Contro l’ideologia della competenza, l’educazione deve insegnare a pensare. Un’intervista a Marcel Gauchet e Philippe Meirieu

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /11 /2011 - 15:33 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati: , , ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo dal sito dell’Ufficio scuola della diocesi di Roma una traduzione di Filippo Morlacchi dell’intervista apparsa su Le Monde del 2 settembre 2011 a  Marcel Gauchet e Philippe Meirieu. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti sulla questione educativa vedi la sezione Catechesi e pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (10/11/2011)

Il 2 settembre scorso il quotidiano francese Le Monde ha pubblicato un’intervista a Marcel Gauchet e Philippe Meirieu. Il primo, storico delle idee e filosofo, classe 1946, si è recentemente dedicato a studiare il fenomeno dell’educazione dal punto di vista politico (Pour une philosophie politique de l’education, 2003; Conditions de l’éducation, 2008, entrambi in collaborazione con Marie-Claude Blais e Dominique Ottavi). Il secondo, di tre anni più giovane, è un pedagogista che ha contribuito al dibattito pedagogico francese e internazionale con Le choix d’éduquer (1991), Frankenstein pédagogue (1996), Faire l’école, faire la classe (2006). Le valutazioni dei due studiosi, sostanzialmente convergenti, pur con sfumature prospettiche diverse, hanno suscitato numerose reazioni sulle testate giornalistiche di diverse nazioni europee. Val la pena di ascoltare la loro voce, illuminante sulle questioni calde circa il futuro della scuola anche in Italia.

In quale misura l’evoluzione delle nostre società distrugge le condizioni di possibilità dell’impresa educativa?

MG: Siamo preda di un errore di diagnosi: si chiede alla scuola di rispondere con degli strumenti pedagogici a problemi di civilizzazione che risultano dal movimento stesso delle nostre società, e ci si stupiamo poi di non arrivare a nulla… Quali sono queste trasformazioni collettive che oggi pongono all’impegno educativo sfide interamente nuove? Riguardano almeno quattro fronti: i rapporti tra la famiglia e la scuola, il senso del sapere, lo statuto dell’autorità, il posto della scuola nella società. Di per sé, famiglia e scuola hanno lo stesso intento di far crescere i figli: la famiglia educa, la scuola istruisce, si diceva una volta. In pratica, la cose sono divenute ben più complicate.

Oggi la famiglia tende a delegare alla scuola, deputata insieme a educare e a istruire. Un tempo colonna della collettività, la famiglia si è privatizzata, si basa ormai sul rapporto personale e affettivo tra degli esseri a loro beneficio intimo esclusivo. Il compito educativo è difficile da integrare con questo quadro che mira solo alla realizzazione affettiva delle persone.

PM: Viviamo, per la prima volta, in una società dove la stragrande maggioranza dei figli che vengono al mondo sono figli desiderati. Ciò comporta una inversione radicale: una volta, la famiglia “faceva i figli”, oggi è il figlio che fa la famiglia. Venendo a soddisfare il nostro desiderio, il figlio ha cambiato di statuto ed è diventato nostro padrone: non possiamo rifiutargli nulla, o rischiamo di diventare “genitori cattivi”…

Questo fenomeno è stato cavalcato dal liberalismo commerciale: la società dei consumi mette, in effetti, a nostra disposizione una infinità di gadgets che non dobbiamo far altro che comprare per soddisfare i capricci della nostra progenie.

Questa congiunzione tra un fenomeno demografico e l’emergere del capriccio mondializzato, in una economia che fa della pulsione all’acquisto la matrice del comportamento umano, spazza via le configurazioni tradizionali del sistema scolastico.

In quale misura il dialogo pedagogico è sconquassato da questo nuovo dato? 

PM: Per aver insegnato recentemente in CM2 [cioè: «Corso Medio, secondo anno» = bambini di 10/11 anni, equivalente alla V elementare, ndt] dopo un’interruzione di parecchi anni, non sono stato colpito tanto dal basso livello, quanto dalla straordinaria difficoltà di contenere una classe che assomiglia ad una pentola a pressione.

Nell’insieme, gli alunni non sono violenti o aggressivi, ma non stanno mai al loro posto. Il professore deve passare il tempo a tentare di costruire o di ristabilire un quadro strutturante. È spesso costretto a praticare una “pedagogia del cameriere”, correndo dall’uno all’altro per ripetere individualmente un compito già impartito collettivamente calmando gli uni, rimettendo gli altri al lavoro.

È vampirizzato da una domanda permanente di interlocuzione individuale. Si esaurisce nel far abbassare la tensione per ottenere l’attenzione. Nel mondo dello zapping e della comunicazione “in tempo reale”, con un super-offerta permanente di prodotti che sollecitano la reazione impulsiva immediata, diviene sempre più difficile “fare scuola”. Molti colleghi danno per scontata l’impossibilità di procedere a ciò che Gabriel Madinier definiva come l’espressione stessa dell’intelligenza, “l’inversione della dispersione”.

Da quando alcuni genitori non crescono più i figli nella cura del collettivo, ma in vista della loro realizzazione personale, bisogna deplorare che la cultura non sia più un valore condiviso in Europa e come fare in modo che ritrovi la sua centralità?

MG: Il sapere e la cultura erano considerati come gli strumenti che permettono di accedere alla piena umanità, in un continuum che andava dalla semplice urbanità alla comprensione del mondo in cui viviamo. Era questo che nutriva l’ideale del cittadino democratico. Ora il sapere e la cultura hanno perso questo statuto. Si sono ridotti ad un ruolo utilitaristico (o distruttivo).

L’idea di umanità si è dissociata dall’idea di cultura. Non ne abbiamo più bisogno per esistere. Siamo sommersi da una voglia di privatizzazione che ci impone di vivere per noi stessi e, soprattutto, di non perder tempo a cercare di comprendere ciò che ci circonda.

Dietro lo slogan apparentemente libertario “fate quello che volete!”, c’è un postulato nichilista: sapere non serve a niente, non è possibile alcuna signoria sul mondo. Contentatevi di ciò che è necessario per mandare avanti la bottega, e per il resto, pensate a voi stessi!

La scuola è presa in questo grande movimento di deculturazione e deintellettualizzazione delle nostre società, che non rende per niente facile il suo compito. Gli alunni non fanno altro che rilanciarlo con la loro obiezione lancinante: “tanto, a che serve?”. È il grande paradosso delle nostre società che si vogliono “società della conoscenza”: hanno perso di vista la vera funzione della conoscenza.

È per questo che abbiamo l’impressione di una società senza pilota. Non si ha più la testa per cercare di comprendere quel che succede: si reagisce, si gestisce, ci si adatta. Ciò di cui abbiamo bisogno è di ritrovare il senso del sapere e della cultura.

Significa che l’autorità del sapere e della cultura non va più da sé? E come reinventarla? 

MG: L’autoritarismo è morto, comincia il problema dell’autorità! Il modello dell’autorità è stato per lungo tempo veicolato dalla religione (poiché i misteri della fede vi sfuggono, rimettetevi al clero) e dall’esercito (cercare di comprendere, è già disobbedire). Queste forme d’imposizione senza discussione si sono sbriciolate, e meglio così! Ma bisogna constatare che una volta che sono state fatte fuori, la questione dell’autorità si ripresenta da capo.

Perché questa questione è così importante per la scuola? Semplicemente perché la scuola non ha altri mezzi d’azione se non l’autorità: l’uso della forza è escluso e nessuna costrizione istituzionale potrà mai obbligare qualcuno ad imparare. La capacità di persuasione dell’insegnante in classe riposa sulla fiducia che gli viene concessa in funzione del mandato che gli è conferito dalla società e garantito dall’istituzione. Noi siamo là per appoggiarlo in quella che è una missione collettiva.

Oggi questo patto viene oggi rimesso in questione. Gli insegnanti sono rimandati solo al loro carisma personale. Lavorano “senza rete di sicurezza” e senza chiaro mandato istituzionale. La società non sta più dietro di loro, a cominciare dalla loro amministrazione. È questo che scatena la crisi dell’autorità nella scuola: gli insegnanti sono là a nome di una collettività che non riconosce il ruolo che esercitano.

PM: L’autorità è in crisi perché è individualizzata e non più sostenuta da un promessa sociale condiviso. Un tempo il professore aveva autorità per istituzione. Oggi non ce l’ha più se non a partire da se stesso. La scuola garantiva che l’autorità del professore era una “promessa di riuscita” – differita nel tempo, ma reale – per colui che vi si sottometteva.

Oggi la promessa della scuola è messa in forse, e il “lavora e riuscirai” non è più una ricetta valida. La scuola, che era una istituzione, è diventata un servizio: gli scambi sono regolati dal calcolo di interessi a breve termine. Il patto di fiducia tra l’istituzione scolastica e i genitori si è infranto. Questi ultimi considerano sovente la scuola come un mercato nel quale cercano il migliore rapporto qualità/prezzo.

La sfida che ne consegue è doppia. Dobbiamo in primo luogo re-istituzionalizzare la scuola, fin nella sua architettura. Se i licei napoleonici hanno funzionato così bene, è perché – a metà strada tra la caserma e il convento – sapevano unire l’ordine e la meditazione. Re-istituzionalizzare la scuola significa sviluppare situazioni suscettibili di suscitare le posture mentali del lavoro intellettuale.

È essenziale scandire lo spazio e il tempo, strutturarvi delle collettività, istituire dei rituali capaci di sostenere l’attenzione e di suscitare l’intenzione di apprendere

Inoltre dobbiamo, contro il sapere immediato e utilitaristico, contro tutte le derive della “pedagogia bancaria”, riconquistare il piacere dell’accesso alle opere d’ingegno. La missione della scuola non deve ridursi all’acquisizione di una somma di competenze, per quanto necessarie possano essere, ma aprire l’accesso al pensiero. È attraverso la meditazione dell’opera artistica, scientifica o tecnologica che il pensiero si struttura e dona una gratificazione che non è di dominio, ma di condivisione.

La reinvenzione della scuola passa dunque per il riesame critico dei nostri strumenti pedagogici? 

PM: L’accesso all’opera d’ingegno, poiché esige di respingere la strumentalizzazione della conoscenza e di entrare in un’avventura intellettuale, si scontra con la nostra frenesia di sapere immediato. Perché i figli della modernità vogliono sapere. Anzi: voglio sapere tutto.

Ma non vogliono veramente imparare. Sono nati in un mondo in cui si ritiene che il progresso tecnico ci permetta di sapere senza imparare: oggi per fare una fotografia messa a fuoco non si ha nessun bisogno di calcolare il rapporto tra la profondità di campo e il diaframma, perché la macchina fotografica fa tutto da sola

Così, il sistema scolastico si indirizza ad alunni che desiderano sapere, ma non vogliono più veramente imparare. Alunni ai quali non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che apprendere possa essere fonte di gratificazione.

Allievi ripiegati sull’efficacia immediata dei saperi strumentali acquisiti con il minimo sforzo, e che non hanno mai incontrato la meravigliosa soddisfazione di una ricerca esigente. È per questo che l’ossessione delle competenze è una strada sbagliata. Rimanda al “produttivismo scolastico”, riduce la trasmissione ad una transazione e dimentica che ogni apprendistato è una storia…

In realtà, la cultura francese è sempre stata restia alle teorie dell’apprendimento, per preferire a queste le teorie della conoscenza: “l’esposizione dei saperi secondo verità” sembrava così il solo metodo di insegnamento, che prendesse la forma dell’enciclopedismo classico o delle tavole di competenze behavioriste.

In questa prospettiva, il sapere programmatico è pedagogia a se stesso, e ogni mediazione, ogni lavoro sul desiderio, dimostrano un pedagogismo disprezzabile. Mi rammarico profondamente dell’ignoranza della storia della pedagogia nella cultura francese: ci aiuterebbe a smascherare le nostre contraddizioni e le nostre insufficienze, e a reinventare la scuola.

MG: Cosa sappiamo di che vuol dire “apprendere”? Pressoché niente, in realtà: passiamo senza soluzione di continuità dal topo di laboratorio e della psicologia cognitiva alle competenze che interessano le imprese. Ma l’essenziale si trova fra le due cose, ed è proprio l’atto di apprendere, distinto dal conoscere, al quale invece non cessiamo – a torto – di ricondurlo. Imparare o apprendere per il bambino fondamentalmente significa entrare nell’universo dei segni grafici attraverso la lettura e la scrittura, e accedere in tal modo alle risorse del linguaggio che si esprime nella sua oggettivazione scritta.

Un’operazione infinitamente difficile che in realtà non abbiamo mai compiuto definitivamente. Perché leggere non è soltanto decifrare, ma anche comprendere. Ciò mette in gioco una serie di operazioni complesse di analisi, di contestualizzazione, di ricostruzione sulle quali non sappiamo praticamente nulla. Come si arriva ad acquisire il senso di un testo?

Si constata empiricamente che alcuni vi pervengono senza sforzo, mentre altri si bloccano in maniera incomprensibile. Su questi argomenti, restiamo sguarniti: ci aggrappiamo a una serie di procedure più o meno obsolete e di invenzioni pedagogiche più o meno cieche.

PM: Così come nessun mestiere si riduce alla somma delle competenze necessarie per esercitarlo, nessun sapere si riduce alla somma delle competenze necessarie per dominarlo. Le competenze grafiche, di scrittura, ortografiche, grammaticali sono forse sufficienti per entrare in una cultura letteraria? Io credo proprio di no, perché entrare nello scritto significa essere capaci di trasformare le regole della lingua in risorse per il pensiero.

Questo gioco tra le regole e le risorse rimanda a un lavoro pedagogico irriducibile all’accumulo di abilità tecniche e alla pratica di esercizi meccanici. Rinvia alla capacità di inventare situazioni generatrici di senso, che articolano strettamente scoperta e formalizzazione. Ora, noi ci allontaniamo a grandi passi da tutto ciò con i cataloghi di competenze che mettono una accanto all’altra competenze diverse come “saper dare prova di creatività” e “saper inserire un allegato in una email”.

Cosa può significare allora «l’alunno ha raggiunto il 60% delle competenze richieste»? La nozione di competenza rinvia tanto a saperi tecnici riproducibili quanto a capacità non verificabili, di cui nessuno si sforza di comprendere come si formino. Questi riferimenti atomizzano la nozione stessa di cultura e fanno perdere di vista la formazione della capacità di pensare.

Nel momento in cui si passa dalle conoscenze alle competenze, quali sono le leve politiche che permetterebbero di reinventare la scuola? 

MG: La scuola è da reinventare, ma non lo potrà fare per conto suo. Non è un campo specialistico come un altro, in cui possa bastare affidarsi agli esperti perché trovino la soluzione. Il problema educativo non potrà essere risolto a queste condizioni. È una questione che coinvolge nel più alto grado la vita pubblica, che impegna l’avvenire delle nostre società e può essere affrontato solo come una responsabilità collettiva che ci riguarda tutti, e non esclusivamente i genitori degli alunni. Una delle più inquietanti evoluzioni attuali risiede nel fatto che tra chi detiene i posti di comando si è installata una visione puramente economica del problema, elaborata e sviluppata su scala internazionale.

Ne è prova l’eco raccolta dalle inchieste dei programmi internazionali di valutazione degli alunni (PISA-OCSE). Il ministero nazionale dell’educazione non fa altro che riprendere concezioni alquanto discutibili del tipo di performance alle quali devono tendere i sistemi educativi.

Molto discutibili, intendo precisare, compreso dal punto di vista dell’uso e dell’efficacia economica. Chi potrebbe prendere sul serio i cataloghi di competenze introdotti per i collège [equivalente della scuola media, ndt] allo scopo di meglio valutare i risultati degli alunni?

Nel lavoro come nel resto della vita, è solo con il pensiero che si può progredire, a tutti i livelli. La funzione della scuola è semplicemente quella di insegnare a pensare, d’introdurre a quel piacere che è la padronanza, attraverso lo spirito, delle cose che uno fa, quali che siano. Questo è di gran lunga l’approccio più efficace. L’illusione del momento è di credere che si otterranno migliori risultati pratici abbandonando questa dimensione umanistica.

PM: Sono pienamente d’accordo con Marcel Gauchet sull’importanza di una mobilitazione politica sulla questione educativa, che del resto supera i confini della scuola. I programmi educativi dei due principali partiti politici francesi non propongono nulla di più che delle nuove riforme della scuola: non c’è nulla sulla questione della famiglia, del ruolo dei media, della presenza degli adulti nella vita civile, delle relazioni transgenerazionali

Marchel Gauchet e Philippe Meirieu, benché abbiate provenienze diverse, avete cercato di superare l’opposizione tra “pedagogisti” e “repubblicani”, questa vecchia querelle che oppone i sedicenti partigiani dei “saperi della trasmissione” e quelli che predicano l’esclusiva “trasmissione dei saperi”. È questo il segno della fine di una divisione tenace ma paralizzante? 

MG: L’opposizione tra pedagogisti e repubblicani mi sembra ormai alle nostre spalle. Me ne rallegro, perché ho sempre lavorato per superarla. Le divergenze assai relative tra Philippe Meirieu e me riguardano solo il diverso punto di partenza. Philippe Meirieu parte dalla pedagogia, laddove io parto piuttosto da una preoccupazione politica.

È certamente importante conoscere il patrimonio pedagogico, ma io sono forse più sensibile di Philippe Meirieu al carattere inedito della situazione. Nessun discorso ereditato mi sembra immediatamente all’altezza della realtà scolastica di cui oggi facciamo esperienza.

PM: Nel momento presente l’essenziale è di inventare una scuola che sia deliberatamente uno spazio di decelerazione, un luogo dove si impara a pensare e si fa esperienza di un lavoro collettivo solidale. Ora, su queste questioni il patrimonio pedagogico mi sembra una grande ricchezza. La divisione politica si situa tra coloro che affidano alla scuola il compito di trasmettere una somma di saperi tecnici tali da garantire al termine l’impiegabilità del soggetto, e coloro per i quali la scuola ha una vocazione culturale che supera la somma delle competenze tecniche che essa permette di acquisire. Ma è una questione che riguarda la società e che richiede un autentico dibattito democratico.

© Le Monde Riproduzione riservata