro Mc 13).

Nonostante che sia evidente l’importanza e la ricchezza teologica di queste due parole di Gesù sullo Spirito, tenendo conto della centralità assoluta dell’esperienza pneumatica fatta nella comunità primitiva, viene spontanea la domanda: Marco, che ha certamente vissuto l’esperienza dello Spirito Santo nel contesto delle comunità cristiane delle origini, come ha potuto accontentarsi di questi due testi soltanto? La risposta “l’evangelista non può certo inventare detti di Gesù non testimoniati dalla tradizione” è perfettamente corretta. Rimane però da osservare: non ha cercato con altri espedienti letterari di evidenziare la centralità del tema “Spirito Santo” nell’esperienza cristiana?

Se poniamo così la domanda, è facile osservare come nel prologo del vangelo secondo Marco (1,2-13) ricorrano tre menzioni dello Spirito Santo che non possono non apparire – sia per il numero (tre come nel corso del ministero), sia per la collocazione – di estrema importanza. Questi tre riferimenti non ricorrono in parole di Gesù, ma il primo è in bocca a Giovanni Battista (1,8) e gli altri due figurano nel corso della narrazione (1,10 e 1,12). Accenniamo a questi testi andando un po’ a ritroso.

Il ministero di Gesù è preparato dal suo battesimo e dalla sua permanenza nel deserto. Appena battezzato nel Giordano, mentre sale dall’acqua, Gesù subito vede i cieli squarciati – come nella parola di Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19) – e lo Spirito discendere come colomba in lui (Mc 1,9-11). Nel racconto della permanenza di Gesù nel deserto, lo Spirito che è appena disceso su Gesù viene menzionato di nuovo: «E subito lo Spirito lo caccia nel deserto; ed era nel deserto quaranta giorni tentato da Satana» (1,12-13).

La funzione dello Spirito Santo pare essere qui non tanto quella di custodire Gesù, ma piuttosto di buttarlo nel deserto, affinché sia tentato. Abbiamo così, anche per Gesù, un quadro molto severo e drammatico, come avevamo trovato per i suoi discepoli. Lo Spirito appare attivo in situazioni che presto si rivelano di conflitto. Stavolta il conflitto non è dato da un’ostilità esterna, ma dalla necessaria verifica del cuore di Gesù stesso. Sarebbe ingenuo intendere questo testo nel senso che lo Spirito accompagna Gesù nel deserto, per essere pronto ad aiutarlo sapendo che là Gesù sta per essere tentato. Il testo presenta piuttosto un quadro più duro: lo Spirito Santo spinge Gesù verso la tentazione, poiché la tentazione è lo strumento più adatto a collocare anche Gesù su roccia e non su terreno friabile, fin dall’inizio del suo cammino. L’impostazione marciana può risultare anche sanamente correttiva rispetto ad una visione edulcorata che vede la presenza dello Spirito solo in situazioni molto soft.

Il primo testo sullo Spirito che figura nella narrazione di Mc si trova all’apice delle parole di Giovanni sul «più forte di lui»: «Io vi ho battezzati con acqua, Egli invece vi battezzerà con Spirito Santo» (1,8). Per mezzo di questa parola di Giovanni Battista, che costituisce il culmine del suo annuncio del «più forte di lui», Marco presenta la realtà della vita cristiana come immersione nello Spirito Santo. Anche se un riferimento alla celebrazione del battesimo non è da escludere, l’affermazione di Giovanni probabilmente ha di mira, secondo Mc, più che il “battezzare” in senso rituale, piuttosto un “immergere” nello Spirito secondo il senso normale del verbo greco baptìzein. Procedendo in questo modo l’evangelista ha dato, fin dalle prime parole del prologo, una chiave di lettura che porta a comprendere tutta l’esperienza cristiana come un’immersione nello Spirito Santo.

Anche se i testi a disposizione non sono molti, è evidente che Marco presenta un interesse, intelligente e chiaro, al tema dello Spirito Santo e all’esperienza che se ne fa nella Chiesa. Il numero esiguo dei passi in questione non deve trarre in inganno. Questo evangelista riprende due detti di Gesù sullo Spirito, che permettono di capire la sua funzione nella vita dei discepoli facendo particolare attenzione al contesto del discernimento del mistero di Gesù e alla difficoltà della testimonianza a lui che si viene a prestare anche nel carcere e nei tribunali.

Questo quadro possibile delle parole di Gesù viene integrato con le affermazioni sullo Spirito fatte nel prologo alla narrazione del suo ministero. Fin dall’inizio della sua azione Gesù ha ricevuto lo Spirito Santo (Mc 1,10). Di conseguenza Egli può parlare con autorevolezza della presenza dello Spirito in lui (Mc 3,28-29) e, soprattutto, ne può promettere l’azione sui discepoli che riconoscano davvero tale presenza (cfr. Mc 13,11). Il Prologo del vangelo marciano fa anche vedere come lo Spirito spinga Gesù ad una personale verifica esigente (1,12). In questo modo è chiaro che lo Spirito che accompagna il discepolo nella persecuzione è lo stesso che ha buttato Gesù nel deserto (cfr. 1,12 con 3,11). La prima menzione dello Spirito Santo aiuta, infine, a vedere, già a partire dall’annuncio del «più forte» fatto da Giovanni, come tutta l’economia cristiana sia da leggere come un’immersione nello Spirito (1,8).

4. Lo Spirito Santo nella struttura generale del vangelo secondo Luca

Prima di passare all’analisi di singoli passi lucani che menzionano lo Spirito Santo, è utile rivolgere uno sguardo complessivo di orientamento sull’insieme di questo vangelo, tenendo conto di quanto riscontrato ora in quello marciano.

Per quanto riguarda il ministero pubblico di Gesù, Luca non moltiplica le menzioni e i detti sullo Spirito Santo. Egli invece raccoglie, presentandole di fatto in un contesto più “sistematico” (cfr. Lc 12,10-12), le due parole di Gesù sullo Spirito Santo incontrate in Mc ancora all’inizio del ministero (Mc 3,28-29) e nell’ultimo discorso di Gesù (Mc 13,11). Egli inoltre attualizza probabilmente il più innocuo «cose buone» di Mt 7,11 – che sembra provenire agli evangelisti dalla tradizione dei detti di Gesù (la cosiddetta “fonte Q”) – parlando dello «Spirito Santo» come del dono che il Padre farà a coloro che glielo domandano (Lc 11,13).

Anche per quanto riguarda eventuali sottolineature della presenza dello Spirito Santo in Gesù da parte della voce narrante, Luca procede in maniera assai cauta. L’unico caso di esplicitazione della presenza dello Spirito Santo in Gesù viene fatta nell’introduzione al grido di esultanza dopo il ritorno dei settantadue discepoli dalla missione, dove si dice appunto che Egli reagisce «nello Spirito Santo» (Lc 10,21).

Più che con l’inserimento di altri detti sullo Spirito Santo, di cui con ogni probabilità non dispone, oppure con particolari narrativi che ne mettano in evidenza la presenza in Gesù, Luca mostra la sua comprensione dell’esperienza dello Spirito seguendo, anche se con caratteristiche del tutto proprie, la scelta marciana di evidenziare fin dall’inizio il ruolo dello Spirito nella vicenda che sarà narrata.

Di conseguenza Luca presenta la sua concezione dello Spirito anzitutto nei due lunghi capitoli definiti di solito “il vangelo lucano dell’infanzia” (Lc 1-2). In questa narrazione, in cui Luca procede con grande decisione e originalità, vengono fatte affermazioni sullo Spirito che mostrano come tutta la realtà cristiana sia investita da questo dono.

In qualche modo si potrebbe perciò affermare che la pneumatologia di Lc 1-2 ha una funzione parallela a quella di Mc 1,8. Non è perciò un caso che Lc 3,16 – parlando di battesimo «in Spirito Santo e fuoco» (cfr. anche il seguente v. 17) – preferisca recuperare la probabile forma Q dell’annunzio del «più forte» da parte di Giovanni Battista (cfr. Mt 3,11), invece che seguire Mc 1,8. Quest’ultimo testo marciano sembra al contrario influire sulla formulazione con cui, all’inizio di Atti, il Risorto preannunzia l’imminente battesimo del discepoli «nello Spirito Santo». Si osservi in questo senso At 1,4, in cui non viene ricordato il fuoco, nonostante che il racconto della Pentecoste presenti proprio un investimento del doppio simbolo “vento e fuoco” (cfr. At 2,2-3).

Per quanto riguarda poi l’inizio del ministero di Gesù, Luca riprende senza dubbio gli elementi del battesimo e delle tentazioni nel deserto. A questi testi, presenti già nella redazione marciana, egli aggiunge un’elaborazione del sommario di inizio del ministero, in cui la potenza dello Spirito Santo presente in Gesù viene esplicitamente evidenziata (cfr. 4,14-15), e il testo molto elaborato della predicazione a Nazaret, che in questo vangelo deve fungere da scena di apertura narrativa (cfr. in particolare 4,16-21).

Al termine della narrazione del primo libro della sua opera, il discorso sullo Spirito Santo viene poi rilanciato robustamente dalla configurazione data ai racconti pasquali (Lc 24). Particolare rilievo assume in questo caso, nell’insieme dell’opera lucana, il rimando alla «promessa del Padre» e alla «potenza dall’Alto», che segna il culmine dell’apparizione del Risorto a tutti i discepoli riuniti la sera di Pasqua (24,29).

5. La presenza dello Spirito Santo nel vangelo lucano dell’infanzia

I primi due capitoli del vangelo secondo Luca propongono una lunga narrazione, di solito chiamata “vangelo lucano dell’infanzia”, che presenta il protagonista dell’opera a partire da avvenimenti legati alla sua nascita e fanciullezza. A noi sembra che l’insieme di questo racconto si articoli in tre sequenze che fanno perno su un elemento decisivo della vicenda del personaggio presentato.

Abbiamo nell’ordine i tre elementi che sono costitutivi nella storia del diventare adulto di un uomo ebreo. Il primo elemento è senza dubbio il concepimento (1,5-80). Il secondo elemento è costituito dal parto; al parto, però, si legano la circoncisione l’ottavo giorno (poiché il bambino partorito è un maschietto) e la presentazione al tempio il quarantesimo giorno perché il bambino nato è anche un primogenito e come tale è soggetto ad una legge speciale (2,1-40). Il terzo momento è dato dalla vicenda del perso e ritrovato nel tempio, cioè da un primo episodio in cui il dodicenne si mostra del tutto consapevole di sé (2,41-52).

Nell’insieme delle tre sequenze della narrazione abbiamo, per quanto riguarda lo Spirito Santo, due affermazioni decisive. Lo Spirito appare infatti come colui che rende possibile il concepimento verginale e, inoltre, come colui che attraverso le parole dei profeti introduce Maria (e i destinatari del vangelo) nel mistero della persona di Gesù.

Il concepimento verginale per opera dello Spirito Santo, che si trova al centro della prima sequenza lucana, (cfr. 1,34-38), non è semplicemente un elemento della teologia lucana, ma – come risulta anche da Mt 1,18 e 1,20 – appartiene alla tradizione precedente. Lo Spirito Santo interviene con la sua potenza creatrice perché la Vergine, senza contatto sessuale, possa concepire verginalmente il Figlio di Davide destinato a ricevere il trono eterno del Padre.

Nella prima e nella seconda sequenza lucana abbiamo, però, anche un secondo intervento dello Spirito Santo. Maria infatti viene guidata da profeti ispirati prima entro il mistero del concepimento, e poi entro quello della nascita. Nella terza sequenza non appaiono più dei profeti, ma in questo caso è Gesù stesso che spiega il proprio mistero (cfr. 2,49).

Dobbiamo ora analizzare l’intervento dello Spirito Santo che serve a fare entrare Maria nel mistero del concepimento che pure sta vivendo. Il racconto della annunciazione non è isolato in sé, ma legato strettamente al racconto della visitazione. In effetti la partenza dell’angelo alla fine del racconto non interrompe completamente la scena, perché non si dice nulla dell’altro personaggio del racconto, che è Maria (1,38). In effetti il versetto seguente, che introduce il racconto della visitazione, comincia proprio con la menzione dell’alzarsi di Maria, che fa da corrispettivo alla partenza dell’angelo (1,39).

Mentre la traduzione della Bibbia C.E.I. segna uno stacco netto («In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna»), il testo greco sembra sottolineare la continuità del racconto: «E partì da lei l’angelo. Alzatasi poi Maria, proprio in quei giorni, se ne andò in fretta nella regione montagnosa». Il collegamento dei due racconti e la fretta con cui Maria si reca nella città di Giuda devono essere messe in relazione con le parole dell’angelo Gabriele che, dopo avere annunziato che lo Spirito renderà possibile il concepimento verginale del figlio di Maria, continua: «Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile; nulla è impossibile a Dio» (1,36-37).

A partire da tale testo forse si potrebbe pensare che la visitazione si risolva in una verifica da parte di Maria che il concepimento di Elisabetta è veramente avvenuto. In realtà, però, all’arrivo nella casa di Zaccaria l’iniziativa è presa da Elisabetta. Appena ode il saluto, Elisabetta infatti «fu piena di Spirito Santo e prese parola a gran voce e disse» (1,41-42). Dopo questa introduzione è evidente che le parole pronunciate da Elisabetta devono necessariamente essere intese come profezia suscitata dallo Spirito. Incontrando la parente, Maria non fa soltanto la verifica di quanto le ha detto l’angelo, ma si incontra con una parola ispirata che la guida. L’espressione «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (1,42-43), introdotta dal narratore come una profezia vera e propria, assicura Maria del concepimento avvenuto.

Dietro alla profezia di Elisabetta il narratore ci fa vedere la precedente reazione profetica di Giovanni ancora nel grembo della madre. Il saluto di Maria fa sussultare Giovanni nel grembo della madre (1,41) e la madre riferirà di tale accadimento. Giunge qui a compimento la parola misteriosa che Gabriele aveva detto a Zaccaria e che contiene la prima menzione lucana dello Spirito: «Sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre» (1,15).

Probabilmente non si deve intendere questo passo soltanto come il segno di un’elezione da sempre del profeta (cfr., ad esempio, Ger 1,5; Is 49,1.5), ma piuttosto l’indicazione dell’esercizio del ruolo profetico prima ancora della nascita.

Maria perciò ascolta – per la mediazione dei due profeti mossi dallo Spirito, Giovanni ed Elisabetta – la notizia che le due gravidanze annunciate da Gabriele sono avvenute. Non ci sembra perciò un caso che proprio a questo punto risuoni il Magnificat come lode a Maria per quanto avvenuto in lei (1,46-55). Il canto esplode nel momento in cui la consapevolezza di Maria a riguardo del dono ricevuto è ormai del tutto piena.

Tale consapevolezza è a sua volta un nuovo dono dello Spirito Santo mediato attraverso i profeti da lui suscitati. Lo Spirito non è soltanto colui che rende possibile il concepimento di Gesù nella verginità della Madre, ma è anche colui che introduce Maria nel mistero in cui Ella è parte.

In questa prima sequenza si incontra ancora una terza figura profetica, quella di Zaccaria. Il suo cantico infatti è introdotto con una locuzione non equivoca a riguardo: «Zaccaria, suo padre, fu pieno di Spirito Santo e profetò dicendo» (1,67). In questo caso, però, la presenza della Vergine non viene sottolineata. Il cantico appare piuttosto destinato ai lettori del vangelo, affinché vedano un’ultima volta il collegamento tra la salvezza nella casa di Davide e la vicenda di Giovanni.

Anche nella sequenza legata alla nascita di Gesù, comprendente il parto, la circoncisione e la presentazione, si ripete la situazione in cui Maria viene introdotta nel mistero da figure profetiche che le mostrano il disegno del Signore. Il parto deve avere segnato un momento difficile per Maria. L’angelo Gabriele aveva presentato il destino del bambino con i simboli meravigliosi del trono di Davide e del regno senza fine.

La sua nascita viene, invece, mentre Giuseppe e Maria devono sottostare alle indicazioni dell’imperatore romano e mentre non si trova posto per loro all’albergo (cfr. 2,7). Niente di eccezionale sembra accompagnare questa nascita: l’angelo che parla ai pastori e la schiera celeste che canta «Gloria» sono lontani dal luogo in cui avviene la nascita.

Anche in questo caso, perciò, Maria viene introdotta nell’avvenimento che sta vivendo, per così dire, dall’esterno. Sono infatti i pastori che, giunti a Betlemme, la informano di quanto «del bambino era stato detto loro» (2,17). I pastori non sono presentati come “profeti”, ma si tratta di persone che comunicano il messaggio ricevuto dal cielo.

In questa seconda sequenza narrativa appaiono, come profeti in senso stretto, Simeone e Anna. L’incontro con il vecchio Simeone è introdotto da ben tre menzioni dello Spirito: «lo Spirito Santo che era sopra di lui gli aveva stato preannunziato» (2,26), «venne al tempio mosso dallo Spirito» (cfr. 2,27). In questo episodio Simeone rappresenta chiaramente Israele che sente la sua vicenda giunta al compimento: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata davanti da te davanti a tutti i popoli» (2,29-31).

Ora, dopo aver interpretato il significato della venuta del bambino al tempio, Simeone benedice Giuseppe e Maria e parla a Maria sua madre: «Egli è posto per la rovina e la risurrezione di molti in Israele e per segno di contraddizione e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (cfr. 2,34-35). Con queste parole Simeone sembra passare la propria eredità a Maria: si congeda da Israele e passa alla Vergine Madre, per così dire, il testimone della sua corsa. Ancora una volta Maria viene introdotta nel mistero di Cristo guidata da un profeta mosso a questo dallo Spirito (si tenga presente la formulazione di 2,27: «Venne al tempio mosso dallo Spirito»). Senza lo Spirito e senza la profezia, non ci sarebbe l’ingresso pieno di Maria nel mistero. Anche in questa seconda sequenza narrativa abbiamo poi la figura profetica ricordata sì, ma la cui testimonianza non è rapportata direttamente all’ascolto da parte di Maria. Si tratta di Anna, l’anziana definita dal narratore esplicitamente come «profetessa» (2,36).

Possiamo a questo punto notare, pur rimandando a più sotto l’interpretazione del fatto, che in questo dispiegamento di profeti (Giovanni, Elisabetta, Simeone, ma anche Zaccaria e Anna) Maria non viene mai rappresentata come ispirata o mossa dallo Spirito. Indicativo è il confronto tra l’introduzione al Magnificat, che viene fatta con una frase del tutto elementare e, per così dire, profana («E disse Maria», 1,46), e le introduzioni alle parole di Elisabetta, di Zaccaria, di Simeone che fanno riferimento esplicito all’azione dello Spirito (cfr. 1,41-42.67; 2,25-28). Come mai colei che per azione dello Spirito Santo concepisce verginalmente non parla anche per opera dello Spirito Santo? Per ora ci limitiamo ad osservare che le due azioni dello Spirito sono del tutto distinte, perciò il ruolo della profezia, che entra nel cammino di Maria attraverso la parola di questi suoi compagni di viaggio, non può essere taciuto o trascurato.

L’attenzione allo Spirito presente attraverso l’intervento di profeti, attenzione che stiamo scoprendo come dimensione decisiva della narrazione del vangelo dell’infanzia, sembra costituire il cuore della teologia lucana dello Spirito Santo. Tale aspetto corrisponde in qualche modo alla visione paolina, che mette al culmine della gerarchia dei carismi proprio la profezia (1 Cor 14,1).

Luca allora lancia e lascia fin dall’inizio questo messaggio fondamentale: lo Spirito ci aiuta con la profezia da lui suscitata, profezia che ha lo scopo di fare entrare in quel mistero di Dio che – per altro – è lo Spirito stesso a realizzare. Questo ruolo dello Spirito rispetto al dono di Dio non è diretto semplicemente agli estranei, che si trovano al di fuori della Chiesa, per una dilatazione della Chiesa. Nella testimonianza di Luca lo Spirito Santo si dirige, attraverso la profezia, soprattutto verso Maria che è colei su cui è «sopravvenuto» (cfr. 1,35) lo Spirito Santo per permetterle di concepire. Si potrebbe dire che lo Spirito Santo interviene proprio affinché i discepoli approfondiscano il vivere il mistero già loro donato.

6. Lo Spirito Santo e l’inizio del ministero di Gesù secondo Luca

Anche nella presentazione dell’inizio del ministero di Gesù Luca è intervenuto in maniera originale per manifestare la presenza dello Spirito nell’azione del Cristo. Certamente Luca riprende la vicenda del battesimo (3,21-22) e delle tentazioni di Gesù nel deserto (4,1-13); ma non ci soffermiamo su tali punti poiché non sono quelli più originali ed indicativi del pensiero lucano.

Qualcosa di molto nuovo troviamo invece nel sommario con cui viene data notizia dell’inizio del ministero (4,14-15). In questo caso il testo riprende fondamentalmente Mc 1,14-15 ed il confronto sinottico dei due passi permette di capire l’intento redazionale. Qui Luca elimina del tutto il contenuto del messaggio di Gesù: il sommario non serve a sapere che cosa Gesù insegna, ma che Gesù sta insegnando da un certo tempo. La cosa su cui insiste è la fama di lui che si diffonde e, in tal modo, il lettore si rende conto che la venuta di Gesù a Nazaret non rappresenta la prima comparizione in pubblico in ordine cronologico, ma rappresenta un racconto con un primato di significato.

Solo nella sinagoga patria verremo a sapere il contenuto del messaggio di Gesù. Molto importante appare allora nel sommario di Lc 4,14-15 l’indicazione che Gesù ritorna in Galilea «nella potenza dello Spirito Santo». Dal punto di vista del contenuto, sembra questa la cosa più importante che Luca intende comunicare. Lo Spirito in forza del quale Gesù fu concepito verginalmente, lo Spirito che ha ricevuto visibilmente al momento del battesimo al Giordano, lo Spirito che lo ha condotto nel deserto, questo stesso Spirito è ancora con Gesù e lo guida nei passi del suo ministero di predicatore.

La scena di Gesù che si alza a leggere nella sinagoga di Nazaret è una scena al rallentatore: Gesù si alza, gli viene dato il rotolo del profeta Isaia, Gesù apre e cerca il passo che gli interessa, lo trova, lo legge (4,16-17). Poiché queste azioni sono ricordate tutto all’inverso al v. 20, veniamo ad avere al centro le parole isaiane: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per evangelizzare i poveri» (4,18-19). In questo testo è l’elemento che Luca mette al centro della predicazione di Gesù.

La cosa che si deve capire fin dall’inizio è che Gesù è il Cristo (= il consacrato con l’unzione di Dio), proprio e solo perché lo Spirito Santo di Dio è su di lui e lo consacra con la sua unzione. Attraverso il testo isaiano Luca interpreta in questo modo la grande confessione cristiana “Gesù è il Cristo”: Gesù è il Messia perché lo Spirito di Dio è sopra di Lui e attraverso di Lui – meglio: attraverso il vangelo che lo comunica come Cristo – l’unzione dello Spirito raggiunge tutti gli uomini a partire dai poveri. «L’anno di grazia del Signore» consiste appunto in questa presenza dello Spirito data attraverso l’annuncio di Cristo.

Di grande interesse è anche constatare che le parole con cui Gesù commenta il compiersi della promessa isaiana («Oggi si è compiuta questa Scrittura nei vostri orecchi», 4,21) sono una ripresa di quelle del sommario di Mc 1,15 in altra chiave teologica. In Mc Gesù annuncia che «il tempo è compiuto» (il verbo usato è peplérôtai).

In Lc Gesù dice invece che «la Scrittura è compiuta», impiegando di nuovo il verbo peplérôtai. Nella visione cristologica lucana abbiamo allora l’insistenza: nella venuta di Gesù si compie l’attesa del dono pieno dello Spirito annunziato dalla Scrittura per gli ultimi tempi. La messianicità di Gesù di Nazaret viene collegata decisamente alla presenza in lui dello Spirito di Dio e all’effusione conseguente sui suoi discepoli. In forza di questo testo programmatico il destinatario dell’opera lucana è invitato, una volta per tutte, a fare costante attenzione al dato della presenza dello Spirito nell’azione di Gesù.

7. L’incontro con il Risorto e il dono dello Spirito Santo

Dopo che nei lunghi capitoli del ministero di Gesù e della sua passione il riferimento allo Spirito Santo è stato affidato alla decifrazione intelligente del lettore capace di percepire nel singolo testo l’impatto della struttura generale della narrazione, il discorso diventa del tutto esplicito nell’ultimo capitolo.

Anzitutto è da rilevare come la concentrazione delle esperienze pasquali in Gerusalemme ha anche la funzione di collegare strettamente risurrezione di Gesù e dono dello Spirito Santo. L’unità di luogo è così importante che Luca non ha paura di perdere il ricordo delle esperienze pasquali in Galilea, così importanti sia per Mc (cfr. 16,7) che per Mt (cfr. 28,16-20) e riprese anche nel secondo capitolo che Gv dedica alla risurrezione (cfr. Gv 21). Attraverso tale decisa unificazione è chiaro che il dono dello Spirito Santo effuso appartiene agli avvenimenti pasquali, come pure è evidente che non c’è pieno compimento senza che ci sia la venuta di questo dono.

Probabilmente va riportato alla tematica dello Spirito Santo anche il fatto che nelle tre narrazioni di Lc 24 non si possa avere accesso alla risurrezione – anzi, che non si possa avere nemmeno vero incontro con il Risorto – senza che ci sia una mediazione della parola.

Nel primo racconto, all’interno del sepolcro trovato vuoto (24,1-12), le donne sono invitate dai due angeli a ricordarsi delle parole di Gesù quando era ancora in Galilea. La tomba vuota, senza il riferimento a questo precedente dono, sembra insufficiente a condurre alla fede nella risurrezione. Lo stesso Pietro, correndo a verificare come stanno le cose al sepolcro, non ne ricava che sconcerto e meraviglia.

La vicenda dei due discepoli di Emmaus, presentata nel secondo racconto (24,13-35), mostra che la stessa conoscenza del Gesù terreno può non essere sufficiente. In effetti, in questo caso, è soltanto la spiegazione delle Scritture che fa ardere il cuore, mentre è il gesto dello spezzare il pane che apre definitivamente gli occhi di questi uomini.

Il terzo racconto di apparizione del Risorto (24,36-39) insiste, infine, sul fatto che nemmeno il potere toccare il Risorto e il vederlo mangiare conduce necessariamente alla fede. Lo sconcerto e la paura (24,37), lo stupore e l’incredulità – solo in parte scusati con «la grande gioia» (v. 41) – sono superati soltanto dalle parole con cui Gesù fa vedere ai discepoli la relazione tra quanto stanno sperimentando ora, le sue parole durante il suo ministero terreno e le Scritture. Anzi, i discepoli sembrano aprirsi all’incontro con il Risorto soltanto quando Gesù stesso apre non solo le Scritture (come aveva già fatto almeno per i discepoli di Emmaus, che sono tra i presenti a quest’ultimo incontro), ma la mente stessa dei discepoli a capire le Scritture.

È soltanto dopo questo ulteriore passaggio e lo svelamento che le Scritture non contengono unicamente il mistero della morte e risurrezione del Messia, ma anche la prospettiva della predicazione universale del perdono dei peccati, che i discepoli arrivano a credere e possono essere dichiarati «testimoni di queste cose» (cfr. v. 48).

In questo testo lucano non c’è elaborazione esplicita del riferimento delle Scritture allo Spirito. Tale legame è però necessariamente da intravedere sullo sfondo, poiché numerosi sono i passi in cui Lc dichiara che nelle Scritture parla lo Spirito Santo (cfr. soprattutto le due affermazioni di At 1,16 e At 28,25, che commenteremo più sotto). Alla percezione della realtà della risurrezione e del Risorto sembra perciò dare un contributo essenziale la realtà dei testi ispirati dallo Spirito stesso. La loro comprensione non appartiene semplicemente all’approfondimento concettuale della fede o alla teologia, ma entra a costituire la stessa esperienza cristiana originaria.

Si deve poi fare particolare attenzione al fatto che il Risorto – appena ha dichiarato che i discepoli sono testimoni di queste cose – si preoccupa di tenerli ancora “bloccati” in Gerusalemme fino a che non abbiano ricevuto «la promessa del Padre», finalmente mandata da Lui, e non siano stati «rivestiti di potenza dall’alto» (24,49). È Gesù che costituisce i suoi discepoli come testimoni della sua risurrezione e del senso delle Scritture, che Lui ha rivelato loro, ma questo incarico cristologico può essere concretamente assolto solo nella potenza dello Spirito Santo ricevuto in un’effusione personale.

Se è vero che il tema dello Spirito Santo per accedere alla risurrezione di Gesù è già presente, nei testi lucani, nel fatto che senza accesso alla comprensione delle Scritture ispirate non c’è incontro con il Risorto, è ancora più evidente che, senza il dono dello Spirito ricevuto come forza e rivestimento della persona, non ci può essere la realizzazione di quella testimonianza che l’incontro con Gesù risorto conferisce al discepolo come compito.

8. Il dono dello Spirito Santo alla Chiesa e a Maria

La narrazione dell’effusione dello Spirito Santo viene fatta da Luca evidentemente all’inizio degli Atti (2,1-4). Al racconto, però, degli avvenimenti del giorno di Pentecoste e della maniera in cui i discepoli del Signore, investiti dal vento e dal fuoco dello Spirito, diventano i profeti della risurrezione e del dono di Dio, vengono premessi alcuni elementi narrativi di grande importanza.

Nel racconto del dialogo tra Gesù e i discepoli, nel tempo che precede immediatamente l’Ascensione, lo Spirito Santo viene indicato come la forza che permetterà ai discepoli, che pure non conoscono «i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta», di essere testimoni (At 1,6-8). La formulazione di questa promessa si presenta chiaramente parallela a quella delle parole pronunciate da Gabriele per indicare come lo Spirito Santo agirà su Maria perché Ella possa diventare, nella verginità, la Madre del Signore (cfr. Lc 1,43). Dice il Risorto ai discepoli: «Riceverete potenza di sopravveniente Spirito Santo sopra di voi» (At 1,8). L’angelo aveva invece risposto alla Vergine: «Spirito Santo sopravverrà sopra di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35).

I rimandi linguistici tra le due affermazioni sono evidenti già da una semplice traduzione a calco. Il parallelismo, però, a partire da questi aspetti più esterni, raggiunge anche il contenuto profondo dei racconti. In entrambi i casi lo Spirito viene a realizzare l’opera intesa da Dio attraverso uno “strumento” che, pur mettendosi a disposizione per essere veramente efficiente ed efficace, tuttavia per definizione non comprende tutto e non può comprendere tutta l’azione divina che viene compiuta attraverso tale mediazione.

Il parallelismo tra Maria nell’annunciazione e la Chiesa nella Pentecoste, suggerito dal confronto tra i capitoli iniziali dei due libri lucani, rende ancora più significativa l’indicazione della presenza di Maria alla Pentecoste cristiana. L’elemento di At 1,14 menziona la Madre di Gesù esattamente nel punto centrale del gruppo che riceverà lo Spirito Santo. Si parla infatti degli Undici indicati per nome (cfr. vv. 12-13), poi delle donne, poi di Maria la madre di Gesù e infine dei fratelli di lui.

Osservando che nel seguito del racconto, prima di giungere alla narrazione degli avvenimenti del cinquantesimo giorno, si parla soltanto di come si sia ricostituito il numero “dodici” del gruppo apostolico, allora appare chiaro che tutta la parte del racconto di Atti collocata tra l’Ascensione e la Pentecoste (cioè At 1,12-26) è interessata a chi sono coloro che riceveranno lo Spirito Santo. In tale modo Maria è perfettamente al centro, in terza posizione di un quadro con cinque elementi: undici apostoli, le donne, Maria, i fratelli, il dodicesimo apostolo (Mattia).

A partire da questo quadro iniziale di Atti si può forse spiegare il fatto che, nel vangelo dell’infanzia, Luca non parli di un’effusione dello Spirito Santo su Maria che la renda capace di un discorso profetico al pari degli altri protagonisti del racconto. All’inizio, lo Spirito adombra la Vergine soltanto con la sua potenza creatrice affinché Maria possa verginalmente concepire il figlio. Questo primo dono, unito alla parola ascoltata dai profeti suscitati davanti a Lei dallo Spirito, è sufficiente a fare entrare Maria nel faticoso cammino di fede accanto, o meglio, dietro a Gesù di Nazaret (cfr. 2,48-50; 8,19-21; 11,28).

Lo Spirito attivo di profezia viene dato a Maria nel giorno di Pentecoste, assieme agli altri discepoli. Ella è ormai parte del gruppo che uscirà da Cenacolo, capace di portare a compimento le parole di Gioele: «Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona (…) ed essi profeteranno» (cfr. Gl 3,1-5, citato da Pietro in At 2,17-20). All’inizio degli Atti degli Apostoli Maria viene messa dentro alla Chiesa, diventa anche Lei carismatica come gli altri discepoli, grida con la Chiesa. In fondo nemmeno il Magnificat è la sua profezia in senso pieno, poiché Maria vivrà la sua profezia nella Chiesa, quando la Chiesa si metterà in cammino e Maria con lei.

Luca presenta perciò Maria non solo come figura della Chiesa evangelizzante (cfr. At 1,8 con Lc 1,35), ma anche come parte attiva della Chiesa che, a partire dalla Pentecoste, diventa il soggetto della profezia dello Spirito nella storia sempre oscura del mondo. L’insieme di questi testi fa vedere chiaramente dove Luca veda la funzione e l’esperienza dello Spirito nella Chiesa (delle origini e non solo). È lo Spirito che, come ha permesso l’incredibile dono di un figlio nella verginità, adesso permette ai discepoli inviati di essere autentici testimoni del Risorto, nonostante le difficoltà e le incomprensioni dei tempi non conosciuti. C’è una dimensione mariana dell’evangelizzazione che consiste nella fecondità della Chiesa nella storia, nonostante la sua inadeguatezza alla maternità. Occupando lo spazio di questo impossibile adeguamento, lo Spirito dona anche alla Chiesa missionaria di oggi la fecondità verginale a cui essa è chiamata.

9. Il racconto lucano della Pentecoste

All’inizio della seconda parte della sua opera Luca organizza la ouverture dell’inizio della missione della Chiesa (At 2,1-13), così come all’inizio della narrazione del ministero terreno ha organizzato la scena inaugurale della missione pubblica di Gesù (Lc 4,16-30).

A questo scopo egli utilizza anzitutto le immagini del vento e del fuoco che sono sempre legate, nel linguaggio biblico, alla manifestazione di Dio (cfr. ad esempio Lc 3,16-17). Sul racconto lucano sembrano influire anche gli avvenimenti del Sinai, in particolare secondo alcuni allargamenti interpretativi via via sviluppatisi nelle tradizioni giudaiche. Giuseppe Flavio parla di un miracolo uditivo per cui, nonostante la distanza dalla sommità del monte, ciascuno degli israeliti presenti al Sinai udì i comandamenti di Dio che Mosè andava incidendo sulle tavole di pietra.

Secondo rabbi Johanan (ma siamo nel 250-290 d.C.) la voce di Dio venne udita nelle settanta lingue dei popoli. Di particolare rilievo è l’interpretazione che Pietro stesso presenta utilizzando il passo di Gioele. Esso permette di comprendere il dono escatologico dello Spirito come un rinnovamento della profezia, realizzata in tutto il popolo di Dio e a vantaggio di tutte le genti. La Pentecoste mostra come la venuta dello Spirito susciti la predicazione, in cui ognuno si esprime secondo una forza data dallo Spirito e offrendo una profezia destinata a portare il vangelo a tutte le nazioni.

10. L’esperienza dello Spirito Santo nel libro degli Atti degli Apostoli

La descrizione dell’esperienza dello Spirito Santo nella Chiesa primitiva, offerta negli Atti degli Apostoli, è di tale ricchezza che non possiamo che offrire altro che un quadro sintetico in cui tentiamo di raccogliere le linee principali.

La cosa assolutamente fondativa è che in Lc tutta la realtà cristiana viene letta come “battesimo nello Spirito Santo”, nel senso proprio e letterale di “immersione nello Spirito di Dio”. Su questo si vedano le prime parole del Risorto all’inizio di Atti (cfr. 1,4). Di fatto arrivare alla fede e ricevere lo Spirito Santo è un’unica cosa. Spesso lo Spirito è il dono che accompagna immediatamente il battesimo (At 2,38; 19,6), ma talvolta addirittura è premessa alla celebrazione stessa del rito (forse in At 9,17 e certamente in At 10,44). Luca sembra non potere immaginare un cristiano che non sia immerso nella relazione con lo Spirito.

Di particolare rilievo sembra la presenza dello Spirito Santo nell’articolazione concreta dei ministeri. I ministeri hanno certamente origine da Cristo, come mostra chiaramente soprattutto la situazione dei “Dodici apostoli”. Lo Spirito Santo ha però una funzione decisiva nella loro articolazione. Ciò vale – e lo vedremo più sotto – già per la scelta di ri-completare il numero dei Dodici apostoli, ma risulta evidente anche nella scelta di costituire “i Sette” (cfr. At 6,3.5.10; 7,51), come anche nell’invio in missione di Barnaba e Saulo come dottori e profeti della Chiesa di Antiochia (13,2.4.9). La stessa cosa si può osservare per «i vescovi» e/o «i presbiteri» di Efeso (At 20,28).

Il ruolo dello Spirito non rimane bloccato al momento costitutivo di un ministro. Anche la guida concreta dello svolgimento dell’evangelizzazione è affidata allo Spirito Santo. Per tutte le grandi figure che appaiono nella scena ecclesiale e missionaria descritta da Luca viene annotata un’azione dello Spirito, che agisce sul loro muoversi concreto. Possiamo perciò indicare versetti, che menzionano lo Spirito, per tutti i grandi protagonisti: per Filippo incamminato verso la strada di Gaza e trasportato ad Azoto (8,29.39), per Barnaba nelle sue scelte ad Antiochia (11,24), per Agabo nel portare la comunità di Antiochia alla carità come risposta alla carestia (11,20), per lo stesso Paolo bloccato nell’evangelizzazione in Asia (16,6).

Il punto più drammatico di questa esperienza dello spirito – e si tratta di una guida che anche il credente contemporaneo non dovrebbe dimenticare o valutare come puramente simbolica – è il suo farsi presente mentre il discepolo e/o il ministro devono avviarsi al martirio. Non è il caso di assimilare At 7,55 alla serie delle precedenti menzioni dello Spirito che agisce su Stefano! In questo caso, infatti, la menzione dello Spirito è fatta per mostrare come Egli sia presente al discepolo perseguitato, del resto secondo una delle poche parole di Gesù di Nazaret sullo Spirito (cfr. Lc 12,11-12). Anche Paolo viene presentato nel suo cammino verso Roma come «legato dallo Spirito» (cfr. 20,22.23; 21,4.11).

Il quadro lucano dell’esperienza della Chiesa primitiva a riguardo dello Spirito non è completo se non comprende anche l’esperienza dello Spirito attraverso le Scritture. Abbiamo già visto a riguardo della risurrezione che Luca pensa che le Scritture siano un aiuto irrinunciabile e insostituibile a entrare nel mistero della risurrezione di Gesù, a tal punto che lo stesso apparire del Risorto, senza l’apertura che esse concedono, sembra destinato a non portare all’incontro pieno.

Merita allora osservare anche due menzioni dello Spirito Santo in connessione alla sua presenza nelle Scritture, che compaiono nel primo e nell’ultimo capitolo di Atti. In At 1,16 Pietro afferma: «Era necessario che si compisse quella Scrittura, che lo Spirito Santo aveva predetto per bocca di Davide riguardo a Giuda». E in At 28,25 Paolo dichiara: «Ha detto bene lo Spirito Santo, per bocca del profeta Isaia, ai nostri padri».

Nella narrazione lucana questi due testi – in cui emerge con particolare nettezza il rapporto tra lo Spirito santo e le Scritture concrete – forse sono bilanciati in maniera molteplice, uno all’inizio e uno alla fine, uno in bocca a Pietro e uno in bocca a Paolo, uno pronunciato a Gerusalemme e l’altro a Roma. In tali due passi appare allora la funzione dell’esperienza dello Spirito mediata dalla lettura ecclesiale delle Scritture. In entrambi queste difficili situazioni si vede come l’incontro con lo Spirito che parla nelle Scritture svela autenticamente il disegno di Dio, toglie dall’affanno e apre al futuro.


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