«La colpa è stata di non voler più distinguere l’inevitabile gerarchia tra i gradi del sapere dalla falsità e dall’ingiustizia dell’accesso alla cultura. Il problema non è che non bisogna leggere Tolstoj perché è una lettura d’élite, il problema è che tutti, se ne hanno voglia, devono poterlo leggere». Claudio Magris si racconta. Lo scrittore e l’Italia “dove nessuno perde più la faccia”. Lo scrittore triestino parla di sé: dagli anni della contestazione, la cultura in saldo, l’università dei crediti, di Silvia Truzzi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 22 /07 /2018 - 22:43 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Il Fatto Quotidiano del 18/11/2013 alcuni passaggi di un’intervista a Claudio Magris. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Università.

Il Centro culturale Gli scritti (15/7/2018)

[…]

Lei che faceva in quegli anni?
Nel ’68 io ero professore di Letteratura tedesca, prima a Trieste poi a Torino, dove ho visto anche la violenza del ’77. Al ’68 non aderii, forse perché capivo Eugène Ionesco quando, come ricorda Davico, ai ragazzi del maggio francese in corteo diceva: ‘Tra dieci anni sarete tutti notai’. E in parte è successo. La colpa della sinistra è stata di non voler più distinguere l’inevitabile gerarchia tra i gradi del sapere dalla falsità e dall’ingiustizia dell’accesso alla cultura. Il problema non è che non bisogna leggere Tolstoj perché è una lettura d’élite, il problema è che tutti, se ne hanno voglia, devono poterlo leggere.

Questo cosa ha prodotto?
Che quasi più nessuno legge Tolstoj. Però non dobbiamo demonizzare quegli anni. Se i miei studenti non volevano venire a lezione, liberissimi: io facevo altro. Ma se si presentavano, era chiaro che in quell’ora si parlava di letteratura tedesca e non di politica. Al massimo se ne parlava al caffè, dopo.

È iniziato allora il decadimento delle istituzioni scolastiche?
Nelle vecchie università c’erano ingiustizie baronali assurde. In quegli anni si sono portate avanti istanze sacrosante, bisogna premetterlo. La cosa paradossale è stata che quel movimento eversivo ha prodotto da un lato un potenziamento delle individualità, poi ha creato una sorta di mistica assembleare che ha soffocato le individualità. La parabola successiva è stata un altro paradosso, una sorta di tecnicizzazione del sapere, in cui i titoli scientifici si valutano a peso. Se Kant fosse stato costretto a scrivere una scemenza ogni due mesi, non avrebbe mai scritto La critica della ragion pura. Il vecchio sistema scolastico italiano, che tutto sommato funzionava, è stato americanizzato. Pensate sia un bene? Nella mia personale esperienza no, se su 39 graduate a cui ho tenuto un corso negli Stati Uniti, sette non avevano mai sentito nominare Stalin. Io penso che si possa non sapere chi era Amilcare, il padre di Annibale. Ma Annibale bisogna sapere chi è, sennò non capisci nemmeno tutto il resto. Ricordo quando Luigi Berlinguer, da ministro, predicava ‘gli studenti sono clienti’. Una volta gli dissi: no, perché il cliente per definizione ha sempre ragione. Se io vado al ristorante e sui maccheroni al posto del formaggio chiedo lo zucchero, il cameriere me lo porterà. Ma se uno studente mi dice che Dante ha scritto I promessi sposi, mica posso dirgli ‘In genere no, ma per te sì’. Il sistema dei crediti è una sciocchezza che ha distrutto l’Università italiana. Una volta a uno studente che mi spiegava che non veniva a un seminario, che pure gli interessava, perché non dava crediti, ho chiesto: ‘Hai mai baciato gratis una ragazza?’. Investire non vuol dire guadagnare ma spendere. L’idea che ogni cosa che uno fa deve essere tradotta in un vantaggio distrugge la libertà e la creatività.

Perché sapere non ha più un valore?
Intanto c’è una specie di horror vacui verso tutto ciò che riguarda il passato. Un giovanotto di recente mi ha detto che non voleva vedere un film perché era degli anni 80, figuriamoci uno dei decenni precedenti. Una cosa orrenda, vuol dire che quel ragazzo non vedrà mai un capolavoro come Les Enfants du paradis. Guai identificare l’intelligenza con la cultura, ma guai a dire che la cultura non serve a niente. Serve anche a giocare meglio a poker, a capire le relazioni, a stare nel mondo.

Conseguenza di tutto ciò è l’evidente decadenza della classe dirigente.
La difesa della cultura – e degli aoristi greci – ha senso solo a patto di sapere che cultura non è conoscere Platone, ma avere un rapporto critico con il sapere. Voglio dire che il letterato che sforna libri sta in una catena di montaggio esattamente come l’operaio. Le classi dirigenti sono in gran parte formate da persone pochissimo preparate. Una volta ognuno faceva il suo mestiere. Intendo: la Mondadori apparteneva al signor Arnoldo Mondadori, di professione editore; l’Einaudi al signor Giulio Einaudi, Il Corriere della Sera ai fratelli Crespi. Adesso tutti fanno altro, a cominciare dai politici. Che non sanno fare le leggi, perché mancano anche di preparazione giuridica, ma non solo. In La cultura si mangia, Bruno Arpaia e Pietro Greco ricordano le interviste di “cultura generale” ad alcuni deputati e senatori trasmesse da Le Iene. Una parlamentare del Pd, alla domanda cos’è una sinagoga, risponde: ‘È il luogo che le donne musulmane frequentano per pregare il loro Dio, Maometto oppure Allah’. Parliamo di una signora dalla quale dipende se i miei figli avranno o no la pensione, come se il pilota del volo sul quale viaggiamo ignorasse cos’è un aereo.

Non è sconvolgente che questi signori si sottopongano volentieri a umiliazioni pur di essere in televisione, sapendo che faranno una figuraccia?
Ma certo! Il concetto di decenza è cambiato: se uno va in tv a dire sciocchezze, sa che non perde nulla. Anche per i politici il giorno ha 24 ore e loro fanno tutto fuorché politica per la maggior parte del tempo. O inaugurano qualcosa o sono a un convegno o vanno in televisione. Il Cardinale Richelieu se faceva politica otto ore, erano otto ore di politica, non di rappresentazione della politica. O di “rappresentanza”. Io non credo che i politici siano dei fannulloni, credo che per lo più facciano cose assai faticose, ma spesso inutili.

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