Analogico, cioè intelligente. «Il cuore del pensiero non è la logica, ma la capacità di associare concetti l’uno all’altro anche in modo imprevedibile». Parla il filosofo francese Emmanuel Sander

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /11 /2013 - 14:15 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 7/11/2013 un’intervista di Daniele Zappalà a Emmanuel Sander. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (17/11/2013)

Da Parigi Daniele Zappalà  

Il filosofo dell’intelligenza americano Douglas Hofstadter è di ritorno con un volume che ricorda, per mole e densità, il celebre Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante (“Geb” per gli appassionati), tradotto negli anni Ottanta da Adelphi. Un trentennio dopo, le pagine zigzagano nuovamente fra i meandri del pensiero umano, lasciando questa volta più sullo sfondo i paragoni con l’intelligenza artificiale.

Nella nuova impresa, inoltre, Hofstadter è affiancato dallo psicologo sperimentale francese Emmanuel Sander. Uscita innanzitutto proprio in Francia, con il titolo L’analogie. Coeur de la pensée (“L’analogia. Cuore del pensiero”; Odile Jacob, pagine 688, euro 31,90), la summa riunisce un numero impressionante di esempi – ordinari, linguistici, pedagogici, storici e scientifici – per dimostrare che l’intelligenza umana non è un semplice operatore logico, ma impiega invece sempre una funzione cognitiva più sfuggente, raffinata e ricca: l’analogia.

Sander, docente all’Università di Parigi 8, ha accettato di parlarci della nuova teoria sviluppata in un volume che fra l’altro strizza spesso l’occhio alla cultura e alla lingua italiana.

Professore, lei sostiene con Douglas Hofstadter che ragioniamo tramite analogie. Come le definirebbe?

«Per restare all’essenziale, si tratta di paragoni mentali, generalmente fra qualcosa che è esterno a noi e qualcosa d’interno. Ovvero, fra un avvenimento esterno e una conoscenza, un concetto che possediamo già. In modo quasi sistematico, ciò implica un legame fra presente e passato, anche se talora può trattarsi di un passato molto recente».

Questa visione contraddice le famose categorie logiche mentali?

«La nostra teoria è in contrasto con due visioni classiche. Innanzitutto, con la tradizione delle categorie aristoteliche, secondo la quale esiste una segmentazione oggettiva del mondo, indipendente dall’essere umano. Mettiamo in evidenza che le categorie sono costruzioni mentali. Attraverso analogie successive, è l’essere umano a sviluppare delle categorie. Le categorie non sono scaffali, ma strutture psicologiche dinamiche ed evolutive che possono affinarsi durante tutta la vita. Al contempo, critichiamo lo statuto classico della logica. L’uomo affronta il mondo e ciò che lo circonda grazie a dei paragoni mentali, cercando nel proprio cervello le situazioni più simili a quelle vissute in un dato momento. Queste somiglianze possono essere talora abbastanza astratte e non solo percettive. Ma in ogni caso tali somiglianze non dipendono dalla logica, la quale è invece piuttosto un sottoprodotto dell’analogia. La logica, dunque, non è incisa nel nostro funzionamento mentale».

Cosa significa che “i concetti sono come città”?

«I concetti o le categorie, termini che sono per noi sinonimi, si sviluppano a partire da un centro storico, corrispondente alle nostre prime esperienze dell’infanzia. A partire dall’esperienza immediata della propria mamma, il bambino apprende in fretta per analogia il concetto più generale di “mamma”, fino ad approdare, con un’analogia più raffinata, verso quello ancora più esteso di “madre”. Ciò è vero per tutti i concetti. In quest’ottica, i cosiddetti archetipi o stereotipi sono spesso il centro storico di molti concetti».

Nella vecchia diatriba filosofica fra intelligenza innata o acquisita, quale campo scegliere?

«Siamo più sulla sponda empirica, ma sosteniamo che ciò che si acquisisce sviluppa delle astrazioni. Per noi, dunque, l’intelligenza non è una semplice collezione di esperienze, dato che le analogie sono supporti naturali per sviluppare astrazioni, dunque concetti astratti».

Alla luce di questa visione, i primi mesi di vita sono cruciali?

«Il meccanismo dell’analogia comincia fin dai primi attimi, ma è destinato a proseguire durante tutta la vita. Non è dunque corretto dire che tutto si gioca nell’infanzia, perché l’evoluzione dei nostri pensieri è permanente, soprattutto quando viviamo esperienze forti. Ciò è vero anche per i fatti di attualità. Si pensi all’11 settembre, che ha dato vita a un nuovo autentico concetto presto diffuso in tutto il mondo».

Questa teoria poggia già su precise ricerche sperimentali o spera invece di suscitarne?

«L’uno e l’altro. La psicologia sperimentale mostra già in molti casi che apprendiamo attraverso analogie e ciò del resto permette in parte di prevedere ciò che si apprenderà. Inoltre, sappiamo pure che a scuola certe analogie inducono di frequente in errore, per esempio in matematica. Ma speriamo pure di suscitare un nuovo vasto slancio di ricerca in questo campo».

Per decenni, si è cercato di paragonare intelligenza e struttura delle lingue. Una pista infelice?

«Per noi, la lingua è uno degli indicatori esterni del funzionamento del pensiero e in particolare dei concetti. Ma il cuore del problema è il modo in cui gli esseri umani sviluppano i concetti. Il nostro lavoro sfugge dunque completamente a una certa tendenza novecentesca a cercare ad ogni costo le strutture del pensiero, talora prendendo in prestito modelli linguistici. La nostra teoria parte dall’esperienza. Per numerosissimi concetti, inoltre, non esistono né parole, né espressioni linguistiche semplici».

L’analogia è sempre relazionale. Paragonando il cognitivismo all’antropologia culturale, ciò fa pensare alla svolta introdotta dalla “teoria mimetica” di René Girard. Che ne pensa?

«È un’analogia interessante e difendibile. Per noi, è centrale proprio il fatto che ogni relazione nutre e sviluppa il nostro pensiero. Ciò include le imitazioni più semplici, così come le estrapolazioni più astratte. Si pensi a un caso di empatia semplice: quando abbiamo fame, chiediamo spesso anche al nostro interlocutore se ha fame. Il punto comune è sempre la ricerca di una somiglianza. Questo, a livelli di astrazione estremi, diventa pure il motore delle più affascinanti scoperte, come nel caso di Einstein o di altri fra i più grandi scienziati, spesso propensi a pensare che il mondo fisico­matematico funziona in modo simmetrico, elegante, obbedendo a una certa coerenza della natura. In questi casi, l’analogia rima pure con una certa forma di ottimismo conoscitivo».

Tutto ciò ci aiuta pure a comprendere meglio le differenze fra intelligenza umana e computer?

«Sì. Ad esempio, ciò è molto evidente nel caso dei programmi informatici di traduzione automatica. I concetti sono il nostro modo sempre diverso di dare senso a ciò che ci circonda e tutto questo manca all’intelligenza artificiale, la quale, basandosi solo su repertori o correlazioni statistiche, non potrà mai simulare fino in fondo il pensiero creativo di un traduttore umano. Quest’ultimo comincia sempre comprendendo ciò che legge, ovvero ricostruendo situazioni, al di là delle parole che ha di fronte. Per questo, benché spesso molto utili, anche i più sofisticati programmi di traduzione continuano a generare catastrofi».