I “marxisti ratzingeriani”: Giuseppe Vacca, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Paolo Sorbi. Un nuovo manifesto

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /12 /2012 - 14:20 pm | Permalink | Homepage
- Tag usati: ,
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da Avvenire il Manifesto scritto da Giuseppe Vacca, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Paolo Sorbi e pubblicato il 16/10/2011 e quattro interviste agli estensori del testo pubblicate nell’autunno 2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (9/12/2012)

Da Marx a Benedetto XVI. Il manifesto che fa tremare il PD, e non solo

“La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia”.

Questo è il folgorante esordio di un documento politico firmato da quattro studiosi e intellettuali di formazione marxista e di area del Partito Democratico, reso pubblico il 16 ottobre alla vigilia dell’incontro delle associazioni cattoliche a Todi.

Un documento con un simile esordio – e con un seguito ad esso del tutto coerente, riportato integralmente più sotto – difficilmente sarebbe oggi prodotto e sottoscritto di slancio da tutte le associazioni cattoliche convocate nella città umbra. C’è in esso un’adesione esplicita a tesi di Benedetto XVI e del cardinale Angelo Bagnasco che in campo cattolico non godono affatto di un’esegesi concorde e di un’applicazione pratica conseguente e convinta.

Che i “principi non negoziabili”, ad esempio, siano il fondamento di una buona politica che riguardi ogni altro aspetto della società, in quanto delineano il concetto stesso di uomo, non è affatto una tesi pacificamente condivisa da tutti i cattolici riuniti a Todi. E invece è proprio ciò che sostengono i quattro autori del documento.

Essi sono Giuseppe Vacca, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Paolo Sorbi. Solo l’ultimo, sociologo, è da sempre cattolico. Vacca, storico e scienziato della politica, è il presidente dell’Istituto Gramsci ed è da molti anni uno degli intellettuali più autorevoli attivi nel Partito Democratico. Barcellona è un filosofo anch’esso di area PD, da qualche anno orientatosi a una nuova riflessione sull’uomo con una forte attenzione alle posizioni della Chiesa. Tronti, già fondatore dei “Quaderni Rossi” e teorico dell’operaismo e dell’autonomia del politico, oggi presidente dell’ingraiano Centro per la Riforma dello Stato, si è ultimamente dedicato alla critica della democrazia.

Il loro documento è un appello al Partito democratico e in genere alla sinistra.

La sua uscita, programmata sul “Corriere della Sera” ma inopinatamente qui venuta a mancare, è avvenuta domenica 16 ottobre sul quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”, che vi ha dato molto risalto, con un richiamo in prima pagina.

Ecco qui di seguito il testo integrale del documento.

*

L’emergenza antropologica: per una nuova alleanza, di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca

La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile.

A noi pare che negli ultimi anni – un periodo storico cominciato con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della “seconda Repubblica” – mentrela Chiesaitaliana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di “partito di credenti e non credenti”. Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale.

Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione. Nel suo libro-intervista “Per una buona ragione”, Pier Luigi Bersani afferma che il “confronto con la dottrina sociale della  Chiesa” è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia “della massima autorità spirituale cattolica” può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica. Ribadendo, infine, la “responsabilità autonoma della politica”, Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione “che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche”.

Per quanto riguardala Chiesacattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26-29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione.

Il primo riguarda la critica della “cultura radicale”: essa è rivolta a quelle posizioni che, “muovendo da una concezione individualistica”, rinchiudono “la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale”.

Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito “la catastrofe antropologica”: “la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica”. E non è meno significativa la sua giustificazione storica: “A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione [che] sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente”. In altre parole, la “possibilità” di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono “più uniti di quanto taluno vorrebbe credere” grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso.

La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”.

Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito. La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principii, da credenti o da non credenti.

D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principii ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento.

Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare “la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica” rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana.

A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico conla Chiesacattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico.

Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.

1/ Tronti e Possenti / Chi ha smantellato l’etica che ci univa? Un’intervista di Alessandro Zaccuri (31 ottobre 2012) 

«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi , Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra Partito democratico e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Per approfondire ragioni e sviluppi del dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Pubblichiamo in questa pagina la prima conversazione, che vede confrontarsi Vittorio Possenti e Mario Tronti.

Quella antropologica è questione «senza tempo» per eccellenza. Perché parlare di «emergenza» proprio adesso?

TRONTI: «Un primo tentativo di risposta non può non fare riferimento alla contingenza attuale, che ci spinge ad affrontare le tematiche antropologiche con un’intensità prima sconosciuta. Si fa sempre più forte l’impressione di trovarsi al centro di una crisi che non è soltanto economico-finanziaria, ma che investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a se stesso e prodotto il deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’“emergenza” segnalata dalla nostra lettera».

E come se ne esce?

TRONTI: «Tornando a intrecciare culture e sensibilità diverse, e più che altro spostando l’attenzione su questi temi dall’ambito cattolico, dove hanno da tempo una centralità riconosciuta, a quello della sinistra, che invece li ha troppo a lungo trascurati. Nei miei studi ho sempre cercato di rifarmi all’orizzonte della teoria e della filosofia politica. Poi, negli ultimi decenni, anche grazie ad alcune esperienze (il laboratorio della rivista “Bailamme”, gli incontri presso l’eremo camaldolese di Monte Giove), mi è parso di capire che la crisi della politica non si risolve con le ragioni della politica. Da qui il mio interesse per la teologia politica».

POSSENTI: «È vero, oggi c’è una crisi che affiora in emergenza, ma che è precedente rispetto ai fenomeni che stiamo vivendo. Per un certo periodo l’umanità ha tentato di fondare le ragioni della propria convivenza su una specie di accordo sociale e contratto morale, che ha avuto il suo momento più fortunato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento importante di questa temperie è costituito dal discorso che Jacques Maritain pronunciò a Città del Messico nel 1947, in occasione della prima Conferenza generale dell’Unesco: nelle parole del pensatore francese è chiaro che, a dispetto delle diversità presenti anche nel dopoguerra, è possibile conseguire un accordo pratico sui valori fondamentali, che poggiano da ultimo sul concetto di dignità della persona. Negli ultimi sessant’anni il presupposto stabilito da Maritain, e di fatto sancito dalla Dichiarazione universale, è venuto almeno in parte a cadere. Oggi come oggi siamo costretti a registrare il fallimento di ogni tentativo di costruire un’etica pubblica condivisa che si fondi su istanze di tipo esclusivamente etico-politico. Se davvero si vuole trovare un minimo comun denominatore, occorre fare un passo indietro e attestarsi al livello antropologico, l’unico che riesca a offrire un fondamento affidabile per affrontare le grandi questioni di questo momento».

Possiamo fare qualche esempio?

POSSENTI: «C’è anzitutto l’economia, che dall’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha operato mediante lo slegamento assoluto delle leve finanziarie, riducendo la stessa politica a una variabile dipendente del capitalismo finanziario. Ma la partita decisiva si gioca nella gestione della vita (la cosiddetta biopolitica), dove ci si confronta con un progresso scientifico-tecnologico a fronte del quale perfino l’etica appare insufficiente. Quando dobbiamo stabilire come trattare l’embrione umano, dobbiamo anzitutto stabilire se ci troviamo davanti a un grumo di cellule o davanti a una persona. A secondo della posizione antropologica che assumiamo, le conseguenze morali sono molto diverse e addirittura conflittuali».

Proprio su questi temi, però, la sinistra italiana sconta una lunga indifferenza.

TRONTI: «Più che altro parlerei di una forte subalternità al clima dominante in tutto l’Occidente. Già la visione imperniata sull’homo oeconomicus  ci consegnava un’umanità dimezzata, contro la quale il movimento operaista proponeva l’affrancamento del lavoratore dai macchinari. Adesso, con l’avvento dell’homo technologicus, questo stesso asservimento si compie in maniera più subdola, provocando un’ulteriore riduzione di umanità. Nel frattempo le ideologie si sono disperse, ci siamo persuasi di vivere dopo la fine della grandi narrazioni e ci siamo assuefatti a una narrazione che esiste purtroppo da molto tempo: quella per cui il mondo non è trasformabile e l’uomo deve limitarsi ad aderire allo status quo. Il risultato è un diffuso sentimento anti-ideologico, figlio a sua volta di certe utopie degli anni Sessanta. Le coscienze cambiano, questo sì, ma in modo solo istintivo, secondo i dettami delle culture radicaloidi e falsamente libertarie, per cui non esiste altro diritto che non sia il diritto dell’individuo. La sinistra non è stata capace di contrastare questa deriva che, cancellando il limite, vanifica anche ogni legame con la collettività. Ed è a causa di questa incapacità che la sinistra italiana oggi è poco riconoscibile a livello popolare: riscuote consenso presso quel che rimane del ceto medio riflessivo, ma ha perduto il contatto con le grandi culture popolari ancora vive nel nostro Paese».

POSSENTI: «Mi trovo in piena sintonia con questa analisi, specie per quanto riguarda le osservazioni sulla mancata dimensione popolare della politica nostrana. A partire dagli anni Ottanta si sono innescati diversi processi che hanno condotto a operare tagli dolorosi e, per così dire, trasversali rispetto alle culture dell’esistenza proprie del popolo italiano. In generale, si è smarrito il senso di un’appartenenza comune, anche per effetto di un bombardamento mediatico che ha fatto perdere di vista molti riferimenti tradizionali. La piazza pubblica si è pertanto ritrovata nuda di alcuni presupposti esistenziali e dominata al contrario da un discorso vacuo, poco attento alla vita reale delle persone e dei gruppi sociali. Purtroppo, come osservava prima Tronti, la politica non è bastata a se stessa e al posto del bene comune è sopraggiunta una spudoratezza che fa quasi rimpiangere la stagione di Tangentopoli. Ma anche questo è un effetto della mentalità corrente, per cui esiste solo il singolo, qui e ora, e viene abbandonata ogni preoccupazione per gli altri, per il domani».

Insomma, un’alleanza di ferro tra deserto delle ideologie e secolarizzazione dilagante?

POSSENTI: «Con una responsabilità ben precisa della cultura radicale, che punta a esaltare l’essere umano in quanto individuo, con l’obiettivo dichiarato di tutelarne i diritti, ma senza operare più alcuna distinzione tra diritti, pretese e desideri. La sinistra si è lasciata contaminare da questo atteggiamento, arroccandosi su una difesa dei diritti che trascura ogni riferimento ai doveri. Del resto, anche la cultura liberale ha mostrato la sua insufficienza, concentrandosi unicamente sul diritto di libertà. Il che è molto, ma non tutto: il diritto al lavoro, per esempio, non è un diritto di libertà, né lo è il diritto alla vita. È su questa base di realismo che occorre tornare a riflettere su quelli che, personalmente, preferisco chiamare i “princìpi irrinunciabili” su cui poggia la dottrina della Chiesa».

Sono gli stessi princìpi su cui concordano i “marxisti ratzingeriani” che hanno firmato la lettera ad “Avvenire”?

TRONTI: «Al di là delle formulazioni giornalistiche (e “marxisti ratzingeriani” è un’etichetta molto efficace, lo ammetto) resta la volontà, da parte nostra, di richiamarci a un’idea di sinistra forte, consapevole delle sue ragioni e proprio per questo capace di confrontarsi con culture diverse. Quanto a Benedetto XVI, mi pare che la lettura corrente, per cui questo sarebbe un pontificato “conservatore”, costituisca un completo travisamento del pensiero del Papa-teologo. Centrale, in Ratzinger, è la necessità della dimensione pubblica dell’esperienza di fede. Anziché accontentarsi dei luoghi comuni, le culture della sinistra dovrebbero semmai sollevarsi a questo livello e accettare il confronto sul terreno dei “princìpi irrinunciabili”. Ma il problema viene da molto lontano e ha la sua origine nel pensiero dello stesso Marx. Eppure più passa il tempo, più ci si rende conto che qualsiasi esperimento di trasformazione della realtà non può prescindere dall’elemento spirituale presente in ogni essere umano. Per come la vedo io, c’è un legame strettissimo fra trascendenza e rivoluzione, a patto ovviamente di intendere quest’ultimo termine nella sua portata più vasta».

POSSENTI: «Nell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI ha invitato a riconsiderare la vicenda degli ultimi secoli come il tentativo di fondare un “regno dell’uomo” nel quale non vige più una speranza di tipo teologale. Nell’Ottocento anche il movimento socialista ha fatto la sua scelta, abbracciando il materialismo storico di Marx ed Engels come garanzia di scientificità, vale a dire come dottrina che risolve (e che sa di risolvere) il mistero della storia. Questa illusione ci costringe oggi a vivere in un campo di realtà molto ristretto, nel quale hanno valore solo meccanismi di facile presa, come quello che ha trasformato l’etica economica in etica universale. Per superare questa visione accorciata dell’uomo e della società occorre riaprire molto porte e molti spazi. Un’etica condivisa, a questo punto, non è più sufficiente. Occorre un umanesimo condiviso. Un’antropologia che si ponga l’obiettivo di superare l’emergenza, appunto».

2/ Sorbi e Magatti / La cultura dei diritti? Sia più responsabile. Un’intervista di Francesco Ognibene (7 novembre 2012)

«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra sinistra e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Non a caso c’è chi ha parlato di «marxisti ratzingeriani». Per approfondire il dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Dopo la conversazione di mercoledì scorso fra Vittorio Possenti e Mario Tronti, ora dialogano Paolo Sorbi e Mauro Magatti.

La «lettera aperta» sull’emergenza antropologica è di poco più di un anno fa. La questione a sinistra resta sostanzialmente rimossa come allora?

SORBI: «In quel "manifesto" nato dal mio incontro con tre interlocutori che sono parte importante della storia della sinistra italiana hanno trovato espressione alcune tra le principali correnti culturali protagoniste del movimento operaio e della tradizione comunista italiana, con la presenza non secondaria di cattolici come me. Reincontrarsi quarant’anni dopo ha consentito di intrecciare i tormenti di ciascuno di noi su una questione tanto decisiva come quella della vita umana. Abbiamo così trovato una sintonia imprevedibile ma naturale, nella preoccupazione incubata da tutti e quattro lungo strade diversissime sul peso dell’emergenza antropologica nella crisi della democrazia, in Italia e su scala internazionale. Occorre che nella sinistra si elabori una vera riflessione sul legame tra i nodi socio-economici e la questione educativa».

MAGATTI: «Non mi ha stupito trovare in calce alla lettera quattro firme che esprimono una generazione nata tra gli anni ’30 e ’40, sensibilità protagoniste della sinistra in un periodo storico nevralgico come quello tra i ’60 e gli ’80. La sinistra ha attraversato una profonda trasformazione a partire da cause esterne – la crisi dell’Unione Sovietica – e interne – ciò che si è originato culturalmente col Sessantotto, dando poi vita al modello socio-economico espresso nella soggettività. Abbandonata l’utopia degli uguali, la sinistra italiana ha cominciato a coltivare un mito di tutt’altro genere radicalizzando specularmente il tema della diversità e il diritto soggettivo illimitato, deriva poi divenuta prevalente. Col risultato che su alcune grandi questioni la sinistra sorvola con impressionante leggerezza».

Perché la "questione antropologica" oggi pare una fissa della Chiesa mentre la sinistra ne fa prevalentemente un fatto di diritti?

MAGATTI: «Abbiamo conosciuto da un lato la destra liberista e la sua esaltazione del mercato e della deregulation, dall’altro l’ipersoggettivismo di sinistra: due correnti che si sono combattute aspramente, ma che alla fine vanno dalla stessa parte contribuendo al medesimo risultato come due ali di un solo processo culturale. Ci sono ampi varchi su temi quasi abbandonati a proposito dei quali la Chiesa si è pronunciata con messaggi erroneamente còlti come problemi "di parte" mentre sono temi di tutti, sui quali le democrazie hanno il dovere di riflettere per giungere a risposte oggettivamente difficili».

SORBI: «Occorre passare dalla cultura dei diritti alla cultura della responsabilità. Nella prima sono compresenti due anime, entrambe di sinistra: quella centrata sul popolo e un’altra di radice azionista e radical-borghese, più attenta all’egemonia dell’individuo, legata all’illuminismo e alla rivoluzione francese più che al proletariato. L’etica della responsabilità può recuperare la cultura dei diritti se al centro si colloca la persona umana, non solo in senso individualistico ma relazionalmente vissuta: solo allora nascono infatti legami e solidarietà, motori di sviluppo sociale. Dentro il prevalere nella sinistra dell’una o dell’altra anima c’è tutto un modello educativo e un modo di fare società».

Com’è potuto accadere che la sinistra abbia sposato la cultura del soggettivismo individualistico?

MAGATTI: «L’accesso generalizzato al benessere economico di milioni di persone in Europa e Nord America negli anni ’60 e ’70 ha fatto emergere l’istanza di soggettività di cui il Sessantotto è stata la punta dell’iceberg. Chi ha meglio interpretato il fatto che stessero prevalendo le domande dell’individuo è stata l’organizzazione capitalistica. E la società si è strutturata attorno al diritto a consumare, non solo beni materiali ma anche esperienze».

SORBI: «Non era (e non è) detto che dovesse prevalere questa lettura... Dentro il passaggio dalla produzione al consumo, e poi nel fenomeno della globalizzazione e del dilagare delle nuove tecnologie della comunicazione, era ed è possibile un’altra dinamica. La crisi della sinistra e il collasso del suo pensiero, completato con l’irruzione della cultura liberal-radicale giunta ora all’egemonia, hanno prodotto un falso scontro tra una destra e una sinistra in realtà fatte della stessa pasta culturale. Ne è risultata l’emarginazione del tema decisivo per chi vuole immaginare un modello sociale alternativo al capitalismo: l’uomo come persona sin dal concepimento, un assunto razionale e non religioso. È questo il perno che può mettere in crisi un certo modello sociale basato sull’accumulazione. A sinistra, invece, ha finito col prevalere un’ideologia consumistica e individualistica, con un sindacato che si è addirittura mobilitato contro la legge 40...»

Libertà e diritti sono diventate parole d’ordine della cultura pubblica, e non solo della sinistra. Qual è il possibile argine a questa avanzata apparentemente incontrastabile?

MAGATTI: «Non c’è una libertà senza responsabilità: la libertà non è l’acceleratore con la responsabilità come freno, ma la seconda è condizione per la sussistenza della prima. La libertà è sempre esposta all’autoannichilimento, e solo se è in relazione a qualcosa non è un motore che gira a vuoto. Diversamente, si finisce in quella condizione che il linguaggio biblico definisce come "perdizione": sei libero di andare dove ti pare, ma da solo ti perdi. Ecco: oggi ci siamo persi. Abbiamo attraversato la stagione adolescenziale in cui ci si sente padroni del mondo, una fase inevitabile che però a un certo punto induce a fare i conti con i propri limiti per capire che gli altri non sono un ostacolo ma una risorsa. Alla fine dell’adolescenza ci si ritrova a un bivio: la stagnazione, cioè la ripetizione all’infinito dei medesimi comportamenti, oppure la generatività, cioè la consapevolezza che la libertà ha di se stessa imparando a essere responsabile. La crisi delle democrazie richiede che si esca dal delirio adolescenziale nel quale si sono compiaciute le culture di destra e di sinistra. Occorre anzitutto educare la libertà perché ampli gli spazi per giocarsi in qualcosa e non solo bruciarsi nel consumo delle opportunità e delle esperienze».

Oggi in cosa consiste l’antropologia della sinistra?

SORBI: «Vedo frammenti antropologici, e una ricostruzione da compiere a partire dal tema rimosso della "cultura del limite" al quale sembra guardare con rinnovata consapevolezza la generazione dei 35-40enni: tra noi più avanti con gli anni e questi esponenti più giovani c’è il vuoto di una generazione. Negli ultimi 30 anni la sinistra si è appassionata alle "differenze", cioè alle minoranze. I credenti che pongono in modo razionale la questione educativa e antropologica ormai lo fanno in quanto minoranza, ma i contenuti che pongono non sono presi in considerazione. La sinistra fallisce qui su un aspetto decisivo, cioè il saper porre gerarchicamente le questioni sollevate dalle varie minoranze dando ampio risalto invece a istanze che trovano ampio ascolto, come quelle della comunità omosessuale. Manca un criterio per selezionare e ordinare le varie spinte della società civile».

MAGATTI: «Le grandi questioni etiche e sociali stanno dentro la cornice della razionalizzazione tecnica, che negli ultimi 30 anni ha fatto registrare effetti rilevanti sul terreno della vita e della globalizzazione. È qui che si è affermato il pensiero filosofico per il quale ciò che si può fare è in sé legittimo, con una rimozione impressionante del tema etico. E la Chiesa che lancia interrogativi sulle frontiere della vita viene accolta con insofferenza, senza capire che pone la grande questione del limite e della legittimità di ciò che si può tecnicamente fare. La sinistra sul punto pare aver perso capacità critica: inserita nel meccanismo che prevale culturalmente, non sembra accettare il limite non come perdita della libertà ma come suo responsabile passo in avanti».

Come si ripristina un confronto aperto e non ideologico sull’uomo?

SORBI: «Mi pare decisiva quella che chiamo "cultura della rinuncia": saper trovare una mediazione laica sulle grandi questioni etiche che ci fronteggiano».

MAGATTI: «L’attuale crisi pone davanti a un bivio: le democrazie avanzate per reggere la concorrenza internazionale sono portate a radicalizzare il dominio della tecnica e, poi, a efficentizzare anche l’essere umano. È una strada che, passo dopo passo, si rischia di imboccare senza rendersene conto. L’alternativa è confrontarsi con la realtà, riaprendo terreni di incontro su ciò che abbiamo di comune. La domanda necessaria (e rimossa) dovrebbe essere: ci siamo liberati per fare cosa? I due secoli che ci hanno preceduti si sono posti il problema di liberarsi da qualcosa, ora il problema è cosa farsene della nostra libertà senza renderla sterile o autodistruttiva. Se non ci poniamo queste domande, la tecnologia deciderà per noi».

3/ Barcellona - Ricci Sindoni. Nella crisi, imbarcati come sul Titanic. Un’intervista di Marina Corradi (14 novembre 2012)

«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra sinistra e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Non a caso c’è chi ha parlato di «marxisti ratzingeriani». Per approfondire il dibattito «Avvenire» ha promosso una serie di incontri tra ciascuno dei quattro firmatari e altri importanti intellettuali. Oggi, dopo le conversazioni tra Vittorio Possenti e Mario Tronti e tra Paolo Sorbi e Mauro Magatti, ecco il faccia a faccia tra i filosofi Pietro Barcellona e Paola Ricci Sindoni.

Nella lettera Emergenza antropologica, per una nuova alleanza fra credenti e non credenti, pubblicata su “Avvenire” un anno fa, il professor Barcellona, insieme con Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca, affermava che la manipolazione della vita permessa dalla biotecnologia appare come «la manifestazione più grave e la radice più profonda della crisi della democrazia».
La consapevolezza della profondità di questa sfida esiste secondo voi oggi anche fra intellettuali e politici laici, o la deriva radicale è più forte e incontrastabile?

PIETRO BARCELLONA: «Sicuramente è in campo un’offensiva volta ad affermare l’oggettività di tutto ciò che accade, riducendo così il mondo delle rappresentazioni mentali, degli affetti e dell’intenzionalità ad un’illusione. Al di là delle conseguenze drammatiche sul piano delle relazioni interpersonali e su tutto ciò che abbiamo considerato senso e motivazione individuale e collettiva, mi sembra evidente che una soppressione della dimensione soggettiva ed ermeneutica dell’essere umano cancella la nozione di libero arbitrio e di libertà d’espressione. Tutto questo dovrebbe indurre a riflettere sui nessi profondi che uniscono anche i pensieri, apparentemente più lontani, della vita pratica, alle forme politiche della convivenza e alla costruzione di regole la cui violazione implica colpa e responsabilità».

PAOLA RICCI SINDONI: «Il paradigma oggettivante della razionalità tecnoscientifica, colta come tipologia indiscutibile della ragione, ha prodotto per contrasto - a mio avviso -  una enfatizzazione della soggettività nell’ordine delle scelte individuali, creando una dittatura del desiderio. Sembra che la riflessione culturale ed antropologica non sia riuscita a tenere il passo nei confronti della più veloce evoluzione della scienza, così che la vita è divenuta un bene di consumo, avulso da ogni legame intersoggettivo di natura sociale e politica. Questa deriva è radicale, ma non insormontabile".

Ritenete possibile che si possa arrivare a una definizione di "valori non negoziabili", in ambito bioetico, condivisa da laici e credenti?  E su quali basi questa sintesi potrebbe realizzarsi?

BARCELLONA: «Ho sempre ritenuto che i valori non siano un oggetto senza tempo della filosofia morale e, pur essendo convinto che non possa esistere una società senza valori, penso che debbano essere sempre incarnati nella pratiche di vita degli esseri umani nei loro rapporti reciproci. L’essere umano è costretto a vivere di valori, ma deve cercarne i significati autentici nel suo rapporto con il prossimo. Ogni società, ogni epoca, si struttura attorno ad un valore fondativo condiviso, anche inconsapevolmente, da gran parte del gruppo sociale; tale valore "nucleare" non è, in effetti, né negoziabile, né non negoziabile, poiché fissa lo statuto antropologico dell’epoca di cui è espressione. Negoziare questo genere di valori significherebbe mettere in discussione lo stesso statuto antropologico di una società. Ciò non impedisce tuttavia che le dinamiche storiche possano produrre l’oblio nella pratica e l’avvento di nuovi principi. È proprio quello che sta drammaticamente accadendo, con l’assunzione del valore monetario ad unico valore dell’essere umano».

RICCI SINDONI: «I valori non sono, per me, frutto di convenzioni culturali e sociali, abiti etici continuamente rinnovabili, ma l’esplicitazione, anche in sede di vita pratica, di un’antropologia che li garantisce e li sostiene. Quando questa è ispirata da una visione religiosa trascendente, come il cristianesimo, certi valori non possono che essere "irrinunciabili", pena la perdita della stessa concezione dell’umano. Per attivare una sana pratica dialogica è necessario, però, ritrovare una intesa tra i credenti e non credenti, alla luce di una ragionevolezza argomentata e convincente».

Nella lettera si parla della necessità di passare da una cultura dei diritti a una cultura della responsabilità - passaggio che sarebbe davvero rivoluzionario. Ma per far questo non occorre recedere dall’individualismo per passare a un "noi", a uno sguardo plurale? In nome di che cosa si potrebbe rinunciare all’ individualismo quasi idolatrato che ci domina?

BARCELLONA: «Nei miei studi mi sono sempre orientato ad una critica radicale dell’individualismo, che considero realisticamente inconsistente: sin dalla nostra nascita il rapporto con la madre istituisce una struttura relazionale della persona. Il problema, quindi, non è costituire entità superiori alle persone, ma sviluppare il riconoscimento di beni e cose che non siano disponili all’appropriazione umana. L’atto fondativo di una polis è l’istituzione di una misura che permetta di distinguere ciò che è appropriabile, da ciò che appartiene a tutti. Rispetto a questa misura espressa dalle pratiche sociali, ciascuno è responsabile, poiché in questa misura risiede la ragion d’essere della convivenza».

RICCI SINDONI: «Sono d’accordo con Barcellona, con una precisazione: la responsabilità politica può, deve diventare una pratica condivisa, quando si riesca ad attivare una nuova stagione culturale che metta al centro l’ attrazione verso i "doveri", intesi come risposte necessarie e inderogabili nei confronti del mondo "sempre" plurale. Il dovere di aderire ai doveri diventa in tal senso la chiamata ad una convivenza virtuosa e può diventare l’antidoto alle spinte idolatriche dell’individualismo».

Oggi, un anno dopo la lettera, quale area politica, in campo laico, potrebbe maturare questo  pensiero che sappia conciliare prospettiva credente e non credente, in un "umanesimo condiviso"? (Il dubbio è che nella disgregazione cui assistiamo non ci sia posto, né una coscienza politica abbastanza elevata, per un dibattito etico di questa portata).

BARCELLONA: «Questo dibattito può nascere soltanto dalla consapevolezza del carattere catastrofico del modello di vita e di consumo in cui siamo globalmente immersi. Chi non percepisce che siamo nella condizione dei passeggeri del Titanic, non può neanche provare interesse per un discorso che non può essere sviluppato a partire da interessi economici. Ritrovare una condivisione rispetto alla questione della condizione umana è una necessità esistenziale, altrimenti si parla una lingua che non corrisponde a nessuna koiné, a nessuna "lingua comune", e quindi di fatto non si parla. Se non si ritrova una lingua comune con cui discutere pubblicamente, ogni spazio politico è destinato a scomparire; solo condividendo uno spazio mentale e un territorio comuni, gli esseri umani possono gestire produttivamente la conflittualità che esprimono nei rapporti fra generi e generazioni».

RICCI SINDONI: «Se la politica non ritrova le ragioni di un umanesimo condiviso, che si costruisce con spirito di collaborazione (che lezione ci viene dagli estensori della Carta costituzionale!),  non potrà più intercettare la realtà e con essa la giustificazione essenziale del suo essere. Una strada è certo quella di abbandonare il linguaggio stereotipato e logoro, per ritrovare parole dense, capaci di ridire le ragioni buone della vita comune. Ma non è tutto: senza una chiara "visione"  del progetto politico, non si va da nessuna parte. Questa sfida sta davanti ad ogni area politica che la sappia bene interpretare. Non si tratta solo di convincere l’elettorato, ma di difendere e di attivare ciò che conta per tutti».

Nella lettera si accenna alla "emergenza educativa". Tra i primi "educatori" oggi, che lo si voglia o no, ci sono i media. A voi non sembra che anche la categoria dei giornalisti avrebbe un profondo bisogno di riflettere su cultura dei diritti/ della responsabilità, come anche sulla tenuta della "sostanza etica" del regime democratico evocato nella chiusura della lettera? 

BARCELLONA: «Il problema dei media è più in generale quello della funzione intellettuale in una società. Se gli intellettuali trasmettono negatività e opportunismo - due cose che stranamente vanno spesso insieme - tutto il processo educativo collettivo risulta falsato, poiché le parole adoperate per comunicare sono prive di ogni autenticità e non aiutano certo ad apprendere l’arte di entrare in contatto con la realtà esterna. Il conformismo degli intellettuali e l’assenza di ogni senso di responsabilità verso il pubblico di stampa e televisione, sono una delle cause del degrado collettivo. Sono convinto, ad esempio, che trasmissioni come Ti lascio una canzone o Ballando con le stelle siano da considerare un tentativo di istigare le nuove generazioni  a seguire modelli privi di ogni spessore umano. Non sono favorevole a nessuna censura, ma che la televisione alimenti fantasie di vera e propria prostituzione mentale è un vero attentato ad una sana educazione dei nostri figli e nipoti».

RICCI SINDONI: «Manca ancora una articolata strategia comunicativa nei confronti dei "new media", là dove le giovani generazioni individuano un terreno di incontro e di scambio. Entrare in quel mondo con una voce autorevole e competente è il compito educativo che ci sta davanti. Dice bene Barcellona: la classe intellettuale in questi anni ha smarrito il ruolo di coscienza critica, così che il suo spazio è stato indebitamente occupato da sottoprodotti pseudo culturali - con le tristi conseguenze che ci avvolgono».

4/ Vacca e D'Agostino. Bioetica, stop alle «doppie morali». Un’intervista di Pierluigi Fornari (21 novembre 2012)

«Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti» è il titolo del volume edito da Guerini e Associati (pagine 152, euro 16,50) in cui Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti e Giuseppe Vacca hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sul dialogo fra sinistra e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Non a caso c’è chi ha parlato di «marxisti ratzingeriani». Per approfondire il dibattito «Avvenire» ha promosso quattro incontri tra ciascuno dei firmatari e altri importanti intellettuali. Oggi, dopo le conversazioni tra Vittorio Possenti e Mario Tronti, Paolo Sorbi e Mauro Magatti, Pietro Barcellona e Paola Ricci Sindoni, ecco l’ultimo «faccia a faccia»: protagonisti il giurista Francesco D’Agostino e il filosofo Giuseppe Vacca.

Sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda giusta, evitando interferenze, è quello che stanno tentando in questi forum su Avvenire intellettuali cattolici e di sinistra, per aprire la strada a un’interlocuzione nuova, che purifichi la memoria da incomprensione e storici steccati. In questo quarto ed ultimo round, forse la ricerca della «nuova alleanza tra credenti e no» in vista del bene di tutti può fare un ulteriore passo avanti. Ma la domanda sulle motivazioni può – come sempre – dare lo slancio necessario per volare alto.

Penso che in certo modo questo confronto sia un evento, cerchiamo di determinarne il senso.

GIUSEPPE VACCA: «Dinanzi alle tensioni e ai conflitti originati dal modo in cui procede l’unificazione economica del mondo, le divisioni tra credenti e non credenti costituiscono l’ostacolo forse più grande all’unificazione del genere umano: soprattutto a quella spirituale. Di qui la necessità di confrontarsi con il fatto religioso oltre i limiti storici dell’eredità illuministica».

FRANCESCO D’AGOSTINO: «Vorrei osservare che nella lettera aperta si cerca di definire le caratteristiche di una "nuova laicità", ma il vero problema che merita di essere qualificato come "nuovo" credo sia questo: l’evidente determinarsi di una laicità di destra e di una di sinistra. La prima, per parlare in modo molto riduttivo, ha un carattere fondamentalmente individualistico, la seconda è più sensibile a istanze solidaristiche. Mi chiedo se si possa sostenere che, diversamente da quella "di sinistra", la laicità "di destra" sia compatibile con la dottrina sociale cristiana».

La sintonia del cristianesimo con la laicità di sinistra sembra smentita dai fatti.

D’AGOSTINO: «Infatti quando andiamo a vedere alcune singole questioni, di grande rilevanza simbolica e pratica (si pensi ai temi legati alla bioetica o alla famiglia) non possiamo non prendere atto che molti (o forse tutti!) i laici "di sinistra", non so quanto consapevolmente, adottano scelte individualistiche, assolutamente non coerenti con la tradizione della sinistra. Mi cadono le braccia quando sono costretto a prendere atto della frequenza con la quale nel mondo della sinistra si banalizza individualisticamente un tema cruciale come l’aborto. Lo stesso discorso può valere per le istanze a favore di un "divorzio breve" o per la pretesa di legiferare sul "fine vita", assumendo la volontà del paziente come vincolante e insindacabile e subordinandole la valutazione scientifico-deontologica dei medici. In questi e in molti casi simili mi verrebbe da dire alla sinistra: fate ancora uno sforzo, liberatevi da questo tarlo radicale che sta deformando la parte di buono che fa parte della vostra tradizione».

Cosa risponde la sinistra?

VACCA: «I termini sinistra e destra sono poco o nulla connotativi. Per quanto mi riguarda, avverto il rischio che venga neutralizzata la ricchezza di un’esperienza politica e culturale che definirei quella di un vecchio comunista italiano di impronta togliattiana».

Cosa intende? Faccia un esempio.

VACCA: «Quando il Pci ha contribuito a regolamentare l’aborto, ha combattuto l’idea che si dovesse concepire o legiferare l’interruzione della gravidanza, come l’esercizio di un diritto».

D’AGOSTINO: «Purtroppo, però, sul piano delle attuazioni concrete della legge sull’aborto sappiamo com’è andata a finire: ha vinto l’interpretazione radicaleggiante della legge, quella che vede nell’aborto un diritto insindacabile della gestante. Un altro esempio, per me assolutamente eloquente, è l’esclusione del padre del bambino da ogni decisione abortiva presa dalla moglie o dalla compagna. Non si capisce, nel caso in cui una donna richieda l’aborto per motivi economici, perché non si possano accettare le garanzie di copertura economica che il padre del bambino è disposto ad offrire, per evitare l’interruzione della gravidanza».

VACCA: «Non nego che nella vita concreta e nell’evoluzione della morale comune abbiano un’influenza esorbitante processi di secolarizzazione a prospettiva nichilistica. Sono fenomeni che trascendono le capacità di disciplinamento esercitabili da una singola parte politica. Proprio per questo invochiamo una nuova alleanza tra credenti e non credenti che ci pare la premessa fondamentale per evitare il bipolarismo etico (divisioni fondamentalistiche sui temi eticamente sensibili) e cercare di rompere la spirale secolarizzazione-nichilismo facendo crescere un umanesimo condiviso».

Ma su alcuni temi come le Dat o le unioni civili restano le distanze...

D’AGOSTINO: «Come giurista cattolico non avrei alcun problema a garantire patrimonialmente i partner deboli di qualsiasi convivenza: appartiene ai compiti del diritto quello di schierarsi a favore dei soggetti deboli! Le garanzie patrimoniali sono però cosa ben diversa da quelle che il diritto è chiamato a offrire alle coppie coniugate. Il matrimonio non è riducibile a un mero rapporto economico: se esso ha tutela legale, è perché sul matrimonio si fonda l’istituzione familiare, che garantisce l’ordine delle generazioni. Ecco perché non c’è ragione giuridica per tutelare a priori le coppie eterosessuali di fatto (tutt’al più, come accennavo, possono ipotizzarsi tutele a posteriori, a favore di un partner – in genere la donna – che venga a trovarsi, magari dopo anni di fedele convivenza e a seguito della fine del rapporto, priva di ogni supporto materiale). Ed ecco perché non c’è ragione di tutelare le coppie omosessuali (o addirittura di riconoscerle come coppie coniugali) perché si tratta di unioni non generative, nel loro principio. La pretesa di adozione da parte delle coppie omosessuali nasconde il desiderio mimetico – ma proprio per questo non autentico – di alcuni omosessuali. Quando si pretende che il diritto legalizzi convivenze (etero od omosessuali, non importa) non perché aperte alla generatività, ma solo perché fondate sugli "affetti", si finisce per attribuire al diritto una funzione che non è la sua, quella di avallare sentimenti e desideri. Simili pretese possono anche essere valutate benevolmente, ma non è possibile ignorarne la matrice individualistica. Il diritto esiste per garantire vincoli sociali pubblici, oggettivi e responsabili, non l’affettività degli individui».

VACCA: «Per quanto riguarda la difficoltà di arrivare a una mediazione legislativa in queste materie, penso che forse varrebbe la pena di provare a confrontarsi su cosa debba essere la famiglia, oppure partendo dall’estremo più estremo: l’eutanasia. Anche rispetto al senso morale comune, è difficile affermare che la disponibilità sulla mia vita sia un mio diritto individuale, poiché non mi sono autogenerato. Non conosco vite autogenerate, come non conosco morti solitarie, che non coinvolgano cioè la comunità. Lo stesso vale per le coppie omosessuali. È la Costituzione a definire cosa sia la famiglia, riconoscendole la finalità prioritaria della generazione. L’amore, l’affetto, la solidarietà sono importanti, ma quello che definisce la famiglia è la generazione e il diritto dei nati ad essere generati da un padre e una madre».

Può aiutarci il discorso di Benedetto XVI al Bundestag?

VACCA: «Io l’ho inteso non nel senso di una riproposizione del giusnaturalismo, ma come la riaffermazione di un’evidenza che s’impone a tutti: direi la coscienza del limite, la consapevolezza di far parte di un’unica umanità. Nel documento sulla "emergenza antropologica" abbiamo scritto una cosa ben precisa sul valore della vita fin dal concepimento. Il tema può essere declinato in termini di assunzione di responsabilità di fronte a un evento che interpella ciascuno: intendo, appunto, il rispetto della vita come valore. Subito dopo la nascita del mio quinto nipote mi sono chiesto: "Qual è il senso, per me non credente, di questa nascita?". E mi son detto che una vita che si mette in cammino chiede un’assunzione di responsabilità. Ma allora che senso ha delegare alla scienza la decisione su quando cominci la vita? Si è messo in moto un processo di generazione e sei chiamato ad assumere una responsabilità antropologica: la responsabilità di accogliere e accompagnare una vita, guardando al genere umano e al suo destino materiale e spirituale».

D’AGOSTINO: «Sono affermazioni molto impegnative queste di Vacca. Anch’io non interpreto il riferimento al diritto naturale del Papa al modo dei giuristi del ’600 o del ’700, cioè come un codice di norme da far rispettare coercitivamente. Il diritto naturale va visto piuttosto come un insieme di principi, che costituiscono l’espressione riassuntiva del bene umano; principi che operano per potenziare la consapevolezza che la dignità dell’uomo è un valore universale, che attraversa tutte le culture e che va presentato e argomentato secondo la specifica ragione umana, che non è in prima battuta una ragione astratta e calcolante, ma è una seria riflessione sulla concretezza dell’esperienza e sulle indicazioni che nascono proprio dall’esperienza. È in questo senso che apprezzo moltissimo quanto ha detto Vacca sulla generatività: il suo discorso, infatti, non nasce da concettualizzazioni raffinate e astratte, ma da un’attenzione alla vita comune degli uomini, quella vita che va analizzata, per dir così, "dal basso". Che il divorzio sia un male in sé (indipendentemente poi da come la legge possa regolarlo) è evidente a chiunque chieda a un bambino, figlio di una coppia che si sta separando, se sia contento che i suoi genitori non vivano più insieme. La reazione più immediata del bambino sarà quella di mettersi a piangere (oppure, se si tratta di un adolescente – e sto facendo un esempio reale – sarà quella di chiedere ai genitori di andare da uno psicologo, per cercare di salvare la loro unione). Il bene umano, insomma, ha una sua oggettività. I cattolici per antica tradizione riassumono questa oggettività sotto l’etichetta "diritto naturale". È giunto il tempo che cattolici e no capiscano che bisogna rimboccarsi insieme le maniche, perché il bene umano non è né confessionale, né meno che mai ideologico: semplicemente è il bene di tutti».