Cosa Lutero ci insegna. Per chi di noi, in realtà, il peccato è miseria della propria vita, per chi il fatto di non essere riconciliato con Dio è la cosa che lo turba di più e con più urgenza? (da J. Ratzinger)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 27 /12 /2011 - 22:59 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito alcuni passaggi dalla relazione tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella tavola rotonda tenutasi presso la Evangelisch-luterische Christuskirche di Roma il 19 ottobre 1998, pubblicata in Evangelisch-luterische Christuskirche Rom, Roma, 2010, pp. 39-43. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (27/12/2011)

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Per Lutero, l’esperienza di essere peccatore, la miseria di essere peccatore, di non essere riconciliato con Dio, e l’esperienza che Dio stesso ha dato la riconciliazione, sono state il grande dramma della vita. La prima lo sconvolgeva nell’intimo, l’altra era la reale esperienza della redenzione, sicché egli non sapeva solo attraverso le teorie e i libri di testo teologici che cosa significasse essere redento, essere riconciliato, ma lo sapeva attraverso l’incontro con la Parola di Dio che gli andava incontro.

Per quanto oggi possiamo interpretare bene questi testi dal punto di vista storico, non dobbiamo forse ammettere che siamo molto lontani da una simile esperienza e che è questa la miseria che ci opprime entrambi [cattolici e luterani] e che forse potrebbe avvicinarci ancora di più della valutazione del peso dei singoli termini, che è importante, ma che può anche allontanarsi dalla realtà?

In altre parole: per chi di noi, in realtà, il peccato è miseria della propria vita, per chi il fatto di non essere riconciliato con Dio è la cosa che lo turba di più e con più urgenza? Inversamente, chi considera il messaggio che Dio dona la riconciliazione ciò che dà alla sua vita un nuovo fondamento e un nuovo cammino? Ho l’impressione che tutti noi dobbiamo ammettere una grande mancanza, ammettere che ciò che ci preoccupa e ci muove è di natura completamente diversa.

La nostra preoccupazione e la nostra paura derivano dalla preoccupazione per la conservazione del creato, dal timore dinanzi alla crescente ondata di violenza che non può essere arginata; dallo sgomento per l’incapacità alla pace presente negli uomini, dalla loro incapacità di creare giustizia e di distribuire i beni della terra in modo tale che venga sconfitto il bisogno che sconvolge interi continenti, e che venga superata la sproporzione tra l’abbondanza del ricco Epulone e la miseria del povero Lazzaro che giace davanti alla porta. Sono certamente questioni pressanti, che devono toccarci nel profondo.

Ma se non erro, in realtà abbiamo la sensazione che dobbiamo fare da soli e prendere tutto in mano noi. E mi pare che nella nostra anima sia penetrata, in misura non lieve, una concezione teistica di Dio. Non solo pensiamo, a partire dalle scienze naturali, che Dio ha dato al mondo le sue leggi e ora ne rispetta la dignità – non sarebbe degno di Lui interferire – ma crediamo lo stesso anche riguardo all’uomo. Dio ci ha consegnati a noi stessi e quindi non interviene; in realtà è difficile per noi anche solo immaginare in che modo potrebbe intervenire. Per questo non ci disturba il nostro rapporto insufficiente con Lui, mentre invece ci disturba l’insufficienza del nostro agire.

Questo, a sua volta, se non erro ha come conseguenza che nel messaggio della Chiesa, da entrambe le parti prevale il moralismo e in realtà si parla molto poco di ciò che fa Dio. Entrambe le Chiese, per quanto mi è dato vedere, propongono spiegazioni significative e importanti riguardo ai bisogni dell’umanità, ma in fondo si tratta sempre di appelli morali, rivolti all’attività dell’uomo. Ciò è bene e necessario, ma se lanciamo solo degli appelli morali, per quanto ben ponderati, prima o poi stanchiamo le persone, che potrebbero pensare che quelle cose le saprebbero dire anche altri, talvolta con maggiore competenza. Anche se non se ne rendono conto, nell’intimo esse si aspettano dalla Chiesa una certa vicinanza.

E hanno ragione ad aspettarsi di più, poiché non abbiamo da trasmettere solo l’appello al nostro fare, non solo la chiamata al nostro lavoro, ma anche il messaggio che Dio oggi è attivo e presente nella storia come soggetto, e che le cose possono aggiustarsi davvero solo se lo lasciamo agire. Vorrei spiegarlo meglio citando un verso del quinto capitolo della Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi che continua a colpirmi, quando l’apostolo dice: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori [...]. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v. 20).

A questo proposito forse potremmo negare di non essere riconciliati con Dio, potremmo affermare di non fare nulla di particolarmente cattivo, dire che Dio sa come siamo, che la Bibbia dice che Lui sa che siamo carne e dunque non può aspettarsi più di tanto da noi, che in realtà non occorrerebbe che ci riconciliamo con Lui, poiché sa come siamo e per tutto il resto, se necessario, ci pensa Lui. Ma c’è comunque una sorta di non essere conciliati, e questa è proprio la nostra indifferenza, il nostro ritenere che non abbiamo bisogno di Lui, della riconciliazione.

Vorrei brevemente – e con questo ritorno alla dottrina della giustificazione – illustrarlo ricorrendo a tre esempi. Il primo è: non abbiamo tempo per Dio! C’è talmente tanto da fare nel mondo che siamo costretti a rimandare la cosa di Dio. Ma se davvero dobbiamo fare tutto, in realtà non basta nemmeno tutto il tempo. Per questo, più vogliamo utilizzare il tempo solo per noi, più velocemente esso fugge.

Solo se accettiamo nuovamente che il grande evento che Dio ha tempo per noi è entrato nel tempo e non esiste solo racchiuso nell’eternità, che Cristo è il tempo che Dio ha per noi, che in Lui Dio ha tempo, se, quindi, accettiamo che possiamo entrare in questo co-tempo di Dio, in questa co-temporaneità, Dio con noi che ha operato in Cristo, allora il tempo diventa strumento e quindi si apre nuovamente al fatto che in esso può avvenire la pace di Dio. E inversamente, ci accorgiamo che, quando questa relazione fondamentale languisce, tutto il resto diventa poco e vuoto e che il nostro moralismo diventa violento e distrugge più di quanto non costruisca.

Per il secondo esempio attingo da Sant’Agostino: in realtà viviamo con il viso rivolto lontano da Dio, crediamo di non dovere guardare in quella direzione, guardare verso il mondo e lontano da Lui. Ma lui ha girato il suo volto verso di noi e ci chiama, affinché noi giriamo il nostro verso di Lui.

E qui, ritengo, dal punto di vista storico emerge chiaramente una cosa: nell’età moderna l’uomo ha distolto sempre più lo sguardo dal volto di Dio, come Adamo, che non voleva essere visto da Lui. Non vuole essere visto perché ritiene di non aver bisogno di un sorvegliante, e non va bene se tutto è sotto gli occhi di Dio, perciò questi occhi non devono proprio esistere.

E infatti, poiché l’uomo è peccatore, può temere lo sguardo di Dio e volerlo allontanare. Ma proprio qui sta la novità portata dal messaggio della giustificazione, che è cristologia applicata in modo semplice: possiamo collocarci sotto gli occhi di Cristo, poiché non sono occhi che ci annientano, come sarebbe giusto, bensì occhi di bontà, che ci accettano e ci trasformano, bontà nella quale il nostro essere imperfetto viene trasformato e nella quale nasce in virtù dell’essere giusto. Penso che sia proprio questo l’aspetto autenticamente cristiano: i temuti occhi di Dio sono diventati occhi che ci lasciano vivere e che ci accolgono nella bontà, senza la quale non potremmo esistere.

Ed ecco il terzo esempio, quello di Pietro che cammina sul mare e sprofonda fintanto che non guarda a Cristo, ma a se stesso. È evidente che se vede solo se stesso, vale solo la sua forza di gravità. Solo quando guarda a Cristo sopravviene l’altra forza di gravità, che lo regge e lo solleva, e che gli dà la capacità di attraversare il mare. Ed è a partire da ciò che comprendo qual è il significato corretto di “simul iustus et peccator”. Con la nostra forza di gravità, inevitabilmente sprofondiamo, cediamo al peccato. E, se ci affidiamo solo a questa forza di gravità, affondiamo. Ma c’è l’altra forza di gravità, e se ci facciamo trascinare da lei, allora siamo salvi, siamo giusti.

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