Riflessioni sulla nuova politica del ministro dell’Interno Minniti sui migranti, di Giovanni Amico

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /08 /2017 - 10:40 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Giovanni Amico (cfr., sul nostro sito, altri articoli di Giovanni Amico sul tema:

Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (12/8/2017)

Il fatto che il Ministro degli Interni, Marco Minniti, proveniente da una lunga militanza negli anni ’80 nel Partito Comunista Italiano (PCI), inauguri una nuova linea sulla questione dei migranti deve interrogare tutti. Non è un politico del centro-destra, bensì un uomo di sinistra: se propone una nuova prospettiva che, in qualche modo, recupera intuizioni del centro-destra da un diverso punto di vista, vuol dire che il problema è veramente serio e bisogna dargli credito. Non per niente lo stesso Presidente della Repubblica Mattarella si è schierato in sua difesa. Tutti abbiamo bisogno di un’Italia unita dinanzi ai gravissimi problemi del presente.

Parlando di nuova linea del ministro Minniti non intendo riferirmi tanto alle nuove regole assegnate a chi recupera i migranti appena imbarcatisi dalle coste libiche, quando all’impostazione più generale che implica ben altre scelte operative rispetto alla, in fondo, piccola questione di cui si discute tanto sui quotidiani e sui social.

L’esigenza di un cambiamento di politica sui migranti dipende – anche se il Governo non lo dichiara e proverò a breve a fornirne la ragione più plausibile – dal fatto che fin qui l’accoglienza non ha funzionato. Non ha funzionato – si noti bene subito – non perché in Italia non ci sia generosità. Anzi l’Italia è uno dei paesi più accoglienti, meno razzisti e più generosi che ci siano.

Non ha funzionato perché in questo momento l’Italia è in una crisi economica evidente. Non è come erano gli Stati Uniti al tempo in cui i migranti italiani si imbarcavano per le Americhe, perché allora quel paese era in crescita economica e chi vi arrivava si inseriva, trovando alloggio e casa, senza bisogno di alcuna particolare associazione che gli venisse incontro, semplicemente mettendosi al lavoro come tutti. Già questo solo accenno mostra quanto sia inadeguata la prospettiva culturale che si è fin qui proposta per invitare all’accoglienza.

L’Italia ha oggi le strutture, il personale e il denaro sufficiente con il suo welfare per accogliere ed integrare i “rifugiati”, cioè le persone che godono di protezione internazionale, perché provengono da paesi in guerra civile (come la Siria, l’Iraq o la Somalia) o da situazioni dove la vita è in pericolo per le dittature (come la socialista Eritrea), ma non per offrire lavoro a migranti provenienti da nazioni che hanno un reddito di vita nella media (come, ad esempio, la Nigeria) – ovviamente la questione è più complessa perché potrebbe avere lo status di rifugiato un nigeriano che fugge dagli islamisti di Boko Haram (espressione di misto inglese-arabo: il libro/book/boko è proibito/haram) e non un eritreo, ma non è importante qui specificare oltre.

Da tutti i dati provenienti da organismi cattolici e non cattolici, da ONG e da associazioni varie, risulta evidente che il 95% di coloro che giungono in Italia non avrà lo status di rifugiato.

Ed emerge una seconda sconsolante evidenza: dopo un anno di permanenza in Italia, una volta che sia appurata l’assenza dei requisiti per lo status di rifugiato, la maggioranza di quel 95% dei giunti in Italia scompare. Infatti dopo un anno, al momento dell’avvenuta dichiarazoine che non si è rifugiati, lo Stato cessa di erogare loro i famosi 35 euro quotidiani - denaro che viene ovviamente elargito non direttamente ai migranti, ma alle organizzazione che se ne prendono carico – e cessa conseguentemente di provvedere loro vitto e alloggio. Quel 95% di migranti, si trova così senza documenti, senza denaro, senza casa e senza lavoro.

È in vista del loro bene che si deve ragionare, oltre che in vista del bene dell’Italia. La nuova prospettiva del ministro Minniti non nasce da intenti razzistici, bensì da un ragionamento in vista del bene dei migranti stessi.

Si deve spingere ad accogliere, chiedendo ulteriormente a parrocchie, circoli ARCI, partiti, sindacati, ONG, dopo-lavoro, cooperative, condomini, centri sociali, scuole, edifici di amministrazioni locali, ecc. di mettere a disposizione alloggi e posti di lavoro - perché quelli che sono già stati messi a disposizione sono già pieni - ma al contempo la politica deve indicare il numero delle persone per le quali si ritiene che si troverà alloggio, lavoro e, soprattutto, identità giuridica e modalità di integrazione nel paese (si veda la riflessione sulla Carta dei Valori recentemente riproposta da Carlo Cardia), per non ingannare chi corre il rischio enorme del viaggio e farlo poi ritrovare peggio di come era partito - si pensi solo ad una donna che si può ritrovare per strada come prostituta se non è chiaro quale sarà l’alloggio e quale il lavoro per i prossimi 10 anni.

Una volta stabilito il numero delle persone alle quali è possibile fornire documenti, alloggio e lavoro – e non solo raccogliere in mare – è meglio realizzare corridoi umanitari curati, andando a prendere le persone più povere e deboli direttamente nei loro paesi d’origine (un biglietto aereo costa 1000 euro, mentre il viaggio penoso in mano dei trafficanti 10.000 euro, oltre a violenza, fame, stupri e spesso morte), scoraggiando in ogni modo le altre.

È sempre sbagliato tirare per la giacchetta le grandi personalità, ma non si possono non ricordare le parole di papa Francesco nella conferenza stampa in aereo, nel viaggio di ritorno dalla Svezia, e nel discorso fatto ai diplomatici per l’inizio del nuovo anno: in entrambe le occasioni egli invitava a spalancare le braccia per l’accoglienza, ma al tempo stesso affermava l’importanza di accogliere con senso di responsabilità, in maniera da garantire una vera integrazione sostenibile, lavorando anche perché si abbia la capacità reale di chiedere ai migranti di accogliere i valori dei paesi nei quali vengono ad inserirsi.

Perché, più in concreto allora, questa nostra riflessione favorevole all’opera di Minniti che intende in tutti i modi scoraggiare la migrazione nelle mani della tratta?

Perché chiunque lavora nel campo del volontariato è dell’assistenza è testimone di due cose.
Innanzitutto del fatto che le persone che hanno lo status di rifugiato vengono bene integrate
e l’accompagnamento prosegue dopo il primo anno di presenza sul territorio nazionale.

Ma poi anche del fatto che questo non è facile che avvenga per il 95% restante, perché tali persone si ritrovano a vedere il loro sogno infranto e iniziano a vivere di stenti.

Non esiste, a tutt’oggi, un programma per quel 95% di persone che non ha lo status di rifugiato. Con questo non voglio escludere a priori che ciò sia possibile e che anzi diverse organizzazioni riescano a realizzare con grande merito l’integrazione effettiva di un certo numero di migranti non rifugiati, ma a tutt’oggi questo inserimento non è numericamente consistente, perché  non possiede i canali legislaivi ed i mezzi economici e umani per divenire realtà: tutto è concentrato sul primo anno di accoglienza e poi dopo il primo anno su quel 5% che ottiene lo status di rifugiato e gli altri si arrangino.

È molto più facile, infatti, recuperare una persona appena salita su di un canotto a poche centinaia di metri dalle coste libiche per poi sbarcarlo nel giro di un giorno in una struttura terza che si ritrova a dover gestire una situazione sempre più ingestibile, che creare una cooperativa di sviluppo agricolo che sia capace di guadagnare con i propri prodotti in maniera da redistribuire il guadagno fatto, ingrandirsi e assumere via via nuovi lavoratori fra i migranti, con un saldo economico in attivo e senza gravare sui fondi dello Stato.

Si noti bene – bisogna fare continuamente alcuni “nota bene”, per ribadire che non si intende criticare nessuno, bensì indicare la portata del problema – che se si chiedesse a chi recupera in mare le persone di ospitarle poi nelle proprie strutture e di organizzare per loro un lavoro remunerato, con contributi pensionistici secondo le normative vigenti, questi risponderebbero che non è suo compito, perché gli statuti li impegnano ad attivarsi dinanzi ad
emergenze
e non a situazioni ordinarie e stabili come fornire alloggio e lavoro. Ebbene è proprio questo il problema di cui si deve iniziare a parlare: l’integrazione dei migranti è una questione che coinvolge anni e anni ed implica, perciò, la questione abitativa, quella lavorativa, quella dello status giuridico e così via e non solo la prima emergenza. Di questo bisogna parlare per capire la nuova linea del ministro degli Interni.

Non si può vivere in emergenza perenne: un’emergenza perenne non è un’emergenza, ma una condizione stabile e come tale deve essere affrontata. Non accorgersi di questo sarebbe dannoso in primo luogo per gli stessi migranti.

Un’altra notazione decisiva: la maggior parte dei migranti che giungono in Italia non decide di partire perché a rischio di vita ad esempio per mancanza di cibo, anche se in diversi casi è così, ma lì dovrebbe appunto subentrare la protezione tramite lo status di rifugiati, che non viene invece concesso. Molti partono, invece, perché si illudono di migliorare le loro condizioni economiche, non certamete fiorenti ma nemmeno impossibili, con il viaggio e i trafficanti li fortificano in questa illusione per spennarli come polli.

Per questo realtà come la Chiesa – ma si pensi anche al micro-credito o al mercato equo e solidale – lavora da sempre perché i più poveri siano aiutati “a casa loro”, come infelicemente ha dichiarato qualche politico. Realtà come la Chiesa, il micro-credito, il mercato equo e solidale, lavorano invece per lo sviluppo dei paesi dai quali i migranti provengono, attraverso la presenza dei missionari, la costruzione di parrocchie, l’animazione di scuole, la formazione di personale ospedaliero, la creazione di cooperative di lavoro. I vescovi stessi dei paesi dei migranti sono contrari alle migrazioni dei loro concittadini.

L’Italia dovrebbe chiaramente dedicare molti più fondi per questo, ancor più dovrebbe sostenere la Chiesa, il micro-credito e il mercato equo e solidale, perché questa è la via principale per aiutare le persone.

Perché allora ci si trova con i migranti sui gommoni in condizioni drammatiche? Perché i migranti entrano in condizioni drammatiche non prima del loro viaggio, bensì, nella maggior parte dei casi, durante e al termine di esso. E se anche partissero già in condizioni drammatiche è il viaggio che li spoglia di ogni reale possibilità di ricostruirsi un futuro – ed è per questo che va scoraggiato con tutte le forze.

Si noti bene, ancora una volta: non si parla qui di chi scappa dalla guerra, cioè di quel 5% che sale sui barconi provenendo da paesi in guerra come l’Iraq o dalla Siria o da paesi dittatoriali come la socialista Eritrea, per i quali non c’è possibilità diversa, come quella, ad esempo, di salire su di un aereo di linea.

Si parla di quel 95% che si illude di migliorare il proprio status economico raggiungendo l’Italia e pensando poi di migrareda qui in Canada o in Gran Bretagna o in Francia o in Svezia. Questi, nella loro illusione, si gettano nelle mani dei trafficanti e vengono depredati da loro di ogni bene, vengono stuprati, malmenati, imprigionati, denudati. Giungono in Italia e improvvisamente si accorgono che i paesi dove vorrebbero giungere, Canada per primo, rifiutano di accoglierli. Scoprono che, se anche accettassero di rimanere in Italia, dato che le mete che vorrebbero raggiungere sono loro interdette, nel nostro pese non troverebbero lavoro, se non agricolo e presso caporali che li sfrutterebbero per pochissimo denaro e con orari infami (esattamente ciò da cui, forse, cercavano di allontanarsi in patria).

Ecco perché taluni di loro divengono delinquenti qui in Italia o comunque imparano modalità nullafacenti o violente proprio nel nostro paese. Non sono assolutamente delinquenti in partenza, anzi sono persone degnissime che si illudono di trovare una migliore sistemazionelavorativa in Europa o in Canada, senza che alcuno si preoccupi di mostrare loro, prima della loro partenza, che così non sarà. Una volta viste crollare le loro speranze, non resta loro che diventare delinquenti (e taluni sono talmente onesti che non lo diventano nemmeno quando scoprono di dover vivere chiedendo l’elemosina e dormendo sotto i nostri ponti)

Di questo si è reso conto il ministro Minniti e per questo, per il bene dei migranti, sta invertendo linea politica, perché i migranti sappiano, ben prima di partire, che non troveranno né le porte aperte, né ancor più occupazione, alloggio o accoglienza in nord Europa o nelle Americhe.

Ovviamente esiste un elemento gravissimo che rende ancora più pesante la disperazione dei migranti una volta giunti in Italia e tale elemento è dato dalle strutture di grandi dimensioni nelle quali vengono alloggiati nel primo anno di permanenza, mentre si compie il percorso per ottenere - e spesso vedersi rifiutato - lo status di rifugiato. Quel lungo anno nel quale le persone restano in attesa, comprendendo pian piano che non sarà loro concesso lo status di rifugiato, e con esso il vitto, l’alloggio e il lavoro, viene trascorso in strutture con un grande quantitativo di migranti, spesso tutti giovani e tuttui maschi, senza nessuna occupazione lavorativa a motivo della nostra legislazione garantista. Questo comporta un ulteriore degrado. Quei luoghi divengono delle polveriere che aggravano la situazione già drammatica dei migranti. Qualsiasi persona, anche chi non avesse mai studiato pedagogia e psicologia, capisce bene cosa voglia dire mettere a vivere per un anno 500 giovani insieme senza che abbiano niente da fare dalla mattina alla sera.

Questo avviene perché tutti si occupano della prima accoglienza, ma pochissimi del percorso successivo dove invece bisognerebbe destinare la maggior parte dei fondi e delle persone, distogliendoli dall’emergenza che è la cosa più facile.

Una vera accoglienza dovrebbe occuparsi, contestualmente al recupero in mare, di piccole strutture con al massimo due o tre letti, per una graduale integrazione. Il ministro Minniti, rendendosi conto che questo è molto difficile - e che, fra l’altro, le strutture che erano all’inizio ben accoglienti sono ormai sature e consapevoli del problema che si crea quando cessa l’aiuto economico del primo anno - sta mirando a scoraggiare la migrazione perché le persone non si ritrovino in Italia in una situazione peggiore di quella di partenza, dove le persone avevano almeno parenti e contesto sociale che li aiutavano, avendo ancora il denaro che viene invece sprecato per il viaggio con l’aggiunta delle violenze e dei disinganni patiti.

Perché allora, se questa è la situazione, il governo preferisce che si discuta di singole norme e non della questione più in generale? A nostro avviso questo dipende dal fatto che presentare in tutta la sua ampiezza il discorso vorrebbe dire ammettere che l’Italia non gode oggi di buona salute. Vorrebbe dire ammettere che non è da attendersi uno sviluppo economico tale da creare nuovi posti di lavoro per i giovani italiani disoccupati e per i nuovi migranti in un futuro prossimo, vuol dire ammettere che il nostro welfare non è in buona salute e che il sistema sanitario, solo per fare un esempio, non è più in grado di provvedere nemmeno agli italiani e con estrema difficoltà potrebbe fare di più per un numero crescente di utenti. Vorrebbe dire ammettere che non apparteniamo più al Nord del  mondo, nel quale sono entrati di prepotenza altri paesi come la Cina (che si sta espandendo continuamente in Africa), l’Arabia Saudita, gli altri paesi della penisola arabica, l’Iran, l’India o il Brasile, e che il ruolo internazionale dell’Italia è in crisi al punto che non riesce a interagire né con l’Europa, né con l’Africa. Vorrebbe altresì dire che non riusciamo a gestire la malavita e che conseguentemente il mercato del lavoro, ad esempio quello agricolo, è in diverse zone d’Italia fuori controllo per il caporalato e la mancanza di garanzie sanitarie a motivo del lavoro nero.Vorrebbe dire riconoscere che la burocrazia e l’iniqua tassazione spengono ogni desiderio di inizativa privata, ogni nuovo progetto agricolo o imprenditoriale. Vorrebbe dire riconoscere che la scuola non ha elaborato una linea per integrare nella cultura del paese persone provenienti da altre culture e che anzi rischierebbe di essere subissata da altre culture perché mancante di una proposta formativa chiara e coerente, ad esempio sulla difesa della piena libertà della donna e sulla capacità di trasmettere i valori e la storia nazionali a chi giunge nel paese.

Insomma l’Italia non è in salute come lo erano gli USA o la Sizzera quando i nostri giovani emigravano per cercare lì lavoro (lo ripeto: gli “intellettuali” hanno gravi colpe perché, per difendere visioni ideologiche che non reggono più, continuano a ripetere schemi, paragoni, terminologie, che non sono adeguate al presente[1]).

Ammettere queste mancanze, anche se gravi, sarebbe importante. Non creerebbe danni politici perché la situazione del paese non è colpa esclusiva dei governi dell’ultima legislatura, bensì dipende anche da responsabilità culturali che hanno giocato a deprezzare la cultura italiana, la sua storia, la sua identità, la sua capacità imprenditoriale, la presenza fattiva della Chiesa. Ma certamente, per discuterne, bisognerebbe essere coraggiosi e ripensare tanti clichés culturali superati. Per non mettere in discussione tante affermazioni sbagliate degli ultimi decenni, si preferisce affrontare solo la questione della normativa di barche e barconi, senza guardare alla situazione più generale.

Un’ultima nota a conforto e a speranza. Che l’Italia non sia un paese razzista e che avrebbe le risorse per un di più – anche se non senza limiti – di accoglienza, se accompagnata da una adeguata proposta sociale, economica e politica basata non sull’emergenza, ma sul progetto, lo si vede proprio nella Chiesa: in essa il razzismo è assente. Basti pensare al fatto che il papa attuale è un extra-comunitario che proviene dall’America Latina, che nella Curia Vaticana come nel Conclave sono presenti persone provenienti da ogni angolo della terra e anche lì con incarichi di responsabilità estrema, basti pensare a quanti parroci e vice-parroci e a quante suore non europee svolgono il loro servizio nelle nostre parrocchie, con incarichi di responsabilità (vedi il caso evidente dei parroci).

Forse anche i “laici” dovrebbe avere più coraggio nel chiedere ai missionari – penso a tanti salesiani, a tanti francescani e così via – in Africa e al clero e soprattutto ai vescovi delle diverse nazioni di provenienza dei migranti come aiutare le persone a partire dalle loro esigenze spirituali e non meramente economiche perché non si buttino nell’avventura suicida della migrazione incontrollata.

Coraggio, l’Italia non è razzista. Cerchiamo di capire come aiutare le nazioni in difficoltà e domandiamoci, con serenità, se attraversare il deserto e poi il mare sia realmente il bene di tante persone o se non ci siano soluzioni migliori innanzitutto per loro, prima che per noi. Cerchiamo di capire come venire incontro alle situazioni veramente disperate e come aiutare, invece, in maniera più costruttiva quelle che disperate non sono, prevenendole perché non diventino disperate su di un gommone in preda a trafficanti senza scrupolo.

 

Note al testo

[1] Non è possibile approfondire il tema in questa sede, ma merita almeno aprire alcuni capitoli. Ha gravi colpe una certa impostazione ideologica che, volendo attaccare la storia europea fino alla nascita del socialismo, ha demonizzato ogni presenza dell’occidente nei paesi più poveri, creando così un alibi, quasi che tutta la povertà e la violenza esistenti siano dipesi da eventi esterni ai paesi stessi. Basta un minimo di conoscenza del passato e del presente per rispondere che è esistito nei millenni un razzismo delle tribù africane nei confronti delle altre, un colonialismo e un imperialismo delle diverse nazioni africane verso le altre, che esiste una corruzione spaventosa di molte nazioni africane che vanifica i fiumi di denaro che vengono lì inviati, che il colonialismo in Africa è spesso oggi di marca cinese, indiana e araba, che esiste un ritardo culturale dovuto a tradizioni millenarie di sottomissione della donna, che la presenza di regimi socialisti nel passato e nel presente ha reso ancor meno protagoniste molte popolazioni, che sono esistiti secoli di schiavismo operato da musulmani prima arabi e poi turchi e che il colonialismo arabo e poi turco ha realizzato danni spaventosi in quelle terre (si pensi solo al fatto che nell’Africa settentrionale e nel Maghreb, non esistono più cristiani autoctoni, tranne che in Egitto dove i copti hanno resistito a 14 secoli di persecuzioni), che in alcune zone la colonizzazione islamica ha impedito un libero sviluppo culturale, e così via. Tutto questo non toglie nulla al riconoscimento dei danni causati dal colonialismo occidentale, ma aiuta a comprendere come l’occidente abbia acquisito nei secoli una capacità di criticare se stesso che lo rende sempre passibile di miglioramento, mentre, laddove le colpe sono viste sempre come estranee alla propria identità e alla propria storia, si spegne ogni vera possibilità di rinnovamento, limitandosi a chiedere agli altri conto del perché le cose a casa propria non funzionino bene. Gli “intellettuali” che continuano a coltivare l’idea che esista un “capro espiatorio” dato dalle ricche mire occidentali è parte del problema: tali “intellettuali” hanno generato e continuano a generare passività e impediscono una presa di coscienza delle proprie responsabilità e delle responsabilità di culture e paesi terzi, paralizzando al contempo ogni possibile integrazione in Europa, perché il mondo di approdo sembra essere la “cattiveria” per eccellenza, di modo che tutto il bene, la ragione, la giustizia, la bontà della religione, la giusta visione della donna e della famiglia, sembrano dover essere importati in Europa in chiave rivendicativa a motivo dei danni subiti, di modo che non ci sarebbe più da imparare dall’Europa che ne ha, invece, da insegnare. In questo senso una visione che si presenta apparentemente come rispettosa di ogni cultura, nasconde invece il disprezzo per la storia europea ed impedisce che l’incontro di popolazioni, ad esempio in Italia, divenga veramente fecondo a partire dal fatto che se si desidera migrare in un determinato posto ciò implica che lo si ritenga bello e, forse, anche migliore, luogo da cui certamente imparare culturalmente molto da riportare poi nei propri paesi di origine.