Un ritratto di Enoc ed uno di Melchisedech, di Jean Daniélou

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /11 /2009 - 22:06 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da www.letterepaoline.it due articoli tratti da Jean Daniélou, I santi pagani dell’Antico Testamento, trad. it. a cura di F. Savoldi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 49-62 e pp. 107-113 (ed. or. Paris 1956). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (7/11/2009)





Un ritratto di Enoc, di Jean Daniélou

Enoc


Man mano che la storia delle origini dell’umanità affonda nella profondità dei tempi e che sappiamo di dover contare a migliaia le generazioni umane che hanno preceduto la rivelazione fatta ad Abramo, il problema della situazione religiosa di questi innumerevoli uomini si pone a noi in modo sempre più angoscioso. Questa situazione rimane d’altronde, anche dopo Abramo, anche dopo Gesù Cristo, quella d’innumerevoli pagani che sono rimasti, che rimangono al di fuori della sfera dell’Evangelizzazione. Essa pone dei problemi capitali dal punto di vista missionario, quello dei valori religiosi del mondo pagano, quello della salvezza degli infedeli.

La Scrittura stessa risponde a questo problema. San Paolo, rivolgendosi ai pagani di Listri, insegna loro che tutta questa umanità pagana non è stata abbandonata da Dio, ma che Egli si è ad essa manifestato «dandole le piogge e le stagioni feconde» (At 13,17). Che i Giudei non si inorgogliscano dunque del loro privilegio, perché «Dio non fa eccezione per nessuno» (Rm 2,11). I Giudei saranno giudicati secondo la legge di Mose, i Gentili secondo la legge «scritta nel cuore» (2,15). Non ammettendo ciò, dirà più tardi san Giustino, «noi arriviamo a conseguenze assurde, per esempio che non è lo stesso Dio che esisteva ai tempi di Enoc e di tutti gli altri che non avevano la circoncisione, e non osservavano né i sabati, né il resto» (Dial. XXIII, 1).

Chi è Enoc? Il capitolo 5 della Genesi è il libro «delle generazioni di Adamo». Esso ci riferisce la storia delle dieci generazioni che vanno da Adamo a Noè. Un’altra tradizione, testimoniata dalla seconda Lettera di Pietro, riferisce soltanto di sette generazioni, poiché Noè introduce la ottava (2Pt 2,5). Questa genealogia dei patriarchi prediluviani non appartiene d’altronde propriamente alla tradizione giudaica. La ritroviamo nelle narrazioni babilonesi [1]. Essa vi rappresentava il racconto stilizzato di ciò che ora noi sappiamo di dover estendere alle migliaia di secoli della storia umana. Lo scrittore sacro ha incorporato questa tradizione pagana nella sua narrazione per mostrare la dipendenza di tutta l’umanità da Jahvé, la sovranità del vero Dio sulla storia universale.

Ora, tra i patriarchi prediluviani, Enoc ha un particolare risalto, e per questa ragione Giustino lo menzionava in modo speciale. Il testo biblico dice infatti nei suoi confronti queste misteriose parole: «Enoc camminò con Dio. Tutti i suoi giorni furono di trecentosessantacinque anni. Poi disparve perché Dio l’aveva preso» (Gen 5,22-24).

Quattro particolari sono da notare in questa breve informazione: Enoc è il settimo patriarca dopo Adamo, come sottolineerà la Lettera di Giuda; e nel Codice sacerdotale, cui appartiene questo passo, questo numero ha un valore sacro. Egli vive trecentosessantacinque anni, il che corrisponde a un anno di anni, ed è pure segno di perfezione. Ma è detto soprattutto che camminò con Dio, il che significa che visse in familiarità con Lui e fu introdotto nei suoi segreti. Lascio per il momento da parte il suo misterioso rapimento [2].

La tradizione a cui allude brevemente la Genesi, ci mostra dunque in Enoc un saggio dei tempi antichi. La stessa cosa ci dice il Siracide: «Enoc fu trovato giusto, camminò con Dio, esempio di scienza per le nazioni» (44,16). Egli è così il modello, l’esempio delle nazioni, cioè dei non Giudei.

Questo tema lo troviamo abbondantemente sviluppato, verso la stessa epoca del Siracide, in libri giudaici non canonici. Il Libro di Enoc, che la Lettera di Giuda cita, ci mostra Enoc al quale l’angelo Uriele rivela i segreti celesti. È lui, dice il Libro dei Giubilei, «che ha insegnato agli uomini la scrittura, la scienza e la saggezza e che scrisse per primo sui segni del cielo nei rapporti con i mesi e le stagioni» (IV, 17-18).

Attraverso queste testimonianze, noi ritroviamo i tratti dell’antico saggio babilonese visto alla luce della rivelazione giudaica [3]. Il giudaismo posteriore sembra rinnegare questa interpretazione. Esso era indubbiamente urtato dagli elogi attribuiti ad un estraneo alla razza di Abramo. Questo fatto appare già nelle ultime opere della Bibbia scritte in greco. Nella traduzione greca del Siracide, Enoc non è più un modello di scienza, ma di penitenza (44,16). Il Libro della Sapienza lo mostra sottratto da Dio dalla schiera dei peccatori, «nel timore che la malizia pervertisse il suo animo» (4,11). Filone d’Alessandria vede in lui un esempio di penitenza (Abramo, 17). I rabbini giungeranno a vedere in lui «un ipocrita, a volte pio a volte criminale» (Midrash Rabba Gen. V, 24).

Saranno invece i cristiani ad esaltarlo. Non rappresenta egli infatti una prova che la salvezza non è riservata ai Giudei, ma che tutti gli uomini vi sono chiamati, e che egli non è legato alle osservanze giudaiche, ma alla fede che era loro anteriore? Pertanto leggiamo nella Lettera degli Ebrei: «In ragione della sua fede Enoc fu rapito, perché non vedesse la morte. Prima del suo rapimento è detto infatti che era piaciuto a Dio. Ora, non si può piacere a Dio senza la fede, perché per avvicinarsi a Dio, bisogna credere che esiste e che ricompensa coloro che lo cercano» (11,5-6).

Questo testo è forse il più importante di tutta la scrittura sulla situazione religiosa del mondo pagano. Esso infatti afferma che vi è una possibilità di salvezza per ogni uomo e dice quali sono le condizioni di questa salvezza. Queste condizioni ci riconducono alla fede nel Dio vivente. Questa fede si esprime al livello delle varie alleanze.

Per il cristiano, essa è fede nella perfetta alleanza conclusa da Dio in Gesù Cristo con la natura umana. Per i Giudei che non hanno potuto conoscere Gesù Cristo, essa è fede nell’alleanza conclusa da Jahvé con Abramo e Mose. Per il pagano che non ha potuto conoscere Gesù Cristo, e nemmeno Abramo, essa è fede nell’alleanza conclusa da Dio con le Nazioni.

Il testo della Lettera agli Ebrei precisa il contenuto di questa fede, condizione della salvezza per quanti non hanno conosciuto la rivelazione di Abramo e di Gesù, vale a dire per i pagani. Essa comporta in primo luogo il credere nell’esistenza di un Dio personale. Ma essa implica l’intervento di questo Dio nelle cose umane. E un Dio remuneratore. Solo questa azione di Dio si manifesta attraverso le sue grandi opere nella creazione, espressione della sua provvidenza e della sua fedeltà, secondo le promesse dell’alleanza. E la remunerazione implica che l’uomo debba agire secondo giustizia, non secondo quella della Legge rivelata, ma secondo quella che è iscritta nell’animo di ogni uomo.

È stato notato che questa affermazione di un Dio personale e provvidenziale corrisponde proprio a ciò che gli stessi pagani, al tempo della Lettera agli Ebrei, pensavano fosse possibile conoscere agli uomini pii [4].

Così Epitteto scrive: «I filosofi dicono che ciò che bisogna conoscere dapprima è che esiste un Dio e che la sua provvidenza si estende a tutto l’universo» (II, 14, 11). E Plutarco: «Non bisogna conoscere solo che Dio è immortale e beato, ma anche che è amico degli uomini, che li protegge e che li aiuta» (Comm. not. 32). Così la condizione posta dalla Scrittura per la salvezza si è trovata effettivamente realizzata nel mondo pagano. Enoc appare così come il prototipo della salvezza dei pagani [5].

Un’antica preghiera liturgica ha descritto bene, a proposito di Enoc, questa chiamata alla salvezza rivolta a tutti i pagani: «O Dio, tu hai aperto a tutti gli uomini le porte della misericordia, avendo mostrato a ciascuno, per la scienza che è insita in lui e per il giudizio della coscienza che lo splendore della bellezza non dura, che le ricchezze non sono eterne, ma che la coscienza fondata sulla fede non delude, elevandosi attraverso i cieli con verità e prendendo per mano la gioia futura, esultando già spiritualmente prima che la promessa della risurrezione sia affermata» [6]. Questa è la fede dell’anima pagana, protesa verso un Dio di cui essa ha potuto riconoscere l’esistenza e l’amore nell’ordine del mondo, un grido di fiducia, che essa non sa ancora esaudito, ma che assicura la salvezza di coloro che non hanno potuto conoscere altre rivelazioni.

Si noterà che questo passo parla della fede di Enoc «che si innalza verso i cieli». Vi è qui un’allusione sicura alla sua ascensione, ma in un senso puramente interiore. Eric Peterson ha dimostrato che c’era qui una polemica contro le speculazioni delle Apocalissi ebraiche sui viaggi celesti di Enoc [7]. Ma ci si accorge che questa interpretazione minimizza il significato del testo della Genesi e di quello della Lettera agli Ebrei. Entrambi ci parlano sicuramente di un «transfert» o di un «rapimento» di Enoc. Questo punto, il più caratteristico della sua storia, richiede una delucidazione.

Il rapimento di Enoc si ricollega a due idee diverse. Nella fonte più antica della tradizione, che è rappresentata dal Primo libro di Enoc, che noi possediamo in una traduzione etiopica, e che si ricollega indubbiamente a tradizioni babilonesi, la sottrazione di Enoc è un ratto, analogo a quello di san Paolo «rapito al settimo cielo», durante il quale Enoc contempla i segreti della cosmologia celeste ed è iniziato ai disegni di Dio, in modo da potere in seguito renderne testimonianza agli uomini. Si ricorderà del resto che questi viaggi celesti si trovano assai di frequente nella letteratura giudaica della stessa epoca. Noi possediamo un’Assunzione di Mose, un’Ascensione di Isaia che appartengono al medesimo genere. È il genere che Dante rinnoverà in modo incomparabile nella Divina Commedia.

Ecco come si esprime inizialmente questa visione nel Libro di Enoc: «Ora la visione mi apparve così: ecco che delle nubi mi chiamarono e i venti mi fecero volare. Essi mi portarono in alto. Entrai finché arrivai presso un muro costruito con grandine. Lingue di fuoco mi circondavano e mi avvicinavo ad una grande casa. Il suo tetto era come il cammino delle stelle: in mezzo stavano dei cherubini di fuoco e il suo tetto era d’acqua» (14,8-11). Enoc procede così di dimora in dimora. Contempla i soggiorni celesti, quelli degli angeli decaduti, quelli delle anime che attendono il giudizio. Penetra nel Paradiso e vi vede l'albero della vita. Infine è ammesso nelle vicinanze della grande Gloria circondata da sette arcangeli.

Durante i suoi viaggi celesti, Enoc è iniziato ai segreti della storia del mondo [8]. Ecco come li espone nel Secondo Enoc, opera cristiana che noi possediamo in antico slavo: «Prima che tutte le cose fossero e prima che avesse luogo la creazione il Signore stabilì il Secolo della creazione; e dopo di ciò creò l’uomo a sua immagine. Il Signore divise il Secolo in tempi e in ore, perché l’uomo meditasse i cambiamenti dei tempi e le loro fini. Quando si concluderà tutta la creazione che il Signore ha fatto ed ogni uomo andrà al Giudizio di Dio, allora i tempi periranno, e tutti i giusti, che sfuggiranno al Giudizio di Dio, se ne andranno al Grande Secolo».

Vediamo in tal modo a cosa corrisponde l’ascensione di Enoc. Costui è innalzato al cielo per contemplare i segreti dei disegni di Dio, così da poterli testimoniare agli uomini. Esorta alla conversione il mondo peccatore che precede il Diluvio e gli annuncia il Giudizio che lo colpirà. È pure inviato in missione presso angeli colpevoli per annunciare loro il castigo. Ma in ogni caso l’accento è posto sul significato missionario della sua ascensione.

Enoc è l’apostolo pagano di un mondo pagano. È il testimone del vero Dio in mezzo a un mondo che affonda nell’idolatria. È ispirato da Dio a compiere questa missione, come i profeti lo saranno ai tempi dell’alleanza mosaica, e gli apostoli in quelli dell’alleanza cristiana. La sua ascensione prefigura quelle di Ezechiele e di san Paolo.

Enoc appare così come un profeta della religione cosmica [9]. Il profeta è colui che Dio introduce nel segreto dei suoi disegni perché ne testimoni agli uomini. I misteri ai quali Enoc viene introdotto, sono quelli del cosmo, perché egli si ricollega alla rivelazione cosmica. Noi possiamo lasciar perdere l’utilizzazione che gli autori di Apocalissi hanno fatto di lui per annunciare gli eventi della storia giudaica. Ma il cosmo di cui egli è il profeta è storico e sacro; è il primo aspetto del disegno di Dio. Esso è la sua creazione ed è orientato verso una fine. Il diluvio è il giudizio al livello della religione cosmica, ed Enoc è il profeta del diluvio. Attesta pure che Dio non ha mai cessato di inviare i suoi messaggeri agli uomini, anche nell’epoca della religione cosmica, che vi sono degli apostoli del mondo pagano, che hanno annunciato agli uomini l’esistenza di un Dio personale e i segreti della sua provvidenza nel mondo.

Non senza ragione la tradizione avvicinerà dunque Enoc ed Elia, i due grandi profeti delle prime alleanze. Vi è però un’altra serie di testi in cui l’ascensione di Enoc ha un altro senso, e non è più in rapporto con la sua missione profetica, ma con il suo destino futuro. Non si tratta più di un’ascensione provvisoria, di un rapimento, dopo il quale Enoc possa riprendere la sua vita tra i suoi, ma, al termine di questa vita, di una sottrazione che lo trasporta vivente, anima e corpo, nelle dimore celesti perché vi viva per sempre.

Questo aspetto dell’ascensione di Enoc, è ugualmente capitale per il nostro tema, perché costituisce una delle principali testimonianze dell’accesso dei pagani alla beatitudine celeste e costituisce, come dice la Lettera agli Ebrei, una testimonianza resa alla santità di Enoc, sanzionata dal giudizio di Dio. Nei testi più antichi, pare che sia solo affermato – è del resto l’essenziale per noi – che al termine della sua vita Dio «ha preso» Enoc, cioè che lo ha trasferito vivo da questo mondo a quello della gloria (Gen 5,24). La stessa cosa è affermata dal Siracide, che in ciò lo paragona ad Elia (49,14), e dal libro della Sapienza (4,11).

Il Primo Enoc sembra non conoscere questa ascensione definitiva. Ma il Secondo Enoc la descrive: «Mentre Enoc conversava con il suo popolo, il Signore inviò delle tenebre sulla terra ed esse coprirono gli uomini che stavano con Enoc. E gli Angeli si affrettarono, presero Enoc e lo trasportarono nel cielo superiore e il Signore lo accolse e lo pose davanti al Suo volto per sempre». E la Lettera agli Ebrei conferma il fatto: «Per la sua fede Enoc fu trasportato, perché non vedesse la morte» (11,5).

Certamente questa ascensione di Enoc pone numerosi problemi. Il primo era per i Cristiani la possibilità di entrare in Paradiso, prima che il Cristo lo avesse aperto. Ciò non ha però preoccupato l’autore cristiano dell’Ascensione di Isaia. Egli ci mostra Isaia che vola, rapito, al settimo cielo: «Ed io vidi una luce meravigliosa e innumerevoli angeli. E vidi tutti i giusti dopo Adamo. E vidi sant’Abele e tutti i giusti. Vidi Enoc e tutti coloro che con lui si sono spogliati degli abiti della carne, e vidi i loro rivestimenti di gloria. Non erano però assisi sul loro trono, e la loro corona di gloria non era su di essi». (9,6-10).

Si noterà la riserva finale. Vi è una corona di gloria che i giusti non hanno potuto ricevere prima di conoscere Cristo; ma ciò non significa che la loro sorte, dopo la morte, non sia già beata. Il Primo Enoc distingue diverse dimore nel regno celeste e oppone quelle dei peccatori, che vi sono condannati, a quelle dei giusti, che vi godono già una beatitudine. Non bisogna poi dimenticare che le dimore beate sono esse stesse multiple, che il Paradiso è una montagna che contiene diverse zone e che i cieli si dispongono in sette sfere successive. L’Ascensione di Enoc al settimo cielo non significa dunque che sia già entrato nella beatitudine definitiva, ma che la sua sorte è già beata, il che rappresenta una testimonianza resa da Dio alla sua santità.

Un altro problema è quello dell’ascensione corporea di Enoc. È detto infatti che la sua anima non si è separata dal corpo, ma che è stato innalzato vivo, anima e corpo, al cielo superiore. È certo che la risurrezione del corpo è attesa solo per la fine dei tempi. Secondo tutti i Padri però, questa risurrezione escatologica è già anticipata per i santi dell’Antico Testamento al tempo della risurrezione del Cristo, conformemente a Mt 27,52: «I corpi di molti santi defunti risorsero e, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa (il cielo)».

La Chiesa ha precisato che questa anticipazione era perlomeno sicura per la Madonna. Nel caso di Enoc, al quale la tradizione unisce quello di Elia, siamo in presenza di un’anticipazione ancora anteriore. Essi rappresentano le prime prefigurazioni della Ascensione del Cristo e dell’Assunzione della Vergine [10]. Questa affermazione dell’assunzione corporea di Enoc come immagine della risurrezione futura rappresenterà l’insegnamento corrente dei Padri. Io riferirò solo una delle prime testimonianze, quella di sant’Ireneo. Egli porta come argomento in favore della risurrezione corporea il precedente di Enoc e scrive: «Già Enoc, piacendo a Dio, fu innalzato nel suo corpo, prefigurando l’assunzione dei giusti: il suo corpo, come quello di Elia, non è stato un impedimento per il suo trasporto e la sua assunzione. Furono infatti le stesse mani (il Figlio e lo Spirito) che li avevano modellati in origine, a compiere la loro traslazione e la loro assunzione. Le mani di Dio infatti si erano abituate in Adamo ad adattare, a tenere, a portare, a prendere, a deporre colui che avevano formato» (V, 5, 1).

Così Dio è arbitro di disporre di questi corpi che ha fatto. Ora, continua sant’Ireneo, «dove era stato posto il primo uomo? Evidentemente in Paradiso, come è scritto. Da là fu espulso in questo mondo, per non aver obbedito. Per questo i presbiteri, che sono i discepoli degli Apostoli, dicono che coloro che sono stati trasferiti, sono stati trasferiti là – il Paradiso infatti è stato preparato per gli uomini giusti e portatori dello Spirito; là fu introdotto anche Paolo che intese parole ineffabili – e là essi dimorano fino alla consumazione, inaugurando l’incorruttibilità (V, 5, 1).

Questo testo stupefacente sottolinea la sovrana libertà con cui Dio, che ha fatto i corpi, dispone di questi corpi. Esso ci riferisce inoltre la tradizione primitiva, raccolta da Ireneo, secondo cui Enoc fu trasportato in Paradiso ove dimora fino alla consumazione. Sappiamo d’altronde che per Ireneo il Paradiso non è che l’ingresso del Regno a venire. Ma in questo Paradiso, Enoc è stato introdotto eccezionalmente con il suo corpo.

Sant’Efrem riprenderà l’idea di Ireneo. Nella geografia paradisiaca da lui tracciata, il Paradiso in questione è quello esteriore, lo stesso in cui era stato introdotto Adamo, in cui sono entrati i santi già risuscitati. Nel Paradiso infatti si può entrare solo con il proprio corpo. È là, in particolare che si trova Enoc: «Uno dei santi ha fenduto l’aria con il suo carro. Gli angeli gioiosi sono venuti innanzi a lui, vedendo un corpo nella loro dimora» (Hymn. Parad., VI, 23) [11].

È notevole che la dottrina dell’assunzione corporea di Enoc, che rimane imprecisa nell’Antico Testamento e nel Giudaismo, appaia invece come affermazione nettissima della tradizione cristiana più antica. Infatti le opere che la insegnano sono l’Ascensione di Isaia, il Secondo Enoc, le tradizioni dei presbiteri, la Lettera agli Ebrei. Ci troviamo dunque in presenza di una affermazione cara al cristianesimo. Essa attesta che, per i primi cristiani, anche il corpo di Enoc era associato alla sua salvezza.

Così Enoc, nell’ordine della religione cosmica, come Elia nell’ordine dell’alleanza mosaica, sono apparsi come prefigurazioni della risurrezione del Cristo. Attraverso la misteriosa figura del santo babilonese, la Scrittura ci offre così mirabili illuminazioni sugli immensi periodi che hanno preceduto l’elezione di Abramo e in genere sulla salvezza degli «infedeli», se la parola ha un senso quando si tratta in realtà dello stadio primitivo della fede. Essa ci insegna che vi sono in quest’ordine degli uomini che hanno creduto nel vero Dio e nella sua provvidenza. Ci assicura che sono piaciuti a Dio. Ci dice che si sono salvati e hanno goduto alla loro morte della gioia del Paradiso. Ci mostra inoltre tra loro dei santi [12]. Essi appaiono dunque presso Dio come gli intercessori delle innumerevoli anime che non hanno conosciuto Gesù Cristo che in quella «fede implicita» di cui san Tommaso d’Aquino ha appunto parlato a proposito di Enoc, e che al loro livello costituiva la condizione di salvezza.
***
NOTE
[1] Staerk, Die sieben Saülen der Welt, in ZNW (1936), pp. 242 sgg.
[2] Odeberg, Enōch, in TWNT, II, p. 533 (trad. it. in GLNT, Paideia, Brescia; III, 615).
[3] Vd. S.B. Frost, Old Testament Apocalyptic, p. 165.
[4] C. Spicq, L’Épitre aux Hébreux, II, p. 345.
[5] Tommaso d’Aquino, S. Th. II, II, 1, 7.
[6] Const. Apost. XXXIII, 3.
[7] Henoc im jüdischen Kunst, in Eph. Lit. (1948), pp. 413-417.
[8] Giubilei, IV, 17; X, 17.
[9] La Lettera di Giuda scrive: «Enoc, il settimo patriarca dopo Adamo, ha profetizzato» (14).
[10] Vd. R.L.P. Milburn, Early Christian Interpretation of History, 1954, pp. 185-186.
[11] Vd. J. Daniélou, Terre et Paradis chez les Pères de l’Eglise, in Eranos Jahrbuch 22 (1954), p. 454.
[12] Sant’Enoc è ricordato il 3 gennaio nel martirologio romano.





Un ritratto di Melchisedech, di Jean Daniélou

Melchisedech


Tra le grandi figure non ebraiche dell’Antico Testamento, Melchisedech è una delle più eminenti. La Genesi non gli consacra che un breve paragrafo, carico però di significato (14,18-20), il Salmo 109 ci mostra in lui il modello del «sacerdote eterno», la Lettera agli Ebrei gli consacra numerosi passi.

I Giudei cercheranno di diminuirlo a profitto di Abramo [1]. Ma i cristiani esaltano in lui l’immagine del sacerdozio del Cristo e le primizie della Chiesa delle nazioni [2]. La festa di san Melchisedech è celebrata il 25 aprile. Una chiesa gli è consacrata a Salem di Samaria, che la pellegrina Eteria visita nel IV secolo (Cronaca del viaggio, 13-14).

La Preghiera eucaristica I menziona il suo sacrificio tra quelli di Abele e di Abramo. Attorno alle brevi e misteriose righe della Genesi, si costruiscono meravigliose leggende. Il Libro dei Segreti di Enoc, uno scritto giudeo-cristiano del secondo secolo, gli attribuisce una concezione miracolosa e lo mostra sottratto alla morte e sollevato in Cielo dall’Arcangelo Michele [3]. La Caverna dei tesori siriaca ne fa un precursore di Giovanni Battista [4]. Alcuni gnostici, i Melchisedechiani, vedranno in lui una manifestazione dello Spirito santo [5].

Ma la realtà è ancor più mirabile. Melchisedech è il grande Sacerdote della religione cosmica. Egli raccoglie in sé tutto il valore religioso dei sacrifici offerti dalle origini del mondo sino ad Abramo e attesta il gradimento di Dio. Melchisedech è «il sacerdote dell’Altissimo, che ha fatto il cielo e la terra» (Gen. 14,13). Egli conosce il vero Dio, non sotto il nome di Jahvé, che sarà rivelato a Mose per esprimere le ricchezze nuove che l’alleanza manifesta, ma sotto il nome di El, che è quello del Dio creatore, conosciuto attraverso la sua azione nel mondo.

Ed è questa un’ulteriore attestazione della conoscenza di Dio attraverso il cosmo che già Enoc ci aveva mostrato. Melchisedech è sacerdote di questa prima religione dell’umanità, che non è limitata ad Israele, ma che abbraccia tutti i popoli. Egli non offre il sacrificio nel Tempio di Gerusalemme, ma il mondo intero è il Tempio da cui si innalza l’incenso della preghiera [6]. Egli non offre il sangue dei montoni e dei tori, il sacrificio espiatorio, ma offre la pura oblazione del pane e del vino, il sacrificio di ringraziamento.

Ed è proprio il ringraziamento che egli offre, per la vittoria di Abramo, al quale Dio lo ha inviato. Egli riceve la decima da Abramo, cioè la parte prelevata su tutti i beni, per servire al culto di Dio. Se Abramo è l’iniziatore di un’alleanza nuova e più perfetta, rende però omaggio alla legittimità di questa prima alleanza tra le mani del suo gran sacerdote.

Ci si ricorda, in un altro momento della storia, di Gesù che riceve sulle rive del Giordano il battesimo da Giovanni Battista prima di vederlo inchinarsi davanti a lui [7]. Egli è re e sacerdote raccogliendo in sé le due unzioni che saranno divise, tra David e Aronne, e non saranno più raccolte che in Gesù. Così, senza alcun bisogno di fare appello alla leggenda, ci appare la grandezza di Melchisedech.

Il sacrificio è l’azione religiosa per eccellenza, l’atto con il quale l’uomo riconosce il sovrano dominio di Dio su di sé e su tutte le cose, con l’offerta delle primizie dei suoi beni, come faceva Abele, agli inizi del mondo, offrendo le primizie dei suoi greggi. Così, alle origini dell’umanità, sorgono i due gesti essenziali. Abele che inventa il rito e Caino che fabbrica l’utensile, i due gesti le cui vestigia attesteranno dopo millenni la presenza dell’uomo.

Dappertutto dove vi è sacrificio vi è religione, e dove non vi è sacrificio, azione sacerdotale, non vi è religione. La religione è infatti l’atto stesso per cui l’uomo riconosce la sua totale appartenenza a Dio. E il sacrificio è l’espressione visibile, il sacramento di questo atto interiore di adorazione.

Questo gesto lo ritroviamo presso tutti i popoli del mondo. Esso appare nella forma più elementare nei popoli dell’Africa o dell’Australia, raggiunge la più alta vetta d’interiorità in India dove Brahma, il flamen latino, diviene un nome della divinità. Esso rivestirà a volte forme barbare, nel sacrificio di fanciulli al Moloch fenicio o nei sacrifici di prigionieri alle divinità azteche. Ma per quanto ingenuo o pervertito, esso resterà sempre l’espressione dell’esigenza più irreprimibile dell’uomo, quella di mantenere il suo legame con Dio da cui proviene, e che è la ratifica stessa della sua esistenza.

La grandezza di Melchisedech non è solo di essere la più perfetta espressione del suo ordine proprio, ma di essere la figura di colui che sarà il gran sacerdote eterno e che offrirà il perfetto sacrificio. È quanto annunciava, in un testo importantissimo, il Salmo 109: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech». Il Salmista annunciava così che alla fine dei tempi sarebbe apparso l’ultimo grande sacerdote, colui che sarebbe stato il gran sacerdote in eterno, perché avrebbe esaurito la realtà del sacerdozio e perché non sarebbe stata possibile l’esistenza di altri dopo di lui.

È questo testo che la Lettera agli Ebrei applicherà a Gesù, attestando come si realizzi in Lui (4,6). Bisogna rileggere il testo straordinario in cui la Lettera agli Ebrei ci mostra in Melchisedech la figura del Cristo: «Or questo Melchisedech, re di Salem, Sacerdote del Dio Altissimo, che andò incontro ad Abramo, mentre ritornava dopo aver sconfitto vari re e lo benedì, a cui Abramo dette la decima di ogni cosa, il cui nome significa prima di tutto “Re di giustizia”, e per di più è Re di Salem, cioè “Re di pace”, senza padre, madre, senza antenati, e del quale si ignora il principio e la fine, questo Melchisedech, vera figura del Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre» (7,1-3).

Così per Paolo i titoli stessi di Melchisedech si caricano di un misterioso simbolismo, la giustizia e la pace si riuniscono in lui, la giustizia e la pace di cui il Salmo 84,11 dice che si sono abbracciate.

Non è però questo il fatto più strano. Paolo sembra mostrarci Melchisedech quasi sorgente nel mondo «senza padre e senza madre». Non ne fa in qualche modo un personaggio celeste? In realtà Paolo parte qui dal fatto notevole che a differenza degli altri personaggi della Bibbia, di cui ci vengono date lunghe genealogie, Melchisedech non è collegato ad alcuna razza e non gli si dà alcuna discendenza. Ciò non significa minimamente, per Paolo, che egli non abbia avuto in realtà antenati e discendenti. Ma l’assenza di una loro menzione nella Bibbia appare a Paolo come una figura di colui che non avrà padre perché viene dal cielo, e che non si iscriverà in una successione sacerdotale [8].

San Paolo vuol sottolineare qui un tratto essenziale del sacerdozio di Cristo, che è di essere definitivo, in modo che egli è il gran sacerdote eterno, dopo il quale non ve n’è un altro. Per questo oppone il sacerdozio di Melchisedech, che non rientra in una successione, a quello di Aronne, che invece vi rientrava.

La successione dei sacerdoti nel sacerdozio levitico ne sottolineava l’imperfezione: «Se la perfezione fosse stata realizzata con il sacerdozio levitico, quale necessità c’era che sorgesse un altro sacerdote, secondo l’ordine di Melchisedech?» (Eb 7,11).

Essi avevano dei predecessori e dovevano avere dei successori: «I sacerdoti ebrei formano una lunga serie, perché la morte impediva loro di essere duraturi» (7,23 ) [9]. A ciò si oppone il sacerdozio del Cristo: «Gran sacerdote dei beni futuri, è entrato una volta per sempre nel Santuario dei cieli, dopo averci ottenuta una redenzione eterna» (9,11).

Egli è sacerdote per sempre, poiché il sacrificio che ha offerto è acquisito per sempre. I sacrifici che venivano offerti fino ad allora esprimevano lo sforzo dell’uomo di riconoscere la sovranità divina. Ma il loro sforzo non aveva successo a causa dell’eccessiva sproporzione tra la fragilità dell’uomo e la santità di Dio. Sacrifici pagani di Melchisedech, sacrifici ebraici di Aronne, tutti si urtavano contro la soglia invalicabile. Essi non penetravano nel santuario, e la loro stessa ripetizione ne attestava il fallimento.

Per questo, nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio, unito alla natura dell’uomo da un legame indistruttibile, si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte della croce, manifestando con la sua obbedienza l’infinita amabilità della volontà divina e rendendo così a Dio una gloria perfetta. Ora la gloria di Dio è il fine stesso della creazione.

Così, nell’azione sacerdotale di Gesù Cristo, Dio è stato perfettamente glorificato in modo che nessuna gloria nuova gli può essere data. Tutti gli altri sacrifici sono così aboliti e noi non potremo ormai offrire al Padre che l’unico sacrificio di Gesù Cristo, di cui ogni eucaristia è il sacramento attraverso l’unico sacerdozio di Gesù Cristo, di cui ogni sacerdozio è la partecipazione.

Abolendo però così tutti i sacrifici antichi, Gesù Cristo non li distrugge, ma li compie. Attraverso lui tutti i sacrifici di tutte le nazioni, ogni sforzo dell’uomo per glorificare Dio è rivolto al Padre e giunge sino a Lui: «Per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti omnis honor et gloria».

E la menzione del sacrificio di Melchisedech, «sanctum sacrificium, immaculatam hostiam», nella Preghiera eucaristica I, attesta che non sono solo i sacrifici del Tempio d’Israele, ma anche quelli del mondo pagano che sono così ripresi e assunti nel sacrificio del Sommo Sacerdote eterno.

***
NOTE
[1] M. Simon, Melchisédech dans la polémique entre juifs et chrétiens, in Rev. Hist. Phil. Relig. (1937), pp. 58 e sgg.
[2] Vd. G. Wuttke, Melchisedech des Priestkönig von Salem, Giessen 1927.
[3] Ed. Vaillant, pp. 81-85.
[4] M. Simon, art. cit., pp. 87-91.
[5] G. Bardy, Melchisedech dans la tradition patristique, in Rev. Bibl. (1926), pp. 596-610; 1927, pp. 25-45; B. Capelle, Notes de théologie ambrosienne, in R.T.A.M. (1931), pp. 183-190.
[6] Vd. J. Daniélou, Le signe du Temple, pp. 9-14.
[7] Vd. J. Daniélou, Le mystère de l’Avent, pp. 60-79, dove tutto è più ampiamente sviluppato.
[8] Vd. G.T. Kennedy, St. Paul’s Conception of the Priesthood of Melchisedech, Washington 1951, pp. 71-107.
[9] Vd. C. Spicq, L’Épitre aux Hébreux, II, pp. 181-214.