Giotto come Omero, mistero grandioso e insolubile. Il maestro fiorentino cuore del Trecento pittorico italiano, di Antonio Paolucci

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /08 /2009 - 23:23 pm | Permalink | Homepage
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Giotto come Omero, mistero grandioso e insolubile. Il maestro fiorentino cuore del Trecento pittorico italiano,
di Antonio Paolucci




Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 6/3/2009 un articolo scritto da Antonio Paolucci, direttore dei Musei vaticani, per presentare la mostra "Giotto e il Trecento" che si è tenuta dal 6 marzo al 29 giugno 2009 nel Complesso del Vittoriano di Roma. Lo riproponiamo, perché le riflessioni dell’articolo superano gli orizzonti di un evento in sé concluso. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la loro presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (24/8/2009)




"Credette Cimabue ne la pintura tener lo campo, / e ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura...". La famosa terzina di Dante messa in bocca al miniatore Oderisi da Gubbio (Purgatorio, XI, 94-96) stringe in emblema l'immane rivolgimento che agli albori del XIV secolo investe l'Italia nelle arti figurative come nella lingua e nella poesia.

Quel passo del Purgatorio stabilisce anche la comparazione fra Giotto e Dante, comparazione destinata a rimanere un punto fermo nella storiografia. I versi infatti continuano in una serrata linea consequenziale.

Come Oderisi da Gubbio nell'arte che "alluminar è detta in Parisi" è stato superato da Franco Bolognese e Cimabue da Giotto, così Guido Guinicelli ha dovuto cedere il primato a Guido Cavalcanti e "forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà dal nido", cioè l'Alighieri stesso.

Dante, all'inizio del Trecento, aveva le idee chiare. Aveva capito benissimo che lui e il suo concittadino, e quasi coetaneo, Giotto di Bondone, stavano mutando radicalmente sia il mondo della poesia che quello delle arti figurative.

Dante assume il disseccato latino dell'università e della Chiesa, lo impasta e lo macera nel volgare toscano e negli idiomi romanzi - il provenzale, il catalano, il francese, il veneto, il lombardo - e "inventa" la lingua che sarà, dopo di lui, del Petrarca, di Boccaccio, dell'Ariosto.

Giotto, negli stessi anni e con metodo in tutto analogo, compie una operazione simile. Lavora sui modelli della pittura bizantina aulica, ne ammorbidisce la lucente corazza cromatica, muta lo stile "di greco in latino" (Cennino Cennini), fa entrare nell'universo della rappresentazione "le attitudini e gli affetti" (Vasari) e inventa, nella scoperta del vero e nella certezza dello spazio misurabile, la lingua figurativa che dopo di lui porterà a Masaccio ("Giotto rinato" per Berenson) a Piero della Francesca a Raffaello.

Questo è, in buona sostanza, il modello storiografico che, sul ruolo e sul destino dell'Alighieri e di Giotto, è arrivato fino a noi. È un modello che ha retto il collaudo dei secoli e continua a essere vero e condivisibile ancora oggi nelle premesse e nelle conclusioni.

Ciò nonostante il pittore che inaugura gloriosamente la storia dell'arte italiana resta un vasto e complicato problema. Al punto che Alessandro Tomei nel saggio che apre il catalogo della grande mostra da lui curata, in programma al Vittoriano di Roma dal 6 marzo - la più vasta, la più esaustiva fra quante si sono viste fino a oggi - può legittimamente scrivere, usando il cantiere di Assisi come metafora della vicenda giottesca: "Nulla è certo nella cronologia, assai poco nel riconoscimento dell'autografia".

La "questione giottesca" continua ad apparirci grandiosa e irrisolvibile quasi come la questione omerica. Esistono le opere, i capolavori celebri pubblicati su ogni manuale di storia dell'arte (il Polittico di Badia degli Uffizi, la Croce di Santa Maria Novella, i cicli affrescati di Assisi, di Firenze, di Padova), Giotto è testimoniato in più di un documento. Fra Milano e Napoli tutti lo consideravano "il più sovrano maestro stato in dipintura" - è il sottotitolo della mostra di Tomei - eppure ci sono lati oscuri nella sua formazione, passaggi difficili da chiarire nel suo svolgimento stilistico.

Ci sono nodi critici estremamente ardui che gli specialisti ben conoscono. Per esempio. Possibile che basti la linea stilistica esclusivamente fiorentina - la catena che dal "maestro della Maddalena", da Coppo di Marcovaldo, e altri, porta a Cimabue e quindi agli esordi di Giotto - per spiegare i supremi capolavori della giovinezza quali la Madonna di San Giorgio alla Costa?

Probabilmente, anzi sicuramente, non basta. Il modello autarchico, fiorentinocentrico reso celebre dall'apologo vasariano sul pastorello che disegna la pecora e viene così scoperto e portato alla gloria da Cimabue, non regge alla verifica degli studi recenti che sempre di più fanno emergere il ruolo e il peso dei maestri romani (Pietro Cavallini, Rusuti, Torriti) e del grande Arnolfo di Cambio che era architetto, scultore e forse - lo ha pensato Maria Angela Romanini in relazione alle cosiddette Storie di Isacco della Basilica superiore di Assisi - anche pittore.

Quanto ad Assisi vera e propria "via dolorosa" e affascinante sciarada degli studi giotteschi, non esiste alcuna certezza documentaria sull'autore delle Storie francescane. La scuola italiana, con poche eccezioni, tiene fermo il nome di Giotto eppure nessuno si nasconde che passare da Assisi al ciclo padovano della Cappella dell'Arena (1303-1307) è impresa estremamente ardua. È una vera e propria scalata acrobatica di sesto grado superiore.

Come è possibile, ci si chiede, che il freschista di Assisi ancora secco essenziale acerbo in quei famosi murali francescani, sia arrivato nel giro di una decina di anni o poco più, allo stile dolce luminoso mirabilmente fuso e allo stesso tempo classicamente monumentale di Padova? Già nell'aura di Masaccio, del Beato Angelico, di Piero della Francesca, potremmo dire.

Certo i tempi del genio possono avere accelerazioni imprevedibili e vertiginose. Ci sono momenti nella storia delle arti in cui tutto avviene e tutto radicalmente muta in una breve manciata di anni. Penso alla Firenze di Brunelleschi e di Masaccio, alla Roma di inizio Seicento fra Annibale Carracci e Caravaggio, alla Parigi delle Avanguardie fra il 1908 e il 1912.

È possibile che nella stagione radicalmente rivoluzionaria e mirabilmente creativa che si colloca fra l'ultimo decennio del XIII e il primo del XIV, il genio di Giotto, bruciando l'uno dopo l'altro nodi stilistici essenziali - la Cappella di San Nicola nella Chiesa inferiore di Assisi, la croce dipinta del Tempio Malatestiano di Rimini appena prima il fatale 1300, e infine il ciclo di Enrico Scrovegni a Padova - abbia saputo dispiegarsi compiutamente in gloria e splendore.

Io, sulla linea di Longhi, di Previtali, di Bellosi, ne sono convinto. Posso capire tuttavia il peso delle perplessità e dei dubbi che Alessandro Tomei curatore di questa grande e coraggiosa impresa, correttamente registra.

Giotto ebbe una vita lunga per gli standard dell'epoca. Nato - la data non è certa ma è molto probabile - nel 1267, morì a settant'anni nel 1337. Cittadino ricco e onorato, proprietario di case e di poderi, titolare di una vasta e ben organizzata bottega, il ragazzo emigrato dalla montagna - Vespignano di Vicchio di Mugello - diventò membro influente dello establishment cittadino al punto che negli ultimi anni della sua vita gli fu affidata la progettazione del campanile di Santa Maria del Fiore, il campanile che da allora porta il suo nome. La sua vita è un perfetto esempio di successo professionale e imprenditoriale, già in linea con i valori borghesi della civiltà comunale che è già la nostra civiltà moderna.

Suoi clienti furono il re di Napoli, il duca di Milano, gli esponenti della élite finanziaria italiana - i Bardi e i Peruzzi a Firenze, Enrico Scrovegni a Padova - e, con un ruolo del tutto speciale, il potente ordine francescano che Giotto servì ad Assisi, a Rimini, a Firenze.

"Giotto e il Trecento" recita in epigrafe la mostra del Vittoriano governata da un prestigiosissimo comitato scientifico internazionale, e il suo merito più grande sta proprio nell'avere documentato con esaustiva minuzia il secondo vocabolo del titolo. Perché il Trecento, il secolo in assoluto più grande della storia degli italiani, è stato il secolo di Giotto il quale riverbera ibrida e moltiplica il suo stile da un capo all'altro della penisola.

Da una parte egli ha avuto il merito storico di unificare la lingua figurativa nelle diverse capitali della penisola, assumendo un ruolo in tutto simile a quello svolto negli stessi anni da Dante nel settore della lingua letteraria. Dall'altra, come da una rosa dei venti, dall'insegnamento di Giotto si sono irradiate le scuole e le tendenze dell'arte italiana. Dai riminesi, precoce costola di Giotto assisiate, al filone maggiore dei fiorentini - Taddeo Gaddi, Maso di Banco, l'Orcagna - alla variante naturalistica dei lombardi (Giovanni da Milano in primis) alle nostalgie ancora bizantine dei Veneti (Paolo Veneziano) alle eccentricità espressionistiche dei bolognesi (Vitale), alle declinazioni senesi e napoletane.

Né è stato trascurato il contesto toscano (Cimabue) e romano (Jacopo Torriti, Pietro Cavallini) che in parte precede, e in parte accompagna, il tracciato giottesco.

Bisogna risalire al 1937 per trovare un omaggio a Giotto e al Trecento di questa vastità, con una offerta altrettanto grande - più di centocinquanta numeri elenca il catalogo Skira - di opere esposte. Forse è arrivato il momento - Alessandro Tomei ce ne offre una splendida occasione - di avviare la necessaria esaustiva riflessione su tutto intero il Trecento pittorico italiano.


(©L'Osservatore Romano 6 marzo 2009)