Brani e riflessioni sul primo annunzio e la Lettera ai cercatori di Dio, dal Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /07 /2009 - 00:46 am | Permalink | Homepage
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Presentiamo on-line - senza alcuna pretesa di completezza, piuttosto come uno stimolo alla lettura delle relazioni integrali - alcuni brani tratti dalle relazioni tenute al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, tenutosi a Reggio Calabria dal 15 al 18 giugno 2009. I brani hanno ricevuto un nostro titolo per una più facile ricerca e lettura. I testi integrali delle relazioni sono a disposizione on-line sul sito dell’Ufficio catechistico nazionale della CEI, così come il testo della Lettera ai cercatori di Dio.

Il Centro culturale Gli scritti (29/7/2009)

1/ Dal saluto iniziale di mons. Bruno Forte, 15 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Oralità e scrittura: un complesso rapporto
A favorire l’oblio è il dramma della scrittura. Lo aveva compreso già Platone nella memorabile critica della scrittura, contenuta nella parte finale del Fedro, lì dove insiste sul fatto che la scrittura non è un “farmaco della memoria” e non ne sostituisce le funzioni. La scrittura è, semmai, un mezzo per richiamare alla memoria conoscenze che si sono già apprese per altra via e perciò essa parla veramente “a chi già sa” le cose su cui verte. Il vero ed autentico mezzo di comunicazione non è la scrittura, bensì l’insegnamento, il quale costituisce una prerogativa dell’oralità. Gli scritti non sono in grado di rispondere a nessuna domanda che venga posta loro; essi vanno nelle mani di tutti e non sono in grado di scegliere coloro ai quali si deve parlare e coloro per i quali bisogna invece tacere.
Il libro, insiste Platone, “ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo” (Platone, Fedro, 275 D – E). La scrittura è come un “gioco” rispetto all’impegno di serietà che l’oralità implica. Ed è ancora Platone a dire che è filosofo colui che è in grado di venire in soccorso ai suoi scritti mostrandone la debolezza, “sulla base di quelle cose di maggior valore che non ha messo per iscritto”, quelle che sono veramente importanti (Ib., 278 C – E). Proprio perciò, quando viene scritta, la parola - resistenza all’oblio, nata dall’oralità e custodita dalla musicalità del parlato - abita nel suo altro e lo stimola. Da parte sua, la scrittura, ospitando la comunicazione orale e ripresa in essa, può riscattarsi dal suo limite originario e divenire anch’essa una forma di resistenza all’oblio delle differenze.

2/ Dalla relazione di mons. Bruno Forte, La Lettera ai cercatori di Dio: genesi e presentazione, 16 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Drammaticità dell’ateismo
Il cosiddetto ateo, quando lo è non per semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una [...] condizione di ricerca, di viva e spesso dolorosa attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che ti lascia come ti ha trovato. La non credenza seria - non negligente e banale - è passione e sofferenza, militanza di una vita che paga di persona l’amaro coraggio di non credere. Lo mostra, ad esempio, il celebre aforisma 125 della Gaia Scienza, dove Nietzsche racconta del folle che nella chiara luce del mattino andò sulla piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: “Cerco Dio, cerco Dio”. “Dov’è Dio? Si è addormentato o si è perso come un bambino?” - domandano gli altri, prendendosi gioco di lui. E lui grida le parole, che segnano il destino di un’epoca: “Dio è morto... e noi lo abbiamo ucciso!” Ma subito dopo quelle parole aggiunge: “Saremo noi degni della grandezza di questa azione?”. E denuncia la verità del dolore infinito di non credere, il senso di una notte che è sempre più notte, di un abbandono, che è percezione di un’infinita orfananza. Questa pagina mostra come il non credere, se serio, sia tragico nella sua consapevolezza, indissociabile dall’infinito dolore dell’assenza, da un senso di solitudine e d’abbandono, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo, nella storia del mondo. Il non credente pensoso, come il credente non negligente, è per questo un uomo che lotta con Dio [...].

Mendicanti del cielo
Come osserva il giovane Heidegger in Essere e tempo, vivere significa essere “gettati verso la morte”: all’immediata evidenza la vita appare come un lungo viaggio verso le tenebre, dove tutto sembra affondare nell’ultimo silenzio della morte. Per questo la vita è impastata di dolore: e per questo la vera domanda, quella sulla quale sta o cade la verità di ogni risposta, è e resta la domanda del dolore. Ogni pensiero nasce dal dolore della lacerazione e della morte. Se non esistesse la morte non esisterebbe il pensiero, non esisterebbe la vita, cioè la vita del pensiero che è la dignità del vivere di ciascuno di noi. È il patire, il morire che suscita in noi la domanda, accende la sete di ricerca, lascia aperto il bisogno di senso. Senza dolore non ci sarebbe la dignità dell’uomo che si interroga. Il dolore rivela allora la vita a se stessa più fortemente della morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita: il dolore è la felicità da cui siamo tutti attratti nel segno del suo contrario.
Un grande pensatore ebreo del Novecento, Franz Rosenzweig, apre la sua grande opera La stella della redenzione [...] con le parole: Dalla morte. La stessa opera si chiude con le parole: Verso la vita. È questo l’itinerario del pensare. Dalla morte ci facciamo pellegrini verso la vita. Il cammino dell’uomo sta tutto in questo prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non stordendosi rispetto ad essa né nascondendola, come ha fatto troppo spesso la modernità. Se guardiamo negli occhi la morte, allora si compie il miracolo: vivere non sarà più soltanto imparare a morire, ma sarà un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla morte che vince col suo silenzio tutte le cose, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’essere umano capisce di non essere solo gettato verso la morte, ma chiamato alla vita: lì si riconosce come un “mendicante del cielo”. L’uomo è un cercatore di senso, qualcuno che cerca la parola che riesca a vincere l’ultimo orizzonte della morte e dia valore alle opere e ai giorni, offrendo dignità e bellezza alla tragicità del nostro vivere e del nostro morire. Perciò la condizione dell’essere umano è quella del pellegrino. L’uomo è un cercatore della patria lontana, che da questo orizzonte si lascia permanentemente provocare, interrogare, sedurre.
Se l’esodo è la condizione umana, se l’uomo è un pellegrino verso la vita e un mendicante del cielo, la grande tentazione sarà quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe arrestare la fatica del viaggio. Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani, che chiedono a un vecchio rabbino quando sia cominciato l’esilio di Israele. “L’esilio di Israele - risponde il Maestro - cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio”. L’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. L’esilio è di chi ha dimenticato il destino, la meta più grande, il cielo del desiderio e della speranza. Heidegger, parlando della “notte del mondo” nella quale ci troviamo, dice che essa è l’assenza di patria, perché il dramma dell’uomo moderno non è la mancanza di Dio, ma il fatto che egli non soffra più di questa mancanza. Il dramma è di non avvertire più il bisogno di superare la morte, è di considerare dimora e patria, e non esilio, questo tempo presente. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, questa è la malattia mortale. Si è morti quando il cuore non vive più l’inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora, di trovare per ancora domandare e cercare. Quando non lascerai più che a guidare i Tuoi passi sia la stella splendente nella notte, allora avrai perso la Tua lotta con la morte. [...]
Martin Lutero avrebbe detto sul letto di morte: “Wir sind Bettler: hoc est verum!” – Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”. [...]

Fra le considerazioni a braccio espresse da mons. Forte ricordiamo:
Per Heidegger, la morte è una imminenza, una presenza sorda, nascosta.
Nietzsche ha insegnato non l’allegro trionfo su Dio, ma l’infinita orfananza che ne è nata. “Noi, gli assassini di tutti gli assassini”.
All’opposto si colloca Hegel, con la sua Fenomenologia dello Spirito. Hegel è veramente il filosofo della gioia, quando lo Spirito giunge ad autocomprendersi ed a bere al calice della gioia.
È Maritain ad aver inventato l’espressione “mendicanti del cielo”.
La domanda è il grande strumento della lotta dell’uomo contro la morte.

Non est status in via Dei
Rispondendo ad alcune domande. mons Forte ha ricordato un’espressione attribuita a S. Bernardo: Non est status in via Dei. Questi i riferimenti precisi della citazione:

Lutero ha affermato: Quia vere dicit B. Bernardus: “ubi incipis nolle fieri melior, desinis esse bonus. Quia non est status in via dei: ipsa mora peccatum est” (Lutero, Salmo 118, Scholae, W. 4, 364, 17 ss.).

Il brano può essere tradotto, perdendo l'incisività del latino: "Dove cominci a non voler diventare migliore, smetti di essere buono. Poiché non c'è il fermarsi nella via di Dio: la stessa sosta è peccato".

Lutero si richiama esplicitamente, ma non testualmente, all’epistola 91,3 di S. Bernardo che afferma:

Recedam a me et a vobis qui dicunt: "Nolumus esse meliores quam patres nostri", tepidorum et dissolutorum se filios protestantes. Quorum memoria in maledictione est, quia manducaverunt uvas acerbas, quibus dentes filiorum obstupuerunt (cfr. Jer. 31, 29). Aut si Sanctis et bonae memoriae patribus gloriantur, imitentur certe sanctitatem, quorum indulgentias dispensationesque pro lege defendunt. Quanquam sanctus Elias, "Non sum, inquit, melior quam patres mei": et non dixit se nolle patribus esse meliorem. Vidit Iacob in scala Angelos ascendentes et descendentes, nunquid stantem quempiam, sive sedentem? Non est stare omnino in pendulo fragilis scalae; neque in incerto huius mortalis vitae quidquam in eodem statu permanet. Non habemus hic manentem civitatem, nec futuram adhuc possidemus, sed inquirimus (cfr. Hebr. 13, 14). Aut ascendas necesse est, aut descendas: si attentas stare, ruas necesse est. Minime pro certo est bonus, qui melior esse non vult: et ubi incipis nolle fieri melior, ibi etiam desinis esse bonus (Ep. XCI, 3).

L’ultima frase, tradotta, recita: “È necessario che tu o salga o scenda: se t’arrischi a star fermo, ne consegue che precipiti. È indubbio che non è affatto buono chi non vuole essere migliore, proprio allora cessi d’essere buono”.

N.B. Il brano di S. Bernardo è citato anche da Paolo VI nel discorso ai Capitoli generali dei cistercensi e dei passionisti del 14 ottobre 1968.

Rivelazione che sempre ci supera
Nella tradizione cristiana l’avvento di Dio nella storia è pensato come revelatio, una rivelazione: è uno svelarsi che vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi che attira. Negli ultimi secoli la teologia cristiana ha concepito la rivelazione soprattutto come Offenbarung, apertura, manifestazione totale. Così, in essa l’avvento di Dio è stato spesso pensato come esibizione senza riserve. Dio si sarebbe del tutto consegnato nelle nostre mani: la storia - dirà Hegel - non è che il “curriculum vitae Dei”, il pellegrinaggio di Dio per divenire se stesso. Con feroce parodia Nietzsche affermerà che questo “Dio è diventato finalmente comprensibile a se stesso nel cervello hegeliano”. È questa presunzione di ridurre Dio a certezza luminosa, a definizione chiara ed evidente, la pretesa dell’ideologia moderna, in tutte le sue forme,anche teologiche. Ma questo è precisamente l’opposto dell’annuncio cristiano: interpretare la rivelazione come manifestazione totale, come risposta incondizionata e senza riserve alle domande del nostro cuore o della nostra mente, è il più grande tradimento che di essa si possa fare.

Ammirazione ed imitazione in Kierkegaard
[C’è] un’altra differenza che va ricordata e che resta sullo sfondo di qualunque approccio alla ricerca di Dio e agli strumenti dell’annuncio della fede: quella fra “ammiratori” e “imitatori”. Così la esprime Søren Kierkegaard in un testo di grande incisività: “Che differenza c'è fra un ammiratore e un imitatore? Un imitatore è ossia aspira a essere ciò ch’egli ammira; un ammiratore invece rimane personalmente fuori: in modo conscio o inconscio egli evita di vedere che quell’oggetto contiene nei suoi riguardi l'esigenza d'essere o almeno d'aspirare a essere ciò ch'egli ammira» (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, 812). Perciò “tutta la vita del Cristo sulla terra, dal principio alla fine, fu indirizzata assolutamente ad avere solo imitatori e a impedire gli ammiratori” (810). Essere imitatori e non ammiratori di Gesù o dei suoi testimoni più luminosi, i santi, esige però una decisione, che si può prendere solo in prima persona: “Camminare soli! Sì, nessun uomo, nessuno, può scegliere per te oppure in senso ultimo e decisivo può consigliarti riguardo all'unica cosa importante, riguardo all'affare della tua salvezza... Soli! Poiché quando hai scelto, troverai certamente dei compagni di viaggio, ma nel momento decisivo e ogni volta che c'è pericolo di vita, sarai solo” (Vangelo delle sofferenze, 833).

3/ Dalla relazione di Giampietro Ziviani, La formazione per il Primo annuncio: i cristiani, le comunità, gli accompagnatori, 17 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Descrizione degli effetti del primo annunzio
Insomma un bel mattino o un pomeriggio, con le orecchie ancora ronzanti del frastuono della mensa, eccolo assistere al silenzioso sbocciare della parola sulla pagina bianca, lì davanti a lui: mamma. Certo, l'aveva già vista alla lavagna, l'aveva riconosciuta più volte, ma lì, sotto i suoi occhi, scritta con le sue dita. Con voce prima incerta, recita le due sillabe separata¬mente: "Mam-ma". E d'un tratto: "Mamma!". Questo grido di gioia celebra l'esito del più gigantesco viaggio intellettuale che si possa immaginare, una sorta di primo passo sulla luna, il passaggio dall' assoluto arbitrario grafico al significato più carico di emozione! Piccoli ponti, gambette, cerchi... e... mamma! E scritto proprio lì davanti ai suoi occhi, ma è dentro di lui che sboccia! Non è una combinazione di sillabe, non è una parola, non è un concetto, non è una mamma, è la sua mamma, una trasmutazione magica, infinitamente più eloquente della più fedele fotografia, eppure nient'altro che qualche piccolo cerchio, qual¬che ponte... ma che d'un tratto - e per sempre - hanno smesso di essere se stessi, di essere niente, per trasformarsi in questa presenza, questa voce, questo profumo, questa mano, questo grembo, questa infinità di dettagli, questo tutto così intimamente assoluto, e così assolutamente estraneo a quel che è tracciato lì, sui binari della pagina, fra le quattro pareti dell'aula... La pietra filosofale. Né più né meno. Ha scoperto la pietra filosofale (D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 2005, 32-33).

È una definizione fenomenologica del primo annuncio, ossia descrive quello che accade più che definirlo: un riconoscimento, una specie di illuminazione che viene dalla congiunzione di intelletto e affetti. La fede comincia così, come esperienza elementare, possibile a tutti, in questo stadio previo all’affidamento e all’impegno personale, resi possibili da chi ha compiuto tutta una pedagogia di alfabetizzazione perché ciò avvenisse. Nel primo annuncio riconosco dei caratteri di larga accessibilità e in un certo senso anche di basso livello, una esperienza elementare, aperta a tutti, non ancora segnata dall’itinerario che ciascuno darà al proprio affidamento, ma allo stesso tempo basilare per tutti.

Quanto il paradigma della secolarizzazione è adatto per capire la condizione della fede in Italia?
Come notava il card. Ruini - il paradigma della secolarizzazione sembra essere stato accettato più supinamente all’interno della chiesa che all’esterno, come unica ermeneutica del presente, che condannava i cristiani all’inevitabile scomparsa.
La civiltà postcristiana in Italia sta invece ancora una volta mutando forma e in questo frangente è lecito chiedersi se possa esiste un primo annuncio nel nostro paese, o se non si debba cominciare direttamente dal secondo, oppure dal destrutturare quello esistente. “Da noi non ci sarà più un rapporto innocente con il cristianesimo; nel bene come nel male. Il cristianesimo che cerca di impiantare il seme originario dell’evangelo nel mondo che si trasforma ora, incontra sempre da qualche parte un cristianesimo già insediato in un mondo precedente” (P. Sequeri, Non c’è nessun partito di Dio. Evangelizzazione, Occidente, Parrocchia, RCI 2004, 564). Anzi proprio il peso di un’eredità troppo cospicua sembra condizionare l’abbandono di molti che se ne vanno e la stanchezza di altri che restano. Certamente possiamo dire che l’ignoranza religiosa e la confusione culturale hanno creato una specie di analfabetismo religioso di ritorno, ma non possiamo dire che l’Italia sia un terreno sgombro e neutrale, dove l’annuncio parte da zero. Non c’è quotidiano che non riporti ogni giorno qualcosa della cronaca ecclesiale e non c’è giornalista che non usi termini desunti dal lessico ecclesiastico. Questo rende il compito dell’annunciatore più facile e più difficile insieme. Più facile perché utilizza parole già conosciute e un abbecedario di esperienze primarie non del tutto cadute in oblio (es.: sacramentalizzazione di massa, catechismo), più difficile perché deve cercare di istituire un fondamento con le realtà che esse rappresentano più significativo di quello che esiste, che è stato rifiutato, o che soprattutto è ritenuto già conosciuto e superato o poco rilevante.
La situazione italiana somiglia alla conoscenza non vitale e scoraggiata dei due di Emmaus, già inquadrata e giudicata inutile. Non è un cristianesimo che parte da zero, ma non è nemmeno la prosecuzione di quello che esiste. Non possiamo dichiararlo morto e poi pretendere di rivendicarne le radici nella cultura europea. [...]
Il primo annuncio allora diventa la buona notizia che Dio crede in te e anche questo entra a livello di atteggiamento dell’accompagnatore che è invitato a tenere in disparte il giudizio sulla lontananza dell’altro. Questo è importante per molti motivi umani di rispetto, di accoglienza delle persone per come sono…ma anche per motivi teologici: l’immagine di Dio non si cancella, nessuno diventa inabile a credere e la fede non ha data di scadenza. La vecchia casistica insegnava che è possibile anche la conversione in articulo mortis e il battesimo di desiderio: l’uomo e la donna rimangono capax Dei fino all’ultimo respiro della loro vita. [Ecco allora un] atteggiamento spirituale: sospendere il giudizio.

Dare al mondo e ricevere dal mondo
L’ascolto è prendersi sul serio reciprocamente ed ha una radice di fede e quindi anche ecclesiale.
È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l'aiuto dello Spirito santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta (GS 44).
Questo numero di GS si intitola: “l’aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo”. Fu chiesto in aula da mons. Schmitt e da mons. Elchinger che venisse detto che essa non solo dà al mondo, ma anche riceve da lui. Viene detto sebbene in modo non proprio proporzionato: dodici verbi esprimono il primo movimento e solo cinque il secondo (GS 57-58). E ancora molto più quello che si dà rispetto a quanto si riceve, ma almeno c’è una reciprocità e tra i due soggetti i confini sono aperti.

Ascoltazione
Paolo VI parlava di “ascoltazione” (1), con il suo splendido italiano. G. Adornato dice che intendeva indicare una disposizione costante, un ascolto profondo che diventa un atteggiamento nei confronti del mondo e dei problemi, che nasce prima di tutto dalla grande ascoltazione della Parola di Dio.

(1) Il termine ricorre una trentina di volte già nei discorsi dell’arcivescovo Montini, cfr. G. ADORNATO, Il coraggio di Paolo VI. Chiesa e modernità: l’attenzione di tutta una vita, RCI 1/2009, 37.

Dialogo: noi facciamo fatica a parlarvi
Paolo VI non lo considerava solo un elemento di metodo, ma qualcosa che appartiene all’identità stessa della Chiesa e che richiede coraggio. Abbiamo da poco celebrato l’anniversario della sua Messa di Natale celebrata nelle acciaierie di Taranto nel 1968, dove ammetteva la fatica del dialogo:
"Vi parliamo col cuore. Vi diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato. Ed è questa: noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà di farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che per Noi il discorso è abbastanza difficile. Ci sembra che tra noi e voi non ci sia un linguaggio comune" (Insegnamenti di Paolo VI, VI (1968) 1114.).
Una messa di Natale nelle acciaierie e il magistero più alto, che parla ancora al plurale maiestaico, ma che ammette di non riuscire a parlare.

Comprendere il vangelo: la questione odierna dell’esegesi, secondo Moltmann
Jürgen Moltmann al Festival della teologia a Piacenza, poche settimane, fa ha parlato del conflitto tra teologi ed esegeti raccontando un suo incubo:
Io mi immagino di salire sul pulpito, in una chiesa, per annunciare il vangelo
e, se possibile, per suscitare la fede. Però non ci sono uditori delle mie parole: sui banchi siede uno storico, che analizza criticamente i fatti di cui io parlo; e poi c’è uno psicologo che analizza la mia psiche, così come la rivelo attraverso il mio discorso; e inoltre c’è un antropologo della cultura, che osserva il mio stile personale; e ancora un sociologo, che indaga la classe sociale di appartenenza, della quale mi considera un rappresentante, e così via. Tutti analizzano me e il mio contesto, ma nessuno ascolta ciò che io voglio dire. E la cosa peggiore: nessuno mi contraddice, nessuno vuole discutere con me su ciò che io ho detto. (http://www.queriniana.it/teologia.asp?IDTeologia=136 )
Secondo Moltmann questo sta accadendo al Vangelo: tutti lo analizzano, ma nessuno lo mette in discussione, cioè lo prende sul serio.

Valore di 25.807 parrocchie in Italia
Mi domandando anche se le nostre 25.807 parrocchie debbano essere per forza un luogo scontato e quindi negativo per l’annuncio. Esse costituiscono l’eredità pesante,ma anche preziosa, del cattolicesimo popolare italiano. Dobbiamo considerarle una pastorale di retroguardia rispetto a quella dei luoghi informali, o un presidio di servizi a cui si attinge una volta che il primo annuncio è stato accolto? Non possiamo coinvolgerle nel primo annuncio? Pensate ad una azienda o un progetto che partisse disponendo già di 25.807 presidi, sportelli, o anche solo insegne simboliche sul territorio. Credo che sia già un notevole vantaggio. Non c’è dubbio che esse vadano ripensate (razionalizzate) e meglio raccordate con tutto il resto, ma credo che sarebbe uno spreco enorme di opportunità il lasciarle da parte e che proprio il primo annuncio ed una catechesi veramente catecumenale che ne deriva, potrebbero costituire delle opportunità per cambiare la forma di questa istituzione ecclesiale di base in direzione decisamente più missionaria (1). Non possiamo negare infatti che le nostre parrocchie, anche quelle più strutturate, patiscono quanto a proposte di primo annuncio e di corresponsabilità missionaria laicale. Ai parroci di Roma all’inizio della quaresima il papa ha parlato di “un luogo di ospitalità della fede, un luogo in cui si fa una progressiva esperienza della fede”, individuandolo nella parrocchia e in volto della comunità più accogliente e aperto: “creare anche vestiboli, cioè spazi di avvicinamento. Uno che viene da lontano non può subito entrare nella vita formata di una parrocchia, che ha già le sue consuetudini. Per costui al momento tutto è molto sorprendente, lontano dalla sua vita. Quindi dobbiamo cercare di creare, con l’aiuto della Parola, quello che la Chiesa antica ha creato con i catecumenati: spazi in cui cominciare a vivere la Parola, a seguire la Parola, a renderla comprensibile e realistica, corrispondente a forme di esperienza reale”.
Se la parrocchia e in essa tutti i luoghi simbolici in cui la chiesa si realizza e si mostra, la catechesi, la liturgia, l’esercizio dell’autorità, riescono ad essere significativi per chi sta fuori, essi possono diventare dei luoghi di primo annuncio. Il loro stesso andare incontro all’umano ed accoglierlo, anche se l’Italia conosce una lunga tradizione di impegno sociale e caritativo, può ancora stupire ed evangelizzare a livello individuale: “sapevo che la chiesa aiuta tutti, ma io non ne avevo mai avuto bisogno”. Il nostro modo di celebrare, di fare carità o cultura, di fare formazione hanno bisogno di ospitare e diventare significative per qualunque persona di passaggio, di essere capiti, di parlare. Non puntiamo al proselitismo, ma nemmeno all’autoreferenzialità. Questo forse vuol dire “Tutte le attività siano permeate di primo annuncio”, come dice la nota sulla parrocchia: che tutto ciò che facciamo sia almeno comprensibile anche per i lontani.
(1) “Il futuro della Chiesa in Italia, e non solo, ha bisogno della parrocchia. È una certezza basata sulla convinzione che la parrocchia è un bene prezioso per la vitalità dell’annuncio e della trasmissione del Vangelo, per una Chiesa radicata in un luogo, diffusa tra la gente e dal carattere popolare” VMP 5, cfr. anche CVMC 57.

Bisogno di comunitàTra i bisogni contraddittori del nostro tempo [a fianco dell’]individualismo emerge anche un forte desiderio di comunità, come riparo dalle insicurezze e dall’isolamento. “La compagnia o la società possono anche essere cattive, la comunità no. La comunità – questa è la nostra sensazione – è sempre una cosa buona. Comunità è un sinonimo di Paradiso perduto, ma un paradiso nel quale speriamo ardentemente di poter tornare e di cui cerchiamo dunque febbrilmente la strada”( Z. BAUMANN, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2008, 3.5).

Primo annunzio e chiesa
È soprattutto il contenuto dell’annuncio che esige la correlazione ecclesiale. Il Cristo vivo e vitale nel cuore del credente è infatti anche ciò che dà vita alla Chiesa. È Von Balthasar ad aver riflettuto molto su questo, stabilendo un legame tra l’evento-Cristo e la forma ecclesiale in cui viene testimoniato (1). La chiesa non lo proclama Cristo come un proprio contenuto, ma come ciò che la determina, che è reso vivo dallo Spirito, le dà la forma e porta a pienezza la vicenda umana. Cristo e la Chiesa diventano così un solo mistero, in cui la Sponsa Verbi è caratterizzata anzitutto dall’essere stata scelta e Cristo-formata, e solo in secondo luogo dall’aver aderito alla proposta.
Per questo la missionarietà appartiene all’essenza ecclesiale, perché la salvezza spinge verso il Cristo totale e la comunicazione della fede non è altro che l’impronta trinitaria e pasquale di un Dio che è comunicazione d’amore.

(1) H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica. I: La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1994. Cfr. M. Tibaldi, Kerygma e atto di fede nella teologia di Hans Urs von Balthasar, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005.

[...]
Il primo annuncio chiede anche alla Chiesa di cambiare il suo volto in quello di un luogo di relazioni vive con Dio e con gli uomini, di uno scoprimento dei nessi che legano le cose e dispongono a stabilire legami, di una città terrena meno etero diretta e più frutto di avvenimenti reali che accadono tra le persone. Per questo mi piace concludere con una strana immagine di Chiesa, come luogo della relazione e delle relazioni, tratta dalle Città invisibili di Calvino. Mi piacerebbe che colui che viene raggiunto dal primo annuncio fosse condotto un giorno a visitare la città di Zaira, che anche a noi piace scoprire.

La città di Zaira
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce sul molo. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole (I. CALVINO, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2002, 10-11).

4/ Dalla relazione di mons. Mariano Crociata, Comunità cristiane e accompagnamento delle persone in ricerca: ascolto, dialogo e questione educativa, 17 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Peculiarità della condizione della fede nella situazione italiana
La peculiarità di questo tempo la vedo, tra l’altro, nella caratteristica transizione che lo contraddistingue, da una forma di cristianità sia pure sempre più indebolita da una situazione culturale, etica e religiosa di pluralismo, segnata nondimeno da una forma di persistenza dell’eredità cristiana che chiede una attenta valutazione ed un adeguato rapporto (1).
Questa attenzione mi sembra sia stata adottata dai vescovi italiani con gli Orientamenti pastorali che hanno scandito i decenni del post-concilio, nei quali un ruolo chiave ha comunque giocato fin dall’inizio l’evangelizzazione. Si direbbe che il loro impegno è stato proteso a salvaguardare il carattere popolare della persistenza cristiana e cattolica del nostro paese e, di rimando, a scongiurare velleità variamente ritornanti a ripiegare dentro recinti rigorosamente delimitati di appartenenze elette. Non è peraltro privo di rischi il rapporto con una differenziazione sempre più sfumante di legami labili e appartenenze sfuggenti, che danno luogo ad una religiosità diffusa di sapore vagamente cristiano ma di un cristianesimo ormai estenuato e inconsistente.

(1) Il “mondo che cambia” è certamente anche quello della comunità cristiana: delle diocesi e delle parrocchie, degli istituti religiosi e delle aggregazioni ecclesiali. Ciò nonostante, dobbiamo rilevare come non sia affatto mutata la caratteristica di popolarità e di radicamento nella vita della gente e dei territori, che da sempre contraddistingue la nostra Chiesa. Essa oggi ci appare come un popolo differenziato e plurale, non privo di vitalità e di capacità inclusiva, nient’affatto elitario e marginale nella stessa dinamica sociale. Della singolarità del radicamento popolare del cattolicesimo italiano nel quadro europeo ci ha spesso parlato anche il carissimo mons. Cataldo Naro. Ai suoi occhi, questa originalità appariva non come un retaggio del passato, ma come una sfida pastorale, nel doppio senso di un compito di attenzione nei confronti di un ampio numero di fedeli, che le appartengono per il battesimo, e di un’opportunità per la stessa missione di evangelizzazione. Potrà reggere il nostro cattolicesimo – si chiedeva – di fronte ai colpi dei processi di omogeneizzazione culturale che tutto travolgono? Non rischia di dissolversi o, comunque, di trasformarsi in un fenomeno di mero consumismo religioso condizionato e sottoposto alle leggi del mercato?

Concentrazione sull’essenziale
Mi è capitato di far osservare e precisamente dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis e a proposito della prima enciclica Deus caritas est, che «la preoccupazione che sembra emergere come caratteristica di questo pontificato, [è] quella che chiamerei “la concentrazione sull’essenziale” (1), e cioè sulla questione di Dio riconosciuto e accolto secondo la fede cristiana come amore» (2). Tale concentrazione lascia intuire una lettura del presente, dentro e fuori dei confini ecclesiali e dell’orizzonte credente, come minacciato dalla dispersione, dall’oblio e dalla perdita. Il presente viene considerato nel suo passaggio ormai estenuato ed estenuante verso una condizione ecclesiale non più garantita da un orizzonte culturale ed etico omogeneo (la si chiami o meno fine della cristianità). La disarticolazione culturale ed etica del tempo presente impone alla Chiesa un richiamo vitale all’esigenza di riappropriarsi della visione ordinata dello scenario credente ed ecclesiale, sia nella sua configurazione interna sia in vista della sua iniziativa evangelizzatrice e missionaria. Bisogna ripartire dall’essenziale (3).
Questa preoccupazione, messa in relazione con l’Eucaristia, coglie conseguentemente quest’ultima come il luogo della fede, della celebrazione e della vita cristiana in cui l’essenziale del cristianesimo può essere individuato, sperimentato, alimentato. Se c’è un luogo teologico-sacramentale in cui il tutto della fede cristiana si trova concentrato e pieno, infatti, esso è proprio l’Eucaristia (4). L’indicazione che al riguardo viene data presenta una seconda preoccupazione portante, accanto alla concentrazione sull’essenziale: la chiamerei “il recupero dell’integrità”, o forse meglio ancora “la custodia dell’unità e dell’intero”. Si tratta della integrità della fede eucaristica creduta, celebrata e vissuta; si tratta in fondo dell’unità tra fede, preghiera e vita» (5). In questo modo il segno profetico secondo cui leggere il compito della Chiesa oggi è quello della custodia viva – e il seguito del magistero di Benedetto XVI fino ad oggi ce ne dà conferma (6)– della tradizione della Chiesa nella sua interezza, forti della certezza di avere in essa il tesoro prezioso da mantenere splendente, da trasmettere e diffondere. Una ragione che merita esplicitare, in questo contesto, è un tema molto presente nel magistero del Papa, e cioè che la Chiesa non è struttura aggiuntiva o successiva all’evento cristologico, ma parte integrante e costitutiva di esso. Così che venire alla fede ed entrare a far parte della Chiesa sono coincidenti, pur con tutte le necessarie differenziazioni pastorali richieste dai cammini concreti che conducono alla fede. In questo senso, per fare una applicazione immediata, pastorale di inquadramento e pastorale di rigenerazione (7) hanno senso solo se stanno insieme, se cioè i cammini personali trovano nella grande Chiesa la loro collocazione, l’orientamento e la loro ultima destinazione.

(1) Cf. M. Crociata, Una lettura della prima enciclica di Benedetto XVI, in «Diocesi di Mazara del Vallo. Bollettino Ecclesiastico» 103/1 (2006) 125-136.
(2) È quella priorità, di cui il Papa ha parlato anche nella sua Lettera ai vescovi del 10 marzo scorso: il compito fondamentale della Chiesa «di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cf. Gv 13,1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto».
(3) Scrivono i Vescovi italiani nella Nota pastorale dopo il Convegno di Verona: Come vivere, oggi, il nostro appartenere a Lui? In questa stagione difficile e complessa, occorre ritrovare l’essenziale della nostra vita nel cuore della fede, dove c’è il primato di Dio e del suo amore. Appartenere a Lui è l’altro nome della santità, misura alta e possibile del nostro essere cristiani. La vita di Dio già circola in noi, e nello Spirito ci dona la pienezza di un’umanità vissuta come Gesù: amando, pensando, operando, pregando, scegliendo come lui. (CEI,“Rigenerati per una speranza viva” (1Pt 1,3). Testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, n. 6).
(4) «Per vivere come persone radicate in Gesù Cristo si devono riconoscere alcune priorità… L’Eucaristia, memoriale del sacrificio di Cristo, costituisce il centro propulsore della vita delle nostre comunità. Nell’Eucaristia, infatti, “si rivela il disegno d’amore che guida tutta la storia della salvezza. In essa il Deus Trinitas, che in se stesso è amore, si coinvolge pienamente con la nostra condizione umana”. Per questo, l’Eucaristia domenicale è il cuore pulsante della settimana, sacramento che immette nel nostro tempo la gratuità di Dio che si dona a noi per tutti. L’Eucaristia conduce all’ascesi personale e al servizio ai poveri, segni dell’autenticità del nostro conformarci a Cristo e della nostra testimonianza, perché “un’Eucaristia che non si traduca in amore concretamente praticato è in se stessa frammentata”» (CEI, “Rigenerati per una speranza viva” (1Pt 1,3). Testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo, n. 6).
(5) M. Crociata, Presentazione dell’Esortazione Apostolica Post-sinodale “Sacramentum Caritatis” di Benedetto XVI, in «Rivista della Chiesa palermitana» 2-5 (2007) 226-227.
(6) Cf., ad esempio, la Lettera enciclica Spe salvi (2007), il già citato volume Gesù di Nazaret, le Catechesi del mercoledì prevalentemente improntate alle figure più significative, dopo gli Apostoli, e cioè i Padri della Chiesa e oltre.
(7) Cf. A. Fossion, Evangelizzare in modo evangelico, in «Notiziario UCN» 3 (2008) 38-53.

Cura della oggettività ecclesiale
In questione sono [...] le nostre comunità, nelle quali deve risplendere la centralità del senso di Dio e della fede in lui, la presenza di Cristo, la comunione fraterna. Affinché questa esigenza, insieme spirituale e pastorale, non si risolva in pia esortazione o in proposito moralistico, essa deve coniugarsi costantemente con una esigenza apparentemente opposta e contraddittoria, che io definirei come cura della oggettività ecclesiale. In particolare tante discussioni oggi mostrano che non viene afferrato o apprezzato questo senso oggettivo della liturgia, senza il quale lo stesso servizio celebrativo è tentato dal riduttivismo autoreferenziale, denotato da forme di protagonismo o di comunitarismo. Certo, sarebbe un fraintendimento grave, all’opposto, idealizzare moduli impersonali, scostanti e freddi, come se il passaggio dell’annuncio e la comunicazione della grazia possano essere affidati ad automatismi e ritualismi. Ma ciò che la cura della oggettività ecclesiale è intesa a salvaguardare è la sovrana gratuità e trascendenza della Parola di Dio e della sua grazia. Tale cura pone nelle condizioni di superamento di una situazione culturale e psicologica così diffusa nel nostro tempo, ovvero di quel soggettivismo che tutto regola secondo la misura corta della gratificazione e del riscontro immediati, nel tentativo che definirei ossessivo di autocentramento, e nell’incapacità e nel rifiuto di accettare quello che è il frutto primo di ogni autentica conversione, il decentramento da sé per mettere al centro Dio e il suo Cristo nella Chiesa.
Cura della oggettività ecclesiale, dunque, non significa mortificazione della partecipazione e del coinvolgimento personali, che, se possibile, devono raggiungere la densità più grande possibile, ma loro valorizzazione unicamente nel segno di una uscita da sé verso Dio e il suo Cristo, verso i fratelli e verso il prossimo, perché sia attuazione della logica agapica della Pasqua e del Vangelo che la proclama. Se una considerazione vogliamo concederci ancora su questo punto, essa ci costringe a dire che un malinteso protagonismo nella Chiesa ha l’effetto non solo di allontanare da essa quanti vorrebbero o potrebbero avvicinarsi, ma soprattutto di tenere lontani dal fuoco vivo della grazia proprio quanti vanno ad attingervi ordinariamente. Al centro della vita della Chiesa ci devono essere davvero, non solo per buona intenzione, ma per ordinamento esteriore e per adesione cordiale, la Parola di Dio, la celebrazione liturgica, la cura delle relazioni personali secondo uno stile insieme affettivamente intenso e comunitariamente ordinato, perché al centro della vita della Chiesa c’è il Cristo di Dio. Questa cura consente di guardare con vero spirito missionario quanti si avvicinano o possono essere accostati e raggiunti sistematicamente o occasionalmente dalla nostre comunità ecclesiali, perché esprime la coscienza che le distanze sono già state superate e che, per grazia, partecipiamo di un unico cammino che tutti conduce. Il rapporto con altri battezzati deve svolgersi nella consapevolezza che ciò che accomuna e ci lega è la parte più importante e già attiva di un’opera che ha bisogno di essere ripresa e rifinita. E tale coscienza nasce dalla fede che l’iniziativa divina è all’origine e al centro del nostro essere e del nostro operare, ed è al centro della storia di quanti ci vengono affidati per farcene carico pastoralmente.

Ricerca e certezza della fede
Grande appare oggi la varietà degli atteggiamenti, dei modi di intendere e di praticare, anche di negare e lottare, o ancora di ignorare e rimuovere il rapporto con Dio. Veramente in ogni uomo si conduce una lotta, ad altri imperscrutabile, con Dio. Noi credenti di una fede ecclesiale esplicita, forse proprio noi, possiamo comprendere meglio di altri quanto sia ardua e decisiva insieme questa ultima dimensione dell’umano che è la relazione personale con Dio. Da questa certezza muove lo sguardo del credente sugli attuali o potenziali cercatori di Dio. E ciò che dà titolo ad accompagnare un attuale o potenziale cercatore di Dio è, in primo luogo, la scoperta o l’esperienza del credente di essere lui stesso un cercatore di Dio, di non possedere una volta per tutte e in modo falsamente pacifico quel Dio che l’altro non ha incontrato ancora nella sua compiuta forma ecclesiale. Non per questo deve essere sminuita nel credente la certezza della fede, che è altra cosa dal possesso, ma piuttosto scaturisce dall’affidamento nel quale ci si radica sempre di più in Dio senza mai smettere di aderire a lui, di riscoprirlo e di cercarlo ancora.

Ha senso parlare ancora dell’irriducibilità al dato biologico dell’uomo? (citazione da Giovanni Grandi)«
Entrare da cristiani nel cuore della questione antropologica significa anzitutto risvegliare le domande, le attese profonde, aiutando l’uomo ad accorgersi che la buona notizia è proprio ciò; che intimamente desidera ricevere e – più spesso di quanto non si creda – la scommessa stessa che anima tanti gesti, tante attenzioni. Sarebbe infatti interessante interrogare la concretezza della vita, per scovare il perché di tante scelte: perché prendersi cura dei più deboli? Perché lottare contro le ingiustizie? Perché essere fedeli alle amicizie? Perché onorare quelli che oggi non sono più tra noi? Non sono questi, assieme a tanti altri, i segni feriali di un continuo affermare la diversità dell’umano, la sua irriducibilità al dato biologico? Non tradiscono, questi segni, una richiesta profonda di liberazione, di liberazione proprio dalla ragionevole ipotesi che tutto questo sia solo illusione? Risvegliare la domanda è risensibilizzare alla buona notizia, e fare spazio all’annuncio che sì, l’uomo è diverso dal resto del vivente perché è figlio di Dio e chiamato a vivere la sua stessa vita. La buona notizia raggiunge ogni uomo nell’attestargli che certe sue scelte sono sensate, sono consistenti, sono ben fondate e lo sono proprio perché la percezione di irripetibilità dell’umano che in fondo le anima risponde al vero (Giovanni Grandi, La questione antropologica, in http://dedalo.azionecattolica.it/documents/Grandi.doc ).

Dialogo e missione (citazione da da Benedetto XVI)
«La missione non è imposizione, ma è un offrire il dono di Dio, lasciando alla Sua bontà di illuminare le persone affinché si estenda il dono dell'amicizia concreta con il Dio dal volto umano. Perciò vogliamo e dobbiamo sempre testimoniare questa fede e l'amore che vive nella nostra fede. […] La presenza della fede nel mondo è un elemento positivo, anche se non si converte nessuno; è un punto di riferimento. Mi hanno detto esponenti di religioni non cristiane: per noi la presenza del cristianesimo è un punto di riferimento che ci aiuta, anche se non ci convertiamo. […] Mi sembra che oggi, vedendo l'andamento della storia, si possa capire meglio che questa presenza della Parola di Dio, che questo annuncio che arriva a tutti come fermento, è necessario perché il mondo possa realmente giungere al suo scopo. In questo senso noi vogliamo sì la conversione di tutti, ma lasciamo che sia il Signore ad agire. Importante è che chi vuole convertirsi ne abbia la possibilità e che appaia sul mondo per tutti questa luce del Signore come punto di riferimento e come luce che aiuta, senza la quale il mondo non può trovare se stesso. Non so se mi sono spiegato bene: dialogo e missione non solo non si escludono, ma l’uno chiede l’altra» (Benedetto XVI, Dialogo con il clero di Roma, 7 febbraio 2008).

5/ Dalla relazione di mons. Domenico Pompili, Primo annuncio, comunicazione e media, 18 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Il virtuale ed il mutamento del concetto di “esperienza”
Le tecnologie sono ‘nuove’: non soltanto perché differenti rispetto a ciò che precede, ma perché segnano di sé il rapporto dell’uomo con l’altro uomo e con la realtà, cambiando in profondità il concetto stesso di ‘fare esperienza’. Non si tratta allora di guardarle con sospetto, ma di evitare l’ingenuità di credere che esse siano così semplicemente a nostra disposizione, senza modificare in nulla il nostro modo di percepire la realtà.
Il virtuale genera una nuova forma di esperienza dell’umano.
In realtà è vero che internet non si limita a comunicare o rappresentare il reale, ma lo trasforma anche, aiutando a interpretarlo e contemporaneamente plasmandolo e ristrutturandolo. Si potrebbe dire quasi che internet e la coscienza del soggetto sembrano plasmarsi a vicenda. Da questo punto di vista internet è uno spazio dell’uomo, uno spazio umano in quanto popolato da uomini, per lo più giovani. Non più un contesto anonimo e asettico, ma un ambito antropologicamente qualificato.
Se volessimo coglierne alcune qualità non si fatica ad individuare in una sorta di ineliminabile chiaroscuro le seguenti: la socialità, la ridefinizione delle categorie di spazio e di tempo, una nuova forma dell’intelligenza.

UNA NUOVA SOCIALITÀ
La tecnologia consente oggi di stabilire contatti con qualsiasi parte del globo, superando barriere linguistiche e culturali. È un’esperienza che può dare le vertigini: si possono condividere contenuti ed emozioni, si possono allacciare legami capaci di trasformare le connessioni in relazioni. Almeno potenzialmente. Non bisogna infatti trascurare il fatto che queste connessioni sono comunque mediate da uno schermo. Con questo termine intendiamo una piccola superficie su cui prendono forma le immagini, ma non dimentichiamo che “schermo” può significare anche filtro, un riparo che si frappone tra i nostri organi visivi e qualcosa che potrebbe ferirli (non a caso si dice “farsi schermo con le mani”…).
Uscendo dalla metafora, la multimedialità può gettare ponti ed unire potentemente ma altrettanto potentemente è capace di svuotare le relazioni, riducendole a mere connessioni. Il volto dell’altro, che Levinas ci ha insegnato essere all’origine di tutta l’esperienza morale e spirituale della persona, nello schermo (per quanto ad alta definizione!) potrebbe essere privato della sua intrinseca forza spiazzante e ridotto ad uno spettacolo inoffensivo. Da attori della comunicazione si rischia così di diventare spettatori di una rappresentazione di cui nessuno più è protagonista.

UNA NUOVA PERCEZIONE DELLO SPAZIO
Sopprimere lo spazio non si può. La tecnologia però ha lo straordinario potere di compattarlo, estendendo l’esperienza della prossimità (virtuale, ma non per questo irreale) a contesti tra loro geograficamente assai remoti. I moderni sistemi di instant messaging consentono indiscutibilmente una enorme agevolazione delle relazioni. Anche in questo caso, però, è d’obbligo la precisazione che ciò si verifica potenzialmente, e che anche il compattamento dello spazio non è immune da pericoli.
Il primo è stato definito da Giuseppe Mazza come “sindrome da confessionale” (cfr. Questione antropologica e nuove tecnologie, relazione tenuta al Convegno “Chiesa in rete 2.0, Roma, 2009). Essa spinge i soggetti ad abbattere le proprie difese comunicative e a condividere le proprie dimensioni personali profonde, per il semplice fatto di percepire come “ridotto” lo spazio tra i comunicanti. Oppure si può incorrere nel rischio del livellamento delle identità individuali che può verificarsi nello spazio anonimo e appiattito di qualche forum, o mailing list, o web group, con il conseguente impoverimento dello scambio relazionale.

UNA NUOVA PERCEZIONE DEL TEMPO
Come per lo spazio, anche la percezione del tempo può giocare un ruolo fondamentale nella qualità della presenza in rete. Efficacia comunicativa e immediatezza di scambio (in tempo reale, appunto) portano con sé benefici fino a qualche anno fa neppure immaginabili. Eppure anche in questo caso sono sempre in agguato insidie da non sottovalutare.
La prima è quella di non saper gestire una temporalità accelerata con tutto ciò che ne deriva in termini di “distrazione, smarrimento degli obiettivi determinanti, dissoluzione delle gerarchie operative, banalizzazione del tempo e del suo libero utilizzo”. Proprio come accade a chi nel mare magnum di internet finisce per perdere la bussola della sua navigazione...
L’altro grande pericolo è quello di smarrire, nell’eterno presente della rete, la capacità di districare i fili della temporalità, conservando un sano senso della storia, del passato e del futuro. “Oggi l’uomo percepisce il tempo come continuamente presente. Siamo dinanzi ad una enfatizzazione del presente per cui si può parlare di ipertrofia del presente". (cf G. Mazza, art. cit.)”.

NUOVI STIMOLI PER L’INTELLIGENZA
Se lo spazio è compattato e il tempo accelerato, l’intelligenza alle prese con i new media è di certo assai stimolata. La quantità di informazioni praticamente sconfinata e offerta senza soluzione di continuità a chi intraprende una navigazione telematica, costringe il soggetto a definire, sfruttando la logica imposta dallo schermo, dalla tastiera e dal mouse, una proprio itinerario di viaggio, con grande beneficio per la creatività e per lo spirito d’iniziativa. Come sempre, però, potenzialmente. Nessuno, infatti, può ignorare gli effetti destabilizzanti e la possibile confusione che la mole immensa e indiscriminata di informazioni telematiche è capace di ingenerare. Quel che può arricchire e risolvere problemi, potrebbe anche schiacciare e bloccare se chi naviga non sa gestire il timone con maestria.
In internet, poi, i concetti di “avanti” e “indietro” (analogamente a quanto si diceva a proposito del tempo) diventano relativi. Come in un post-moderno Labirinto, si può rimanere vittime del Minotauro oscuro del non-senso, del consumismo, del relativismo. L’eterogeneità degli infiniti siti, apparentemente tutti uguali per l’internauta inesperto, può indurre a credere che tutto in fondo si equivalga e può ridurre la comunicazione alla trasmissione, in ultima istanza, soltanto di se stessa.
La simbolica medievale riconosceva nel gioco tra segno e significato l’eterna fecondità di un processo costruttivo di senso. Cosa potremmo dire oggi dell’indefinita e indeterminata rete di rimandi ricorsivi che costituisce la radice epistemica (struttura cognitiva) della Grande Rete? C’è ancora spazio per un Significato (magari “ultimo”), dopo la saturazione di tutti i referenti? Se tutto punta a tutto, l’informazione non finisce forse per uccidere se stessa?

Non si crede semplicemente in base a delle argomentazioni: il ruolo dell’immaginazione, del simbolo, dell’amore
È tempo di porsi la domanda che ci sta più a cuore: se la fede nasce dall’ascolto, che cosa provoca la sordità spirituale nella cultura contemporanea, fin qui descritta?
Per rispondere parto da una frase del compianto teologo e cardinale A. Dulles, per il quale: “la crisi contemporanea della fede è in grandissima parte una crisi di immagini”. La fede in effetti esprime un atto di fiducia e di abbandono, che per essere suscitato ha bisogno di trovare conferma non solo nei cosiddetti motivi di ragione, ma anche nell’ambito dell’immaginazione. Non si crede semplicemente in base a delle argomentazioni, ma più profondamente a motivo di un Incontro, cioè di un’esperienza personale (cfr. Deus caritas est).
Occorre forse tornare a distinguere come facevano i medievali la ‘fides qua’ dalla ‘fides quae’ non per contrapporle, ma per ritrovarle insieme. La ‘fides qua’ è l’atto della libertà umana che si sbilancia verso Dio ed è impastata necessariamente di tutti i colori dell’umano, ivi comprese le emozioni e l’immaginazione. La ‘fides quae’ dice invece i contenuti del credere, talora esplicitati attraverso l’insieme degli articoli della fede, che hanno necessità pure di essere veicolati in forma plausibile. Ora cosa è accaduto per doverne oggi riparlare?
In una società cristiana e alle prese con un certo razionalismo, comunicare la fede significava sostanzialmente trasmettere la dottrina, anche perché la dinamica familiare pensava poi a far emergere la dimensione dell’immaginazione e dell’emozione. Di qui l’impegno della Chiesa soprattutto attraverso la ‘dottrina cristiana’ per purificare i contenuti ed orientare la fede. In tal modo il linguaggio informativo-razionale del catechismo ben si abbinava a quello simbolico-narrativo dell’ambiente familiare. Il punto è che oggi questi due linguaggi, non più uniti, non solo non producono più ciascuno il suo effetto, ma raddoppiano i loro difetti. E così assistiamo a bambini che vengono al catechismo ormai ‘disincantati’ perché non hanno più in famiglia la crescita della loro sensibilità religiosa e da parte nostra offriamo per lo più una dottrina che però è indigesta e inutile, perché senza la ‘fides qua’ la ‘fides quae’ non attecchisce.
Dice bene Gallagher: “La gente non è ostile alla verità posta nel cuore del vangelo, ma spesso la sua immaginazione non è raggiunta dal normale linguaggio della chiesa. Il senso religioso ha sempre trovato la sua più eloquente incarnazione nei simboli, ma oggi … i nostri simboli di trascendenza sono isolati dalle esperienze che li hanno fatti nascere” (GALLAGHER, M.P., La poesia umana della fede, Milano, 2004, 133). E aggiunge: “La maggior parte delle persone che hanno abbandonato il regolare contatto con la chiesa non l’ha fatto per un qualche argomento intellettuale contro la fede. Essi si sono allontanati perché la loro immaginazione non è stata toccata e le loro speranze non sono state risvegliate dalla loro esperienza di chiesa… La crisi è a livello della ‘mediazione’ tra la tradizione di fede e la nuova sensibilità culturale” (ibidem, 137).
È questa la variante contemporanea della frattura tra Vangelo e cultura: l’inflazione delle immagini maturate al di fuori dell’orizzonte della fede e dunque il venir meno dell’immaginazione credente. Come si ricava da un testo, cui sono debitore in questo passaggio della mia riflessione: “Si è dunque consumato un divorzio che ha reso orfana l’immaginazione, privata della possibilità culturale di sentire vitalmente vero ciò che viene comunicato e capito come vero”. Per poi concludere: “La mancanza di cui molte persone oggi soffrono e, di cui la chiesa deve prendere atto è quella di ‘immagini credibili e trasformanti’, non di dottrine vere o indicazioni morali da comprendere” (Cfr. RATTI, A., Tra fede e cultura: l’immaginazione e il linguaggio simbolico e narrativo, in CredOg, 24 -6/2004 - n 144, 45-59).
Del resto già Agostino aveva lasciato intendere che non è sufficiente un approccio solo razionale al credere. Se davvero la fede coinvolge l’assenso, non si può credere senza volerlo, e la volontà è mossa dall’amore: “Con l’amore si domanda, con l’amore si cerca, con l’amore si aderisce alla rivelazione, con l’amore infine si rimane in quello che è stato rivelato” (De moribus ecclesiae catholicae, I, 17,31, in PL 32, 1321). Più di recente, l’interprete più lucido di questa intuizione risulta essere Newman, il quale, in uno dei suoi indimenticabili Sermoni, afferma: “Così io rispondo alla domanda riguardo al rapporto (la connessione) tra amore e fede. L’amore è la condizione della fede; e la fede a sua volta è colei che nutre e fa maturare l’amore…L’amore è il fine, la fede il mezzo. (…) È l’amore che fa la fede, non la fede l’amore” (J. H. Newman, Sermon 21 in ID., Parochial and Plain Sermons, vol 4, Longmans, Green & Co., London 1909, 315).
Quanto detto sarebbe facilmente documentabile pensando allo scadimento di certa catechesi che ha troppo frettolosamente abbandonato il metodo informativo-razionale senza assumere in profondità quello simbolico-narrativo; oppure constatando una certa distanza della liturgia ufficiale rispetto a talune forme della religiosità popolare; o ancora notando che la forza dei ‘buoni esempi’, uniti alle ‘buone pratiche’ spesso cede il passo ad un annuncio disincarnato ed astratto. Tutto questo finisce per compromettere le residue capacità immaginative e privare la coscienza di quella disponibilità che è necessaria premessa all’ascolto.
Per questo appare evidente che occorre creare una serie di condizioni, una sorta di nuovi preambula fidei, per preparare il terreno all’ascolto, visto che le resistenze avvengono non tanto a livello culturale o razionale, quanto piuttosto esistenziale ed empatico-emotivo.
Si tratta, in altre parole, di liberare l’immaginazione spirituale, che potrebbe essere ostruita da pregiudizi che si sono sedimentati nella cultura secolarizzata e che agiscono come automatismi. Infatti alcune delle principali strade che portano a Dio – libertà, trascendenza, meraviglia, comunità, preghiera, senso religioso – finiscono per essere sistematicamente eluse nella cultura diffusa e, in particolare nel linguaggio della Rete, in genere permeato dal pensiero unico dell’ironia, della leggerezza senza contenuti. Un compito primario del primo annuncio oggi è quello di liberare coloro che sono affamati di spiritualità, ma sono oppressi dal senso comune della nostra cultura. In altre parole, “la crisi, prima di essere teologica o filosofica, è antropologica, nelle immagini di noi stessi che ci rendono prigionieri o ci liberano” (cfr. M. P. GALLAGHER, Verso una nuova apologetica, in CivCat 1996 – I – 43).

Provocazioni dai media per l’annuncio del vangelo
L’immaginazione della gente comunque va nutrita e se non trova il nutrimento va in cerca di surrogati che oltre a portare fuori strada, possono bloccare la ricerca attiva di un significato cristiano della realtà. È interessante notare che mentre da certe chiese e perfino cattedrali – per lo più superfici aniconiche in cemento armato – sono sparite le rappresentazioni di soggetti sacri, al contrario il grande schermo pullula di serial dedicati agli spiriti alati e la TV fa il pienone sulla vita dei santi o comunque grazie a film di soggetto biblico.
Se questo è vero, mi pare che ci siano alcune opportunità che non vanno ulteriormente disattese, a partire dal mutato contesto culturale.

Un primo livello di interazione riguarda anzitutto il discernimento culturale che va vissuto non come desolazione, ma come consolazione spirituale. È certamente da annoverare tra le sfide e i nodi problematici della contemporaneità la non immediata evidenza di Dio, inteso in una forma personale. In una parola la trascendenza non è più un fatto ovvio e direi neanche possibile ordinariamente. In un contesto come il nostro poi chi osi rappresentare qualcosa che vada oltre il contingente ed afferrare la verità dell’insieme è visto normalmente con sospetto. Ciò spiega perché da questo clima il primo annuncio riceva un colpo letale, simile alla delusione di Paolo nell’Aeropago di Atene (cf. At 17). Proprio questo apparente insuccesso ci offre però lo spunto per acquistare un atteggiamento di fondo verso la cultura che ci circonda.
È lo stesso Paolo, insuperato comunicatore, ad offrircene il senso. Inizialmente l’Apostolo viene descritto con un’espressione inusualmente forte: “Il suo animo si infiammava di sdegno vedendo come la città era piena di idoli”. Poi però il discorso sembra cambiare ritmo e tono, quando giunto all’Aeropago comincia a lodare gli ateniesi per la loro spiccata religiosità ed interpreta perfino l’altare dedicato al dio ignoto, non come una forma di idolatria, ma come un segno dell’autenticità dei sentimenti religiosi degli ateniesi. Paolo quindi concentra la sua attenzione sul desiderio di Dio che vede inscritto perfino dentro la poesia dei greci e commenta che tutti cercano Dio e Dio non è lontano da alcuno perché “in lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (17,28).
Il passaggio di Paolo dal disgusto all’identificazione dei semi del vangelo in seno alla religiosità pagana, sembra un esempio del contrasto tra la desolazione e la consolazione che sottende ogni discernimento. “Non ci può essere, perciò, alcun discernimento reale della cultura senza la consolazione come un atteggiamento basilare, come una tonalità e una fiducia che libera la nostra disposizione per comprendere con un pizzico della sapienza di Dio. La consolazione non è sinonimo di un modo di vedere tinto di rosa; di fatto comporta una duplice aspettativa: ci saranno dei conflitti, delle ambiguità e degli antivalori da detronizzare, e ci saranno segno di speranza e di desiderio reale che sono frutti dello Spirito. Nessuna situazione è irredimibile” (GALLAGHER, Fede e cultura, un rapporto cruciale e conflittuale, Milano, 1999, 171): dobbiamo giudicare, ma sempre evitando di gettare via il bambino con l’acqua sporca!

Un secondo livello di interazione implica, dopo il discernimento, è curare il primo annuncio in lingua corrente. Se è vero infatti che siamo dentro ad una cultura di “oralità secondaria”, non dobbiamo dimenticare che questo non significa un puro e semplice ritorno all’indietro, dimenticando l’impatto della scrittura. L’oralità di oggi, quella che vediamo all’opera nelle radio o nei talk televisivi passa attraverso il rigoroso setaccio dell’analisi, per cui perfino il reality più diffuso, cioè il Grande Fratello, è costruito dalla prima all’ultima sequenza, fino al punto da apparire del tutto spontaneo. “Nel nostro tempo ci siamo riabituati all’espressione orale, ma ad un’oralità pianificata e cosciente di sé non spontanea ed innocente come quella primitiva. L’oralità secondaria conferma ulteriormente che il linguaggio più adatto alla comunicazione religiosa anche ai nostri giorni è quello che sa parlare all’immaginazione (attraverso il racconto), un linguaggio che deve sostenersi attraverso simboli e immagini (non solo con argomentazioni convincenti e logiche), ma al contempo deve essere pianificato, organizzato, non offensivo per le capacità logiche e analitiche sviluppate dal pensiero assuefatto alla lettura e alla scrittura, e che perciò pretende coerenza nello svolgimento di qualunque discorso” (RATTI, art. cit, 58-59). Ciò vuol dire misurarsi con l’ambiente culturale all’interno del quale si svolge ogni comunicazione religiosa e in cui si dà o si nega la possibilità di incontrare Dio. Così come nel Medioevo il materiale di costruzione dei monasteri e delle cattedrali era spesso costituito dai capitelli e dalle colonne dei templi pagani, così fuor di metafora chi oggi voglia impegnarsi ad annunciare il Vangelo deve conoscere in modo professionale i meccanismi del linguaggio narrativo e simbolico e le regole comunicative. Di più: conoscere i film, le canzoni, i programmi e le trasmissioni non è facoltativo per chi cerca vie nuove per far risuonare la parola del Vangelo. Volendo provare a fare un’ultima esemplificazione rivolta direttamente a noi preti: non è possibile che si studi per anni negli istituti teologici e non si curino poi le regole fondamentali della comunicazione orale. Non si può pensare di reggere l’urto della predicazione che resta “un amore deluso” per la gran parte delle persone e perpetuare questa forma di pressapochismo e di dilettantismo per cui si ritiene di poter tener desta l’attenzione ben oltre i 10 minuti, senza il corredo di una particolare “abilità linguistica”, che prevedeva già nell’antica forma della retorica di saper divertire, edificare e commuovere.

Infine un terzo livello di interazione che è quasi una diretta emanazione dei primi due è, dopo il discernimento e l’integrazione, il feedback, ovvero il superamento coraggioso delle logiche di annunzio unidirezionale e incapaci di valutare la propria stessa ricezione, ritenuta, a torto, del tutto marginale. Il successo di un annuncio all’altezza della nostra era sta in un’attenzione tutta speciale alla connaturalità comunicativa tra l’emittente, il messaggio e i suoi possibili recettori, sul modello del Dio che ha preso carne per parlare ad ogni carne. Nuovi tempi esigono un annunzio che si offra come comunicazione dimensionata: proporzionata cioè alle coordinate e ai registri espressivi/recettivi dell’essere umano, capace di farsi capire, di accogliere e di farsi accogliere.
In concreto ciò vuol dire in primo luogo verificare sempre quel che “passa” a partire dallo sguardo dell’interlocutore, senza lasciarsi assorbire dalla cura dei contenuti al punto da dimenticare l’interlocutore a cui dirigersi. Non basta essere sicuri di aver realizzato la comunicazione per star tranquilli: occorre provarne l’efficacia oltre che la pura efficienza.
Nell’intercettare l’altro non è poi inutile graduare l’annuncio tenendo presente che non tutto è allo stesso livello e che esiste una “gerarchia delle verità” che va tenuta presente non solo nel dialogo ecumenico (cfr. Unitatis redintegratio), ma anche nell’approccio a persone che devono prima poter cogliere la sostanza della proposta cristiana sia livello dogmatico che etico e solo poi addentrarsi in questioni di dettaglio. Se si perde il centro, la periferia diventa incomprensibile.
Infine il primo annuncio, per il suo carattere essenziale e direi quasi genetico, deve arricchire se stesso a partire dalle domande che uniscono e che sono la condizione per poter avviare quell’apertura di credito che fa passare dall’indifferenza all’attenzione e dall’attenzione all’ascolto.

I Cesaroni
Parlando a braccio, mons. Pompili ha fatto riferimento alla nota serie televisiva dei Cesaroni, sottolineando come uno dei motivi del suo successo sia la riproposizione che essa compie di una famiglia non “borghese” – ridotta cioè a padre, madre, figlio – nella quale la ricchezza del vissuto di molte persone e di diverse generazioni è palpabile, similmente a quanto avveniva nella famiglia di un tempo che comprendeva molte persone legate da profondi vincoli di affetto. Pur consapevoli di altri aspetti negativi, questo fatto non è da dimenticare.

6/ Dalla relazione conclusiva provvisoria di d. Paolo Sartor e d. Andrea Lonardo, 18 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Ci è sembrato utile provare a sottolineare il legame fra quanto detto dai gruppi e alcune delle grandi questioni che sono emerse nel corso del convegno. Il nostro compito era proprio quello di mostrare il filo che legava in unità le diverse tappe di questi giorni ed ora che siamo alla fine di questo percorso vale la pena vedere alcuni di questi temi trasversali per poterli più facilmente avere dinanzi agli occhi.

Primo annuncio e catechesi: due realtà da non contrapporre
Mons. Crociata ha proposto una lettura della situazione della fede in Italia. La condizione in cui viviamo non è certamente più quella che si è soliti indicare con la parola di “cristianità”, ma non è neanche quella di un Paese che semplicemente ignora o disprezza il cristianesimo. Anche Giampietro Ziviani, citando Sequeri, ricordava come si potrebbe parlare propriamente di un “secondo annunzio”, proprio perché in Italia non si dà un rapporto “innocente” con il cristianesimo. Ci sembra che questa consapevolezza sia condivisa da molti dei presenti, con due conseguenze molto importanti.
La prima: proprio perché la fede non può essere data per presupposta, il primo annunzio è estremamente significativo. Si potrebbe dire che è la realtà più bella, è lo scoprire che non si tratta di condividere questa o quella cosa secondaria, ma piuttosto il tesoro più prezioso, il primato di Dio che rivela pienamente il suo volto solo in Gesù Cristo. Proprio questa convinzione toglie quella stanchezza che può prendere una catechesi che non si ritenga più necessaria. Essa riscopre, invece, di poter donare all’uomo ciò che gli è essenziale.
La seconda: la stima per la fede cristiana che la storia del nostro Paese ha posto nel cuore di tanti li porta a rivolgersi alla Chiesa in momenti decisivi ed importantissimi della vita, per chiedere la grazia di Dio alla nascita di nuovi bambini, perché i figli siano aiutati nella crescita da educatori cristiani, per l’invocazione della presenza di Dio nella sofferenza e nel lutto, per preparare la scelta del matrimonio, ecc. Questo fatto – ci sembra – deve tornare ad essere guardato con grande simpatia e con sincero apprezzamento, anche se le ragioni di questa vicinanza non hanno fin dall’inizio la purezza che desidereremmo. Sarebbe strano che si guardassero con grande simpatia le domande di coloro che sono lontani dalla Chiesa e non si sapesse apprezzare la domanda di chi bussa alle porte della comunità cristiana o, addirittura, la abita anche se solo nella messa domenicale. Questo genera allora, senza alcun contrapposizione con la necessità del primo annunzio, la complementare consapevolezza del valore che ha tutto il tempo impiegato per la catechesi dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, degli adulti.

L'utilità di una chiarificazione terminologica su che cosa sia la prima evangelizzazione
All’espressione “primo annunzio” è stato collegata più volte nel convegno l’esperienza che ognuno vive di incontri personali che portano altri, come già hanno portato noi, a scoprire la bellezza e la verità del vangelo. Il momento del convegno che più ci ha ricordato questo è stata la tavola rotonda nella quale abbiamo ascoltato alcune testimonianze di incontri con “cercatori di Dio”.
Tutti e quattro gli interventi-testimonianza – di Fabio Zavattaro, Paola Vacchina, Marco Tibaldi e di padre Guido Bertagna – ci hanno confermato nella consapevolezza che niente può sostituire questo incontro personalissimo e intimo da uomo a uomo. In questo senso, fra l’altro, la testimonianza della fede è una delle comunicazioni più profonde che possano darsi fra persona e persona, poiché il testimone permette che l’altro gli legga fin nel fondo del cuore quella fede che gli dà vita e gioia. Mons. Forte, nel suo saluto iniziale, ci mostrava come già Platone avesse ben compreso che l’insegnamento orale precede e sostiene l’apprendimento tramite i libri, siano pure “libri sacri”!
Sotto questo profilo possono essere ricordati gli ambiti di Verona, che sono apparsi ancora una volta favorevolmente accolti nella riflessione dei gruppi di lavoro, magari combinati con i passaggi di vita che hanno caratterizzato i convegno dell’UCN degli anni precedenti. Del resto la stessa Lettera ai cercatori di Dio, evocando in maniera libera gli ambiti veronesi, aiuta ad utilizzarli con creatività. Nei gruppi di lavoro sono stati ripetutamente sottolineati la centralità del tema del piacere e della felicità, del decisivo passaggio esistenziale che è l’esperienza del “mistero della vita” nella paternità/maternità, del valore della formazione che si incontra nella scuola e nell’università, ecc.
Proprio la tavola rotonda ha, però, mostrato come non sia possibile ridurre il primo annunzio a quel rapporto interpersonale. Gli incontri che ci venivano raccontati erano avvenuti anche perché dei credenti avevano negli anni pensato e realizzato delle realtà comunitarie che potremmo definire ad extra, cioè vive fuori delle mura parrocchiali, come un Centro culturale, una associazione di lavoratori con le sue varie ramificazioni sul territorio, una casa editrice e così via. In questa linea possiamo evidenziare anche il contributo offerto stamane da monsignor Domenico Pompili in merito alla attuale socio-cultura mediatica e all'utilizzo pastorale degli strumenti di comunicazione sociale. La prima evangelizzazione richiama, in sostanza, anche alla bellezza e alla necessità di una fecondità che non si preoccupa solamente dello spazio intra-ecclesiale, ma creativamente propone esperienze, progetti, valori, istituzioni, fuori del perimetro ecclesiastico.
Il primo annunzio richiede pure una terza dimensione: quella di un itinerario che permetta a chi vuole conoscere il cristianesimo perché attratto o incuriosito da esso di poter concretamente trovare un cammino dove rispondere a questa sua esigenza. Dalle risposte di molti dei gruppi di lavoro, emergeva il fatto che sono pochi i luoghi dove si propone qualcosa di significativo a chi non vuole conoscere aspetti particolari del cristianesimo, ma vuole piuttosto essere introdotto all’esperienza iniziale ed essenziale della fede cristiana. Gli interventi pastorali della CEI, ricordati nella panoramica tracciata da mons. Lucio Soravito ci richiamano peraltro alla necessità di affrontare questa sfida. E la stessa Lettera ai cercatori di Dio può essere vista come una traccia di itinerario in tal senso.

L’irriducibilità di domande e risposte
Spesse volte, nel corso del convegno – ma anche nei convegni precedenti - si sono rincorsi i termini “domanda” e “risposta”. Essi sono così importanti – e tali sono percepiti da tutti – perché il volto di Dio e quello dell’uomo, così come quelli degli uomini, sono in relazione.
Mons. Crociata ci invitava a percorrere fino in fondo questa via, parlandoci del tentativo, che definiva talvolta “ossessivo” nella cultura contemporanea di “autocentramento”. In questo senso, il primo annunzio deve ascoltare sempre ed in forma ogni volta nuova e mai compiuta una volta per sempre le domande dell’uomo – da Giampietro Ziviani è stata ricordata in merito la Gaudium et spes e le sue indicazioni in merito. Ma, al contempo, deve ascoltare sempre di nuovo la voce di Dio ed accogliere il suo volto. Sarebbe miope un annunzio ed una catechesi che non facesse sempre di nuovo brillare perché Gesù è unico ed insostituibile.
In questo contesto forse è da tornare a riflettere sul perché nella fede cristiana il contenuto della fede e la sua esperienza siano inseparabili. Ancora mons. Crociata affermava che l’inseparabilità di annuncio e testimonianza non sarà mai sufficientemente insistita.
Questo è evidente proprio nel primo annunzio, dove ognuno si accorge che talvolta una persona è colpita dalla testimonianza di fede o di gioia o di servizio di un credente e, talaltra, dalle parole che egli pronuncia, scoprendo che ciò che riteneva non interessante e banale gli dischiude invece, improvvisamente, un mondo totalmente inedito.
Anzi proprio la convinzione della verità ed, insieme, della bontà e della bellezza del cristianesimo si richiamano continuamente. Non potrebbe resistere una fede che fosse solo bella o solo vera.
È, forse, possibile approfondire qui, anche se solo di passaggio, la questione del dubbio. Mons. Crociata specificava che era da porre una differenza fra il “possesso di Dio”, che non avviene mai una volta per tutte, e la “certezza della fede” che scaturisce, invece, dall’affidamento in Lui. L’esempio dell’amore è qui illuminante. Chi ama lo sposo o la sposa non mette continuamente in dubbio il proprio amore; se lo facesse, affermando che non è sicuro del proprio amore – o dell’amore dell’altro – metterebbe in crisi la coppia. Chi ama, invece, vuole continuamente approfondire l’amore e non è mai sazio, ma non per questo non sa di aver compiuto una scelta che caratterizza ormai tutta la vita.
Marco Tibaldi, nella sua testimonianza, ci richiamava al valore di questo proprio nel primo annunzio, affermando che tale compiacimento del dubbio non si sposa con il “cercatore di Dio” che si accorge di “stare affondando” e non potrebbe che essere scoraggiato da chi gli dicesse che, in fondo, anche la barca che gli fa incontro “potrebbe affondare da un momento all’altro”.
Nell’intervento di mons. Bruno Forte si evidenziava anche la complementarietà dei diversi linguaggi utilizzati dalla Scrittura, dalla teologia e, così, dal primo annunzio. Il linguaggio metaforico – affermava – “da a pensare”, ma anche il linguaggio narrativo ha grande importanza, così come l’espressione poetica. Sempre nella sua relazione, mostrava, in riferimento a svariati temi, come la riflessione sintetica fosse altrettanto importante. Il “cercatore di Dio” talvolta ha bisogno proprio di quella sintesi che viene fornita dalla riflessione cristiana, che gli permette di uscire dalla frammentazione in cui vive.

L’importanza dell’arte del discernimento
Dinanzi al domandare umano senza posa ed al rivelarsi di Dio è sorta anche la questione dei “sì” e dei “no” nell’annunzio e nella catechesi. La fede sgorga proprio quando l’uomo si accorge che Dio pronuncia il “sì” alla sua vita. La grande sfida che l’evangelizzazione deve affrontare, insieme a quella della verità, è proprio quella della significatività della fede: la fede non può che essere rifiutata quando viene percepita come la mortificazione della vita.
In questo senso la storia del cristianesimo ha mostrato – e deve mostrare oggi – che la fede accoglie tutto ciò che è umano ed, anzi, lo porta a perfezione, lo compie nella sua bellezza e bontà.
Ma, d’altro canto, la fede svela la non pienezza e discerne il male che è presente nella vita, portandolo alla luce e chiamandolo per il proprio nome
. Le meditazioni su Paolo della prof.ssa Borrello Bellieni ci hanno mostrato la denuncia che l'Apostolo compie nei confronti dei falsi idoli e delle vie senza uscita degli “epicurei” e “stoici”. Il primo annunzio vivrà sempre una tensione, nel suo rapporto con gli uomini e con la cultura, che sarà di accoglienza, di denuncia, di compimento.

La significatività della questione dell’identità della Chiesa e di coloro che le appartengono
Molte volte si è ricordato che il primo annunzio, come la catechesi, è opera della Chiesa tutta. Si è profondamente insistito sulla conversione personale e comunitaria, così come sul rinnovamento delle persone e delle prassi ecclesiali.
Ma, al contempo, si è posto l’accento sulla dimensione “popolare” non solo del cattolicesimo italiano, ma, più profondamente, del cristianesimo in se stesso. Come dice la Lumen gentium, tutti battezzati – e in certo modo anche i catecumeni – appartengono profondamente alla Chiesa. Anzi tutti gli uomini “sono ordinati” ad essa.Proprio chi è maturo nella fede – si è insistito molto su questa maturità – ha la capacità di portare gli altri e di sentirli come “appartenenti” a Cristo, ben al di là delle statistiche sociologiche.
Tornano in mente le straordinarie parole di d. Andrea Santoro che, nel salutare la sua parrocchia, prima di partire missionario in Turchia, diceva: "Sento il bisogno di dire grazie: ai miei confratelli sacerdoti con cui ho pregato, gioito, sofferto e lavorato; ai malati, ai bambini, ai poveri che mi hanno mostrato la piccolezza e la potenza di Gesù; ai giovani che mi hanno permesso di cogliere con loro il soffio rinnovatore dello Spirito; agli adulti che mi hanno concesso la loro amicizia e il loro sostegno; agli anziani che mi hanno fatto poggiare sulle loro spalle antiche. Ringrazio quanti hanno collaborato in parrocchia a tenere accesa e a trasmettere la lampada della fede, a far crescere la comunità, ad accendere il fuoco di Gesù nel quartiere: chi con il carisma della parola, chi con quello della preghiera, chi con l’azione visibile, chi con i silenzi, chi con il carisma della liturgia, chi con quello della carità operosa, chi con le lacrime e la potenza redentrice della sofferenza, chi con i servizi più umili e nascosti. Ringrazio quanti non ho conosciuto perché mi hanno concesso di vivere accanto a loro e di amarli anche se a distanza. Sempre ho pregato per loro e sempre li ho pensati a me vicini, soprattutto la sera quando guardavo le finestre illuminate delle case e a messa quando, alzando il calice del sangue di Cristo dicevo: “questo è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. In quel “tutti” comprendevo proprio tutti, nessuno escluso. Nel mio cuore, andando via, porterò ogni persona conosciuta e non conosciuta della parrocchia: sono le pecorelle, i figli, i 'pesciolini' affidati alla mia pesca e destinati alla rete del Regno di Dio".
Le note sull’evangelizzazione degli adulti già battezzati poggiano proprio su questo presupposto, su questo amore che la Chiesa ha per tutti i suoi figli.
La centralità della liturgia eucaristica, sottolineata da mons. Crociata e da molti gruppi di lavoro, manifesta il luogo del sorgere e del manifestarsi della Chiesa. Non si può dimenticare che, nel nostro tempo, l’eucarestia esprime una reale forza di annunzio. Proprio nel suo essere aperta a tutti, diventa oggi, spesso, il primo veicolo dell’annunzio e molti decidono di riavvicinarsi alla fede o di avvicinarsi per la prima volta, dopo aver partecipato ad una liturgia domenicale o a momenti di festa o di lutto celebrati nelle parrocchie o nelle diverse chiese.
Anche l'intento e lo stile del nuovo direttore nazionale don Guido Benzi ci sembrano collocarsi sulla linea sperimentata dall'Ufficio Catechistico Nazionale nei decenni scorsi, tesi allo stimolo della creatività dei pastori e dei catechisti in ordine alle sfide che pone l'annuncio agli adulti, ai giovani e ai ragazzi, ma insieme attenti a valorizzare le risorse e le esperienze presenti nella vita delle nostre Chiese locali dove tuttora si sperimenta un cristianesimo di popolo.
Anche noi, come direttori e collaboratori degli Uffici Catechistici Diocesani, consapevoli della difficoltà di stimolare le diocesi sulla strada del rinnovamento pastorale in un momento in cui taluni manifestano resistenze e fatiche, apprezziamo un approccio realistico e che vuole tentare di indicare passi praticabili e condivisi.

L'importanza della questione educativa che viene illuminata dal primo annunzio
Palpabile è la consapevolezza che non si può omettere, nel primo annunzio e nella catechesi, né una serissima attenzione al mondo degli adulti, né una altrettanto impegnata proposta al mondo dei fanciulli e ragazzi.
Proprio il servizio che è richiesto – e non scelto – dai nostri uffici ci porta continuamente a misurarci con queste due dimensioni. Lo si avverte anche nei dialoghi a tavola e negli scambi di esperienze.
Il “tutti” a cui si rivolge il primo annunzio riguarda anche cronologicamente tutte le età. Proprio l’attenzione alle dimensioni dell’adulto sta facendo riscoprire che l’adulto è tale proprio perché ha anche una vita familiare e dei compiti educativi presso le nuove generazioni.
In questo senso, è da valorizzare tutto ciò che nella pastorale battesimale 0-6 anni e nei successivi itinerari in vista del completamento dell’iniziazione cristiana conduce all’accompagnamento delle famiglie e alla loro evangelizzazione.
D’altro canto, il primo annunzio della fede ai bambini e ai ragazzi, non può essere condizionato al cammino dei genitori, poiché proprio i piccoli hanno bisogno di essere accompagnati a conoscere ed amare il Signore. Tutta la moderna pedagogia insiste sulla centralità dei primi anni di vita nella formazione della personalità e lo stesso Documento di base ricorda che nessuna età va vista come finalizzate alle altre, ma ha un suo significato in se stessa, ricordando, d’altro canto, come errori o inadempienze vissute in una certa età portano con sé conseguenze per tutta la vita.
Solo in alcuni gruppi di lavoro è emerso il fecondissimo tema dell’annuncio ai giovani. La consapevolezza crescente che l’allontanamento degli adolescenti e dei giovani dalla partecipazione ordinaria alla vita ecclesiale non dipende tout court dall’iniziazione cristiana viene confermata dall’attenzione al primo annunzio.
L’accoglienza della fede, infatti, non può mai essere data per scontata, soprattutto oggi, in quanto realizzata in una età precedente. Molti adolescenti e giovani, che sono stati contentissimi di percorrere il cammino di iniziazione e lo hanno vissuto come una vera scoperta, all’approfondirsi delle proprie domande con il crescere delle età ed all’apparire dei naturali dinamismi di rifiuto che vivono dopo la fanciullezza, se avvertono che la proposta che è rivolta ai giovani nelle loro comunità è povera, abbandonano il cammino.
In questa prospettiva, appare importante tornare a illuminare la questione dell’iniziazione cristiana e molti uffici catechistici avvertono la positività dell'accenno esplicito in merito che ha compiuto due volte mons. Crociata nella sua relazione. L'attenzione alle pratiche consolidate, sperimentali o auspicabili relative all'iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi potrà essere posta, nuovamente, alla luce dei contributi di questi anni dedicati alla catechesi degli adulti e, insieme, in un orizzonte più ampio di quello meramente ecclesiale, nella consapevolezza che la difficoltà di educare non riguarda solo i piccoli nella Chiesa, ma anche i genitori adulti, il mondo della scuola, quello del tempo libero, ecc.

7/ Linee conclusive del Convegno UCN, La bellezza dei “piedi” di chi annunzia, di d. Guido Benzi, 18 giugno 2009, al Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009, dal titolo “La nostra lettera siete voi... (2 Cor 3,2). Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con Cristo”

Molte linee di orientamento per il nostro lavoro sono già state enucleate dalla bellissima Sintesi del Convegno fatta da Mons. Lonardo e Don Sartor. Tale Sintesi dovrà essere oggetto attento di riflessione a partire dalla Consulta Nazionale. Il mio compito è piuttosto quello di “rilanciare” alcune tematiche che si sono più volte proposte nella nostra riflessione di questi giorni, in modo che non rimangano un bel pensiero ma possano essere tradotte in assunzioni operative.

Dal momento che moltissimo – come era giusto – è stato detto sui destinatari del Primo Annuncio, appunto i “Cercatori di Dio”, io vorrei piuttosto soffermarmi sulla figura dell’annunciatore, che poi è ciascuno di noi, dei nostri collaboratori, all’interno s’intende dell’intera Comunità Cristiana.

L’immagine che mi è tornata in questi giorni spesso alla mente è quella del Servo tratteggiata nei famosi Canti del Secondo Isaia, soprattutto quel versetto di Is 53,1 «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?». In tale versetto è celato l'enigma che l'Eunuco Etiope, immerso nella lettura del IV Canto, rivolge a Filippo in Atti 8,34: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?». L'interrogativo più immediato sembra essere quello sulla identità del Servo, ma un’attenta lettura di questo testo, mostra che non si tratta solo di riconoscere l'identità di una persona, ma di “credere ad un annuncio”. L'identità di questo Servo è infatti strettamente connessa alla inaudita e radicale novità del "vangelo" che egli testimonia, una novità riconosciuta proprio da coloro che al Servo non avevano creduto, mettendolo a morte, mentre proprio dalla sua testimonianza e dal suo sacrificio avrebbero ricevuto la rivelazione della salvezza e del perdono. Gesù stesso ha utilizzato questi testi di Isaia per annunciare il mistero della sua Passione, Morte e Risurrezione, dono di salvezza per «la moltitudine» (Mc 10,45). Così la prima Chiesa ha riletto in questi testi il Mistero di Gesù, e la sua identificazione con il Messia sofferente e glorificato.

A questa immagine – come si sa e si può vedere molto impegnativa – si sovrappone, sempre nel Secondo Isaia, quella del “messaggero che annuncia la pace” (Is 52,7).

Potremmo così schematizzare il nostro intervento attraverso alcune parti fisiche del Servo alle quali ricondurre alcune delle riflessioni compiute in questo convegno: lo sguardo, la bocca, l’orecchio, i piedi.

1. Lo sguardo del Servo

«Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere»
(Is 53,2).

E’ più volte tornato in questi giorni (stimolati dalle relazioni di Mons. Crociata e del Prof. Ziviani) la categoria avvincente del “sogno” e della “visione” in chiave profetica da proporre alle nostre comunità e da proporre (non solo a parole ma con la vita) nell’annuncio. Tali categorie sono molto importanti, esse escludono però, proprio nel loro radicamento biblico, l’idea della «fascinazione» così come esprime il Primo Isaia: «Essi dicono ai veggenti: “Non abbiate visioni” e ai profeti: “Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni!”» (Isaia 30,10). Lo sguardo del Servo è uno sguardo realista e di fede che sa cogliere nella realtà la presenza di Dio proprio dentro i segni di fragilità e di «passione» che la realtà presenta. Vorrei qui riportare un passaggio della relazione di Mons. Crociata che mi sembra veramente illuminante:

«La visione, il sogno, che sottostà a questo segno profetico è, allora, la convinzione di fede che la presenza di Dio, l’opera di Cristo, il segno della Chiesa sono vivi e all’opera in questo mondo e in questo tempo, non sono stati esiliati e non ne saranno rimossi. La visione è profetica, perché non ne conosce in anticipo le modalità e le forme, ma ne possiede la certezza, secondo la parola del Signore: «Aprirò anche nel deserto una strada» (Is 43,19; cf. 35,8). Ci passa per la mente il pensiero che in alcune terre la Chiesa si è ridotta ad un livello residuale; ma proprio questa circostanza storica riconduce il nostro discorso alla sua dimensione propria. Siamo dinanzi ad una sfida della fede, e non della fede degli altri bensì della nostra. Oggi è in gioco, come sempre e come non mai, la qualità della nostra fede. Da qui discende anche la configurazione concreta della nostra visione, del nostro sogno».


Se siamo chiamati – come ci è stato ricordato anche nei Convegni degli anni passati soprattutto a Olbia e Genova – ad operare in una società dove sempre di più Dio sembra apparire «non necessario», dobbiamo nello stesso tempo maturare la convinzione che questa «kenosi» non tocca la potenza della Parola e dell’annuncio: «questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4).

In concreto bisogna che mentre proseguiamo il nostro lavoro di riflessione e di attuazione di cammini di Annuncio agli adulti, riprendiamo in mano una verifica seria del Rinnovamento della Catechesi dell’Iniziazione cristiana secondo le numerose e preziose indicazioni che sono state enucleate nel corso di questo decennio. E non dimentichiamo la caratterizzazione «catecumenale» che abbiamo riscoperto all’interno dell’atto catechistico.

2. La bocca del Servo

«Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli»
(Is 50,4).

L’evento ecclesiale del Sinodo sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ci ha ricordato all’inizio del presente Anno Pastorale l’importanza della Parola nell’annuncio, nella celebrazione e nella testimonianza delle comunità Cristiane. Un’attenta lettura delle Proposizioni – in attesa della Esortazione Apostolica postsinodale - ci mostra alcune direttrici importanti nel nostro impegno per l’Annuncio e la Catechesi:

- Anzitutto la consonanza del Documento Base (del quale nel 2010 celebreremo il quarantennio) con il Sinodo. Tale consonanza non è casuale, ma risale al comune riferimento fedele alla Dei Verbum. Mi sembra che qui ci sia un interessante campo di indagine anche per dare vigore al Primo annuncio nel solco della tradizione catechistica italiana e – mi si permetta – per affrontare il tema della catechesi degli adulti anche in rapporto alla Parola di Dio. Si tratta, per dirla con uno slogan di Cesare Bissoli, di passare “Dalla pagina scritta alle persone vive: il Tu di Dio ed il Noi del popolo”;
- I temi della Comunicazione, che si sono affacciati nel nostro Convegno con la relazione di Mons. Pompili, debbono senz’altro poter avere un maggiore spessore ed una maggiore attenzione. Non si tratta solo di «curare» il nostro annuncio, si tratta di comprendere la grammatica fondamentale di un mondo comunicativo che ha assunto sempre maggiori dimensioni.
- In tale contesto riemerge a tutti i livelli il tema della FORMAZIONE dei catechisti e dei formatori dei catechisti. Il documento UCN del 2006 aspetta di essere ripreso per verificare quanto e come è stato utilizzato nelle nostre Diocesi.

3. L’orecchio del Servo

«Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro»
(Is 50,5).

L’immagine potrebbe facilmente sembrare la prosecuzione del tema precedente dell’«essere discepolo», va invece compresa in modo diverso. L’«apertura (foratura) dell’orecchio» si rifà all’usanza di marcare lo schiavo che desidera rimanere a vita nella casa del padrone . «Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto… Ma se lo schiavo dice: “Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero”, allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina, e quello resterà suo schiavo per sempre» (Esodo 21,2-6).
Si tratta dunque di una fedeltà di appartenenza (dentro una dimensione affettiva): il servo dona tutto se stesso a Dio, secondo i modelli vocazionali profetici dell’AT (Isaia, Geremia,…). Tale tema dell’appartenenza richiama un altro passo della relazione di Mons. Crociata sulla «cura dell’oggettività ecclesiale»:

«Cura della oggettività ecclesiale, dunque, non significa mortificazione della partecipazione e del coinvolgimento personali, che, se possibile, devono raggiungere la densità più grande possibile, ma loro valorizzazione unicamente nel segno di una uscita da sé verso Dio e il suo Cristo, verso i fratelli e verso il prossimo, perché sia attuazione della logica agapica della Pasqua e del Vangelo che la proclama. Se una considerazione vogliamo concederci ancora su questo punto, essa ci costringe a dire che un malinteso protagonismo nella Chiesa ha l’effetto non solo di allontanare da essa quanti vorrebbero o potrebbero avvicinarsi, ma soprattutto di tenere lontani dal fuoco vivo della grazia proprio quanti vanno ad attingervi ordinariamente. Al centro della vita della Chiesa ci devono essere davvero, non solo per buona intenzione, ma per ordinamento esteriore e per adesione cordiale, la Parola di Dio, la celebrazione liturgica, la cura delle relazioni personali secondo uno stile insieme affettivamente intenso e comunitariamente ordinato, perché al centro della vita della Chiesa c’è il Cristo di Dio. Questa cura consente di guardare con vero spirito missionario quanti si avvicinano o possono essere accostati e raggiunti sistematicamente o occasionalmente dalla nostre comunità ecclesiali, perché esprime la coscienza che le distanze sono già state superate e che, per grazia, partecipiamo di un unico cammino che tutti conduce».

Anche qui possiamo fare due considerazioni che si traducono in indicazioni concrete:

- In primo luogo dobbiamo sempre con maggiore attenzione valorizzare nell’Annuncio e nella Catechesi la dimensione Liturgico-celebrativa. Qui si apre tutto un grande ambito di proposte e riflessioni. Basti accennare al fatto che sempre di più sta emergendo negli studi come le formulazioni kerigmatiche che troviamo nei testi biblici avessero anche e soprattutto una valenza celebrativa.
- In secondo luogo va approfondita e meglio compresa anche in chiave catechistica, la proposta di gradualità che, ad esempio dal Rito del Matrimonio, viene fatta rispetto alla celebrazione della Parola (con indubbi riflessi catecumenali) ed alla celebrazione che prevede la piena partecipazione eucaristica.

4. I piedi «belli» degli evangelizzatori

Come sono belli sui monti
i piedi del messaggero che annuncia la pace,
del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza,
che dice a Sion: «Regna il tuo Dio»
(Is 52,7)

L’immagine mi sembra descrivere molto bene il nostro servizio al Signore e alla Chiesa. Se è vero che il compito dell’Annuncio e della Catechesi è in definitiva di tutta la Comunità cristiana unita intorno ai suoi Pastori, tuttavia tale compito ha bisogno di chi si mette in spirito di servizio a “camminare”. Noi siamo «i piedi» che recano l’annuncio del regno. Piedi belli non per motivi estetici, ma perché questo annuncio, questo vangelo è «bello». Possiamo così concludere dicendo a noi stessi che dobbiamo avere molto a cuore la nostra “comunità catechistica” italiana. Solo se mostriamo con verità e attenzione quanto essa sia variegata e bella possiamo essere certi che il nostro servizio sarà di stimolo al cammino di tutta la comunità cristiana.

(1) Quando l'eunuco chiede se il testo si può applicare "a qualcun altro " indubbiamente si riferisce alla sua condizione personale, avendo appena letto dal profeta "ma la sua posterità chi potrà mai descriverla?" e conscio della esclusione che lui stesso ha dal culto giudaico per la sua situazione (cf Dt 23,2). Per l'interpretazione di questo brano si può vedere J.N. ALETTI, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del libro degli Atti degli Apostoli, Roma 1996,37-42. Beauchamp fa notare come qui si supponga una tradizione di lettura che avvicina il IV Canto del Servo Sofferente ai testi vicini: come 54,1 oppure 56,1 (la promessa agli eunuchi). Già in Sap 3,13-15 abbiamo la beatitudine della sterile e dell'eunuco. In Sap 5,1-13 nella trattazione del giusto messo a morte abbiamo tutta una riflessione che parte da Is 54,1 e 56,3-7; cf. P. BEAUCHAMP, "Lecture et relectures du quatrième chant du Serviteur: d'Isaie à Jean", in J. VERMEYLEN (ed), The book of Isaiah. Le Livre d'Isaïe. Les oracles et leurs relectures; unité et complexité de l'ouvrage, Leuven 1989, 325-355. E' anche emblematica la domanda dell'eunuco "cosa mi impedisce di essere battezzato?" che fa evidentemente riferimento al timore della esclusione dal culto. La risposta di Filippo è sia nella linea cristologica sia nella linea dell'annuncio evangelico da parte della Chiesa: "Filippo, aprendo la bocca,e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù" (cf il commento fatto su questo brano in P. BOSSUYT - J. RADERMAKERS, Lettura pastorale degli Atti degli Apostoli, Bologna 1977, 350-351).
(2) Il gioco delle citazioni nel testo lucano è come al solito assai raffinato: alla citazione diretta del testo isaiano di 53,7-8 secondo la LXX egli fa seguire due citazioni "indirette": Filippo "apre la bocca" ed "evangelizza" l'Etiope, mentre in Is 52,15 i re e le genti (forse non è tra questi l'Etiope?) "chiudono la bocca" perché vedranno "un annuncio mai udito". La pecora della metafora (Is 53,7 e At 8,32) "non apre la bocca".
(3) Il contesto di questo brano è quello del terzo annuncio della Passione. Per una discussione sulla sua pertinenza ai Canti del Servo Sofferente si veda P. BEAUCHAMP, Le Deutéro-Isaïe dans le cadre de l'alliance, Fourvière-Lyon 1970, 49.
(4) Cf per esempio Gv 12,37-50, e lo scopo "introduttorio" che hanno questi versetti con il racconto della Passione di Gesù.
(5) Cf C. BISSOLI, Dio parla. Dio ascolta. Una lettura del XII Sinodo della Chiesa, LAS, Roma 2009, 37.

8/ Dai Testi proposti dalla prof.ssa Caterina Borrello Bellieni nelle due lectio divine del 15 e 16 giugno 2009 (dal Convegno Nazionale dei direttori degli Uffici catechistici diocesani, Reggio Calabria, 2009)

“Sono in debito verso tutti” (Rm 1,14): universalità della predicazione (da Giovanni Crisostomo e Origene)
da Giovanni Crisostomo, Discorsi Panegirici su san Paolo, I, 5.11.13Noè si salvò con i figli soltanto, Paolo, mentre il mondo era colpito da un cataclisma molto più tremendo, componendo le epistole invece di mettere insieme tavole, strappò ai flutti non due, tre, cinque consanguinei, ma tutto il mondo che stava per andare a fondo. La sua arca infatti non era tale da circolare in un solo luogo, ma raggiunse i confini della terra….La casa di Giobbe era aperta ad ogni viandante, l’anima di Paolo era spalancata a tutto il mondo e accoglieva popoli interi... Mosè si affaticava per un solo popolo, Paolo per tutto il mondo… intento a rimettere in ordine non solo la terra abitata, ma anche quella inabitata, non solo la Grecia, ma anche i barbari.

da Origene, Omelie sulla Gen. X, 2 e Omelie sulla Gen. XIII, 4
(commentando il brano di Rebecca che accoglie il servo di Isacco al pozzo e disseta lui ed i suoi cammelli)

Accoglie la parola dei profeti colui che sa attingere l’acqua dal profondo del pozzo, e che la sa attingere a tal punto che essa basta anche a quelli che sembrano senza ragione e sviati - di essi sono figura i cammelli - tanto da poter dire egli stesso: Sono debitore ai sapienti e agli ignoranti.

Se dunque anche voi che oggi ascoltate queste cose, le accogliete con fede, anche in voi opera Isacco, purifica i vostri cuori dai sentimenti terreni, e vedendo che nelle Sacre Scritture sono nascosti questi così grandi misteri, progredite nell’intelligenza, progredite nei sensi spirituali. Anche voi incomincerete ad essere maestri, e da voi procederanno fiumi d’acqua viva… Scaviamo fino al punto che le acque del pozzo trabocchino nelle piazze, in modo che non solo la scienza delle Scritture basti a noi, ma insegniamo ed ammaestriamo altri, affinché bevano gli uomini e bevano anche gli animali. Ascoltino i saggi, ascoltino i semplici: infatti il dottore della Chiesa è debitore ai sapienti e agli ignoranti.

Inculturazione della fede ed evangelizzazione delle culture (da Giovanni Cristostomo)
da Giovanni Cristostomo, Discorsi Panegirici su san Paolo, IV,18 e VII,11
Come quando arde un rogo, le spine consumandosi a poco a poco, si tirano indietro, cedono il posto alla fiamma e mondano i campi, così quando la lingua di Paolo parlava e assaliva tutto con più ardore del fuoco, ogni cosa si tirava indietro e cedeva: i culti dei demoni, le feste, le assemblee solenni, i costumi tradizionali, le leggi corruttrici, l’ira delle popolazioni, le minacce dei tiranni, le insidie dei connazionali, le malvagità dei falsi apostoli… All’apparire dell’annuncio evangelico, che Paolo ovunque disseminava, l’errore veniva scacciato, ritornava la verità, il grasso e il fumo dei sacrifici, i cembali e i timpani, le ubriachezze e le gozzoviglie, le dissolutezze, gli adulteri e gli altri vizi che non è bene neanche nominare, le cerimonie praticate nei templi degli idoli cessavano e si esaurivano, sciogliendosi come cera al fuoco, consumandosi come paglia ad opera della fiamma.
Invece la luminosa fiamma della verità si levava splendente ed alta fino al cielo stesso, innalzata proprio da ciò che le si opponeva…

Come un fuoco, abbattendosi su differenti materiali, aumenta di più e trova incremento nella materia sottostante, così anche la parola di Paolo faceva passare dalla sua parte quanti incontrava; coloro che gli erano ostili, conquistati dai suoi discorsi, divenivano subito alimento di questo fuoco spirituale e, mediante essi, la Parola prendeva nuovo vigore e passava ad altri… Quello che avrebbero fatto amici e seguaci, lo facevano i nemici in quanto non gli permettevano di stabilirsi in un solo luogo, ma facevano girare ovunque quel medico, mediante le loro macchinazioni e persecuzioni, in modo che tutti ascoltavano la sua parola.

Ricerca della felicità (da sant’Agostino)
da Sant’Agostino, Discorso 150,3.7
Tutti i filosofi, senza distinzione, attraverso lo studio, la ricerca, la discussione, l'esperienza della vita cercarono di assicurarsi una vita felice. Questo fu l'unico motivo della ricerca filosofica; ma penso che i filosofi hanno in comune con noi anche questo. Infatti, se voglio sapere da voi per quale ragione avete creduto in Cristo, perché siete divenuti Cristiani, ognuno sinceramente mi risponde: Per la vita felice. Ebbene, l'aspirazione alla vita felice è comune ai filosofi e ai Cristiani... Poiché ritengo per certo che è proprio di tutti gli uomini aspirare alla vita felice, volere la vita felice, bramare, desiderare, ricercare assiduamente la vita felice, riconosco che è assai inadeguato aver detto comune ai filosofi e ai Cristiani l'aspirazione alla vita felice; dovevo infatti attribuirla a tutti gli uomini, proprio a tutti, buoni e cattivi…

Pertanto l'Epicureo, ammettendo presente nel corpo il sommo bene dell'uomo, ripone in sé la speranza. Ma veramente lo Stoico, facendo dipendere dall'anima il sommo bene dell'uomo, almeno lo ha fatto inerente alla realtà migliore dell'uomo; anch'egli, però, ha fondato in sé la speranza. Ma non è che uomo, sia l'Epicureo, sia lo Stoico. Maledetto dunque chi ripone la sua speranza nell'uomo. Che dire allora? Posti ora i tre: l'Epicureo, lo Stoico, il Cristiano davanti ai nostri occhi, interroghiamoli ad uno ad uno. Di', Epicureo, che cosa rende felice l'uomo. Risponde: Il piacere della carne. Di', Stoico. La virtù dell'animo. Di', Cristiano. Il dono di Dio.