Vuoi fare il medico? Parlami di Chomsky, di Giorgio Israel

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /04 /2014 - 14:08 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Il Mattino dell’8/4/2014 un articolo di Giorgio Israel. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Educazione e scuola nella sezione Catechesi, scuola e famiglia. Per altri articoli dello stesso autore, cfr. il tag giorgio_israel.

Il Centro culturale Gli scritti (13/4/2014)

Se si facesse un sondaggio entro un campione qualsivoglia di persone sulla figura del medico ideale si raggiungerebbe facilmente l’unanimità. Chi non vorrebbe che un buon medico sia innanzitutto appassionato alla sua disciplina e dedito ad approfondirne continuamente i molteplici aspetti? Chi non pensa che un buon medico debba essere soprattutto una persona riflessiva, che ascolta e medita, e compone insieme con prudenza i tanti aspetti delicati che intervengono nella formulazione di una buona diagnosi e di una terapia efficace? Chi potrebbe non desiderare che il proprio medico sia una persona colta e consapevole di operare nell’ambito forse più complesso che esista, in cui intervengono disparate forme di conoscenza scientifica, capacità pratiche e psicologiche e doti umane? La medicina non è semplicemente una scienza – diceva un grande medico – è molto di più: è una sintesi di scienza, tecnica e arte. Per questo, la selezione dei futuri medici è un atto di responsabilità enorme, visto che riguarda un settore strategico nella vita della comunità nazionale.

La verifica dell’esistenza delle doti necessarie a esercitare una professione tanto difficile e tanto importante, è un’operazione delicata che non può che essere fatta sul terreno specifico. Per questo, e giustamente, in Francia non esiste un numero chiuso per l’accesso alle facoltà di medicina, bensì un concorso a numero chiuso durante il primo anno di corso, diviso in due parti, alla fine del primo e del secondo semestre. E, manco a dirlo, verte sulle materie studiate: biologia, embriologia, istologia, anatomia, farmacologia, chimica, incluse discipline umane e sociali. Lo si può ripetere due volte e, alla fine soltanto il 15-20% degli studenti lo supera.

Da noi, invece, si procede con un test selettivo di accesso, addirittura molto prima del conseguimento della maturità: ormai in Italia trionfa la selezione ex-ante e mai ex-post. Ovviamente, la selezione ex-ante non può vertere sulle materie che saranno studiate, e quindi deve ridursi a “misurare” le generiche “abilità” del soggetto in ambito logico, aritmetico, nozionistico, ecc. Inevitabilmente ne viene fuori l’ennesima pagliacciata, per quanto grandi siano gli sforzi delle persone che si prestano ad arzigogolare le domande dei quiz. Ancora si conoscono soltanto spezzoni delle domande di questa tornata, ma il poco che emerge fa cascare le braccia.

A quanto pare si è deciso che un prerequisito per essere un buon medico sia di essere un conoscitore delle opere di Hobsbawm e di Chomsky: ogni preferenza è lecita, difatti conosco eccellenti medici che li ignorano con buone motivazioni e sarebbero bocciati perché invece di Hobsbawm leggono François Furet. Sembra che un altro prerequisito sia di conoscere la normativa per cambiare un articolo della costituzione. All’inizio abbiamo tentato di elencare le qualità di un buon medico: non penso che tra queste rientri la capacità di calcolare quanti km percorre una signora che prima corre per n minuti e poi cammina per altri m ripetendo questo ciclo per un certo numero di volte; né la capacità di calcolare il numero di caramelle vinte in un gioco a carte di bambini.

Poi c’è il solito contorno di domande di logica che, inevitabilmente, si riducono a quesiti di carattere formale più facilmente risolvibili da un patito di rompicapo e di sudoku, il quale può rivelarsi un perfetto incapace o peggio, di fronte ai ragionamenti complessi richiesti in un processo diagnostico. Difatti, quel che non si vuol capire è che nella maggior parte delle professioni difficili non è la velocità il requisito più importante – l’unica cosa che riescono a misurare i test – ma la capacità di mettere in opera in modo competente e meditato una profonda conoscenza delle questioni in gioco.

Mentre arrivano le notizie dei test di medicina, veniamo investiti dall’annuncio della solita ricerca sull’importanza della valutazione, accompagnato dal solito appello a «superare le sterili contrapposizioni tra sostenitori e detrattori dell’uso dei test», superamento che –  manco a dirlo – consiste nell’accettare la modalità dei test. D’altra parte, arriva la notizia che il solito funzionario ministeriale ha annunciato (in nome dell’autorità che promana dal suo ruolo di burocrate) che l’introduzione per legge del Clil (Content and language integrated learning) in tutti i licei e gli istituti tecnici, ovvero l’insegnamento di una materia tutto in lingua straniera, servirà a trasformare la scuola in un luogo in cui «non s’insegnano più materie ma abilità».

Insomma, volenti o nolenti, per via buro-tecnocratica, si sta imponendo la distruzione delle competenze disciplinari a favore di generiche “abilità”. Il buon senso fa desiderare un medico competente nelle discipline che intervengono nella sua professione. Al bando il buon senso: la società va messa in mano ai “genericamente abili”. Così, da queste mediocri vicende emerge l’unica vera drammatica questione nazionale: l’assoluta incapacità di affrontare in modo sensato la questione del merito.

Tutti i giorni, fino alla nausea, veniamo investiti dalla parola d’ordine “largo al merito” e dagli slogan sulla “meritocrazia”. Ma la tragedia è che si è smarrito il senso autentico di queste parole. Non ci si rende più conto del fatto elementare che merito significa competenza, e competenza significa conoscenze specifiche, di contenuto, disciplinari – beninteso, continuamente vivificate da un’attività sul campo, lo sappiamo, ci si faccia grazia di dover ripetere questa giaculatoria. Competenza significa cultura – altra parola abusata di cui stiamo perdendo il senso. Non significa generica capacità di trafficare tra le nozioni più disparate e di cavarsela zigzagando in velocità tra i trabocchetti fabbricati nei lugubri corridoi dei burocrati e degli “esperti”.