Piccola archeologia della fiducia, di Bernhard Casper

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /01 /2014 - 14:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un testo di Bernhard Casper, tradotto dall’originale tedesco apparso in Das prisma. Beiträge zu Pastoral, Katechese und Theologie 1/2013,21-23 (Verlag Neue Stadt). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2014)

Fare archeologia significa scavare per trovare qualcosa che per noi è importante e che non conosciamo più perché è rimasto sepolto. Lo si può fare anche nel caso di ciò che è importante per la nostra natura umana e che conosciamo solo in modo superficiale o vago.

A volte in questo possono aiutarci i bambini, poiché a costoro sono spesso accessibili in forma più originaria esperienze che a noi adulti sono state nuovamente precluse da ciò che si è aggiunto e sovrapposto in seguito.

Riguardo alla questione di che cosa significhi davvero “fidarsi”, ossia, per dirla con Klaus Hemmerle, “Fidarsi, come funziona?”, poco tempo fa mi ha molto aiutato Amadeo, il figlioletto di tre anni di un amico argentino. Egli infatti rivelò al suo papà di aver capito che cosa chiede davvero al buon Dio quando, recitando il Padre nostro insieme ai genitori e alla sorella, dice: “E non ci indurre in tentazione - no nos dejes caer en la tentación”. Amadeo disse al papà: “Prego Dio che faccia con me quello che fai tu quando tento di andare in bicicletta senza le rotelle e tu mi corri dietro in modo che io non cada”. Letteralmente la richiesta può essere tradotta dalla versione spagnola del Padre nostro con “Non lasciarci (dejes) cadere (caer) – en la tentación”. Che cosa significa cadere, Amadeo lo sapeva molto bene. A dire il vero lui non conosceva ancora la parola “tentazione” nel significato con cui la utilizziamo noi adulti. Grazie all’incoraggiamento materno e paterno “Dai, tenta! Prova!” conosceva però il verbo “tentare”, da cui deriva il sostantivo “tentazione”. Di per sé egli ha pertanto interpretato del tutto correttamente la richiesta del Padre nostro, ma in un modo per noi certamente inusuale.

Gli esegeti potrebbero naturalmente esprimere delle perplessità sul fatto che nel tradurre in spagnolo la preghiera del Padre nostro, che in Mt 6,13 leggiamo solo in greco (e non nella lingua in cui la pronunciò Gesù stesso), non sia stato utilizzato l’“indurre in…”, che corrisponde esattamente al testo greco, ma “lasciar cadere… [dejar caer] en la tentación”. Lo spagnolo “dejar” deriva dal latino “laxare” e corrisponde all’italiano “lasciare” e al tedesco “lassen”. “Non lasciare…” pone pertanto l’accento su un altro campo semantico rispetto a “indurre in…”. La traduzione spagnola ha pur sempre ottenuto il “nihil obstat” ecclesiastico.

Nell’interpretazione data dal piccolo Amadeo essa può fare piena luce su che cosa significa l’accadimento della fiducia nel suo verificarsi originario e del tutto reale, nel suo “come funziona”.

Nell’espressione “Prego Dio perché faccia con me quello che fai tu quando mi corri dietro in modo che io non cada, quando tento di andare in bicicletta senza le rotelle”, poniamo innanzitutto attenzione al fatto che la fiducia nel suo accadere pieno e originario non consiste semplicemente in un atto compiuto isolatamente da un singolo. Essa ha sempre bisogno per lo meno di due “soggetti”. Essa avviene tra due, considerati in quanto se stessi. Essa può avvenire, per riprendere un’espressione di Husserl tratta dalla sua famosa Quinta meditazione cartesiana, solo “appaiata”. E non può essere semplicemente stabilita in modo puntuale. Essa diviene invece reale come un tempo vissuto tra due, per il cui effettivo accadere l’uno è tanto necessario quanto l’altro.

In questo accadere l’uno e l’altro si prendono reciprocamente sul serio in quanto se stessi. Si credono reciprocamente capaci di qualcosa in quanto se stessi. Non si può avere fiducia in un altro se non lo si considera capace di qualcosa, cioè se costui non mi prende davvero del tutto sul serio nella positività della mia libertà, e invece ha un’alta stima di me ad esempio solo perché gli sono utile per un preciso scopo. Per Amadeo l’esperienza originaria dell’accadimento del potersi-fidare era legata in modo essenziale con il fatto che lo si considerava capace di fare qualcosa in quanto se stesso, con il fatto che lo si prendeva sul serio in quanto se stesso, in quanto colui che ora era in grado lui stesso di fare qualcosa; e tale esperienza era però legata con il fatto che il papà allo stesso tempo non lo lasciava solo in questo “azzardato essere-se-stesso”. Se abbiamo fiducia in qualcuno in quanto se stesso, lo crediamo sempre capace del suo futuro, che non possiamo anticipare e pertanto è sottratto a tutto il nostro poter-fare. E tuttavia allo stesso tempo gli stiamo vicini. Non lo lasciamo solo, pensando: “Stiamo a vedere dove vai a parare in questo modo”. Liberandolo a se stesso, gli stiamo invece vicini come suo “ostaggio”, per utilizzare qui il famoso termine di Lévinas.

L’accadimento di questa fiducia reciproca è perciò anche un accadimento paradossale, nell’orizzonte di una ragione calcolante. Perché nessuno dei due che in tal modo sono legati insieme nell’accadimento della fiducia può anticipare la fine di questa storia, il “che cosa ne viene fuori”, oppure disporne come di un prodotto che si può anticipare e pianificare in modo calcolato, in un processo di produzione delimitato per il quale si può magari forse avere bisogno di un altro come collaboratore, ad esempio a motivo delle sue conoscenze. Si mostra invece l’accadimento della fiducia, in cui due o più si fidano reciprocamente in quanto se stessi, in quanto evento infinitamente aperto. Questo accadimento ci porta, come ancora Levinas ha mostrato, in una “infinizione”, cioè in definitiva al rapporto con un «Sì» assolutamente incondizionato, che oltrepassa tutto il nostro umano potere.

Ci porta, per tornare di nuovo al linguaggio biblico, al rapporto vissuto con l’“Io Sono” (Es 3,14), che è sempre presente al cospetto della libertà azzardata di noi stessi e ci considera capaci di essa, e di fronte alla quale però non ci lascia soli. “Non ti lascerò né ti abbandonerò” (Gs 1,5). Tra Lui, che ci vuole nella nostra libertà, e noi, avviene di fatto ciò che è accaduto tra il papà e Amadeo. L’“Io Sono” fa con noi ciò che il papà ha fatto con Amadeo. Lui ci corre dietro e ci sta vicino, anche se i nostri occhi non lo vedono. E nella corsa ci anticipa, invitandoci, così come anche il papà talvolta ha fatto con Amadeo. Perché per Lui “ieri” e “ora” e “domani” sono solo un unico “oggi”. Per questo ci è permesso di avere fiducia, e di averla l’uno per l’altro.

Proprio per questo tuttavia non si può “fabbricare” la fiducia nel suo senso ultimo, nemmeno mediante singoli “provvedimenti rassicuranti”, per quanto bene intenzionati e forse davvero necessari. Il suo accadere nel suo senso più fondante oltrepassa infatti ogni scopo finito.

Per questo inoltre si può solo chiedere all’altro la sua fiducia. Non la si può esigere da lui. Il fatto che essa si realizzi è grazia e dono.

Si deve pregare il Fondamento ultimo di tutto il nostro poterci-fidare, affinché la fiducia accada. E forse poi si può anche fare qualcosa affinché la fiducia accada tra noi.