A 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, di Angelo Scola

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 01 /12 /2012 - 09:40 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una riflessione del cardinale Angelo Scola pubblicata sul numero della rivista “Teologia” 37 (2012) 331-334 e sul blog dello stesso cardinale.  Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2012)

Ogni fedele nella Chiesa è debitore al Concilio Vaticano II. È questa la constatazione che da quell’11 ottobre 1962 ha accompagnato l’autocoscienza ecclesiale espressa in modo eminente dal magistero pontificio. Dal beato Giovanni XXIII a Paolo VI, dal beato Giovanni Paolo II a papa Benedetto XVI, il Concilio Vaticano II è stato riconosciuto come un evento di grazia provvidenziale per la vita e la missione della Chiesa agli albori del Terzo Millennio cristiano.

È nota l’affermazione di Giovanni Paolo II che definì il Concilio «un grande evento, un’indimenticabile esperienza» (Alzatevi, andiamo!, Milano 2004, 133). Questa semplice constatazione deve precedere e orientare ogni discussione ermeneutica e ogni verifica della recezione dell’eredità conciliare, compiti ai quali non può sottrarsi un’istituzione accademica come la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.

L’attualità teologica del Concilio Vaticano II ha assunto un timbro speciale a partire dall’ormai celebre discorso di Benedetto XVI alla Curia romana del 22 dicembre 2005 che invitava a ripensare il nesso tra ermeneutica e recezione del Concilio. Sulla scia della proposta del Santo Padre circa «l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino», propongo tre semplici indicazioni per il lavoro dei cultori della materia.

Primo. Tutti gli avvenimenti precedenti l’assise conciliare, compresi i fattori di rinnovamento, non sono in grado di spiegare esaurientemente l’iniziativa di Giovanni XXIII. È impossibile coglierla senza un’adeguata ermeneutica della storia. Essa implica riconoscere che la storia della Chiesa ha per sua natura uno statuto teologico: la storia della Chiesa, descrivendo il pellegrinare del popolo di Dio attraverso i secoli verso la patria celeste, ha come protagonista il Padre che chiama gli uomini, in Gesù Cristo e per la potenza dello Spirito, ad esserne co-agonisti.

Una strada che finisca, lo si voglia o meno, per estromettere dall’elaborazione della storia della Chiesa il dialogo tra la libertà di Dio e la libertà degli uomini semplicemente non risulta percorribile. La storia proprio in quanto storia mette in gioco questo incontro di libertà e, in ultima analisi, la fede stessa. Su questa base, numerose controversie ermeneutiche che vedono storici e teologi accusarsi reciprocamente di letture riduttive o ideologiche, dovrebbero essere lasciate definitivamente da parte.

Ovviamente, non è compito facile e necessita di grande acribia. In ogni caso, appare evidente che un’adeguata ermeneutica conciliare impone l’interrogativo su quale sia il suo soggetto adeguato. La lettura conciliare, sia per lo storico sia per il teologo, non può che scaturire, in ultima istanza, dal “soggetto Chiesa”. Solo in esso trova la sua unità. Attraverso il “soggetto Chiesa”, infatti, l’unità è posta e garantita all’origine e non è cercata come il convergere di strade autonome.

Ovviamente, quando si parla di “soggetto Chiesa” – ma questo dovrebbe essere un dato acquisito proprio grazie all’insegnamento conciliare – lo si intende secondo tutta la ricchezza della communio che è nello stesso tempo communio christifidelium, communio hierarchica e communio Ecclesiarum, quella communio che vive secondo il principio della pluriformità nell’unità.

Secondo. Il frutto della risposta di Giovanni XXIII alla sollecitazione dello Spirito per il bene della Chiesa e della sua missione, fu la proposta di un Concilio ecumenico le cui finalità e caratteristiche, anche se non sempre tra loro omogenee (aggiornamento, unità dei cristiani e della famiglia umana, attenzione ai segni dei tempi, indole pastorale del magistero, scelta di esporre più chiaramente il valore dell’insegnamento piuttosto che di condannare…), possono essere sinteticamente enucleate nel termine “pastorale”.

Cosa si intende per “indole pastorale” del Concilio? In estrema sintesi: papa Roncalli, e sulla sua scia Paolo VI ed i Padri conciliari, hanno voluto sottolineare la natura salvifica della Chiesa proprio con l’evidenziarne il compito pastorale. La Chiesa offre testimonianza della verità che è Gesù Cristo per il fatto di concepirsi essenzialmente propter homines. Quindi col termine “pastorale” ci si riferisce alla missione storico-salvifica (sacramentale) della Chiesa. Questa prospettiva suppone una considerazione “pastorale” del Chi della Chiesa, all’interno della quale rientra il tema – decisivo, ma circoscritto – della formulazione pastorale della dottrina.

L’“indole pastorale” mostra che la Chiesa è una realtà essenzialmente eccentrica, definibile solo in base ad una duplice costitutiva relazione: a Cristo e alla sua missione, da una parte, e al mondo verso cui è continuamente ed essenzialmente inviata, dall’altra. La considerazione “pastorale” della Chiesa, l’identificazione del suo essere essenzialmente “eccentrica”, cioè missionaria, conduce a riconoscere che non si dà annuncio del Vangelo di Dio senza farsi carico del destinatario. Inoltre la “pastoralità” del Concilio rende possibile pensare cristianesimo e storia non come due fattori estrinseci. In forza della “pastoralità” è possibile precisare il rapporto tra cristianesimo e storia nella prospettiva unitaria della logica sacramentale.

Terzo. Una considerazione rigorosa del Vaticano II attesta l’impossibilità di separare la dimensione di evento dal corpus dottrinale del Concilio. Superare l’antinomia tra evento e testi, che non di rado viene riproposta, è possibile se vengono assunte fino in fondo sia un’ermeneutica adeguata della storia, sia l’indole pastorale dell’insegnamento conciliare.

Infatti, l’ermeneutica della storia conciliare ci indica che l’urgenza missionaria (indole pastorale) richiese di rispondere alla domanda: chi è la Chiesa? Tale domanda trovò nel Concilio (evento), come espressione rappresentativa della Chiesa, la sua risposta: nel Concilio il “soggetto Chiesa si disse” (corpus dottrinale).

In questo senso, i documenti conciliari non solo fanno parte integrante dell’evento, ma permettono l’accesso all’evento stesso nella sua verità. Evento e testi sono semplicemente indisgiungibili. Non c’è antinomia tra evento e corpus dottrinale, ma conformità.

Tuttavia è possibile domandarsi: esiste una sporgenza dell’evento rispetto ai testi? Esiste. E non deve meravigliare. Basta citare l’analogia (senza perdere di vista la maggior differenza) con la Rivelazione: l’autocomunicazione della Trinità all’uomo e alla famiglia umana sporge rispetto alla Tradizione e alla Sacra Scrittura – che pure è ispirata e canonica – autenticamente interpretate dal Magistero, eppure non si ha accesso all’autocomunicazione che Dio ha voluto far di Sé a prescindere dalla Rivelazione scritta o trasmessa (cfr. Dei Verbum 7-10).

La sporgenza a cui ci stiamo riferendo è irriducibile, perché è propria del cammino storico della Chiesa. È al suo interno che si deve leggere l’incidenza del Concilio e il grado della sua recezione. L’inadeguatezza dell’opposizione evento-testi ci porta a riconoscere, ancora una volta, l’inseparabile intreccio tra “il teologico” e “lo storico”.

La storia non può essere ridotta ad una somma di fatti bruti tra loro giustapposti. La storia ha un senso perché in essa si attua il destino dell’uomo. La storia è res gestae, cioè espressione di azioni significanti. Questo dato emerge con chiarezza proprio dalla considerazione dell’intenzione generativa dei testi che raccontano la storia. Questi, infatti, non si lasciano spogliare di tale intenzione in nome di una pretesa oggettività, sotto pena di cadere in balìa di una ricerca puramente soggettiva.

L’esistenza di uno scarto tra l’analisi critica di un testo e l’intenzione generativa del medesimo va indubbiamente riconosciuta. Ma è proprio questo scarto a garantire la natura fondativa dell’intenzione generativa del testo, impedendo al lettore o allo scienziato di appropriarsene come se fosse un suo prodotto. L’intenzione, sempre soggiacente al racconto storico, è una solida prova di come le circostanze e i rapporti che si danno nella storia provochino la libertà a prendere posizione, a decidere.

Proprio per questa ragione, evento e testi frutto dell’evento chiedono adesione. Il rapporto indisgiungibile evento-corpus di insegnamenti, che non elude la questione dell’inevitabile e benefica sporgenza, fa emergere, ancora una volta, attraverso il peso dell’intenzione generativa, l’insostituibile ruolo del protagonista del Concilio: il “soggetto Chiesa”.

Il Vaticano II è stato una tappa decisiva dell’avanzare della Chiesa lungo la storia. Un pellegrinaggio che non può compiersi senza la dinamica della riforma (cfr. LG 8; UR 6). Questa non viene adeguatamente compresa da letture costituzionaliste del corpus del Vaticano II e non è riducibile a cambiamenti puramente istituzionali.

La riforma è legata all’approfondirsi dell’autocoscienza e della santità ecclesiali che lo Spirito assicura alla Sposa quando questa non rinuncia a proporre in ogni tempo storico, disposta al martirio, l’avvenimento salvifico di Cristo.

È questa la prospettiva con cui affrontare il processo di recezione del Vaticano II. Esso è parte integrante dell’essenziale compito missionario della Chiesa, cioè, del suo porsi nella storia come sacramento universale di salvezza.

L’indole pastorale, intesa nella sua pienezza che va dall’evento al corpus dottrinale, rappresenta il novum del Vaticano II. I suoi benefici effetti sono già ben visibili nella storia della Chiesa. Tuttavia la sua recezione, ancora in atto, continua ad esigere dai cristiani una libera e generosa risposta alla chiamata di Dio che si attesta nella trama sto-rica di circostanze e di rapporti.

+ Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
e Gran Cancelliere
della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale