«La Chiesa in Cambogia è martire. L’hanno annientata e oggi continua a soffrire». Intervista a mons. Enrique Figaredo Alvargonzález, prefetto apostolico di Battambang

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /07 /2012 - 11:46 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo un’intervista dall’Agenzia di stampa Zenit del 27/7/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/8/2012)

Maria Lozano ha intervistato in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) il prefetto apostolico di Battambang, in Cambogia, monsignor Enrique Figaredo Alvargonzález, S.I.

Mons. Kike, Lei è entrato nel noviziato della Compagnia di Gesù all’età di 20 anni a Madrid. Perché e quando si è trasferito in Cambogia?

Ero alla ricerca di un incontro con Dio e l’ho avuto durante il mio noviziato, quando stavo studiando filosofia. Quando mi sono laureato in economia, volevo dare un volto ai numeri che avevo studiato, così ho detto al mio provinciale che volevo essere volontario per i rifugiati e imparare da queste persone. Egli è il Cristo sofferente nel mondo e pensavo che i profughi erano coloro che andavano ad insegnarmi come è questo Gesù. Ero pronto a qualsiasi cosa ed improvvisamente ho ricevuto una lettera da Bangkok, del Jesuit Refugee Service: “Ti aspettiamo qui il 1 settembre”. La lettera è arrivata a maggio, quando non avevo ancora dato gli esami per la laurea, non aveva ancora fatto i test per la carriera e questo mi ha reso molto nervoso.

Inoltre, la Cambogia era ancora in guerra.

Sì. Ho dovuto guardare la mappa per sapere dove si trovava. Le prime immagini che ho visto di cambogiani erano tutti con il cromà. Il cromà è una sciarpa, un foulard che in Cambogia è multiuso. Si usa sia per il sudore che per coprirsi dal sole, come asciugamano, come amaca per i bambini. Se dovessimo scegliere un simbolo della Cambogia per identificare il popolo cambogiano, dovremmo scegliere il cromà. Quindi, quando porto il cromà è un po’ come portare la Cambogia con me. In quelle prime foto che ho visto di rifugiati cambogiani, tutti avevano il cromà e mi ha incuriosito tantissimo.

Lei è arrivato nel settembre 1985 in una Cambogia in guerra. Qual è stata la sua prima impressione?

Avevo paura, ero spaventato a morte. Quando sono andato nei campi profughi fu un calvario. Ha dovuto passare 5 controlli militari e ad ogni controllo le cose si facevano sempre più cupe e i militari, vestiti di nero, poco sorridenti, ti chiedevano i documenti in modo molto violento. Quando poi sono arrivato al cancello del campo, non lo dimenticherò mai, si sono alzate le sbarre e siamo entrati. Di colpo, i bambini, mal vestiti, scalzi, ma allegri! Mi ricordo molta allegria, vita… piena, anche se vivevano racchiusi in un campo profughi, diciamo come prigionieri di guerra.

Cosa è successo poi?

Sono andato a visitarli e mi ha ricevuto Jhaimét, che era il capo, il loro leader. Me lo ricordo molto bene: era con le stampelle, gli mancava una gamba, l’altra era rimasta gravemente ferita e gli mancava un occhio. Io non parlavo cambogiano, ma c’era un ragazzo che traduceva. Jhaimét ha detto: “Ho sentito che vieni ad aiutarci” e io – spaventato a morte – “sì, sì”. E lui diceva: “Non ti preoccupare, ti dirò di che cosa abbiamo bisogno”. In quel momento ho avvertito una pace impressionante, per così dire, la voce di Dio era Jhaimét che mi diceva: “Non ti preoccupare, qui ti accogliamo, ti vogliamo bene”.

La Cambogia è un paese a maggioranza buddista, il che significa che in questi campi profughi, la maggior parte della gente è di religione buddista, no?

Sì, sono in maggiormente buddisti. Naturalmente ci sono i cattolici, ma sono pochi. Inoltre anche la guerra ha contribuito alla loro scomparsa. Molti sono stati assassinati, sacerdoti, vescovi, tutti quanti. Nei campi sono rimaste, come un piccolo resto di Israele, di cristianesimo, famiglie piccole, spesso senza un capo famiglia. Nella maggior parte era una vedova, ma spesso non c’era neppure quella come capo famiglia, erano figli di cattolici, ma senza molta preparazione e richiedono un aiuto speciale.

Durante la cerimonia del suo insediamento come prefetto apostolico un sopravvissuto ha dato la sua testimonianza e ha parlato della Chiesa in Cambogia come «una chiesa che negli ultimi 30 anni era stata una chiesa di lacrime e sangue», un chiaro riferimento alla persecuzione dei Khmer rossi di Pol Pot, alla quale anche Lei sta facendo riferimento. La Chiesa della Cambogia è una Chiesa martire?

Sì, è una Chiesa martire. La Chiesa della Cambogia è stata completamente annientata. Tutti i nostri capi, come ho detto prima, i vescovi, i sacerdoti, le suore e molti catechisti sono stati uccisi. Chi non è stato ucciso è morto di fame o di malattia e la comunità è rimasta molto impoverita. Oggi abbiamo due luoghi in Cambogia, dove ricordiamo i martiri. Il 7 e l’8 maggio sono i giorni in cui li ricordiamo. Ma nel ricordo di questi martiri anche noi cresciamo nella fede, perché sono persone che sono morte con la fede viva. Il vescovo Paul Tep Im Sotha, primo prefetto apostolico di Battambang, a cui sono succeduto, due giorni prima della sua morte aveva detto Messa, e dando la sua benedizione a tutti ha detto: “Arrivano tempi duri, abbiate cura della vostra fede, abbiate cura della fede gli uni degli altri”. Finita la Messa, è salito in macchina e l’hanno assassinato. Il vescovo Joseph Chhmar Chambers, di Phnom Penh, è stato nominato vescovo 4 giorni prima dell’ingresso dei Khmer Rossi a Phnom Penh, il suo vescovado era nelle risaie.

Che erano come campi di concentramento, vero?

In questi campi di concentramento, lui ha fatto il pastore e ha visitato i cattolici. Ha pregato e celebrato l’Eucaristia con moltissime limitazioni, ma l’ha fatto. Si è preso cura del suo popolo come un povero ed è morto di fame e di malattia, ma alla sua morte, la sua croce pettorale, l’hanno raccolta i suoi genitori e la gente si è riunita attorno alla croce pettorale del vescovo Salas per pregare.

Grazie a Dio, oggi non è più una Chiesa martire anche se continua a soffrire.

Infatti. Dopo Pol Pot è venuto un regime comunista pro-vietnamita che ha continuato a far soffrire la gente. Non ha concesso nessuna libertà di religione e la gente ha continuato a patire e soffrire in povertà e in mancanza di libertà. La memoria dei nostri martiri ci dà molta forza perché abbiamo visto come si sono consegnati nella sofferenza. I nostri cattolici hanno attraversato tante sofferenze e oggi lo testimoniano con la loro vita.

Questa intervista è stata condotta da Maria Lozano per Where God Weeps, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network, in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre.