«Piacque a Dio…». Introduzione alla fede cristiana, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 29 /12 /2013 - 14:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (29/12/2013)

H. Matisse, Vergine con il bambino, Cappella di Vence

Indice

1/ La fede è necessaria

«Le rivoluzioni della storia hanno cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore dell’uomo. La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù Cristo attraverso la sua Resurrezione: la Croce e la Resurrezione. […] È questo il mutamento, il più grande mutamento […] Ti cambia il cuore, da peccatore - da peccatore: tutti siamo peccatori - ti trasforma in santo»[1]. Così papa Francesco ha parlato della necessità di Dio: ciò che è sempre stato vale anche per l’uomo moderno, solo Dio trasforma il cuore di pietra in cuore di carne.

Prima di lui era stato papa Benedetto XVI a porre la questione del primato di Dio[2]: «L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui?». Perché se le cose andassero bene anche senza di Dio, la decisione di credere sarebbe, in fondo, irrilevante. Anche papa Benedetto aveva avuto il coraggio di rispondere con chiarezza e semplicità: se l’uomo dimentica Dio, «“perde” sempre di più la vita», perché «la sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui»[3].

Per questo la fede non è un accessorio, non è un optional, ma è necessaria all’uomo più ancora del cibo e dell’aria che respira.

Il desiderio dell’uomo, infatti, è quello di “bucare le nubi”, di “conoscere il cielo”. L’uomo cerca una risposta alle domande eterne, con tutta la sua intelligenza, con tutto il suo cuore, con tutte le sue forze, con tutta la sua libertà: “È un bene la vita o è una pura casualità cieca?”, “Da dove vengo? Dalla solitudine del nulla o nato per amore?”, “Ho un compito prezioso in questa vita o la mia esistenza è inutile ed, in fondo, irrilevante”, “L’amore è più forte della morte o la morte ha l’ultima parola?”, “Siamo destinati a coltivare un’idea falsa e ingannevole di Dio, oppure possiamo amarlo e fidarci di lui? Chi è Dio e come trovarlo?”. Questa ricerca dell’uomo è come un cammino che si inerpica su di una montagna impervia da scalare[4].

Il Catechismo della Chiesa Cattolica[5], proprio in apertura, ricorda che l’uomo è l’unica creatura “capace di Dio”: non perché può giungere da solo a conoscerlo, ma ben più profondamente perché «il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa»[6].

L’uomo è veramente un mistero a se stesso. Pur essendo la creatura più adattabile fra tutte quelle esistenti sulla terra - riesce a sopravvivere dai poli all’equatore! - è anche la creatura più disadattata che ci sia: solo se ha speranza può vivere nella gioia. Solo l’uomo, fra tutte le creature, prova la noia, solo l’uomo ha sete di una pienezza, solo l’uomo sa che non troverà pace neanche possedendo il mondo intero.

Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, ha scritto poeticamente che l’uomo è fatto per “trasumanare”[7], per andare oltre l’umano, per trovare in Dio il significato del suo essere uomo. Perché l’uomo desidera sempre di più. Non desidera solo vivere eternamente, vincendo la morte, ma cerca una pienezza di vita, una vita che abbia significato e bellezza.

Uno degli episodi della vita di Gesù che rivela più chiaramente questo è l’incontro con la donna samaritana, al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv 4). Gesù rivela alla donna che l’acqua di quel pozzo, così come l’amore dei suoi molti mariti, così come la sua ricerca religiosa che anela a sapere quale sia il giusto luogo in cui adorare Dio, non la disseteranno mai completamente: la donna ha bisogno, piuttosto, del Cristo, di colui che, quando verrà, annuncerà ogni cosa. Gesù le rivela perché ha sempre sete: la donna sta cercando se esiste una sorgente che zampilla per la vita eterna.

2/ La fede nasce dalla rivelazione

Ma l’uomo, pur essendo fatto per l’infinito, non può conoscere Dio con le sue proprie forze o capacità. Già l’amore umano può solo essere ricevuto. Nessuno mai, infatti, può darsi l’amore da solo. L’altro è sempre un miracolo. L’amore che una persona ci dona è sempre una scoperta che ci supera e ci sorprende.

Molto di più questo vale per Dio. Per quanto l’uomo lo cerchi, per quanto cerchi di vedere il suo volto, per quanto si sforzi di conoscere il mistero di Dio, non può farlo con le proprie forze.

L’uomo cerca Dio con il pensiero, con la filosofia, con la scienza, con la poesia. In ogni modo cerca Dio. Tutto lo sforzo che l’uomo mette in queste cose è bello e santo. Per questola Chiesa ha sempre benedetto la ricerca umana, sia quella umanistica che quella scientifica. Ma l’uomo non riesce a raggiungere Dio.

Lo ricorda San Paolo, quando dice che «il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio» (1Cor 1, 21) ed ancor più quando ricorda che la rivelazione di Dio è così sorprendente rispetto alle attese umane che il Signore stesso nella Scrittura dice: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me» (Rm 10, 20 che cita Is 65, 1).

3/ Piacque a Dio rivelare se stesso

Quel Dio, che l’uomo desidera ma non può raggiungere da solo, si è rivelato all’uomo. Questo è ciò che la fede annunzia. Dio non ci ha inviato un suo scritto, non ci ha manifestato dei comandamenti da osservare, non ci ha annunziato delle verità da credere. No, Dio ci ha rivelato il suo volto, è venuto ad abitare in mezzo a noi perché noi lo potessimo conoscere ed amare!

La presentazione abituale della rivelazione di Dio, prima del Concilio Vaticano II, insisteva sulla comunicazione da parte di Dio di una serie di verità «soprannaturali»[8]. L’accento era poi posto sulla pluralità di queste affermazioni dogmatiche e sul loro valore oggettivo.

Il Concilio, invece, con la Dei Verbum, scelse di privilegiare un approccio diverso: Dio nella rivelazione ha svelato il suo proprio “mistero”: «piacque a Dio rivelare se stesso»[9].

Con questa affermazione è detta immediatamente la libertà di Dio. Il verbo piacque lo sottolinea in maniera straordinaria: la rivelazione avviene per il piacere di Dio, per il suo godimento. Dio si rivela perché Egli, nel suo amore e nella sua saggezza, gode nel farsi conoscere.

Egli non è una divinità impersonale, che agisce per necessità, guidato da ferree leggi che lo costringono. Egli non è semplicemente il Tutto - secondo una visione che potrebbe essere accolta da molte visioni religiose dell’estremo oriente abituate ad un Dio che non ha né passione, né libertà - perché sostanzialmente identico con la natura o con lo spirito. No, Dio desidera farsi conoscere, Dio desidera essere amato.

Per questo la rivelazione coinvolge immediatamente anche l’uomo. Proprio perché la verità divina è l’amore, Dio, rivelandosi, desidera essere riamato, desidera che l’uomo entri in comunione con Lui.

Non vi è così, nella fede cristiana, alcun dissidio fra verità ed amore, fra Logos ed Agape. Gesù Cristo è la vera rivelazione di Dio e non ve n’è altra che manifesti il suo volto. Ma proprio perché questa verità è amore, non è una verità astratta, sistematica, fredda, bensì è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”[10].

Il Concilio - ed al suo seguito il CCC - riprende un’espressione di San Paolo che afferma che Dio ha rivelato il “mistero della sua volontà”. Nel linguaggio paolino, il termine “mistero” indica da un lato ciò che era inaccessibile all’uomo, ma al contempo ciò che ora è stato reso manifesto, perché Dio, donandoci il Cristo, si è rivelato all’uomo, come afferma 1Cor 2, 7-12: «Parliamo della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato».

4/ La rivelazione cristiana è rivelazione dell’amore di Dio

Papa Francesco ha così sintetizzato il cuore incandescente della rivelazione: «In realtà, il centro e l’essenza [dell’annuncio del Vangelo] è sempre lo stesso: il Dio che ha manifestato il suo immenso amore in Cristo morto e risorto. Egli rende i suoi fedeli sempre nuovi, quantunque siano anziani, riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi (Is 40,31). Cristo è il “Vangelo eterno” (Ap 14,6), ed è “lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), ma la sua ricchezza e la sua bellezza sono inesauribili. Egli è sempre giovane e fonte costante di novità. La Chiesa non cessa di stupirsi per “la profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio” (Rm 11,33). Diceva san Giovanni della Croce: “questo spessore di sapienza e scienza di Dio è tanto profondo e immenso, che, benché l’anima sappia di esso, sempre può entrare più addentro”[11]. O anche, come affermava sant'Ireneo: “[Cristo], nella sua venuta, ha portato con sé ogni novità”[12]».[13]

Tutto il Nuovo Testamento nasce dal riconoscimento di questo amore. Giovanni, il discepolo amato, colui che meglio di tutti ha compreso il cuore del Signore Gesù e quindi del Padre giunge a dire: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16).

Paolo, da parte sua, scrive: «Che diremo dunque? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).

I sinottici, dal canto loro, parlano di Cristo come dello sposo che viene a celebrare le nozze di Dio con l’umanità o come di colui che realizza il disegno di amore del Padre che vuole un banchetto al quale siano presenti il figliol prodigo, rappresentante dei pagani peccatori, ed il figlio mai allontanatosi da casa, ma talvolta lontano con il cuore, rappresentante del popolo ebraico.

È l’amore che muove Dio a farsi carne nel Natale ed ad offrire la vita per gli uomini peccatori sulla croce nel giorno di Pasqua. Pascal ha scritto di questo amore: «Tutto quel che non mira alla carità è figura. L’unico oggetto della Scrittura è la carità»[14].  

Ed è proprio questo amore che, da un lato, spinge ogni cristiano ad uno sguardo ricco di misericordia verso ogni uomo, a qualsiasi religione appartenga, ma d’altro canto libera gli uomini stessi dagli idoli, cioè dalle false rappresentazioni di Dio che sfigurano il suo volto, quello che si è manifestato nella misericordia del Cristo.

5/ Cristo è la pienezza della rivelazione: in Lui abita corporalmente la pienezza della divinità

In Cristo, infatti, il volto di Dio si svela pienamente e la fede può nascere. La lettera agli Ebrei arriva ad affermare addirittura che Cristo è «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (Eb 12,2). La Dei Verbum ha sottolineato in maniera straordinaria proprio questo evento, che tutta la rivelazione trova la sua pienezza in Gesù Cristo.

De Lubac così ha sintetizzato in proposito l’insegnamento del Vaticano II: «Il Concilio, a proposito della rivelazione, non sostituisce semplicemente un’idea fatta di verità astratte e atemporali con l’idea dello sviluppo di una storia della salvezza. Ciò che afferma è l’idea di una verità concreta al massimo: l’idea della Verità personale, apparsa nella storia, operante nella storia, nella persona di Gesù di Nazaret, “pienezza della rivelazione”»[15].

Citando San Bernardo, il CCC esplicita ulteriormente: «La fede cristiana non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma del Verbo incarnato e vivente”»[16]: così de Lubac ha sintetizzato in maniera splendida la prospettiva del Vaticano II che manifesta l’assoluta novità della fede cristiana.

La fede afferma allora che la rivelazione divina è più ampia dello stesso testo biblico, pur ispirato da Dio, perché la Paroladi Dio, il Verbum Dei nella sua pienezza è una persona, è Gesù Cristo, è il Verbo di Dio fattosi carne. La rivelazione è attestata dalla Scrittura, è resa accessibile dalla tradizione, ma è piena nell’incarnazione del Figlio di Dio: è Lui la Parola del Dio vivente. Come ha affermato splendidamente San Paolo: «È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (cfr. Col 2, 9).

Merita leggere ancora de Lubac che, rifacendosi alla ricchissima teologia dei padri della Chiesa, afferma: «[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”»[17].

Papa Francesco ha invitato a rifiutare una presentazione del cristianesimo che giunga a parlare della bellezza della fede cristiana solo al termine di un lungo itinerario. È certamente vero che si può giungere a parlare dell’incarnazione procedendo come a gradini successivi dalla vita pubblica di Gesù, alle sue parole, ai suoi gesti, alla sua morte e resurrezione, per giungere solo alla fine alla figliolanza divina del Cristo: ma così facendo non viene evidenziata la rivelazione personale che Dio fa di se stesso nel Figlio e viene posta in ombra la portata teologica della rivelazione stessa.

Così papa Francesco scrive nell’Evangelii Gaudium: «Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto. Se, come afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello[18], il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede». 

L’uomo contemporaneo ignora ormai quasi tutto del cristianesimo e questo rende ancora più necessario l’annunzio della novità della rivelazione cristiana: donandoci il Figlio Dio stesso non fa conoscere agli uomini alcune verità attraverso libri sacri, bensì viene personalmente «ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14)[19].

6/ La fede è semplice

L’uomo scopre così in Cristo la semplicità della fede. Chi non conosce il cristianesimo lo pensa talvolta come qualcosa di complesso, simile ad un sistema arzigogolato. A qualcuno può sembrare come un tessuto patchwork, composto di panni diversi accostati più o meno a caso.

Invece il cristianesimo annuncia che nella fede tutto è armonicamente collegato, come in un corpo, perché unico è il Dio vivente che si è manifestato in Gesù nella storia. Sulla semplicità della fede è tornato ad insistere più volte Benedetto XVI che, già da cardinale, affermava: «La fede cristiana è nella sua essenza incontro con il Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma la realtà più semplice è sempre anche la realtà più profonda e che tutto abbraccia. Possiamo credere in Dio, perché Dio ci tocca, perché egli é in noi e perché egli anche dall’esterno si avvicina a noi. Possiamo credere in lui, perché esiste colui che egli ha mandato: “Egli ha visto il Padre (Gv 6, 46)”, dice il Catechismo; egli “è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare”. Potremmo dire che la fede è partecipazione allo sguardo di Gesù [...] Tutte le “verità della fede” sono sviluppi dell’unica verità, che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale merita dare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo egli può essere la perla, per la quale noi vendiamo tutto il resto. Dio solo basta. Chi trova Dio, ha trovato tutto. Ma noi lo possiamo trovare solo perché egli prima ci ha cercato e ci ha trovato. Egli è in primo luogo colui che agisce e, per questo la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell’incarnazione, dalla Chiesa, dal sacramento»[20].

Già nel 1938 de Lubac aveva affermato con un’intuizione ancora oggi attualissima che «è al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano»[21]. L’unico nucleo pulsante della fede è insieme cristologico, trinitario ed antropologico: in Cristo è rivelato il mistero dell’amore trinitario, ma è al contempo svelato il “mistero” dell’uomo e della sua salvezza. Come afferma la   Dei Verbum, «gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura»[22].

In effetti, solo se Gesù è vero Dio e vero uomo, allora Dio è Trinità. Solo se Dio è Trinità può avvenire l’incarnazione del Figlio di Dio. Solo se è vera l’incarnazione del Figlio allora Dio si è veramente rivelato a noi. Solo se il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, allora l’uomo è salvo ed ha vinto il male e la morte[23].

L’intima corrispondenza della fede nella Trinità, della fede nell’incarnazione e della fede nel Battesimo risplende anche nel cammino ecumenico. Per questo ciò che unisce i cristiani è molto più di ciò che li divide[24]. E ciò che li unisce è precisamente la fede in Gesù vero Dio e vero uomo, e quindi in Gesù che ci ha rivelato il vero volto trinitario di Dio e quindi la fede nel Battesimo ricevuto nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo che dona salvezza.

Con il CCC questa prospettiva passa dal magistero conciliare alla presentazione catechetica. Se il CCC riprende la spiegazione del Credo come elemento costitutivo della catechesi, premette però ad essa una presentazione unitaria della rivelazione proprio a partire dalla Dei Verbum. Per questo la conoscenza del CCC è la via adeguata perché il Concilio illumini della sua prospettiva l’annunzio e la catechesi. Nella sezione prima della prima parte[25] la novità della prospettiva personalistica nella presentazione della rivelazione fatta propria del Concilio emerge nella catechesi.

7/ Il Credo esprime la semplicità della fede

Il Credo manifesta l’intima semplicità della fede. Esso rende evidente che la fede può essere detta con poche parole, perché uno è il mistero del Dio trino ed unico.

Come ha detto Benedetto XVI, «“Gesù è il Signore” - è la confessione comune della Chiesa, il fondamento sicuro di tutta la vita della Chiesa. Da queste parole si è sviluppata tutta la confessione del Credo Apostolico, del Credo Niceno»[26]. È dall’incarnazione, è dall’incontro con Gesù che si rivela Figlio di Dio che nasce tutta la fede della Chiesa: essa scopre che Dio è amore trinitario e che ha inviato il Figlio per donare la salvezza e la vita.

Conseguentemente, la professione della fede non solo è coerente con l’incarnazione e con la vicenda di Gesù, ma è anche una sintesi armonica nella quale ogni parte richiama le altre, proprio come un organismo “articolato”. A loro volta, le diverse forme del Credo non sono se non ampliamenti dello stesso Simbolo di fede battesimale, che professa la fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo: questa struttura è riconoscibile chiaramente nel Credo degli apostoli[27], così come nel Simbolo niceno-costantinopolitano[28], così come in ogni altra professione di fede che la Chiesa ha espresso nei secoli[29].

Il grande teologo svizzero H. U. von Balthasar ha così spiegato l’intima corrispondenza dei diversi articoli del Credo e di questi con la fede battesimale: «Ogni molteplicità proviene da qualcosa di semplice. Le molte membra dell’uomo, da un uovo fecondato. Le dodici enunciazioni del credo apostolico, anzitutto da queste tre domande particolari: Credi in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo? Ma anche queste tre formule sono espressione - ed è Gesù a fornircene la prova - del fatto che l’unico Dio è, nella sua essenza, amore e donazione [...] Queste tre “vie di accesso” a loro volta si diramano in dodici “articoli” (“articulus” indica in latino la giuntura che tiene unite fra loro le membra). La nostra fede non si affida mai a delle frasi, ma ad un’unica realtà che si dispiega davanti a noi: una realtà che è al tempo stesso la verità più alta e la più profonda salvezza»[30].

Il fatto che il Credo non sia una fredda attestazione di astratte verità, bensì la gioiosa proclamazione dell’incontro con il Dio vivente, appare ulteriormente evidente dalla sua originaria collocazione all’interno del rito del Battesimo e dalla sua successiva presenza nella liturgia eucaristica. Il Simbolo di fede si rivela così come una preghiera, come una dossologia, come la risposta gioiosa alla proclamazione della Parola di Dio che annunzia la salvezza.

In effetti è proprio il Credo che proclama che Dio è amore, annunziando che è Padre, Figlio e Spirito Santo, come ha scritto in maniera splendida Chesterton[31]: «Se c’è una questione che gli illuminati e i progressisti hanno l’abitudine di deridere e di mettere in vista come un orribile esempio di aridità dogmatica e di stupido puntiglio settario, è la questione atanasiana[32] della co-eternità del Divin Figlio. D’altra parte, se c’è una cosa che gli stessi liberali sempre ci mettono innanzi come un tratto di puro e semplice Cristianesimo, immune da contese dottrinali, è la semplice frase: “Dio è Amore”. Eppure, le due affermazioni sono quasi identiche; per lo meno una è quasi un nonsenso senza l’altra. L’aridità del dogma è la sola via logica per arrivare ad affermare la bellezza del sentimento. Poiché, se c’è un essere senza principio, che esisteva prima di tutte le cose, che cosa poteva Egli amare quando non c’era nulla da amare? Se attraverso l’impensabile eternità Egli è solo, che significa dire: Egli è amore? [...] La verità è che lo squillo del vero cristianesimo, la sfida della carità e della semplicità di Betlemme e del Natale, mai suonò così decisamente e chiaramente come nella sfida di Atanasio al freddo compromesso degli ariani. Fu lui che realmente combatté per un Dio di amore contro un Dio incolore e lontano dominatore del cosmo; il Dio degli stoici e degli agnostici».

Il Credo ha, in conseguenza, anche la funzione di escludere una visione di Dio non confacente alla meraviglia della rivelazione divina in Cristo. Ad esempio, dinanzi ad uno studioso che proponesse come novità della ricerca moderna l’ipotesi che Gesù  possa essere stato solo un uomo e non il Figlio di Dio, proprio il Credo aiuterebbe a rispondere che questa affermazione non è per niente innovativa, bensì è vecchia di 1700 anni:la Chiesa l’ha già affrontata e respinta al tempo del Concilio di Nicea, basandosi sulla rivelazione.

I padri del Concilio niceno professarono chiaramente con quel Credo che affermare che Cristo era solo una creatura avrebbe voluto dire negare la novità del cristianesimo e tornare alla vecchia visione pagana secondo la quale all’uomo non era dato conoscere il volto di Dio: solo se in Cristo Dio era venuto ad abitare in mezzo agli uomini, allora era avvenuto qualcosa di veramente nuovo nel mondo!

Merita rileggere ancora una volta Chesterton che scrive in proposito[33]: «Uno dei principali compiti della Chiesa Cattolica è far si che la gente non commetta questi vecchi errori, in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino. La verità concernente l’atteggiamento cattolico nei confronti dell’eresia o, si potrebbe dire, nei confronti della libertà, può essere rappresentata dalla metafora di una mappa. La Chiesa Cattolica possiede una mappa della mente che sembra la mappa di un labirinto, ma che in realtà è una guida per orientarsi nel labirinto. [...] Così facendo, si previene la possibilità che le persone perdano il loro tempo, o le loro vite, in sentieri che si sono dimostrati ripetutamente, nel passato, vani o disastrosi, ma che possono ancora, in futuro, intrappolare ripetutamente i viandanti. La Chiesa si prende la responsabilità di mettere in guardia il suo popolo su queste realtà, e sta proprio qui l’importanza del suo ruolo. Dogmaticamente essa difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori».

8/ Credo e Sacra Scrittura

Qual è il rapporto tra il Credo e le Sacre Scritture? C’è chi insinua che il Credo sia una sovrastruttura imposta dalla Chiesa per nascondere il messaggio originario di Gesù e delle Sacre Scritture e che solo una lettura della Bibbia senza gravami dogmatici sarebbe veramente liberante e ricca di significato per l’uomo contemporaneo.

In realtà, invece, è il messaggio biblico stesso che utilizza, fra gli altri, il linguaggio della professione di fede. Si pensi a quei brani dell’Antico Testamento che sono delle vere e proprie sintesi di fede, come il cosiddetto Credo deuteronomistico (Dt 26, 5-9) o alle professioni di fede neotestamentarie (ad esempio 1 Cor 12, 3; Rm 10, 9; 1 Gv 2, 22; Mc 8, 30; 1 Gv 4, 15; Eb 4, 14; 1 Cor 15, 3 ss.; Fil 2, 5-11; 1 Cor 8, 6; 2 Cor 13, 13). La Scrittura, infatti, non è solo narrazione, ma, oltre ad utilizzare il genere innico o sapienziale o parabolico o storico, spesso utilizza proprio il registro della confessio fidei.

Paradossalmente si potrebbe dire che il Credo è più antico delle Scritture stesse. La triplice domanda sulla fede nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo è certamente precedente agli stessi vangeli. Gli apostoli battezzavano in questo modo, prima ancora che fossero redatti i quattro vangeli.

Ma ancor più si deve dire che il Credo, così come si è sviluppato nella tradizione della Chiesa, è necessario alla Scrittura perché esprime i punti più esaltanti e nuovi dell’intero messaggio biblico. Come ha scritto l’allora teologo Ratzinger[34]: «I Simboli [della fede] non sono un’aggiunta alla Scrittura, ma il filo conduttore attraverso di essa [...] sono per così dire il filo di Arianna, che permette di percorrere il Labirinto e ne fa conoscere la pianta. Conseguentemente, non sono neppure la spiegazione che viene dall’esterno ed è riferita ai punti oscuri. Loro compito è, invece, rimandare alla figura che brilla di luce propria, dar risalto a quella figura, in modo da far risplendere la chiarezza intrinseca della Scrittura».

Il Credo non deve così essere opposto scioccamente alla Bibbia, bensì è ciò che ne mette in rilievo la sua intima comprensibilità e bellezza. Senza il Simbolo di fede,la Bibbia sarebbe solo un coacervo di frasi che non aiuterebbero ad entrare in contatto con il Dio vivente ed a riconoscere il suo volto.

È stata proprio l’esperienza della Chiesa, attraverso la storia, ad evidenziare tramite il Credo ciò che più interessava all’uomo del messaggio biblico, ciò che più era sconvolgente nella novità della rivelazione divina. Ed è per questo che lo stesso CCC ripropone la presentazione del Credo come elemento portante della trasmissione della fede.

Fu ancora l’allora cardinale Ratzinger, nel 1983, ad avvertire che proprio la separazione tra Scrittura e Tradizione era alla radice della odierna crisi della catechesi[35]: «[La crisi della catechesi] si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. [...] la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica».

Se la fede proposta dalle Scritture differisse da quella della tradizione della Chiesa, sarebbe impossibile credere nel Dio rivelatosi in Gesù Cristo: solo se il Credo battesimale è la vera ed entusiasmante interpretazione del messaggio biblico ed entrambi rimandano alla reale rivelazione di Dio avvenuta in Cristo, allora la fede ha senso e bellezza.

Da parte sua il Credo non può esistere da solo, ma rimanda continuamente alla Scrittura, perché essa è testualmente ispirata e lo Spirito Santo, attraverso la sua lettura e meditazione, illumina la mente ed il cuore a comprendere l’infinita ricchezza di Dio: «tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tm 3, 16-17).

È per questo che la Dei Verbum esorta «con ardore e insistenza tutti i fedeli ad apprendere “la sublime scienza di Gesù Cristo” (Fil 3, 8) con la frequente lettura delle divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo”[36]. Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo»[37].

D’altro canto il Credo appartiene alla Tradizione che è più ampia di esso. La rivelazione personale di se stesso che Dio ha fatto raggiunge gli uomini nelle due forme complementari della tradizione della Chiesa e del testo biblico ispirato, come ha lucidamente scritto Betti, che fu il teologo del cardinale Florit, relatore al Concilio della Dei Verbum[38]: «A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva». La fede ha bisogno dell’una e dell’altra: della Scrittura, testualmente ispirata dallo Spirito Santo, che ci conserva memoria dell’ultima cena, e della Tradizione, nella quale lo Spirito è operante.

9/ Il Credo attesta che una è la storia della salvezza

Il Credo attesta anche che la storia della salvezza è un unico disegno divino, non frammentato in episodi slegati fra di loro: l’economia della salvezza è il dispiegarsi dell’unico progetto di Dio che viene progressivamente manifestato e attuato, raggiungendo in Cristo la sua pienezza.

Non vi è una salvezza che è slegata dalla creazione, né una Nuova Alleanza separata dall’Antica, né un disegno divino che non abbracci la parousia e la resurrezione dei morti. Dio Padre creatore è Colui che si rivela nell’incarnazione del Figlio e che nello Spirito Santo guida la Chiesa ad essere sacramento di salvezza perché gli uomini abbiano la vita eterna.

Solo questa visione che abbraccia insieme la creazione, la storia e l’eternità è in grado di rendere ragione della bellezza della fede. Diversamente la frammentarietà dell’esistenza resterebbe invincibile e la storia intera rimarrebbe senza significato ultimo.

L’allora cardinale Ratzinger aveva insistito sul fatto che una separazione di creazione e redenzione avrebbe di fatto svuotato di senso l’intera fede: «Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della fede [il Dio creatore] possa compromettere la cristologia. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore potrebbe sembrare giustificato. Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova, allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche, realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita»[39].

È stata la Dei Verbum[40] ad insistere sull’unità del disegno divino. Il CCC[41] fa eco al documento conciliare ampliandone la presentazione della storia veterotestamentaria, ma certamente ponendo ancora una volta l’accento sull’unità del disegno salvifico prima che sulle sue parti. Ed è proprio questa unità ad essere caratteristica della fede e, quindi, dell’annunzio e della catechesi. Come ha scritto una catecheta[42]: «Ogni opera educativa per essere costruttiva deve essere unitaria, condurre cioè a un punto di convergenza da cui tutto prende significato. Il frammentario non educa nel profondo. Il punto di convergenza però deve essere tale da far spaziare lo sguardo verso l’illimitato. A nostro avviso la narrazione delle singole bellissime storie bibliche va fatta in riferimento costante al tempo colto nella sua globalità come pure nelle scansioni fondamentali di passato, presente e futuro. È su questa base globale che potranno poi porsi tutte le successive considerazioni sui vari aspetti della storia e sui singoli eventi. La prima considerazione verterà dunque sulla vastità della storia biblica, vastità che va insieme al suo carattere unitario».

Merita sottolineare che è proprio la coscienza dell’unità del disegno divino di salvezza ad aver forgiato il Lezionario liturgico: ogni domenica dell’anno liturgico ed ogni celebrazione sacramentale evidenziano in chiave tipologica l’intima corrispondenza che esiste fra Antico e Nuovo Testamento[43].

10/ La fede è la risposta alla rivelazione di Dio

La fede è la risposta alla rivelazione di Dio. Per questo la fede è sempre un dono: nasce dallo stupore dinanzi al Dio che oggettivamente e personalmente si rivela e si dona. Come la gioia dinanzi ad un bambino che è nato non è puro sentimento, pura interiorità, bensì risposta a quel figlio realmente presente nel mondo che illumina la vita con il suo sorriso. Anzi quella gioia è la giusta risposta a quella presenza, è la perfetta corrispondenza fra quell’evento ed il cuore dell’uomo.

Per questo la fede è presentata nel CCC come la “risposta adeguata” dell’uomo alla rivelazione di Dio[44].

Ed è la risposta adeguata. Inadeguato sarebbe il rifiuto della rivelazione, il disinteressarsi ad essa, il sottovalutarla. Dinanzi alla gratuità della rivelazione che rivela l’amore di Dio, l’uomo si consegna ad esso.

Seguendo la Dei Verbum - «a Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede” (Rm 16, 26; cfr. Rm 1, 5; 2Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo gli si abbandona tutt’intero e liberamente prestandogli “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” e assentendo volontariamente alla Rivelazione che egli fa»[45] - anche il CCC definisce la risposta della fede come “obbedienza”[46], esplicitando la radice etimologica del termine (ob-audire): è a motivo dell’ascolto della rivelazione che nasce la fede.

Per questo la fede è semplice come la rivelazione stessa. Se Dio si è rivelato personalmente, l’uomo può rispondergli assentendo a questa rivelazione e vivendo la comunione d’amore che il Signore gli offre.

Benedetto XVI lo ha detto con parole che vanno al cuore della novità del cristianesimo[47]: «Abbiamo creduto all'amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Per questo la fede cristiana è fede in Gesù, proprio perché in Lui è Dio che è venuto in mezzo agli uomini. Al punto che «chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre» (1Gv 2, 23). Poiché Cristo è la pienezza della rivelazione, non è possibile ritenere che a Lui manchi qualcosa e che Dio potrebbe essere trovato più pienamente altrove, anzi «chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio» (2Gv 9).

Se la fede è un atto profondamente unitario, in essa si possono distinguere due aspetti che sono comunque inseparabili. La fede è un affidarsi fiducioso alla volontà di Dio, perché Egli si è rivelato in Cristo come l’amore. Ma proprio questa fiducia assoluta in Lui esige che l’uomo conosca il Dio a cui affida la propria esistenza ed a cui rimette la propria speranza, altrimenti la fede sarebbe follia, sarebbe un salto nel vuoto. Ma, d’altro canto, sarebbe inutile conoscere il volto amorevole di Dio senza affidargli poi con fiducia la propria esistenza.

La riflessione spirituale ha dato un nome a questi due aspetti inscindibili dell’unico atto del credere: la fides qua e la fides quae. La fides qua (“la fede con la quale si crede”) è la fede con la quale ci si affida a Dio. La fides quae (“la fede che si crede”) è la fede in quanto proclama chi è il Dio che si crede e quali sono i contenuti della fede stessa.

È in sant’Agostino che compare per la prima volta questa distinzione[48]: «Una cosa è ciò che si crede, altra cosa la fede con cui si crede[49]. [...] Quando Cristo dice: O donna, grande è la tua fede, ed ad un altro: Uomo di poca fede, perché hai dubitato? esprime con questo che ciascuno ha una fede che gli è propria. Ma si dice che coloro che credono le stesse cose hanno una sola fede, allo stesso modo che coloro che vogliono le stesse cose hanno una sola volontà».

Agostino, a partire dalla Sacra Scrittura, mostra così come esistono due aspetti dell’unico atto di fede: la fede in Dio non è identica in tutti perché l’abbandono fiducioso alla volontà di Dio può essere ‘grande’ o ‘piccolo’ (fides qua), ma, d’altro canto, la fede è sempre una sola e identica, perché è fede nella Trinità (fides quae).

Il CCC, a sintetizzare questi due aspetti, cita un densissimo versetto di San Paolo che dice: «So infatti in chi ho posto la mia fede» (2Tm 1, 12[50]). L’Apostolo ricorda con queste parole che egli si fida di Dio al punto da essere disposto al martirio, ma si fida di Lui proprio perché lo ha conosciuto, perché Egli si è rivelato sulla via di Damasco. Può fidarsi perché lo conosce e la fiducia che ha in Lui gli permette di conoscerlo sempre meglio.

11/ Fede, speranza e carità

La fede non può, quindi, essere disgiunta dall’amore. Si crede in Dio proprio perché lo si ama. E lo si ama perché si è scoperto di essere stati amati da Lui, di essere stati da Lui creati e da Lui redenti.

Dio non offre semplicemente questo amore, bensì lo chiede in cambio all’uomo per sé e per i fratelli. Si potrebbe dire che ciò che ci salva non è semplicemente credere in Dio, bensì amarlo.

L’uomo trova se stesso solo amando Dio ed i fratelli: è questo il comandamento che ha ricevuto, ma è questo anche il suo destino più vero e bello. Il CCC lo esplicita in maniera mirabile, rifacendosi a tutta la tradizione catechistica della Chiesa: «È opportuno ricordare il seguente principio pastorale enunciato dal Catechismo Romano: Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri della attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore, così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell'amore ha d’altronde il suo ultimo fine[51]»[52].

Non si può credere in Dio e fidarsi di Lui, se non perché lo si ama. Ed, amandolo, è lo sguardo su tutte le persone e le cose che viene ad essere trasformato. Una bellissima Orazione di Colletta prega Dio che infonda nell’uomo la dolcezza del suo amore perché ognuno possa amarlo «in ogni cosa e sopra ogni cosa»[53]. Credere in Dio vuol dire amarlo sopra ogni cosa, ma anche amare il fratello perché opera delle mani del Signore e motivo della morte per amore del Cristo. Di modo che, per la fede cristiana, non è possibile alcuna opposizione fra l’amore di Dio e l’amore al fratello, quasi che si possa per amore di Dio disprezzare la creatura.

La fede e la carità, al contempo, sono una sola cosa con la speranza. Non è possibile credere in Dio, se non aprendosi alla speranza certa che l’universo intero è nelle sue mani ed è perciò in buone mani. La fede è sempre fede nella provvidenza di Dio e, quindi, nella sua onnipotenza. Nella croce appare non l’impotenza di Dio, bensì la sua forza che è capace di scendere fin nell’abisso del male e della morte per redimere l’uomo. Come ha affermato splendidamente Peguy, paragonando la fede e la carità a due sorelle più grandi che tengono per mano in mezzo a loro la sorella più piccola, la speranza[54]:

«Il popolo cristiano non fa attenzione
che alle due sorelle grandi.
La prima e l’ultima.
E non vede quasi quella che è in mezzo.
La piccola, quella che va ancora a scuola.
E che cammina.
Persa nelle gonne delle sue sorelle.
E crede volentieri che siano le due grandi che tirino la piccola per la mano.
In mezzo.
Tra loro due.
Per farle fare quella strada accidentata della salvezza.
Ciechi che sono che non vedono invece
che è lei nel mezzo che si tira dietro le sue sorelle grandi.
E che senza di lei loro non sarebbero nulla.
Se non due donne già anziane.
Due donne di una certa età.
Sciupate dalla vita».

Papa Francesco ha sottolineato come non possa esistere fede cristiana autentica che non sia allo stesso tempo amore e speranza. Oltre ai suoi gesti si possono citare almeno alcune sue parole: «quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro […] Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere, con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. […] Questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia, da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. […] Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, “l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone[55]»[56].

Riguardo alla speranza poi papa Francesco ha scritto con parole incisive: «Una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti e disincantati dalla faccia scura. Nessuno può intraprendere una battaglia se in anticipo non confida pienamente nel trionfo. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male. Il cattivo spirito della sconfitta è fratello della tentazione di separare prima del tempo il grano dalla zizzania, prodotto di una sfiducia ansiosa ed egocentrica»[57].

12/ Logos e Agape per una fede amorevole e sapiente

La fede cristiana permette all’uomo di riconoscere che Dio è insieme Logos e Agape, che è insieme verità sapiente e amore. Dio non potrebbe essere amore se non fosse anche sapienza, ma al contempo la sua sapienza è proprio quella dell’amore.

L’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è chiamato a corrispondergli con tutto se stesso e, quindi, con tutta la sapienza e l’amore a lui possibili. Per questo nella vita cristiana ognuno vuole fare esperienza di amore, di accoglienza e di perdono, ma insieme vuole scoprire come la sapienza del Vangelo riesca ad illuminare la vita e le sue scelte. Una fede che trascurasse l’intelligenza e la sapienza sarebbe disumana. La fede chiede così una seria pastorale dell’intelligenza: l’uomo si fortifica come credente solo quando scopre con gioia che cosa il Vangelo dice di “nuovo” al mondo e ne scopre la sua credibilità. E se certamente viene scandalizzato da comportamenti che non danno testimonianza della fede, altrettanto lo è se non trova nella Chiesa parole che illuminano le questioni che gli bruciano. L’adulto cerca oggi parole sagge sugli affetti, sulla malattia, sulla politica, sull’educazione, sul lavoro - così come su Dio, sui Sacramenti, sulla Carità. Già Sant’Agostino aveva affermato con parole lapidarie: «La fede se non è pensata, è nulla»[58].

Benedetto XVI, dal canto suo, ha ripetuto più volte, facendone quasi una cifra del suo magistero, che solo l’unità di Logos e Agape rende pienamente conto della ricchezza del cristianesimo. Ha affermato in proposito: «La forte unità che si è realizzata nella Chiesa dei primi secoli tra una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore reciproco e dall’attenzione premurosa ai poveri e ai sofferenti ha reso possibile la prima grande espansione missionaria del cristianesimo nel mondo ellenistico-romano. Così è avvenuto anche in seguito, in diversi contesti culturali e situazioni storiche. Questa rimane la strada maestra per l’evangelizzazione: il Signore ci guidi a vivere questa unità tra verità e amore nelle condizioni proprie del nostro tempo, per l’evangelizzazione dell’Italia e del mondo di oggi»[59].

Così non si può proporre la fede, se non dandone le motivazioni. Si potrebbe dire che esso è anche un invito a recuperare in catechesi ciò che la teologia fondamentale è stata nel rinnovamento della teologia pre e post-conciliare. La teologia fondamentale si è strutturata recuperando in un senso nuovo il ruolo dell’antica apologetica pre-conciliare, ponendo al centro le due grandi questioni della specificità della rivelazione cristiana e della sua credibilità[60].

Proprio di questo ha bisogno oggi l’annunzio della fede. Deve riuscire a proporre nuovamente il Dio che si rivela, mostrando come la fede della Chiesa abbia colto il cuore del messaggio biblico e come sia possibile incontrare il Dio nella viva Tradizione della Chiesa e nella Scrittura. Ma contemporaneamente deve condurre l’uomo a percepire la ragionevolezza della fede, perché egli la scopra come l’unica capace di illuminare realmente la propria esistenza.

È tempo insomma di spostare l’attenzione dalle questioni metodologiche - che troppe energie hanno preso alla riflessione pastorale negli ultimi decenni - per tornare a riflettere, sulla scia del Concilio, sul “perché” l’uomo possa e debba credere nel Dio di Gesù Cristo. Solo quando il fondamento della fede è chiaro, gli uomini possono divenire realmente adulti e non essere più «come fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4, 14).

13/ Una fede personale ed ecclesiale

La fede è contemporaneamente un atto sovranamente personale ed, insieme, pienamente ecclesiale. Se da un lato, infatti, è la singola persona che è invitata da Dio alla comunione con Lui, al contempo non si dà fede solitaria, poiché «nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l’esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere. Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sorretto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri»[61].

È ogni cristiano che crede, ma ognuno crede insieme alla Chiesa e crede ciò che la Chiesacrede. Non si deve mai dimenticare che la Chiesa non è semplicemente la destinataria della rivelazione, bensì è parte di essa. Lo è innanzitutto perché se gli apostoli non avessero creduto non ci sarebbe stata nemmeno rivelazione, perché la storia della salvezza sarebbe stata allora solo un monologo di Dio. Invece Dio ha manifestato il suo volto al punto che l’uomo ha potuto riconoscere in Cristo la presenza del suo Signore. In questo sensola Chiesa non viene dopo la rivelazione, bensì è compresa nella rivelazione stessa che esige qualcuno che la accolga per essere vera comunicazione.

Ma Dio, d’altro canto, rivelandosi, ha manifestato il suo desiderio d’amore che gli uomini entrino in comunione con Lui: anche e sopratutto per questo la Chiesafa parte del mistero di salvezza. Lo afferma esplicitamente San Paolo, quando dice che il “mistero” di Cristo implica «che le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo» (cfr. Ef 3, 5-6). Credere in Cristo Salvatore del mondo implica così la fede che proprio nella Chiesa ognuno è salvato.

La fede ha così sempre una dimensione «cattolica», cioè universale. Non solo nel senso che ognuno crede insieme a tutti i cristiani sparsi sulla faccia della terra, ma anche nel senso che si crede insieme ai cristiani di tutti i tempi, insieme a coloro che hanno creduto nei secoli e che hanno già raggiunto il cielo. L’allora cardinale Ratzinger ha affermato[62] molto giustamente che il “noi” della Chiesa «non va inteso solo in senso sincronico, ma anche in senso diacronico. Il che significa che nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Nel corpo di Cristo il limite della morte non conta più; in lui passato, presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non rappresenta mai solo se stesso, né ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo è un inviato, e in quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che introduce nel messaggio è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente il “noi” della Chiesa di tutti i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi una maggioranza contro la fede della Chiesa di altri tempi, non sarebbe affatto maggioranza: nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte le epoche, e solo se si ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico».

La liturgia lo manifesta continuamente, ad esempio nelle Litanie dei Santi[63]. Quando si battezza un bambino, quando si ordina un sacerdote, èla Chiesa di tutte le generazioni che viene invocata perché partecipi con la sua preghiera alla trasmissione dell’unica fede, perché il nuovo battezzato ed il nuovo presbitero conservino la medesima fede che gli apostoli hanno trasmesso al mondo.

Il CCC ricorda le parole di Ireneo di Lione che già nel II secolo dichiarava l’unità della fede, dinanzi agli eretici che la corrompevano[64]: «In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede [...], conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un'unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca [...] Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tradizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spagna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell'Oriente, dell'Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo [...] Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza».

Gli antichi Simboli di fede si esprimevano così utilizzando il verbo credere talvolta al singolare - io credo - talvolta al plurale - noi crediamo. Le due forme esprimono la profonda relazione che esiste fra la fede come decisione personale e come espressione dell’unico Credo che unisce tutti i credenti.

Questa “unità” della fede è evidente anche nel fatto che il Battesimo ricevuto in una concreta comunità locale significa al contempo - ed anzi per eccellenza - l’ingresso nella comunione della Chiesa tout court[65].

14/ La fede confessata, celebrata, vissuta e pregata: la quadripartizione del Catechismo della Chiesa Cattolica

Papa Francesco ha invitato ad approfondire la conoscenza del CCC proprio in vista di una maturazione della fede, sottolineando la sua strutturazione in quattro parti. Dopo aver lungamente sottolineato la quadripartizione in Lumen fidei 37-46, così conclude: «Ho toccato così i quattro elementi che riassumono il tesoro di memoria che la Chiesa trasmette: la Confessione di fede, la celebrazione dei Sacramenti, il cammino del Decalogo, la preghiera. La catechesi della Chiesa si è strutturata tradizionalmente attorno ad essi, incluso il Catechismo della Chiesa Cattolica, strumento fondamentale per quell’atto unitario con cui la Chiesa comunica il contenuto intero della fede, “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Dei Verbum 8)»[66].

Lo schema quadripartito su cui si basa il CCC è stato elaborato dalla tradizione cristiana nel corso dei secoli. L’emergere nel tempo delle quattro dimensioni che scandiscono il CCC - la professione della fede, la celebrazione della fede, la vita in Cristo e la preghiera cristiana -  non è dovuta ad una decisione presa a tavolino, bensì è emersa pian piano nella storia della Chiesa.

Certo è, comunque, che questa quadripartizione è antichissima, antica quanto la Chiesa stessa. Deriva, infatti, dal catecumenato della Chiesa antica che iniziò a celebrare la traditio e la redditio del Simbolo di fede e del Padre nostro, a sostenere la conversione di vita dei catecumeni ed a celebrare la liturgia con essi, prima condividendo la Liturgia della Parola, poi introducendoli definitivamente nei “sacri misteri”[67].

Se la si guarda con simpatia, ci si accorge subito che questa struttura è straordinariamente semplice ed efficace, perché rispondente alla verità: chi diviene credente impara a credere ciò che credela Chiesa (il Credo), riceve nella liturgia la grazia di essere figlio di Dio (i Sacramenti), vive la vita nuova del Vangelo (i Comandamenti), prega Dio perché è abilitato al dialogo con Lui (il Pater).

Nella quadripartizione catecumenale non è questione semplicemente dei contenuti fondamentali della fede, ma insieme ed in modo indissolubile con essi, delle dimensioni dell’esistenza cristiana e, quindi, delle strutture portanti dell’esperienza della catechesi stessa. La catechesi conduce alla fede, alla celebrazione, alla conversione, alla preghiera personale e, conseguentemente, si sostanzia di momenti formativi, di momenti celebrativi, di condivisione esistenziale, di maturazione spirituale. La struttura quadripartita emerge con evidenza poi, a livello liturgico, nel momento del battesimo degli adulti: viene battezzato chi professa il Credo, chi ha convertito la sua vita, chi prega con il Padre nostro.

Vale la pena sottolineare che questa quadripartizione non nasce da una teoria, bensì dall’esperienza della Chiesa. È una decisione “esperienziale”, non codificatasi a partire da visioni teologiche particolari. La Chiesa, nella sua esperienza, l’ha maturata pian piano, di modo che, al tempo della Riforma, quando sono stati scritti i primi catechismi, è stata adottata in maniera similare nei Catechismi di Lutero e di Calvino, in quelli dei missionari spagnoli in America latina, infine in quelli nati a ridosso del Concilio di Trento[68].

Il CCC mostra così che una fede matura è confessata, celebrata, vissuta e pregata. È l’unica fede che accoglie il Dio che si rivela, ma al contempo lo celebra presente nei suoi Sacramenti. L’iconografia tradizionale della fede la rappresenta, infatti, come una donna che regge in una mano la croce (a rappresentare la fede nella passione del Signore) e nell’altra il calice (a significare che il Cristo non appartiene al passato, ma è presente nella liturgia). Inoltre la fede non solo crede nel Dio che si è rivelato nella storia e che è oggi presente nei Sacramenti, ma riconosce anche che in Cristo è dato all’uomo di vivere la vita buona del Vangelo e che in questa novità di vita si realizza la verità dell’essere umano. E non solo la fede genera a questa vita nuova e bella: la rende possibile perché dona all’uomo di pregare Dio e rivolgersi a Lui chiamandolo Padre ed affidandosi alle sue mani, perché si compia la sua volontà.

D’altro canto proprio questo sguardo allargato a tutte le dimensioni dell’esperienza cristiana permette di accogliere e di accompagnare ogni uomo, come insegna papa Francesco, nel cammino della catechesi: «Appare chiaro che il primo annuncio deve dar luogo anche ad un cammino di formazione e di maturazione. L’evangelizzazione cerca anche la crescita, il che implica prendere molto sul serio ogni persona e il progetto che il Signore ha su di essa. Ciascun essere umano ha sempre di più bisogno di Cristo, e l’evangelizzazione non dovrebbe consentire che qualcuno si accontenti di poco, ma che possa dire pienamente: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Non sarebbe corretto interpretare questo appello alla crescita esclusivamente o prioritariamente come formazione dottrinale. Si tratta di “osservare” quello che il Signore ci ha indicato, come risposta al suo amore, dove risalta, insieme a tutte le virtù, quel comandamento nuovo che è il primo, il più grande, quello che meglio ci identifica come discepoli: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12). È evidente che quando gli autori del Nuovo Testamento vogliono ridurre ad un’ultima sintesi, al più essenziale, il messaggio morale cristiano, ci presentano l’ineludibile esigenza dell’amore del prossimo: “Chi ama l’altro ha adempiuto la legge ... pienezza della Legge è la carità” (Rm 13,8.10). […] D’altro canto, questo cammino di risposta e di crescita è sempre preceduto dal dono, perché lo precede quell’altra richiesta del Signore: “battezzandole nel nome...” (Mt 28,19). L’adozione a figli che il Padre regala gratuitamente e l’iniziativa del dono della sua grazia (cfr Ef 2,8-9; 1 Cor 4,7) sono la condizione di possibilità di questa santificazione permanente che piace a Dio e gli dà gloria. Si tratta di lasciarsi trasformare in Cristo per una progressiva vita “secondo lo Spirito” (Rm 8,5)»[69].

Note al testo

[1] Papa Francesco in apertura del Convegno della diocesi di Roma «“Cristo, tu ci sei necessario!”. La responsabilità dei battezzati nell’annuncio di Gesù Cristo» presso l’Aula Nervi, il 17/6/2013.

[2] Benedetto XVI nella Celebrazione ecumenica nella Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, il 23 settembre 2011.

[3] Benedetto XVI nello stesso intervento.

[4] Anche San Paolo ricorda che Dio ha fatto gli uomini perché «cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17, 27).

[5] D’ora in avanti CCC.

[6] CCC 27.

[7] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, I, 64-72.

[8] H. de Lubac - E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 388.

[9] Il testo latino di Dei Verbum 2 afferma testualmente placuit Deo Seispsum revelare. Come è noto il lungo iter conciliare del documento sulla rivelazione portò all’emergere del primo capitolo della Dei Verbum che non era originariamente previsto. La tematica della rivelazione personale di Dio pose così in secondo piano la questione del rapporto fra Tradizione e Scrittura che era la più sentita prima della bocciatura del primo schema, permettendo di illuminarla in modo nuovo; cfr. su questo R. Fisichella, Dei Verbum. Storia, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, pp. 279-284.

[10] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.

[11] Cantico spirituale, 36, 10.

[12] Adversus haereses, IV, c. 34, n.1: PG 7 pars prior, 1083: «Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens»

[13] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 11.

[14] B. Pascal, Pensieri, 689.

[15] H. de Lubac – E. Cattaneo, La Costituzione «Dei Verbum» vent’anni dopo, in «Rassegna di teologia», 26 (1985), p. 394. Questa è la prospettiva che ritroviamo immediatamente nel CCC. La rivelazione è presentata alla luce di Cristo, pienezza di tutta intera la rivelazione (cfr. CCC 50-73).

[16] CCC 108.

[17] H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354.

[18] Cfr. De musica, VI, XIII, 38: PL 32, 1183-1184; Conf., IV, XIII, 20: PL 32, 701.

[19] Presentare la novità della persona stessa di Gesù, prima dei singoli episodi che lo riguardano, è la via scelta già, oltre che da San Paolo, anche dagli evangelisti. Tutti e quattro, prima di ripercorrere la sua vicenda terrena, si aprono innanzitutto con uno sguardo sintetico su di lui, dichiarando immediatamente chi è Gesù in relazione all’unico Dio: Marco con il titolo programmatico - Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio - e con la proclamazione della figliolanza divina nel Battesimo di Gesù, Matteo con la genealogia - Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide - nella quale Gesù è presentato come il Messia ed il discendente davidico e subito dopo come l’Emmanuele, il Dio con noi - Luca con il cosiddetto Vangelo dell’infanzia - dove la nascita di Giovanni Battista, pur miracolosa, si manifesta come qualitativamente diversa da quella di Gesù chiamato Figlio di Dio, opera dello Spirito Santo - Giovanni con il Prologo - dove il Dio che nessuno ha mai visto, si rende visibile nel Logos che si fa carne.

[20] J. Ratzinger, La fede della Chiesa di Roma, Quaderni-Nuova Serie del Sinodo Romano, n. 2, Vicariato di Roma, 1993, pp. 67-73. Vedi più recentemente Benedetto XVI, Lettera ai seminaristi del 18/10/2010: «Ciò che chiamiamo dogmatica è il comprendere i singoli contenuti della fede nella loro unità, anzi, nella loro ultima semplicità: ogni singolo particolare è alla fine solo dispiegamento della fede nell’unico Dio, che si è manifestato e si manifesta a noi».

[21] H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, in Paradoxe et mystère de l’Église, Cerf, Paris 2010, p. 265.

[22] Dei Verbum, 2.

[23] La prospettiva di una presentazione sintetica del cuore della rivelazione è emersa sempre più nella riflessione teologica post-conciliare, come attestano, fra gli altri, Latourelle e Varillon. Il primo afferma: «Il disegno divino, espresso in termini di relazioni interpersonali, include i tre principali misteri del cristianesimo: Trinità, incarnazione, grazia» (R. Latourelle, Dei Verbum. Commento, in R. Latourelle - R. Fisichella (edd.), Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, p. 285). Varillon, dal canto suo, avvalora una simile impostazione: «La divinizzazione della persona non è possibile che tramite l’Incarnazione, e l’Incarnazione non è possibile se Dio non è Trinità. Tutto il resto, in un modo o nell’altro, deve ricondursi a questo. Dunque che si parli di peccato o di virtù cristiane, che si commenti questa o quella scena dell’Evangelo, questo essenziale è sempre sullo sfondo» (F. Varillon, Beauté du monde et souffrance des hommes: entretiens avec Charles Ehlinger, Le Centurion, Paris 1980, p. 115). Cfr. su questo anche M. Tibaldi, Kerygma e atto di fede nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, dove il kerygma è analizzato nel suo spessore cristologico, trinitario ed antropologico, oltre che ecclesiologico.

[24] Giovanni Paolo II, Ut unum sint, 20.

[25] Soprattutto CCC 50-165.

[26] Benedetto XVI, discorso al Convegno ecclesiale della diocesi di Roma dell’11/6/2007.

[27] Come è noto, il Simbolo degli Apostoli è attestato in maniera definita in Rufino, in latino, ed in Marcello di Ancira (nel 340 ca.) in greco, ma nella sua sostanza risale alla metà del II secolo, come sostengono giustamente gli storici che ne sottolineano lo sviluppo della parte cristologica in chiave anti-gnostica ed anti-docetista. Il CCC così lo presenta: «Il Simbolo degli Apostoli, così chiamato perché a buon diritto è ritenuto il riassunto fedele della fede degli Apostoli. È l’antico Simbolo battesimale della Chiesa di Roma. La sua grande autorità gli deriva da questo fatto: “È il Simbolo accolto dalla Chiesa di Roma, dove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, e dove egli portò l'espressione della fede comune” (Sant’Ambrogio, Explanatio Symboli, 7)» (CCC 194).

[28] Rispetto al Simbolo battesimale ed a quello degli Apostoli, il Credo niceno-costantinopolitano del 325 e 381 allarga le affermazioni cristologiche perché le eresie del tempo le ponevano in dubbio. È importante rilevare come proprio quegli ampliamenti manifestano che la vera novità cristiana è esattamente la piena manifestazione di Dio nella carne umana del Cristo, vero Dio e vero uomo.

[29] Così anche Benedetto XVI, nell’omelia alla spianata dell’Islinger Feld a Regensburg il 12/9/2006: «La Chiesa […] ci offre una piccolissima ‘Somma’, nella quale tutto l’essenziale è espresso: è il cosiddetto ‘Credo degli Apostoli’. […] nella sua concezione, di fondo il Credo è composto solo di tre parti principali e, secondo la sua storia, non è nient’altro che un’amplificazione della formula battesimale che lo stesso Signore risorto consegnò ai discepoli per tutti i tempi […] In questa visione si dimostrano due cose: la fede è semplice. […] Come seconda cosa possiamo constatare: il Credo non è un insieme di sentenze, una teoria. È, appunto, ancorato all’evento del Battesimo, a un evento di incontro tra Dio e l’uomo».

[30] H. U. von Balthasar, Il Credo. Meditazioni sul Simbolo Apostolico, Jaca Book, Milano, 1991, p. 31.

[31] G.K. Chesterton, L’uomo eterno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 281-282.

[32] Sant’Atanasio di Alessandria è uno dei grandi difensori della divinità di Cristo contro Ario che lo riteneva solo una creatura.

[33] G.K. Chesterton, Perché sono cattolico e altri scritti, Gribaudi, Milano 2002, pp. 10-12.

[34] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, p. 26. Così afferma, in proposito, il Direttorio generale per la catechesi, 128: «La catechesi trasmette il contenuto della Parola di Dio secondo le due modalità con cuila Chiesa lo possiede, lo interiorizza e lo vive: come narrazione della Storia della Salvezza e come esplicitazione del Simbolo della fede.La Sacra Scrittura e il CCCdebbono ispirare tanto la catechesi biblica quanto la catechesi dottrinale, che veicolano questo contenuto della Parola di Dio».

[35] Nella relazione dal titolo Transmission de la Foi et sources de la Foi tenuta a Lione e a Parigi e successivamente pubblicata in J. Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della catechesi, Piemme, Casale Monferrato 1985 e disponibile in traduzione riveduta on-line al link http://www.gliscritti.it/approf/2009/conferenze/ratzinger020209.htm.

[36] San Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo.

[37] Dei Verbum, 5.

[38] U. Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann 1967, p. 234.

[39] J. Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della catechesi, Piemme, Casale Monferrato 1985.

[40] Dei Verbum 3.

[41] CCC 54-64.

[42] S. Cavalletti, Il potenziale religioso dei bambini tra i 6 e i 12 anni. Descrizione di una esperienza, Città nuova, Roma 1996, pp. 47-48.

[43] La tipologia non è solo metodologicamente determinante per una corretta ermeneutica biblica, ma è anche decisiva per un adeguato utilizzo della Bibbia nella maturazione della fede.

[44] CCC 142.

[45] Dei Verbum, 5.

[46] CCC 142-145.

[47] Benedetto XVI, Deus caritas est, 1.

[48] Agostino d’Ippona, De Trinitate 13, 2, 5.

[49] Aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur.

[50] Citato in CCC 150.

[51] Catechismo Romano, Prefazione 11. Già Sant’Agostino, riflettendo sulla catechesi, aveva scritto: «Indubbiamente in tutte le cose non solo occorre che non perdiamo di vista il fine del precetto, vale a dire la carità che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (ad esso dobbiamo ricondurre tutto ciò che diciamo), ma occorre pure che verso quel medesimo precetto sia avviato e diretto lo sguardo di colui che ammaestriamo con la parola. Non per altro, infatti, tutto quello che leggiamo nelle Sacre Scritture è stato scritto, prima della venuta del Signore, se non per assicurare la sua venuta e per prefigurare la Chiesa futura, cioè il popolo di Dio in mezzo a tutte le genti, che è il suo corpo. […] Ora, qual è il motivo più grande della venuta del Signore se non quello di mostrare da parte di Dio l’amore che ha per noi, raccomandandocelo sommamente? Perché mentre eravamo ancora suoi nemici, Cristo è morto per noi. E perciò fine del precetto e pienezza della legge è la carità, così che pure noi ci amiamo l’un l’altro e, come egli ha dato la propria vita per noi, anche noi diamo la nostra per i fratelli; se un tempo si provava riluttanza ad amarlo, almeno ora non la si deve più provare nel rendere l’amore a quel Dio che per primo ci ha amati e non ha risparmiato il suo unico Figlio, ma lo ha dato per noi tutti» (De catechizandis rudibus 3.6; 4.7).

[52] CCC 25.

[53] Colletta della XX domenica del Tempo ordinario.

[54] C. Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù.

[55] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo Millennio ineunte (6 gennaio 2001), 50: AAS 93 (2001), 303. 

[56] Evangelii Gaudium 199.

[57] Evangelii Gaudium 85.

[58] «Fides si non cogitetur, nulla est» (Sant’Agostino, De praedestinatione sanctorum, II, 5).

[59] Benedetto XVI, discorso ai partecipanti al Convegno ecclesiale di Verona, 19/10/2006.

[60] Su questo cfr. R. Latourelle, Nuova immagine della fondamentale, in R. Latourelle – G. O’Collins (edd.), Problemi e prospettive di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1980, pp. 59-84, dove afferma che i due aspetti della teologia fondamentale, cioè la rivelazione e la sua credibilità, «sono un blocco unico: la credibilità-della-rivelazione-di-Dio-in-Gesù-Cristo» (p. 79).

[61] CCC 166.

[62] J. Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 55-74.

[63] Sant’Agostino afferma, infatti: «I bambini sono presentati per ricevere la grazia spirituale, non tanto da coloro che li portano sulle braccia (benché anche da essi, se sono buoni fedeli), quanto dalla società universale dei santi e dei fedeli... È tutta la madre chiesa dei santi che agisce, poiché essa tutta intera genera tutti e ciascuno» (Sant’Agostino, Epist. 98, 5).

[64] Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 1, 10, 1-2, in CCC 173-174.

[65] Come ha sottolineato l’allora cardinale Ratzinger: «Nella lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa come comunione (Congregazione per la Dottrina della fede, 28 giugno 1992) troviamo il principio che la Chiesa universale (ecclesia universalis) è, nel suo mistero essenziale, una realtà che precede, ontologicamente e temporalmente, le singole Chiese locali [...] Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente e crea la Chiesa locale. Su questa base la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede può affermare che non ci sono stranieri nella Chiesa. Chiunque al suo interno è a casa sua dappertutto [...] Chiunque battezzato nella Chiesa a Berlino è sempre a casa sua a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o dovunque, come se fosse stato battezzato lì. Lui o lei non deve compilare un certificato con il cambio di residenza, è una e la stessa Chiesa. Il battesimo nasce da essa e ci consegna (dà alla luce) ad essa» (J. Ratzinger, in «America», n. 19/11/2001).

[66] Lumen fidei 46.

[67] Lo sottolineava l’allora cardinale Ratzinger: «Il catecumenato della Chiesa primitiva ha raccolto gli elementi fondamentali a partire dalla Scrittura: sono la fede, i sacramenti, i comandamenti, il Padre Nostro. In modo corrispondente esisteva la redditio symboli - la consegna della professione di fede e la sua “redditio”, la memorizzazione da parte del battezzando -, l’apprendimento del Padre Nostro, l’insegnamento morale e la catechesi mistagogica, vale a dire l’introduzione alla vita sacramentale. Tutto ciò appare forse un po’ superficiale, ma invece conduce alla profondità dell’essenziale: per essere cristiani, si deve credere; si deve apprendere il modo di vivere cristiano, per così dire lo stile di vita cristiano; si deve essere in grado di pregare da cristiani e si deve infine accedere ai misteri e alla liturgia della Chiesa. Tutti e quattro questi elementi appartengono intimamente l’uno all’altro» (J. Ratzinger, Il CCC e l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma 1994, pp. 26-27).

[68] L’allora cardinale Ratzinger ha scritto in proposito: «Il Catechismo non procede [...] in maniera semplicemente deduttiva, perché la storia della fede è una realtà di questo mondo e ha creato la propria esperienza. Il Catechismo parte da essa e quindi ascolta il Signore e la sua Chiesa» (J. Ratzinger, Il CCCe l’ottimismo dei redenti, in J. Ratzinger - Ch. Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma 1994, p. 20).

[69] Evangelii Gaudium 160-162.