I maggiori problemi del pianeta. Un testo “pretenzioso”, ma qualcuno ci deve pure provare!, di Giovanni Amico (I Parte)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /09 /2020 - 08:52 am | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Nord e sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (13/9/2020)

Questo testo potrà apparire - e di fatto è - pretenzioso. “Pretende” di indicare i maggiori problemi del pianeta, le questioni che sono e saranno decisive. Intende così anche fungere da cartina al tornasole per verificare quanto le politiche dei diversi paesi siano adeguate e abbiano il coraggio di presentare le reali dinamiche in corso.

Ovviamente tale pretesa rende questo articolo attaccabile da qualsiasi punto di vista. Lo offriamo lo stesso, al fine di aprire una discussione.

I punti via via elencati non sono redatti necessariamente in ordine di importanza.

1/ Della Cina e dell'India

La Cina ha un miliardo e 400 milioni di abitanti circa, su 7 miliardi e 800 milioni di abitanti della terra. Lo stesso numero di abitanti ha, all’incirca, l’India. Se si sommano le due popolazioni si raggiungono i due miliardi 800 milioni, cioè più di un terzo della popolazione mondiale.

Di questi due paesi in primis è fondamentale individuare alcune dinamiche che sono decisive non solo per le popolazioni di appartenenza, ma anche per le restanti parti del pianeta.

Innanzitutto quella dell’inquinamento. Se si guarda al seguente grafico - che si limita alle emissioni di anidride carbonica - ci si accorge dell’immensa responsabilità di inquinamento che ha la Cina per prima e, al terzo posto, l’India, ovviamente unitamente alla grande responsabilità degli USA. I paesi europei, date le leggi a protezione dell’ambiente che sono in atto e quelle che sono in cantiere, dovrebbe divenire modello per tutti: solo se la legislazione europea divenisse modello anche in Cina, negli USA e in India si potrà apportare un reale contributo alla lotta contro l’inquinamento, altrimenti ogni sforzo fatto in Europa risulterà inutile.

immagine

Clicca per ingrandire

    Dalla voce Stati per emissioni di 
CO2 (13/8/2020), di Wikipedia. Dati del 2017

In secondo luogo è da rilevare il ruolo “colonialistico” della Cina, soprattutto in Africa, ma anche, ovviamente, in Estremo Oriente. Il colonialismo cinese ha reso al proprio cospetto debole quello statunitense o europeo e la sua incidenza è in crescita: molta dell’economia di diversi paesi africani, soprattutto quelli che si affacciano sull’Oceano Indiano - ma via via ciò avverrà per gli altri - è divenuto determinante per le nazioni africane. Il debito pubblico di molti paesi africani nei confronti della Cina è ormai così alto, da permettere ai cinesi di dettare condizioni in moltissimi campi.

immagine

Clicca per ingrandire

immagine

Clicca per ingrandire

Anche la presenza economica indiana è decisiva in numerose nazioni, nuovamente con la priorità di quelle che hanno le coste sull’Oceano Indiano.

In terzo luogo si deve sottolineare con forza che in nessuna di queste due grandi nazioni, la Cina e l’India,  esiste una libertà religiosa vera ed effettiva. Questo attiene, invece, alla politica interna dei due paesi, come anche la questione già indicata della mancata osservanza di uno standard adeguato relativo all’inquinamento.

Agli occhi dei più questa appare una questione secondaria, in realtà essa è decisiva: l’intolleranza di queste due nazioni ad apporti culturali esterni, che non siano semplicemente scientifici, bensì umanistici, impediscono una discussione libera sulla dignità dell’uomo e sulle condizioni lavorative, sulla libertà della donna, sulla generazione di bambini maschi e femmine. Come è noto in entrambe le nazioni esiste ormai uno squilibrio fra la percentuale dei maschi e di femmine, perché la politica della riduzione delle nascite, portata avanti dai due governi, ha condotto, con gli aborti selettivi delle bambine, ad avere una popolazione maschile in eccedenza che non troverà moglie nei decenni a venire.

Pensare che a più di un terzo del pianeta sia impedito di diventare cristiani - si vedrà che in realtà la percentuale è di due/terzi in totale perché bisogna aggiungervi le nazioni a maggioranza musulmana e quelle con dittature ateo-comuniste - è qualcosa che non può lasciare indifferente qualsiasi persona sia interessata all’uomo e alla politica.

Se per la Cina il discrimine è politico, lo stesso vale per l’India: essa copre il proprio nazionalismo con la difesa dell’induismo, ma qui si aggiunge il fattore religioso come causa del mancato sviluppo a motivo della mentalità castale che è presente ovunque nella società. Le classi più povere sono soggette alle altre per la mentalità religiosa che le vede colpevoli di peccati commessi nelle vite precedenti e i confini castali segnano rigidamente i matrimoni, la vita sociale e, spessissimo, anche la vita lavorativa, quando uno di una classe inferiore emerge per le sue indubbie qualità, ma deve essere tenuto come a distanza per la sua origine in una “casta” meno pura.

La Cina e l’India appartengono così ormai al Nord del mondo e sono molto più sviluppate del sud dell’Europa, hanno risorse e denaro in abbondanza, ma il peso storico delle loro tradizioni e, nel caso cinese, della politica marxista, determinano condizioni di vita povere in larga parte della popolazione che sarebbero facilmente risolvibili mutando tali assetti.

2/ Dell'Europa

L’Europa ha circa 700 milioni di abitanti, la metà della Cina e dell’India e il doppio degli USA.

In primo luogo, anzi in primissimo luogo, il problema enorme che ha l’Europa è quello della mancanza di bambini: non nascono più figli!

L’Europa è in agonia perché confida nel suo pensiero e non nella sua carne. È ormai un’Europa gnostica che crede di poter perpetuare le proprie idee, senza coltivare più la propria carne.

Il vecchio continente - mai tale espressione fu più pertinente! - non è più interessato, infatti, al fatto carnale di generare una discendenza viva, ritenendo di poter sopravvivere senza matrimoni e senza bambini. La crisi demografica genererà ovviamente una grande empasse economica - non basteranno i soldi dei giovani che lavorano per mantenere le pensioni degli anziani.

La grande questione è però culturale: non nascono bambini perché si deprezza l’idea di diventare padri e madri. L’ironia verso chi ritiene bello avere bambini è lampante: è strisciante e sottile, ma pervasiva.

Esiste una fobia della maternità/paternità, per cui sempre si deve irridere ad esse.

L’amore per i cuccioli di animali ha preso il posto della generazione.

L’intellighenzia europea si culla dell’illusione di poter mantenere un’oligarchica leadership intellettuale su masse provenienti da altre culture, mentre non dà più carne ai propri pensieri. Con l’invocare - ripetuto ossessivamente dai media - che vengano altri popoli a fare figli in Europa si dichiara indirettamente che le proprie idee sono prossime a scomparire, anche se l’intellighenzia nemmeno si rende conto del fatto che, disprezzando la vita di nuovi figli, condanna le proprie idee all’estinzione. Perché è gnostica e crede di poter perpetuare le proprie idee senza carne, anche le proprie idee laiciste, come quelle sul gender, ma senza carne.

In secondo luogo, l’Europa non è nemmeno più fiera della propria storia e cultura. La Cina e l’India sono fiere della loro storia, della loro tradizione e della loro cultura: l’Europa, invece, è come se odiasse se stessa[1].

Della sua storia vede solo i lati negativi. Mentre la Cina è fiera di Confucio e l’India dell’induismo, l’Europa vede nelle proprie radici cristiane il male, ma, in fondo, vede il male anche nella cultura classica. Non ritiene più di doverla insegnare alle nuove generazioni e, tanto meno, a persone di altre etnie e continenti.

Maestri come Marx, Freud o Nietzsche pensarono di elaborare criteri di lettura validi per tutto il mondo. Non così ritiene oggi l’Europa che anzi afferma di dover imparare da tutti e, in fondo, di non avere nulla di veramente importante da insegnare, quasi che tutto il resto del mondo possa funzionare bene senza il cristianesimo e senza la cultura classica e illuministica.

L’empasse che si è creata è evidente dall’accanimento con cui si analizza criticamente la storia classica e cristiana dell’Europa, mentre si ritiene atto sacrilego il sollevare anche solo timide obiezioni su altre religioni e culture. Tutti sembrano essere stati nei secoli più aperti, tolleranti, creativi dell’Europa.

L’Europa si ritiene colpevole di qualunque male esistente nel mondo e non la sfiora nemmeno l’idea che alcune povertà siano antecedenti addirittura all’incontro con gli europei.

In terzo luogo l’Europa ha stravolto l’idea dei diritti umani, cancellando le responsabilità e i doveri. Proclamando che si ha diritto, ad esempio, ad avere un bambino, sempre e comunque, si sono cancellati i diritti del bambino stesso. Non esiste più quell’equilibrio per il quale era evidente che il diritto a non essere offesi da parte di una transessuale non equivaleva a ritenere che avesse diritto ad avere un figlio.

Un’idea nuova di diritto ha fatto sì che scomparisse l’idea di limite, che si eliminasse il senso comune, il buon senso. Il sottolineare sempre e comunque l’eccezione contro ciò che è “normale”, ordinario, feriale, ha portato a porre il “differente” come assoluto: l’aggettivo “normale” è ormai ritenuto pericoloso, proprio perché si ritiene la “norma” in sé il male assoluto, rendendosi contro, al contempo, del fatto che non si può vivere senza una “norma” e che l’occidente senza “norma” implode.

Il pensiero progressista, un tempo legato al lavoro giusto e per tutti, non tratta ormai più di condizioni lavorative, ma solo ed esclusivamente di questioni di sessualità e di fine vita: provare piacere, senza riuscirci, e morire sono gli unici assoluti. Il pensiero marxista è ormai diventato liberista, confondendosi con il pensiero radicale che nasce dal liberalismo, dimenticando i doveri che fondano i diritti.

Certo, tutto questo si spiega in parte con il grande parricidio: la cultura laica, nata dal cristianesimo ed esistente solo in paesi di origine cristiana, ha come ucciso il proprio padre, sbarazzandosene. Ma ora è la stessa cultura laica a rivolgersi contro se stessa, contro le proprie conquiste, non ritenendo nemmeno la razionalità e la scienza che l’hanno guidata, meritevoli di un valore assoluto: tutto deve essere relativizzato.

3/ Del mondo islamico

I musulmani nel mondo sono probabilmente più di 1 miliardo e 800 milioni. Contano cioè solo 400 milioni di persone più dell’intera Cina e la stessa cifra più dell’intera India. Fra le religioni del mondo solo i cristiani sono di più: si stima che siano 2 miliardi e 300 milioni, ma, ovviamente, tutte queste cifre sono opinabili - le cifre in questione sono riprese da Pew Research su Il Sole 24 Ore, dato del 2015 https://www.infodata.ilsole24ore.com/2019/01/08/oggi-tre-abitanti-della-terra-su-10-sono-cristiani-nel-2050-la-geografia-religiosa-sara-diversa/

Il loro ruolo è pertanto decisivo anche quanto alla consistenza numerica - gli studi demografici ritengono, fra l’altro, che il loro aumento demografico sia più grande di quello delle altre religioni e ancor più del numero dei non credenti e, conseguentemente, in proporzione essi cresceranno ancor più nei prossimi decenni, sebbene il tasso di natalità si stia abbassando anche presso i musulmani (incredibilmente oggi in Israele fanno più figli le coppie ebraiche che quelle musulmane, a differenza del recente passato, a motivo della fecondità delle famiglie haredi).

Il primo grande problema dell’Islam è quello del monolitismo, fatto paradossale, perché vi sono tanti Islam e non vi è un’autorità centrale, perché sunniti e sciiti si odiano al punto da essere molto più distanti di quanto non lo siano i cattolici dai protestanti. Per cui, apparentemente, sembrerebbe che per l’Islam valga il detto latino tot capita tot sententia.

Ebbene così non è. Così non è non tanto sulla questione della violenza e della jihad - affermiamo subito che chi guardando all’Islam si rivolge innanzitutto alla questione della violenza come al più grande problema esistente nell’Islam odierno si sbaglia di grosso e non reca alcun aiuto alla causa dell’evoluzione dell’Islam.

Il monolitismo è dato, piuttosto, dall’assenza totale di una “purificazione della memoria”, per usare un termine caro al cristianesimo.

Dinanzi alla violenza delle conquiste musulmane passate non si è ancora mai squarciato il velo. Ai giovani non viene insegnato che la storia dell’Islam è stata anche una storia di spargimento di sangue ingiusto come avviene, invece, in Europa dinanzi alla presentazione della storia dell’occidente.

Finché non vi sarà una revisione storica con una “purificazione della memoria” l’Islam sarà come paralizzato, incapace di uno sguardo realistico e si atteggerà sempre a vittima. Uno dei gravissimi errori della cultura europea è di aver attribuito all’Islam, per il “pensiero binario” che caratterizza la cultura europea (cfr. sul concetto di “pensiero binario” Il pensiero binario, dalla cannabis all’omotransfobia, di Giovanni Amico e Abbattere statue contro il razzismo? Troppo facile e deresponsabilizzante, di Giovanni Amico) il ruolo di “vittima”, che non corrisponde, se non in maniera estremamente parziale, alla storia dei paesi musulmani.

Il monolitismo è poi problematico dinanzi ad una seconda decisiva questione che è quella della libertà religiosa. Qui bisogna essere subito precisi: per libertà religiosa non si intende il fatto che un cristiano possa rimanere cristiano in terra islamica, ma, ben più profondamente, che sia possibile la conversione di un musulmano che diventi ateo o cristiano, con una pubblica dichiarazione del suo abbandono dell’Islam.

Questo è il secondo grande tabù: il mondo musulmano, con il suo miliardo e 800 milioni di persone, vieta che i suoi figli e le sue figlie possano abbandonare l’Islam: ecco il monolitismo.

Non è chiaro se questo comporti ovunque la morte o solo ostacoli sul lavoro o nei matrimoni, ma certo la questione è un macigno: io stesso posso attestare come in Italia i musulmani che si battezzano chiedano di farlo in segreto, per paura delle conseguenze gravi che potrebbero dover subire loro o i loro parenti che non glielo hanno impedito.

Si capisce subito che questo secondo elemento monolitico non riguarda semplicemente la possibilità di cambiare religione: riguarda la libertà dinanzi alla religione. Come si potrebbe, dato che è assolutamente un tabù una conversione ad un’altra religione o la professione di ateismo, essere allora tollerata anche solo una critica storica alle fonti o una discussione o un disaccordo su singoli punti della fede islamica?

I paesi musulmani accolgono la cultura scientifica dall’Europa, l’ingegneria, la tecnologia, la matematica, ma mai e poi mai l’atteggiamento umanistico di poter discutere liberamente di Dio. Certo anche in occidente una famiglia sarebbe triste se il figlio cambiasse religione, ma il fatto è alla fin fine accettato, anche se con sofferenza. Nell’Islam non è così: ad oggi un cambiamento è impossibile.

Su di un terzo punto l’Islam è monolitico ed è quello della sessualità (e le conseguenze più gravi le paga la donna). La sessualità è un tabù. Ricordo un docente europeo di arabo in Medio Oriente che mi diceva che i suoi alunni, quando tornavano da un periodo di studio in Italia, gli confessavano di non essere riusciti a studiare perché sempre eccitati al vedere le ragazze italiane con le braccia scoperte e le gonne che mostravano le gambe.

Esiste una schizofrenia sulla sessualità nell’Islam, poiché essa è da tutti morbosamente guardata con interesse, ma mai pubblicamente, sempre in privato e con le persone del proprio stesso sesso. Le donne non fanno che parlare di sesso con altre donne e gli uomini con altri uomini, ma mai in pubblico. È un tabù. La condizione della donna è un tabù: la metà del mondo musulmano non ha parola come la hanno gli uomini: la metà femminile è quella da cui potrebbe venire in futuro una rivoluzione: per ora, però, essa è ridotta al silenzio.

Si noti bene: non che non avvenga niente - si pensi solo alla condizione di vita di una hostess ad esempio saudita che è velata in aereo, ma che appena arriva in occidente si veste all’europea. Vige la schizofrenia, perché il tema è tabù.

Non è il velo in sé la questione, ma la libertà di parlare. Si pensi solo al fatto che i due paesi che religiosamente i punti obbligati di riferimento, sono l’Arabia Saudita per i sunniti, poiché essa detiene i luoghi santi, e l’Iran per gli sciiti, perché lì è stato possibile agli sciiti vivere la loro fede: sono i due paesi più duri e intransigenti su questioni di morale sessuale di tutto l’Islam e sono i paesi leader.

Il dramma simmetrico della cultura europea è che si schiera a difesa dell’Islam e contro il cristianesimo e non comprende che sono le visioni attualmente dominanti nell’Islam ad essere le più contrarie a quella libertà sessuale di cui il pensiero laico europeo ha fatto il proprio vessillo.

Difficilissimo è prevedere cosa accadrà a breve in nord Europa, quando le due visioni della sessualità si incontreranno/scontreranno, per l’elevato numero di musulmani presenti.

Il nord Europa sarà il luogo del test che dimostrerà se tali tabù possono vinti o se, invece, il monolitismo risulterà inattaccabile.

L’intellighenzia europea non è ad oggi in grado di rendersi conto che i leader dei paesi musulmani sono ben consapevoli che l’Islam di casa loro deve essere controllato - e, infatti, in ogni paese a maggioranza musulmana, è attiva una polizia che controlla sia le eccessive aperture, ma anche le posizioni integraliste che debbono essere interdette nelle moschee, poiché i governi islamici sono ben consapevoli che, se lasciato libero, l’Islam integralista prende il sopravvento.

Paradossalmente l’Islam rischia di essere in futuro più radicale proprio nell’Europa del nord, poiché, non essendovi alcun argine statale, i predicatori sono liberi di predicarlo come a loro sembra giusto.
La salvezza dell’Islam attuale - e la speranza futura su di esso – viene, invece, dai diversi capi di Stato musulmani che hanno una visione di Islam aperto e cercano, come politici, di “imporlo” ai loro connazionali (grandi politici sono i reggenti degli Emirati, della Tunisia e, soprattutto, del Marocco, grazie ad una monarchia illuminata, ma aperte sono anche la dinastia siriana e quella giordana).

La violenza appare così un fenomeno secondario: dati i tabù - che impediscono di discutere criticamente del proprio passato, che interdicono di abbandonare l’islam, che vietano un approccio laico e critico alle fonti -, ecco che, in un mondo interconnesso dove non è possibile costruirsi un ghetto dove valgano esclusivamente le proprie regole, il mondo islamico corre il rischio di utilizzare la violenza per evitare di affrontare le tre grandi questioni apertamente, finendo così per costruirsi una propria zona chiusa, dove nessuno possa entrare ad infrangere i tabù.

4/ Dell’Africa

L’Africa ha circa un miliardo 300 milioni di abitanti, meno, quindi, di tutti gli abitanti della Cina o dell’India.

La prima cosa da rilevare è la mancanza di una conoscenza dell’Africa che porti a scoprire quanto essa stia divenendo in diversi suoi stati un continente avanzatissimo.

Manca, infatti, uno sguardo plurale sull’Africa, conscio dell’enorme varietà dei suoi stati: tutto viene banalizzato nelle immagini stereotipe del bambino malnutrito e senza cibo.

Non che non vi sia grande povertà in alcune zone dell’africa, ma l’amplificazione di queste immagini produce la distorta visione che non vi sia in atto un poderoso cambiamento. Questo porta molti ad insistere su di una politica di aiuti assistenzialistici che impedisce, invece, di intavolare un dialogo fra pari, per eliminare insieme le sacche di povertà che ancora esistono nel continente, ma che non sono la sua caratteristica dominante.

L’Africa è un continente in piena espansione, dove crescono le occasioni di lavoro e dove, forse, in tempi futuri emigrerà parte della mano d’opera del resto del mondo, ma tale sviluppo è rallentato dal tentativo esistente di sfruttamento dall’esterno e da cause interne che sono certamente anch’esse molto grandi.

Fra le problematiche che influiscono sul presente africano deve essere ricordata anzitutto la piaga del colonialismo che ha pesato nei millenni della storia africana. Tale giogo è stato innanzitutto quello islamico. Mentre, fino all’invasione islamica, l’Africa del nord era parte dell’unico Mare le cui opposte sponde comunicavano come rive di una stessa cultura, con l’invasione islamica tutto cambiò (cfr. su questo «Per la prima volta, dalla formazione dell'Impero romano, l'Europa occidentale si trovava isolata dal resto del mondo. Il Mediterraneo, grazie al quale fino ad allora era stata in contatto con la civiltà, le si chiudeva davanti. Fu questo, forse, il risultato più importante che l'espansione dell'Islam ebbe sulla storia universale». La svolta determinata nella storia dell’occidente dall’invasione araba nell’interpretazione di H. Pirenne. Appunti di A.L.).

Furono, infatti, nel primo millennio dopo Cristo, gli arabi a dividere in due il Mediterraneo. Prima del loro arrivo giungevano a Roma dall’Africa vescovi che divenivano papi, mentre teologi come Tertulliano e Agostino, che erano africani di origine (probabilmente Agostino non era bianco di carnagione) erano parte dell’unica cultura mediterranea - è incredibile rendersi conto che Agostino, che è forse l’uomo che più ha influito sull’occidente dopo Gesù Cristo, fosse africano!

Fu la presenza araba, con la conquista del nord Africa, a dividere il continente cosiddetto “nero” per quasi mille anni dall’Europa. Solo a partire dal cinquecento gli europei ricostruirono un rapporto con l’Africa, navigando alle spalle del nord musulmano e riprendendo i contatti con l’interno.

Con l’invasione araba, nel I millennio, iniziò lo schiavismo sistematico, fin dal VII secolo, con milioni di deportazioni in schiavitù fra le tribù dell’interno.

Agli arabi si sostituirono poi i turchi che colonizzarono a loro volta l’Africa del nord, imponendo il loro giogo agli stessi arabi che ne subirono le conseguenze. L’impero ottomano proseguì la deportazione in schiavitù delle popolazioni dell’interno e tale pratica cessò presso gli ottomani solo agli inizi del novecento.

Nel frattempo, a partire dal cinquecento, anche le nazioni europee divennero colonialiste e, avendo aggirato come si è detto i turchi, iniziarono a sfruttare l’Africa dell’interno, sia con la deportazione di schiavi che fu ancora più numerosa di quella araba e poi turca, sia con la depredazione di materie prime.

La tristezza di quegli eventi deve ancora far vergognare il mondo islamico e quello cristiano, tanto male è stato arrecato.

Il colonialismo europeo sostituì per cinquanta anni, dalla fine della I guerra mondiale, quello turco che era durato quasi cinquecento anni e quello arabo che era durato circa trecento anni. In quei cinquanta anni gli europei sfruttarono le risorse dei diversi paesi e spesso furono solo i missionari ad opporsi a tale dominio straniero e a difendere le popolazioni africane. Ovviamente il neo-colonialismo proseguì anche dopo l’indipendenza degli stati africani che culminò negli anni ’60.

La presenza di stranieri portò anche cultura e sviluppo, poiché la povertà dell’Africa era precedente all’arrivo di musulmani e cristiani.

Anche in tempi recenti il colonialismo continua a pesare. Tale colonialismo moderno ha colori e motivazioni diverse. Esiste tuttora quello europeo, cui va sostituendosi sempre più quello cinese e quello indiano.

Ovunque si incontrano oggi in Africa non solo aziende cinesi, ma anche la presenza militare cinese è sempre più rilevante. Il debito pubblico contratto verso la Cina è enorme e, di fatto, la politica cinese ha oggi carta bianca per intervenire in moltissimi paesi, soprattutto sul versante dell’Oceano Indiano.

Esiste però, tuttora, un colonialismo di stampo comunista cubano ancora operante in maniera drammatica in nazioni come l’Eritrea, uno dei paesi da cui emigra una delle masse più consistenti di migranti che cerca di fuggire perché lo Stato pretende obbedienza assoluta e un servizio militare lunghissimo, appresi entrambi dai tempi di Fidel Castro.

Esiste poi un crescente colonialismo di stampo islamico, legate a gruppi come Boko Haram (il cui significato è “Il libro è proibito”, da boko=book e haram=proibito), che vieta lo studio, in particolare alle donne, con una crescente invasività del potere di stampo colonialista islamista anche negli stati che vengono attraversati dai migranti sui quali le mafie islamiste violentano e lucrano.

Ma esiste un’ulteriore nuova forma di colonialismo invasivo che è quella del mondo laicista occidentale: esso, pur presentandosi come attento alle etnie e alle differenze culturali, in realtà è teso ad imporre le proprie visioni sulla sessualità, sulla famiglia e sul gender all’intera Africa.

Mentre i missionari hanno sempre avuto - ed hanno ancora più oggi - un’estrema attenzione all’inculturazione e al rispetto delle culture locali, molti dei programmi e degli aiuti internazionali non contemplano, invece, attenzione ai modelli di famiglia, di uomo e di donna, di famiglia tribale, presenti nei diversi contesti africani e, ancor più, pretendono di importare ovunque la tecnologia europea che ha, nei villaggi più interni, effetti devastanti sulle abitudini della tradizione.

Se gli organismi internazionali accogliessero con maggiore positività la visione della fecondità e della famiglia tipica di molte nazioni dell’Africa si eviterebbe quella visione individualista e consumista che sta invece dilagando. Allo stesso modo è devastante per l’Africa la proposta di una sessualità tutta occidentale che si oppone alla generazione ed è invece favorevole al gender: si pretende di importarla ovunque, calpestando tradizioni e culture.

Ma, le problematiche del colonialismo non debbono far dimenticare quelle interne, che sono altrettanto decisive e, spesso, sono ancora più rilevanti per il futuro dell’Africa, come per la comprensione della sua storia passata e dei suoi ritardi.

La prima grande causa che rallenta lo sviluppo - da tutti riconosciuta - è la corruzione in politica ed economia. Una marea di risorse e di beni vengono sottratti allo sviluppo per gli interessi delle élites africane che vivono a livelli ben più alti della borghesia media europea, creando situazioni di enorme differenza sociale. Anche l’enorme quantitativo di aiuti economici che viene dall’occidente viene depredato e incide quindi pochissimo sulle popolazioni.

La seconda grande causa che ritarda lo sviluppo è il tribalismo. Il tribalismo rinchiude le diverse etnie in un “razzismo” - si perdoni l’espressione, volutamente provocatoria - interno: chi non è della mia tribù non merita le stesse possibilità, le stesse attenzioni, lo stesso sviluppo. In moltissimi stati dell’Africa i diversi cittadini non sono sullo stesso piano, ma, a seconda della leadership, civile o religiosa, leggi e decreti ad hoc, ma ancor più una mentalità diffusa, fanno sì che gli uni siano preferiti agli altri.

I conflitti inter-tribali producono scie di sangue e morti. Ovviamente l’Islam integralista, che è esplosivo, può essere incluso in tale problematica, poiché in molti paesi esiste una vera e propria intolleranza per chiunque non aderisca pienamente all’Islam. Nel nord Africa, ad esempio, esiste un duplice razzismo, verso i migranti che giungono dall’interno, perché neri di carnagione e perché non islamizzati.

Sottolineando queste due questioni, intendiamo contribuire esplicitamente ad abbandonare una vecchia visione che continua ad insistere esclusivamente sulle colpe dell’occidente. La consapevolezza di questi due nemici interni all’Africa permette di vincere una delle grandi tentazioni di quel continente e precisamente quella del vittimismo a cui la stessa cultura occidentale lo ha in parte abituato.

L’idea che la colpa sia sempre straniera, esterna, indipendente dal proprio impegno e da prospettive reali di sviluppo e di futuro, è un problema per il futuro del continente. Vanifica ogni slancio e ogni impegno.

Ma, all’opposto, sono sempre più gli imprenditori e i politici africani che cessano di prendersela con il resto del mondo, comprendono di avere il compito di divenire l’ago della bilancia in vista di uno sviluppo ancora più pieno delle diverse nazioni africane.

Un nuovo sguardo dovrebbe essere utilizzato anche dinanzi al flusso migratorio, perché si continua a paragonare tale movimento a quello che vide moltissimi meridionali italiani emigrare nel mondo. Non ci si accorge che, mentre tale movimento era basato sulla reale possibilità di trovare lavoro ed acquistarsi una posizione diversa e migliore in altri paesi, in realtà le politiche cieche dell’Occidente stanno condannando moltissimi africani a spostarsi per ritrovarsi in condizioni ancora peggiori nel paese in cui giungono. Se si guarda anche solo all’Italia, la mancanza di una cultura del lavoro e una legislazione farraginosa fa sì che i migranti africani possano sopravvivere solo finendo fra le braccia della malavita a lavorare come schiavi nei campi, oppure sui marciapiedi della prostituzione, perché non esistono che rarissime possibilità lavorative nel nostro paese e, ancor più, non si intravede la possibilità di crearne di nuove.

La mancanza di uno sguardo di vera politica internazionale appare poi nella miopia a cui si guarda al fenomeno migratorio, preoccupandosi esclusivamente di coloro che attraversano il Mediterraneo e mai dei tragitti che precedono l’arrivo al Mare, con l’attraversamento di diversi stati africani - dove la mortalità è ancora maggiore che in acqua - e mai dei contesti di origine e delle cause che generano il sogno di abbandonare la propria terra. Più volte i vescovi africani stessi hanno invitato i propri giovani a non partire, consci che non sono i più disagiati a partire, ma quelli che, pur avendo il necessario per sopravvivere, preferiscono cercare di migliorare la loro condizione, abbagliati dalla pubblicità occidentale che presenta l’Europa come un luogo dove è facile vivere bene. Per quel che riguarda una nuova visione delle migrazioni e del rapporto con i paesi di origine dei migranti importante è anche la prospettiva della sussidiarietà che verrà esplicitata nel corso nel punto successivo.

5/ Della sussidiarietà, nell’affrontare la grande questione della povertà, ma anche della politica e della giustizia tout court 

Una delle questioni più gravi della politica e dell’economia è che moltissimi “esperti” non abbiano la minima idea di cosa sia la “sussidiarietà”: è questo che li porta a non capire quali siano le soluzioni più giuste, ma anche più realistiche e adeguate ai diversi contesti.

La “sussidiarietà” è quella visione del mondo per il quale non esistono solo lo Stato e l’individuo, bensì, prima dello Stato, esistono quelle comunità che precedono lo Stato: esse sole lo rendono possibile, perché ne sono come il corpo vivo, intessuto di legami e non composto solo da atomi.

Lo Stato è così composto e “preceduto” - non solo cronologicamente, ma ancor più esistenzialmente - da comunità come la famiglia, le corporazioni e i sindacati dei lavoratori che si aggregano spontaneamente, le organizzazioni a fini sociali o caritativi, le parrocchie o le strutture di altre religioni, altri organismi creati dalla libera associazione delle persone come scuole o imprese. Lo Stato è sussidiario ad esse, cioè non solo non le crea, ma esiste per esserne sussidiario, cioè per valorizzarle e sostenerle, perché tali forme di vita comunitaria sono come la spina dorsale dello Stato: senza tali comunità, esso crollerebbe come un sacco vuoto. Anzi, di fatto, lo Stato collassa dove tali realtà non sono forti, per cui è interesse dello Stato che esistano e prosperino. Esse hanno diritto all’esistenza e non ricevono la giustificazione della loro esistenza dal diritto dello Stato, bensì è esso a doverle tutelare: tali comunità sono come le cellule del corpo sociale che è composto da una società civile, prima che dal suo apparato burocratico e organizzativo.

Prendiamo innanzitutto la vita stessa. Non è lo Stato a fare i suoi cittadini, ma è la famiglia. I bambini nascono non per decreto dello Stato, ma perché esiste quella comunità che è la famiglia che genera. Se non ci fossero famiglie lo Stato morirebbe. Ecco perché la Repubblica italiana è fondata non solo sul lavoro (art. 1 della Costituzione), ma anche sulla famiglia (cfr. art. 29-312 della Costituzione; cfr. su questo 1/ Costituzione della Repubblica Italiana: gli articoli 29-31 sulla famiglia 2/ La famiglia fondamento del bene sociale nel dibattito della costituente, di Francesco Occhetta sj).

Similmente non è lo Stato che deve educare le nuove generazioni, perché i figli sono i figli di quella comunità che è la famiglia. La famiglia è libera di educare i bambini e solo le dittature pretendono di educare i bambini come vogliono i tiranni.

Lo Stato è dunque sussidiario alla famiglia nell’educazione dei figli. È, fra l’altro evidente che non solo sarebbe ingiusto che lo Stato pretendesse di educare i bambini - i tristi esempi del nazismo, del fascismo e del comunismo sono la prova del dramma che accade quando lo Stato si sostituisce e non è più solo sussidiario -, ma è anche impossibile: dove il “gruppo” familiare è conflittuale l’educazione diviene più difficile. Un bambino cresce bene perché la comunità familiare lo ama, si sacrifica per lui, lo educa, senza ricavarne alcun beneficio economico.

La “moderna” intellighenzia concepisce, invece, l’individuo solo come singolo e non come nativamente appartenente ad una comunità che debba essere sostenuta dalla compagine statale stessa. Gli intellettuali purtroppo si preoccupano, oggi, solo dei diritti dei “singoli”. La persona nasce, invece in una famiglia, in un popolo, in un contesto culturale e, a sua volta, crea realtà comunitarie, senza le quali non è nessuno.

Per la mentalità che ignora cosa sia la sussidiarietà, invece, il bambino ha semplicemente “diritto” all’educazione, ma, dimenticandosi del ruolo della famiglia, ecco che il concetto di educazione diventa astratto e, di fatto, impraticabile, se la famiglia non è lei per prima a fornire un quadro di riferimento, la proposta di una rettitudine, un senso alla vita che cresce.

L’incomprensione e addirittura l’ignoranza di tale principio sono evidenti non appena l’intellighenzia moderna affronta un qualsivoglia problema. Dato che si sta qui parlando di famiglia è evidente l’approccio sbagliato alla questione del gender. Una cosa è la forza con cui lo Stato deve impedire che una transessuale sia offesa - questo attiene ai diritti del singolo che sono sacrosanti – una cosa è l’eventuale pretesa di avere un figlio per due transessuali che, invece, è una richiesta di tipo diverso, che non attiene più all’ambito dei diritti del singolo, perché sono i bambini ad avere diritto ad una famiglia con un padre e una madre.

Analoga è la falsa richiesta di cancellare i termini di “padre” e “madre”. Una cosa è il legittimo diritto di una persona omosessuale di non essere discriminata, una cosa ben diversa è il fatto evidente che ogni bambino ha un ombelico perché ha avuto una madre e conseguentemente lo Stato non può impedire che quel bambino faccia educativamente riferimento a lei, anche se si dovesse ritrovare a vivere solo con due maschi. 

Solo per aiutare ancora a comprendere quanto sia decisiva la sussidiarietà a chi non ne ha mai sentito parlare, veniamo anche alla condizione degli anziani, per capire come ragiona un politico educato a una visione statuale o individualista ed uno che sappia invece cosa è la sussidiarietà.

Per chi non ha la minima idea di cosa essa è, lo Stato è responsabile, con il suo welfare, degli anziani ed egli immagina così la politica come impegnata a realizzare una casa per anziani che abbia posto per tutti i vecchi del Paese, per rendersi poi conto che tale progetto è irrealizzabile e, fra l’altro, troppo dispendioso.

Il liberista concepisce invece l’anziano come singolo e pretende che egli sia in grado di mettersi da parte un tale capitale da potersi pagare da solo in vecchiaia una villa con camerieri e servitù, mentre i più poveri dovranno essere lasciati morire, perché non hanno messo da parte un buon gruzzolo per la vecchiaia. In entrambe le visioni, la prospettiva della vecchiaia è quella di una grande solitudine confinata in qualche casa.

L’anziano, invece, è parte di una famiglia: di questo si accorge subito chi ha una visione sussidiaria dello Stato. Un nonno ha figli e nipoti e, prima ancora fratelli e sorelle: è anche parte di una parrocchia o di un sindacato di compagni con cui ha condiviso una missione nella società.

Lo Stato ha bisogno di questa comunità familiare e religiosa e di relazioni lavorative che si sono create, perché saranno esse quelle nei quali anche i suoi ultimi anni conserveranno il loro senso ed egli non diverrà un relitto di un passato che muore. Se ci sono i nipotini, il nonno sarà prezioso e felice e, anche quando perderà la memoria, sarà amato con riconoscenza. Se, invece, viene isolato, perché già pensato sciolto dai suoi legami, la sanità pubblica collasserà perché non potrà pagare case di riposo per tutti gli anziani lasciati soli.

Se non si lavora sussidiariamente a costruire una cultura dove gli anziani sono importanti e dove le famiglie vengono sostenute nella cura degli anziani che rimangono in casa, ecco che non solo l’impatto economico e sociale sarebbe devastante, ma lo Stato diverrebbe disumano, poiché non sarebbe in grado di garantire calore umano a chi è avanti negli anni: ognuno sarebbe lasciato in mano a persone che guadagnano su di lui, ma non lo amano più come parente e non hanno riconoscenza per gli anni passati. Solo dove figli e nipoti amano i loro anziani, invece, e lo Stato è sussidiario e non si sostituisce all’amore dei discendenti, ecco che una società può restare umana.

Lo stesso vale - e pochissimi se ne rendono conto - dinanzi alla questione dei migranti. Se la cultura ufficiale demolisce sistematicamente le famiglie e la chiesa, ecco che resterà solo il singolo ad accogliere un migrante: ma il singolo si spaventerà perché non apparterrà più vitalmente ad una trama umana di relazioni vive e costitutive nella quale accogliere i migranti.

Il singolo è consapevole di non avere le forze per integrare un povero o un migrante. D’altro canto ciò non può nemmeno essere fatto da una struttura pubblica che può, al limite, gestire l’emergenza di un gruppo appena giunto da fuori. Solo dove la sussidiarietà, invece, è salda, ecco che una rete di famiglie, una rete di cooperative, le parrocchie, le Caritas con i loro preti, diaconi e laici, le diocesi,  e così via, saranno in grado di venire in soccorso di chi migra, inserendo i nuovi arrivati in una trama culturale di relazioni.

Sussidiarietà e solidarietà non sono così due diverse modalità, bensì la solidarietà è possibile solo dove esiste una sussidiarietà, solo dove esistono realtà di base forti cui lo Stato dona supporto. Più una società si disgrega al suo interno più avrà paura di accogliere, perché i singoli non sapranno come gestire l’emergenza e lo Stato, a sua volta, collasserà. Più una società ha comunità forti, dalla famiglia alle comunità religiose e laiche, più saranno tali realtà comunitarie a integrare i singoli, i piccoli, le persone difficili.

Un migrante si inserisce solo se trova una trama viva di promozione del lavoro, se può portare il proprio contributo alla società nella quale viene ad abitare attraverso il proprio apporto lavorativo. Dove si affronta la questione migranti solo con sussidi e alloggi provvisori non ci sarà mai un aiuto serio e significativo, perché chi migra deve entrare nella società tramite il proprio lavoro. Egli non è un “singolo” che ha “diritto” a tot soldi e tot benefici, ma desidera, invece, divenire parte di un corpo e sa bene di poterlo divenire non semplicemente con una carta di cittadinanza bensì prima ancora con il proprio lavoro.

Tutta la cultura è tesa a distruggere le trame della sussidiarietà, a partire dalla famiglia e dalla chiesa, e si stupisce poi che i singoli cittadini, una volta depauperati di ogni punto di riferimento, abbiano paura di accogliere o addirittura si rifiutino di farlo.

Solo uno Stato che sostiene con la propria sussidiarietà il corpo sociale esistente può, proprio attraverso quel corpo che ha curato, inserire via via nuove persone in quel corpo.

Eppure nessuno si preoccupa di questo. Tutti discutono di salvataggi in mare - che sono sacrosanti - ma nessuno delle condizioni di una integrazione in realtà sussidiate dallo Stato. È inaccettabile che chi viene salvato non abbia altra prospettiva che i marciapiedi della prostituzione oppure il lavorare per due spiccioli in campi di pomodori gestiti dalla malavita.

I salvataggi in mare si rivelano così dei mezzi salvataggi. Chi viene salvato, viene salvato per annegare poi, solo, in una società che è incapace di includere.

La stessa cosa vale, poi, se vista dal punto di vista reciproco, da quello, cioè, dei paesi di origine dei migranti. Se si vuole dialogare e recare un aiuto a un qualche stato africano da cui provengono i migranti, si tratta non di inviare denaro o personale temporaneo - questo va bene solo nel caso delle emergenze. Bisogna invece sostenere in maniera sussidiaria le realtà presenti e vive nel paese che sono la trama di relazioni che permettono alle persone di crescere e svilupparsi. Se ci si rifiuta, ad esempio, di aprire un dialogo costruttivo con la chiesa di un paese africano o anche solo si ignora la chiesa di quello Stato con i suoi preti, le sue suore, i suoi laici, ecco che ci si rivolge al singolo, ignorando completatemene quel contesto collettivo e comunitario senza il quale il singolo non potrà mai trovare, se non occasionalmente, un qualche contributo allo sviluppo.

(CONTINUA)

Note al testo

[1] Non è necessario esplicitare il debito di questo riferimento, tanto dovrebbe essere noto a chiunque sia interessato all’Europa.