La sapienza dono dello Spirito, di Rino Fisichella

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /07 /2014 - 14:47 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito di Avvenire la predica sul dono della Sapienza tenuta da mons. Rino Fisichella per il Festival di Spoleto nel corso delle Prediche sui sette doni dello Spirito, il 28/6/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2014)

È possibile trovare per la prima volta il riferimento ai doni dello Spirito Santo, nel libro del profeta Isaia. Dopo aver riferito del giudizio di Dio contro il re di Assiria che tiene schiavo Israele, il profeta annuncia la rinascita del popolo se si convertirà al Signore.

Profetizza che tornerà in patria un “piccolo resto” (cfr Is 10,20-23), e sarà guidato dall’unto del Signore. L’oracolo di Isaia si apre in questa occasione ai toni più belli e caldi della poesia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalla sue radici” (Is 11,1). Lo sguardo del profeta, comunque, corre lontano. Egli annuncia la venuta del messia come compimento della promessa di Dio di salvare il suo popolo.

Le caratteristiche dell’Unto sono descritte da Isaia con le note peculiari del dono profetico: “Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e intelletto , spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e del timore del Signore” (Is 11,2).

I sei termini in questione non fanno altro che delineare l’agire del futuro re e il programma del suo regno. Egli sarà sapiente e intelligente, cioè competente nelle questioni che riguardano il governo e la capacità di discernere le doti delle persone di cui dovrà circondarsi. Il consiglio e la fortezza richiamano alla capacità di programmare l’azione politica e militare e quindi di saperla mettere in pratica in modo adeguato. Da ultimo, si fa riferimento alle doti che indicano il limite di ogni azione umana senza la potenza che viene solo da Dio. Conoscere se stessi per comprendere di avere bisogno di Dio. Affidarsi a lui e compiere la sua volontà per essere sicuri di giungere a buon fine.

Gli autori sacri del Nuovo testamento hanno avuto facile compito nell’identificare questo discendente di David con Gesù di Nazareth, il messia definitivo, il Figlio di Dio, che portava con sé il compimento di ogni promessa salvifica, perché ricolmo dello Spirito fin dal grembo della madre.

Più volte Gesù ha parlato ai suoi discepoli dello Spirito Santo. Soprattutto nei così chiamati “discorsi di addio” il suo insegnamento tocca questo tema in maniera del tutto particolare. Commenta l’evangelista Giovanni che Gesù sapendo che presto avrebbe lasciato questo mondo per ritornare al Padre, disse ai suoi discepoli che non li avrebbe mai lasciati soli. La promessa di donare loro lo Spirito è unita ad alcune descrizioni particolari.

La prima, la possiamo indicare come la vicinanza di Dio nella vita dei discepoli. Il termine usato da Gesù per identificare lo Spirito Santo, è quello di “Paraclito”. E’ interessante la genesi del termine. Esso indica certamente “colui che intercede” , che è “avvocato” presso qualcuno, e che “consola”. L’origine semantica del termine, comunque, ha una valenza più profonda e un senso più suggestivo. Essa sorge per indicare la vicinanza di qualcuno che viene a dare aiuto.

Gesù quindi promette anzitutto lo Spirito Santo come garanzia della sua vicinanza dinanzi alle difficoltà in cui i suoi discepoli potrebbero trovarsi. “Egli sarà con voi e in voi” (Gv 14,17) è l’espressione di intimità con la quale Gesù ha voluto esprimere questo suo dono.

Una seconda indicazione viene data dal Signore affermando che lo Spirito Santo avrebbe condotto i discepoli alla “verità tutta intera” (Gv 16,13). È in questo contesto più specifico, quindi, che è possibile inserire la menzione della sapienza come caratteristica del sostegno dello Spirito Santo.

La sapienza, dunque, è legata allo Spirito che ne fa dono ai credenti per raggiungere la conoscenza sempre più profonda e coerente della verità. Siamo inseriti, pertanto, nell’orizzonte della ricerca e dell’intelligenza della verità.

Confrontarsi oggi con il tema della verità, tuttavia, è un’impresa ardua. Saremo considerati immediatamente fuori moda. Di quale verità vogliamo parlare? Esiste davvero una verità verso cui essere orientati? In un periodo di profondo secolarismo che ha intaccato come suo primo obiettivo proprio la verità, non rischiamo di rimanere impelagati in un dibattito senza via d’uscita?

Eppure, la debolezza di cui siamo vittime - soprattutto nella teologia e quindi nella presentazione della fede - è di pensare alla verità come a una questione teorica che nulla ha a che vedere con l’esistenza personale. La verità di cui noi parliamo, però, è proprio in riferimento alla vita personale e sociale. Ciò su cui siamo chiamati a esprimerci non è teoria, ma vita. È questo, probabilmente, il dramma che viviamo.

L’antico richiamo di Orazio: “Sapere aude”, fu dimenticato per secoli, fino a quando risuonò di nuovo nel grido di Kant: “Sapere aude!”. Abbi sempre il coraggio di conoscere! Tutti noi siamo figli di questa modernità, sorta nell’orizzonte del desiderio e della passione per la verità.

E, tuttavia, è triste notare che lentamente, ma inesorabilmente, siamo diventati passivi, indifferenti e, alla fine, incapaci di quell’osare che rende la vita genuina e autentica perché “personale”. Il desiderio di conoscere si affievolisce per il subentrare potente della memoria informatica che si sostituisce alla ricerca.

La stessa ricerca sembra perfino inutile perché appena si tenta di porre l’interrogativo, la macchina ti anticipa, proponendo la risposta su misura. Ciò che sperimentiamo, paradossalmente, è un periodo di stanchezza e di povertà. Premessa per una cultura dell’indifferenza che si fa forte della convinzione nietzschiana secondo la quale non solo non esiste una sola verità, ma noi non siamo più neppure in grado di poterla raggiungere.

È venuta meno la fiducia nella verità e lo scetticismo è subentrato alla possibilità dell’uomo di poterla conoscere .

Si preferisce sempre più sottacere le differenze, si cerca in tutti i modi di correre verso il senso popolare più diffuso per accarezzare il sentire comune, si lasciano in ombra i veri problemi che potrebbero creare conflitti e si impone di smussare gli angoli ovviamente troppo spigolosi di chi intende portare la sua verità.

Questa condizione miete vittime soprattutto tra le giovani generazioni, prive ormai di profondità culturale, che abbandonati a un’arbitrarietà sentimentale improvvisata, fanno di questa il loro criterio di giudizio. Non è immune da questa situazione neppure la religione. Anzi, essa ne soffre ancora di più per via del controllo del linguaggio che si esercita sui suoi interventi oppure per la tragedia delle forme di fondamentalismo che ne intaccano la credibilità.

Insomma, il nostro non sembra essere proprio il tempo migliore per parlare della verità. Senza verità, però, la vita dell’uomo sarebbe triste, impersonale, incapace cioè di accedere alla risposta circa la domanda di senso sulla propria esistenza. La stessa vita sociale, inoltre, sarebbe sempre più vittima del sopruso e della prepotenza del più forte o del più potente sul debole, facendo scomparire il primato dell’uguaglianza e della dignità. Senza verità, l’uomo non è più tale e l’umanità perisce.

Noi credenti non potremmo vivere in questa condizione. Ne va della credibilità del cristianesimo e della libertà della nostra scelta di fede. La verità ha degli obblighi a cui non ci si può sottrarre.

Per noi non è solo questione di dire la verità, ma di vivere nella verità, rendendola presente nei nostri comportamenti e stili di vita. Alla fine, la vera sfida è questa: come presentare al nostro contemporaneo la verità del cristianesimo in modo coerente con il suo contenuto, ma con un linguaggio accessibile e comprensibile alle nuove espressioni culturali.

La risposta più coerente all’interrogativo la offre l’apostolo Paolo: “ἀληθεύοντες ἐν ἀγάπη” (Ef 4,15). Espressione di per sé intraducibile. Il sostantivo “verità” è stato trasformato in un verbo! Non abbiamo un parallelo con l’italiano; dovremmo dire “veritare”, ma non significa nulla. Per questo si deve ricorrere a una parafrasi: “dire la verità”, ma meglio ancora si dovrebbe dire: “fare la verità”, oppure “essere la verità” nell’amore.

Pur nella difficoltà dell’ermeneutica, il senso del pensiero dell’apostolo giunge chiaro: la verità non è inserita in uno spazio vuoto, privo di ogni senso. Essa è tale nella misura in cui è rivolta a una persona. Si compie quando provoca l’altro e quando lo spinge a compiere delle scelte corrispondenti. Perché la verità sia una cosa viva, quindi, ha bisogno dell’amore. Essa vive nell’amore e si costruisce solo nell’amore. Insomma, è un amore per la verità e una verità nell’amore ciò che dà senso all’esistenza e che permette ad ognuno di realizzare una vita personale.

Tutto questo, alla fine, non ha altro nome che quello di “sapienza”. La sapienza si inserisce all’interno di questo spazio e la si comprende nella misura in cui è orientata a conoscere la verità, a costruirla e a viverla.

Ecco perché risulta essere dono dello Spirito. È lo Spirito di Amore che genera nei credenti la passione per la verità come un essere esperti nell’arte dell’amore. Paradossale, eppure vero. Il sapiente è l’esperto nell’amore per la verità e in quanto esprime la verità nell’amore. Una circolarità che contribuisce a dare il senso completo a un dono vero e reale, come presenza e vicinanza di Dio a chi crede in lui.

La semantica del termine evidenzia un’origine molto antica. Ne abbiamo i primi segnali nel VI sec. a.C. per indicare una qualità della persona, non una sua attività. Solo in epoca più moderna il significato viene traslato per esprimere un’attività teoretica e intellettuale.

Se la vera sapienza presso Socrate era quella della consapevolezza di non sapere nulla, negli autori successivi con Platone e Aristotele essa è individuata come la qualità specifica del filosofo saggio che percepisce la bellezza e la bontà della divinità.

La sapienza, in ogni caso, è riservata agli dei. Mentre i filosofi antichi, quindi, ritenevano che la sapienza appartenesse a loro in forza della speculazione intellettuale, l’Antico Testamento inserisce un’ulteriore specificazione. Il sapiente è piuttosto l’uomo prudente e ponderato che sa trovare una soluzione ai grandi problemi della vita. Egli è capace di far fronte a queste difficoltà e a imporsi su di esse perché fa propria la conoscenza ricevuta dalla tradizione dei Padri e dalla fede nel Signore.

In questo senso si possono rileggere alcune pagine significative della Bibbia, proprio in quei libri che chiamati appunto “sapienziali”.

“La Sapienzaforse non chiama e la prudenza non fa udir la voce?... Io, la Sapienza, possiedo la prudenza e ho la scienza e la riflessione... A me appartiene il consiglio e il buon senso... Io amo coloro che mi amano e quelli che mi cercano mi troveranno... Il Signore mi ha creato all'inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, fin d'allora. Dall'eternità sono stata costituita, fin dal principio, dagli inizi della terra... Ora, figli, ascoltatemi: beati quelli che seguono le mie vie!... Infatti, chi trova me trova la vita” (Prov 8,1.12.14.17.22-23.32.35).

Come si nota da questa breve citazione, la Sapienza è personificata. Essa permette a chi si fa suo discepolo di comprendere il grande mistero della vita perché tutto viene riportato all’azione creatrice di Dio.

È in questo contesto che si sviluppa la concezione della sapienza come dono di Dio. Certo, l’uomo attraverso l’esperienza, l’istruzione e attingendo alla tradizione dei padri giunge alla saggezza. Comunque, ciò che consente di tenere unite queste espressioni è frutto del dono Dio. Egli lo realizza con lo scopo di rendere partecipe alcune persone di ciò che lui stesso possiede, per abilitarle a svolgere un ruolo particolare nella storia del popolo.

È così, ad esempio, per Giuseppe che dopo aver spiegato al Faraone il sogno si sente dire: “Potremo trovare un uomo come questo, in cui sia lo spirito di Dio?... Dal momento che Dio ti ha manifestato tutto questo, nessuno è intelligente e saggio come te” (Gen 41,38-39). La stessa idea si ritrova nel caso di Giosuè: “Giosuè, figlio di Nun, era pieno dello spirito di saggezza, perché Mosè aveva imposto le mani su di lui; gli Israeliti gli obbedirono e fecero quello che il Signore aveva comandato a Mosè” (Deut 34,9).

Certamente, più conosciuto è il caso di Salomone la cui saggezza diventa proverbiale. In sogno, davanti alla richiesta del Signore di esprimere un desiderio perché lo avrebbe esaudito, il giovane Salomone si espresse così: “Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male. Al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare. Dio gli disse: ‘Perché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te né una lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento per ascoltare le cause, ecco faccio come tu hai detto. Ecco, ti concedo un cuore saggio e intelligente: come te non ci fu alcuno prima di te né sorgerà dopo di te’” (1 Re 3,9-12).

Questa sapienza che renderà Salomone conosciuto fino ai nostri giorni è comunque frutto della preghiera di intercessione per poterla ottenere da Dio. È lui, infatti, che la possiede e la elargisce per il bene di tutti e per il compimento del suo piano di salvezza.

Giungiamo così al Nuovo Testamento. Fin dall’inizio il bambino Gesù viene descritto come colui che cresceva e si fortificava “pieno di sapienza” (Lc 2,40).

Mentre cresce in saggezza, il suo insegnamento è esposto alla curiosità dei contemporanei che si chiedono: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?” (Mc 6,2).

Come si nota, l’interrogativo della gente spinge a interpretare la sapienza in un orizzonte più ampio. Essa non è conseguenza di una conquista umana, frutto dello studio e dell’apprendimento della Legge, ma è riportata al mistero stesso dell’incarnazione del Figlio di Dio. La folla si ferma a vedere in Gesù solo il figlio del carpentiere; e non riesce ad andare oltre. La sapienza che egli esprime è rifiutata perché non riconoscono in lui il Figlio di Dio e la rivelazione che esprime con l’insegnamento e la sua vita.

È necessario, comunque, ritornare all’evangelista Giovanni per comprendere a pieno la visione cristiana della sapienza. Più direttamente si può fare riferimento alle parole di Gesù quando dice: “Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,25-25).

L’invio dello Spirito dopo la risurrezione, ha il compito di mantenere impresse nella mente dei discepoli le parole e l’agire del Maestro. Egli sarà la memoria viva della sua Parola, favorendone la comprensione più profonda, coerente e veritiera.

Spesso la Parola del Signore è enigmatica, difficile da comprendere e impenetrabile nel suo senso più profondo. Solo il dono dello Spirito permetterà ai suoi discepoli nel corso dei secoli di giungere alla visione globale dell’insegnamento di Gesù. Anche lo Spirito Santo quindi insegna. Il dono che egli porta con la sua presenza è appunto la sapienza divina che permette di mantenere viva la stessa rivelazione.

Un compito fondamentale spetta ora ai discepoli. La sapienza di cui sono portatori non li abilita a esporre una nuova dottrina né un insegnamento diverso da quello dato da Gesù. Ciò sarebbe impossibile e non potrebbe venire dallo Spirito. Egli, infatti, insegna tutto ciò che Gesù ha espresso, e non fa che continuare la sua rivelazione. Non solo. Lo Spirito non permette che la comunità dei discepoli possa deviare da quella verità. Se questo avvenisse, sarebbe “eresia”, cioè una scelta diversa, come dice il termine greco αἵρεσις, non conforme all’insegnamento originario. Non più la sapienza, pertanto, sarebbe il frutto visibile della vicinanza dello Spirito di Cristo Risorto, ma la divisione opera del maligno.

I primi cristiani avevano ben compreso l’importanza del dono di Cristo. Erano ben coscienti che al dono dello Spirito da parte di Dio, doveva corrispondere la loro apertura a riceverlo in tutta obbedienza e disponibilità per divenire in mezzo agli uomini segno della sua presenza. La lettera dell’evangelista conferma questa prospettiva: “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato... Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito” (1 Gv 3,24.4,13).

Le due espressioni non fanno che confermare quanto la comunità comprendeva e sperimentava come un dato di fatto nella sua vita quotidiana: il dono dello Spirito Santo non è una conquista, né una pretesa che si può avanzare dinanzi a lui, ma un agire primario di Dio che evidenzia in questo modo il suo amore.

La ricezione totale da parte dei discepoli non fa che mostrare la grandezza della gratuità con cui lo Spirito viene profuso nei cuori dei credenti.

Egli permane nella vita dei credenti come la forza che garantisce il permanere nella verità di Gesù Cristo. La parola di Dio, insomma, fino alla fine dei tempi avrà come sua nota caratteristica l’inesauribilità della sua verità. Mai potremo cogliere in pienezza la verità contenuta nel suo insegnamento. Ogni volta esso sarà sempre nuovo per quanti vi si accostano per ricercare la verità sulla propria vita.

Permangono con la loro originalità e attualità le parole del santo diacono Efrem, dottore della Chiesa:

Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto di più ciò che sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono a una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre.

Dopo essersi arricchito nella parola non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la sua immensità . Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece, saziandoti, tu seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura.

Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza.

Non avere l'impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po' alla volta”.

Una parola sintetica che attualizza il valore della sapienza la possiamo trovare in un testo antico. Si tratta del Libro di Enoch – un testo apocrifo del I sec. a.C. - dove si trova scritto: “Poiché la sapienza non trovò alcun luogo dove dimorare, le fu concessa una dimora nei cieli. Quando la sapienza venne per dimorare tra i figli degli uomini e non trovò alcuna dimora, tornò al suo luogo e pose la sua sede tra gli angeli. Quando però l’ingiustizia uscì dai suoi ricettacoli, allora la sapienza trovò chi non cercava e si fermò da loro e fu gradita come la pioggia nel deserto e come la rugiada sulla terra assetata”.

In un periodo come il nostro in cui siamo quotidianamente posti dinanzi a fatti di esplicita ingiustizia che si esprime nei diversi volti della violenza, porsi in ricerca della sapienza sembra essere un compito impossibile. Essa sembra relegata nell’alto dei cieli come se avesse abbandonato gli uomini perché non la meritano. La sapienza, però, ha come acerrima nemica l’ingiustizia. Proprio per questo sentiamo ancora più necessaria la sua presenza e urgente la sua opera tra le nostre città e nelle istituzioni.

La sua vicinanza sarà segno concreto del dono ineffabile dello Spirito del Risorto che non ci lascia orfani, ma ci rende forti con la provocazione che deriva dalla sapienza.