Il disagio dei giovani è culturale, non psicologico: il nihilismo e le nuove generazioni nella prospettiva di Umberto Galimberti (di A.L.)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /01 /2008 - 15:59 pm | Permalink | Homepage
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“Se l'uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell'insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale”: così U.Galimberti cerca di descrivere la difficoltà della condizione giovanile.

Ogni soluzione che non guardi dritto in faccia il nihilismo si rivelerà, alla fine, inconsistente: “Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l’individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, se non addirittura di sensi e di legami affettivi, come accade nella nostra cultura, è ovvio che risultano inefficaci le cure farmacologiche cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo”.

Dire che la soluzione da cercare è culturale, che è filosofica, che è nell’ordine della prospettiva, dei valori, del senso, è affermazione di grande rilievo.

Il volume di cui stiamo parlando è L’ospite inquietante. Il nihilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano, 2007, l’ultima fatica di Umberto Galimberti (il libro, in realtà, è in gran parte costituito dalla raccolta dei suoi più recenti articoli apparsi sul quotidiano Repubblica). Il titolo stesso evoca il nihilismo come ospite inquietante e già l’epigrafe del volume, tratta da un testo heideggeriano, ne precisa il motivo:
“Nietzsche chiama il nihilismo ‘il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti’, perché ciò che esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit) come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia” (il brano è tratto da M.Heidegger, La questione dell’essere. Sopra la linea, 1955-1956, p.337).

È questo il vero malessere del tempo, secondo l’analisi di Galimberti. Lo star male ha a fondamento non “le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui”. Ne consegue che “la loro stessa vita... più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso”.

Confermando la linea di lettura che Galimberti invita a seguire ormai da anni il volume afferma che la téchne, la tecnologia, il progresso, non sono sufficienti per affrontare il nihilismo:
“Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura [...] nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della ‘ragione strumentale’ che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell'orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento”.

“I nostri giovani..., nell'atmosfera nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma - e questa, come ci ricorda Guenther Anders, è un’enorme differenza - sul significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso”.

Nell’analisi galimbertiana sembra di ascoltare accenti che sono al centro dell’enciclica sulla speranza Spe salvi che si misura anch’essa sull’esigenza di futuro e di senso iscritta nel cuore e nella mente dell’uomo.

L’invito di Galimberti si rivolge, però, in altra direzione:
“E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonía?”

Il riferimento alla classicità è evidente, con il suo umanesimo che è vertice della cultura pre-cristiana: “In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l'esistenza non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l'arte del vivere (téchne toũ bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnõthi seautón, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron)”.

Per Galimberti la fede cristiana non riconduce a ciò che propriamente l’uomo è, ma anzi distoglie da questo compito. È esattamente la convinzione nietzschiana. Profondamente diversa si presenta, ovviamente, la prospettiva agostiniana sulla vita che muovendo dalla stessa ricerca dell’uomo interiore vede nella relazione con la grazia lo svelamento della realtà umana.