«La Provvidenza di Manzoni si incarna nella fede» e non nel moralismo di Eco, di Daniele Ciacci

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /12 /2012 - 00:35 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un articolo di Daniele Ciacci pubblicato l’1/12/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2012)

Oggi (sabato 1 dicembre) con Repubblica è possibile acquistare il classico di Alessandro Manzoni, I promessi sposi, riscritto da Umberto Eco. In un estratto ripreso dal giornale di Ezio Mauro, ieri Eco scriveva: «Il signor Alessandro sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. E siccome, per l’appunto, era un cristiano assai fervente, tutti hanno detto che la sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza». Così, la Provvidenza diventa la semplice remissione a un dovere superiore, cui l’uomo è soggetto: un fato dal nome che suona cristianamente, perché tale era la fede dell’autore.

«Sono convinto – dice a tempi.it Giovanni Fighera, giornalista, scrittore e insegnante di italiano – che nel 2012 sia avvenuto un attacco molto forte sia contro il cristianesimo sia contro le opere che lo incarnano. Qualche mese fa l’associazione Gherush 92 ha attaccato la Divina Commedia in quanto islamofoba e antisemita. È il primo tentativo di attaccare opere di fede cristiana, è ridurre la genialità, la radicalità e la novità del cristianesimo. Insomma, il tentativo di Umberto Eco di sminuire la Provvidenza, e di delinearla come una forza superiore alla quale arrendersi remissivamente, non è cosa nuova. E, in ogni caso, non è il messaggio che insegna Manzoni».

Cos’è la Provvidenza che descrive Manzoni nel romanzo?

È espresso chiaramente alla fine del trentottesimo capitolo, dove è citato “il sugo”, il senso della storia. Manzoni non fa terminare I Promessi Sposi come una favola bella – “e vissero felici e contenti” – cioè con il matrimonio. Anzi, termina quasi con un litigio fra Renzo e Lucia, dove quest’ultima lo apostrofa con il termine “moralista”. Questo è il punto: I Promessi Sposi non vogliono essere un’opera moralistica e bigotta che vuole propinare solo degli insegnamenti – che sono quelli di cui va fiero Renzo: ho imparato a non alzare il gomito, a non girare per la città con i campanelli dei lebbrosi cinti ai piedi, ecc. – ma è altro.

Cioè?

Che cosa racconta Manzoni nell’ultimo capitolo? Renzo e Lucia finiscono in un nuovo paesello. Tutti gli abitanti, sapendo delle vicissitudini da loro passate, avevano grande attesa di vedere Lucia. La pensavano bella come una principessa, e sono scontenti perché, a conti fatti, si ritrovano una ragazza normalissima. Queste voci vengono riportate a Renzo, che si arrabbia. È focoso come all’inizio del romanzo, tanto che voleva dar loro una lezione. Allora l’anonimo – ironicamente – dice che la Provvidenza aveva già sistemato le cose: nel paese vicino muore un uomo, e lascia sguarnito il proprio filatoio, in cui Renzo va ad abitare. Qui le opinioni su Lucia sono diverse: è una bella ragazza. E Renzo è contento. In questa sede Manzoni crea un’analogia tra la condizione umana comune e l’immagine di un vecchio infermo. Un vecchio si rigira del proprio letto e non è mai contento. Invidia il letto dell’altro, pensando sia più comodo. Ma quando lo ottiene, trova tanti bernoccoli, tante pieghe, che gli fanno rimpiangere quello precedente. Così come Renzo, che neppure nella nuova città si trova a suo agio.

Si spieghi meglio.

La Provvidenza non è una forza che, dall’alto, sistema le cose e indirizza le azioni dell’uomo immediatamente al bene. Dopo questo aneddoto, Manzoni racconta che Renzo prende a raccontare la sua storia alle gente del villaggio. È convinto che il senso di quello che è successo si risolva tutto nell’imperativo kantiano “fai il bravo”. Questo è il cristianesimo ridotto a moralismo che noi ben conosciamo. Ma a Lucia questa definizione sta stretta. Lei è sempre stata una “brava ragazza”, eppure di vicende ne sono successe. Così, i due discutono del “sugo” della loro storia, e lo delineano: dai guai bisogna stare lontani, ma spesso sono loro che vengono a cercare noi. Allora «la fede in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». I guai, nell’offerta della Fede, possono cambiare l’uomo in meglio. La Provvidenza è infatti una fede incarnata in una concretezza, in una carne.

Ad esempio?

Tutta la storia dell’Innominato si legge in questa luce. Nel ventunesimo capitolo Lucia, di fronte al più grande dei cattivi, ha un’autorità che non proviene da Lei. «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia». Questa frase, proferita con un filo di voce all’Innominato, lo cambia. Questa circostanza è vissuta dalla giovane paesana con negli occhi la presenza di Gesù, che è la presenza del volto della madre Agnese, della Madonna che lei invoca, della presenza di Renzo e di fra Cristoforo. E dai quei volti passa la Provvidenza. Infatti Lucia è la più debole, ma vince l’Innominato. Che, infatti, dopo una nottata turbata dal pensiero del suicidio, deciderà di seguire le voci che provengono da un vicino pellegrinaggio verso il cardinal Federigo. Qui l’Innominato sarà abbracciato in tutta la sua cattiveria e i suoi limiti. E capisce che la liberazione di Lucia è la prima possibilità del suo personale cambiamento. È così che si muove la Provvidenza.