Icaro e la caduta verso l’alto, di Alessandro D'Avenia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /09 /2011 - 20:50 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 19/8/2011 un testo di Alessandro d'Avenia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Il testo è già stato proposto – con leggere varianti – in versione cinematografica e postato su Youtube: lo abbiamo messo a disposizione anche sul nostro sito al link Dall'alto, di Alessandro D'Avenia.

Il Centro culturale Gli scritti (3/9/2011)

Il mio segreto è volare. Per volare bisogna avere le ali e io le ali adesso le ho. Sono quelle che mi ha costruito mio padre. Sono ali di carne, penne e cera. Sono ali pesanti, ma il loro peso mi permette di non avere peso. L’ho imparato dai gabbiani e dalle aquile che hanno ali grandi, più pesanti di tutti gli altri uccelli: così si librano alti nell’aria più a lungo di tutti e guardano fisso il sole.

Non mi sono mai accontentato della Terra. Io volevo guardarla dall’alto, sorprenderla a vivere e respirare, dall’alto. L’ho scoperto fissando le stelle nelle notti tranquille d’estate e in quelle fredde dell’inverno. Ne avevo fame. Tutto passa. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, ma le stelle resteranno, anche quando l’ombra del mio corpo non striscerà più sulla terra. Non c’è uomo che non lo sappia. Le stelle mi hanno insegnato a volare, a volerle contare a una a una capisci come si fa.

Ho chiesto a mio padre le ali. Lui è un inventore, un creatore, oltre che mio padre. Mi ha costruito e regalato le ali: una specie di medicina per guarire la mia nostalgia del cielo. Così ho cominciato a volare. Volevo innalzarmi nel puro azzurro dei cieli e accompagnare aquile e gabbiani nelle loro cacce.

Ma poi... ho avuto nostalgia della Terra. A guardarla dall’alto me ne sono innamorato come avevo desiderato il cielo, perché solo dall’alto scopri che anche la Terra è piena di stelle, di fuochi che si accendono.

Volevo imparare le strade degli uomini, lambire le loro costruzioni, i palazzi, i tetti, le guglie, le case degli uomini con i loro fuochi accesi per i racconti, le parole, le fatiche e gli amori. Amavo le loro vite ora che le guardavo dall’alto. Ho accarezzato la Terra con il mio volo e scoperto il segreto delle rondini e dei martin pescatori, del loro volo radente, che parla con le cose più da vicino, senza paura. Quante vite ho ascoltato dietro mura, finestre, porte... Quanti fuochi ho visto accendersi e pulsare, stelle di cieli quotidiani.

Quando mi abbasso troppo sulla Terra, però poi torna la nostalgia dell’altezza, delle stelle. Quando sto solo con le stelle, mi afferra la nostalgia della Terra, dei fuochi nelle case. Non sono fatto né per il cielo né per la Terra, mai contento solo dell’uno o dell’altro, o forse sono fatto per unirli, come fanno i poeti. Solo le parole infatti hanno lo stesso potere, per questo i poeti le chiamano alate.

Ho capito che il cielo e la terra non si uniscono sulla linea dell’orizzonte, ma all’altezza del mio cuore. Ora mi innalzo in cielo con le mie membra di fango, ora sprofondo nel fango con il mio respiro di cielo. Sollevo la terra di cui sono fatto in cielo, soffio il cielo di cui sono fatto dentro la terra.

Rinnovo l’uno e l’altra, do respiro all’una, carne all’altro. Tranne quando mi perdo e ci si perde sia nel cielo sia sulla Terra. Mi perdo nelle altezze celesti quando non voglio più saperne del peso della terra. Le ali si seccano, le penne si staccano, la mia carne si scioglie e il volo diviene folle, perché non sono un angelo, ho il sangue di terra. Ma mi perdo anche negli abissi terresti, creatura del sottosuolo, quando mi stanco del cielo. Sento allora le ali inumidirsi, appesantirsi al punto da non riuscire a prendere il volo e il volo farsi schianto, la bocca attaccata alla terra, gli occhi pieni di polvere.

Quante volte mio padre ha riparato le mie ali, come un padre con la bicicletta del figlio, per liberarle dal peso dell’umidità o dall’arsura del sole. Lui me lo dice sempre: Assomigli agli alberi, sospeso tra cielo e terra. Sei fatto per vivere in mezzo, tra cielo e Terra. Tu sei fatto per unirli. E quando non ne avrai più le forze farai come i martin pescatori che si adagiano sul dorso degli alcioni che li trasportano ancora in alto quando loro non ne hanno più la forza.

E quando cadrò ormai stanco vorrei ascoltare ancora una volta quella canzone che mia madre un tempo cantava: Le foglie cadono, cadono / come se giardini lontani avvizzissero nei cieli. / E nelle notti cade, cade la terra pesante da tutte le stelle. / Noi tutti cadiamo. Questa mano cade. / Eppure c’è Uno che senza fine, dolcemente, / tiene questo cadere nelle sue mani. Sono fatto per cadere in alto.