L’accidia è quella instabilità dell’animo per cui si detesta tutto ciò che si ha e si desidera tutto ciò che non si ha (da G. Bunge)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /05 /2013 - 13:27 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito alcuni brani dal volume di G. Bunge, Akedia, Qiqajon, Magnano, 1999. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Sull’accidia, vedi su questo stesso sito anche:

- L’accidia: il vizio nella vita spirituale e la lotta contro di esso, di Angelo De Donatis
- Accidia: il demone della notte, di Pierangelo Sequeri
- I vizi capitali (meditazioni in file audio mp3), di Achille Tronconi I/ Introduzione II/ La superbia III/L'invidia IV/ L'ira V/ L'accidia

Il Centro culturale Gli scritti (17/5/2013)

[da G. Bunge, Akedia, Qiqajon, Magnano, 1999, pp. 63-64]
Guai all’amore di sé (philautía), che tutto odia[1]!
[Nella] tendresse pour soi (I. Hausherr) Evagrio individua il sustrato di ogni passione. Per cui la passione è nella sua essenza un’alienazione egoistica, è l’essere prigionieri del proprio io. In ogni cosa essa cerca solo se stessa, in ogni cosa ama solo se stessa. E poiché non riesce a raggiungere se stessa in nulla, ecco che questo amore di sé si trasforma in odio cieco per ogni cosa.

Perché è inevitabile che sia così? Perché c’è un unico desiderio (póthos) buono ed eterno, legato per natura all’intelletto: il desiderio della vera conoscenza[2], che tende unicamente a Dio e che colma l’intelletto di beatitudine[3]. Se questo desiderio buono ed eterno non raggiunge il suo scopo, restano solo tristezza e odio.

L’acedia, in quanto quintessenza di tutte le altre passioni, è forse l’espressione più pura e “più spirituale” della philautía di Adamo, il quale si distolse da Dio e si volse a se stesso, finendo così per perdersi.

[da G. Bunge, Akedia, Qiqajon, Magnano, 1999, p. 68]
“L’acedia è un’atonia dell’anima”, dice Evagrio, e noi abbiamo già visto che questo male si distingue anzitutto per il suo carattere contraddittorio. Detesta tutto ciò che ha e desidera tutto ciò che non ha. Da questa perdita di tensione interiore, così come dall'instabilità dei moti dell'anima, scaturiscono numerose manifestazioni concrete dell'acedia che sarà bene diagnosticare con esattezza poiché a prima vista, molto spesso, non sembrano nemmeno negative. Il carattere complesso dell'acedia, infatti, fa sì che essa spesso si mascheri dietro un'apparenza ingannevole e che ricorra a ogni artificio possibile e immaginabile per non essere riconosciuta. Soprattutto le persone serie fanno un'immensa fatica a confessare a se stesse e agli altri che soffrono semplicemente... di acedia. Devono poter invocare cause più importanti, per spiegare e giustificare il loro stato di desolazione, di preferenza, cause del tutto indipendenti da loro, esterne, di cui sono, contro la loro volontà, le vittime innocenti. Le variazioni sul tema delle illusioni, degli inganni e degli autoinganni sono infinite, oggi come allora. Cambiano solo, a seconda dei tempi e delle circostanze, i pretesti che escogitiamo; anzi, in definitiva cambiano solo i nomi che diamo loro. 

[da G. Bunge, Akedia, Qiqajon, Magnano, 1999, pp. 69-71]
Il primo e più sicuro sintomo dell'acedia è una certa irrequietezza interiore, che può manifestarsi in mille modi. Bisogno di cambiar casa, lavoro, amicizie e compagnie... Impossibilità di portare a termine un lavoro iniziato, di finire la lettura di un libro... Tutto quello che si inizia viene abbandonato. Il più delle volte non ci si rende nemmeno conto di quel che ci sta accadendo. Abbiamo un sacco di ragioni plausibili che ci spingono a "cambiare aria"...

A chi ama il piacere
una donna non basta,
e al monaco acedioso
non basta una cella
[4].

[Di'][5] al pensiero dell'acedia, che si dà da fare per trovare un'altra cella da abitare, perché la prima che possedeva gli è assolutamente odiosa e piena di umidità, e perché a causa sua gli sono venute malattie di ogni sorta[6]...

Evagrio menziona più volte questa tentazione di cambiare[7], visto che, per ovvi motivi, essa è tipica degli anacoreti. Sì, perché l'eremita, vivendo anno dopo anno nella solitudine delle quattro mura che si è scelto, è privato di tutte quelle piccole distrazioni quotidiane che catturano lo sguardo di coloro che vivono nel "mondo"[8], impedendo loro di vedere quanto siano vittime di questo vizio dell'irrequietezza.

"Stare seduto" (nella propria cella) è talmente caratteristico della vita monastica che l'espressione è diventata, fin nel tardo medioevo occidentale, sinonimo di "essere monaco". In realtà, la tentazione del vagabondare fisico è la manifestazione tangibile di quel male fondamentale che mina ogni vita spirituale: il vagabondare dei pensieri. Per questo l'anacoreta fissa il suo corpo nel suo kellion e i suoi pensieri nel ricordo di Dio. Questa è la vera stabilitas loci, che tanto sta a cuore a Benedetto.

I pretesti per abbandonare il luogo di residenza possono variare da persona a persona: l'anacoreta se ne fabbricherà altri rispetto al cristiano che vive nel mondo. Da un punto di vista oggettivo, essi possono sembrare più che giustificati, ma per una perfida coincidenza ci appaiono inderogabili solo quando soffriamo di acedia...

Naturalmente questa irrequietezza può servirsi di argomenti anche più sottili che non l’umidità della cella; per esempio, può suggerire con astuzia che

l’essere graditi a Dio non è legato a un luogo. È detto infatti: La Divinità si può adorare ovunque[9]!

[da G. Bunge, Akedia, Qiqajon, Magnano, 1999, pp. 79-81]
In uno schizzo divenuto giustamente famoso, Evagrio tratteggia, non senza umorismo, le forme estreme e grottesche che può assumere l’acedia:

L'occhio dell'acedioso
fissa le finestre continuamente
e la sua mente
immagina che arrivino visitatori. 

La porta cigola,
e quegli balza in piedi. 

Ode una voce
e spia dalla finestra,
e non se ne allontana
finché, intorpidito, si siede.  

Quando legge, l'acedioso,
sbadiglia molto
e sprofonda facilmente nel sonno. 

Si sfrega gli occhi
e stira le braccia,
e distogliendo gli occhi dal libro
fissa la parete. 

Poi li distoglie di nuovo
e legge un po',
e sfogliando il libro
cerca la conclusione delle esposizioni. 

Conta le pagine
e verifica [il numero] dei fascicoli,
critica la scrittura e la decorazione,
e per finire chiude il libro,
vi appoggia sopra la testa
e cade in un sonno non troppo profondo,
perché la fame alfine
sveglia di nuovo la sua anima,
ed essa torna [nuovamente]
alle sue preoccupazioni.

Un’altra caricatura dell’acedioso, molto simile a questa, ma riferita più specificamente alla vita eremitica, si trova nel Praktikos: una vera e propria sintesi di tutti i sintomi immaginabili di questo vizio. [...]. Ecco ora il testo per intero:

Il demone dell'acedia, che viene chiamato anche «demone di mezzogiorno», è di tutti i demoni il più opprimente. Attacca il monaco verso l'ora quarta e accerchia la sua anima fino all'ora ottava.
Dapprima fa sì che il sole sembri lento a muoversi, o sia immobile, e dà l'impressione che il giorno abbia cinquanta ore. Poi costringe il monaco a fissare continuamente le finestre e a balzare fuori dalla sua cella, a osservare il sole per vedere quanto sia ancora distante l'ora nona, e a guardare intorno se per caso qualcuno dei fratelli...
Inoltre gli ispira avversione per il luogo e per la stessa vita [di monaco] e per il lavoro manuale, e [gli suggerisce] che l'amore è svanito tra i fratelli e che non c'è nessuno per consolarlo. E se per caso, in quei giorni, qualcuno ha contristato il monaco, il demone si serve anche di questo per accrescere in lui l'avversione.
Lo porta allora a desiderare altri luoghi in cui si possa trovare facilmente il necessario [per vivere] ed esercitare un mestiere meno gravoso e più remunerativo. E aggiunge che l'essere graditi a Dio non è legato a un luogo: È detto infatti: La Divinità si può adorare ovunque.
Unisce a ciò anche il ricordo dei parenti e della sua vita passata, gli prospetta la lunga durata della vita, mettendogli davanti agli occhi le fatiche dell'ascesi. E mobilita, per così dire, tutto il suo armamentario, affinché il monaco abbandoni la cella e fugga dallo stadio.
Ora, a questo demone non segue immediatamente nessun altro demone. Anzi, dopo la lotta, subentrano nell'anima un certo stato di pace e una gioia indicibile.

Note al testo

[1] A. Elter, Gnomica, I. Sexti Pythagorici, Clitarchi, Evagrii Pontici sententiae, Lipsiae 1892, p. LIII, nr. 48.

[2] KG IV,50.

[3] KG III,64.

[4] Oct sp 6,13.

[5] Nella serie di testi spesso citati dal grande Antirrhetikos, bisogna mentalmente completare la frase introducendola con un di' (per facilitare il lettore, lo esplicitiamo ogni volta). In Evagrio segue poi sempre una parola della Scrittura, che va pronunciata per "contrastare" la tentazione che ci colpisce. Più avanti citeremo, in relazione ai rimedi, anche queste risposte che nella comprensione di Evagrio costituiscono l'elemento più importante.

[6] Ant VI,26.

[7] Ant VI,33.52.57; Mon 55; Ep 27,2; Mal cog 12.

[8] Mal cog II.

[9] Pract 12.