1/ Gli Imam di Francia: I terroristi distruggono l’avvenire dell’islam e il destino dei vostri figli 2/ La coscienza dell'Occidente, di Ezio Mauro 3/ Domenico Quirico: «Ecco perché l’Occidente non capisce l’Islam guerriero e la realtà dell’Isis». Un’intervista di Maria Ausilia Boemi (con una breve introduzione di Alessandro D’Avenia) 4/ Una frattura generazionale nelle moschee, di Domenico Quirico 5/ Some popular fallacies about Islamism, di Magdi Abdelhadi 6/ Export armi, la rivolta della società civile, di Luca Liverani 7/ Arabia Saudita: poeta palestinese condannato a morte per “ateismo, capelli lunghi e per opposizione alle autorità”

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /11 /2015 - 16:41 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito diversi testi di diversa impostazione che permettono forse, pur con elementi criticabili, di avere un quadro più comprensivo della difficile situazione attuale. Per approfondimenti, vedi la sotto-sezione Islam, nella sezione Cristianesimo, ecumenismo e religioni.

1/ Gli Imam di Francia: I terroristi distruggono l’avvenire dell’islam e il destino dei vostri figli

Presentiamo sul nostro sito un testo apparso su Avvenire e sull’agenzia di stampa Asianews il 20/11/2015 : essi affermano che il testo sarebbe stato letto in tutte le moschee di Francia. In realtà, secondo i media francesi, il Consiglio degli imam di Francia non sarebbe arrivato a redigere un testo condiviso, bensì sarebbero stati inviati diversi testi nelle moschee a seconda delle diverse posizioni oggi presenti nell’Islam francese: il testo che segue sarebbe il più «liberale». Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

Cari musulmani e care musulmane,

L’islam, la religione della pace, è divenuto ostaggio nelle mani di estremisti e di ignoranti. L’islam esiste in Europa da un secolo. Esso ha vissuto sempre in armonia e in coesistenza con le società europee fino all’arrivo di qualche musulmano che conoscete perché pregano con noi all’interno delle nostre moschee. Essi sono dei giovani che sono nati in Europa, che non parlano la lingua araba e che non hanno alcun titolo in teologia musulmana. Noi abbiamo utilizzato degli imam venuti dall’estero che non parlano nemmeno la lingua francese e che non conoscono i veri problemi che questi giovani francesi ed europei affrontano in seno delle società occidentali.

Cari musulmani e care musulmane,

da anni si dice che l’islam all’occidentale non somiglia all’islam che si è conosciuto. Secondo l’ideologia di questi islamisti ignoranti, l’islam della tolleranza, dell’umanesimo e dell’apertura e del dialogo interreligioso è divenuto un tradimento e una collaborazione con l’occidente, tanto che gli imam tolleranti sono stati minacciati all’interno delle loro stesse moschee da questi estremisti che hanno scelto la durezza e l’odio contro chiunque è differente, anche se i differenti sono musulmani.

I responsabili dell’islam in Francia non sono all’altezza dei veri valori dell’islam, né all’altezza dei veri valori della repubblica. Essi hanno reso il nostro islam universale una religione settaria e odiosa che non accetta l’apertura e l’adattamento ai valori europei. Questi imam incompetenti come questi responsabili falliti devono lasciare i loro posti agli altri che sono più competenti e più aperti perché essi non sono stati capaci di rassicurare né i musulmani, né i francesi.

Cari musulmani, care musulmane,

questa onda di radicalismo non indietreggerà se non con la cooperazione degli imam, dei predicatori religiosi, dei musulmani ordinari con lo Stato, i legislatori, la società civile nell’interesse della società, ma soprattutto nell’interesse dell’avvenire dei figli dei musulmani d’Europa. Questo avvenire è in pericolo più che mai.

Cari musulmani e care musulmane,

fate attenzione alla gente che cerca di giustificare l’ingiustificabile in nome del razzismo, della marginalizzazione e della storia della colonizzazione. Sono dei pretesti per dissimulare il loro odio e i loro fanatismi religiosi in nome di un Dio che ci ha creato per l’amore e la fraternità e non per la guerra e la barbarie.

I terroristi avevano dei genitori, essi avevano delle famiglie. Cosa hanno loro insegnato? Sono stati superati da internet e dai social network?

Cari musulmani, care musulmane,

la condanna degli attentati non è più sufficiente perché non possiamo più continuare a fare come lo struzzo. Non possiamo nascondere le nostre teste sotto la sabbia ripetendo questa frase cattiva: “Non siamo noi, sono loro!”.

Ogni imam, ogni responsabile religioso e ogni musulmano deve prendere la sua parte di responsabilità perché questi attentati criminali sono stati commessi in nome della nostra religione.

I cristiani, gli ebrei e gli atei vivono con difficoltà nel mondo musulmano. Costruire una chiesa o una sinagoga è un sogno impossibile da realizzare in quei Paesi, fino a [domandare] l’intervento del presidente della repubblica!

Invece i musulmani in Francia e in Europa vivono in tutta libertà e dignità. Essi costruiscono moschee, centri islamici e scuole religiose senza alcun sabotaggio o esclusione.

Noi siamo dei francesi musulmani prima di essere dei musulmani francesi perché è la Francia che ci mette insieme. Di conseguenza la religione deve restare nel suo spazio privato perché la religione deve essere un fattore di pace e di fraternità, a condizione che si interpreti i testi religiosi in modo positivo e costruttivo.

Cari musulmani e care musulmane,

Molti nostri giovani soffrono di un trauma religioso, culturale e identitario. Occorre mettere in atto i metodi migliori per combattere le idee di odio dentro la nostra religione, come pure la fragilità e i nostri giovani musulmani di fronte a uno pseudo islam siro-hollywoodiano. Esso utilizza immagini e propaganda per manipolare e radicalizzare al massimo i giovani, che possono divenire delle bombe terroriste che vogliono distruggere i valori dei paesi occidentali, ma in verità essi distruggono l’immagine dell’islam e l’avvenire dell’islam in Francia e in Europa. Questi Paesi ci offrono ancora dei benefici e dei vantaggi che non abbiamo trovato nei nostri Paesi di origine, malgrado tutte le difficoltà che certo esistono nei quartieri e nelle periferie.

Cari musulmani, care musulmane,

è in gioco l’avvenire della vostra religione e il destino dei vostri figli e tocca a noi musulmani decidere di agire o di non agire.

Viva i veri valori dell’islam e viva i veri valori della repubblica!

2/ La coscienza dell'Occidente, di Ezio Mauro

Riprendiamo da La repubblica del 16/11/2015 un articolo di Ezio Mauro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

L'UOMO che esce di casa venerdì sera per andare allo stadio, in un ristorante o in un teatro non sa di essere braccato da altri uomini che in quel momento stanno stringendosi addosso una cintura di esplosivo, nascondono i fucili in una borsa, nell'altra i mitra e le bombe. Camminano per le strade della stessa città, la vittima inconsapevole e il carnefice che la cerca. Uno esercita la sua libertà nella serata che apre un week-end d'autunno, sapendo che la città dove vive è fatta per lavorare ma anche per il tempo libero, è organizzata con strade, piazze, bar, treni e stazioni per far incontrare la gente, ragazzi e ragazze, amici, richiamati fuori casa dagli appuntamenti di una grande metropoli, ma anche semplicemente dalla voglia di vivere, insieme con gli altri.

È esattamente questo spazio della civiltà europea, questo rito banale della vita quotidiana che diventa bersaglio del fanatismo jihadista. Un costume collettivo, un esercizio minore, quasi inconsapevole ma costante di libertà. Ci attaccano perché siamo liberi, nella nostra autonoma scelta di incontrarci al bar, correre ad un incontro, avere in tasca due biglietti per un concerto: ma anche di riunire i nostri Parlamenti, studiare e lavorare, pregare o non pregare, protestare e dire no, e attraverso questi gesti esercitare il nostro status di cittadini.

Cercando così di costruire per i nostri figli un futuro migliore del nostro presente. In questo, i terroristi islamici vedono qualcosa di grandioso e di terribile, la traduzione quotidiana della democrazia, la sua materialità, addirittura la sua capacità di farsi vita. Hanno ragione. Noi non ci accorgiamo nemmeno più degli spazi di autonomia e di libertà che la democrazia ha aperto nella nostra vita associata, diventando costume condiviso e accettato. La democrazia "minore", quella di cui ci nutriamo ogni giorno nello spazio a noi proprio, fuori dalle istituzioni, è infatti un insieme di garanzie reciproche che ci scambiamo mentre intrecciamo la nostra vita con le vite degli altri, è la forma quotidiana di regola civile che abbiamo dato alla nostra società vivendo, e per cui stiamo oggi morendo.

Nell'epoca in cui non c'è più quel "cuore dello Stato" che le Brigate Rosse cercavano uccidendo Aldo Moro (perché lo Stato nazionale non fronteggia gli urti della globalizzazione, e il potere vive altrove, nei flussi transnazionali della finanza e dell'informazione) gli jihadisti assassini confusamente sanno che qui è custodita l'anima universale che loro vogliono annientare, perché dà vita a ciò che hanno eletto come il loro nemico supremo e finale: la civiltà occidentale, culla, sede e testimonianza della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Questo è il bersaglio, perché questo è intollerabile, in quanto è l'ultimo universalismo superstite, dunque alternativo, l'unico modello di vita che resiste dopo la morte delle ideologie, e viene liberamente scelto ogni giorno da milioni di uomini e donne, riconfermato nei riti del venerdì sera, a Parigi come altrove. Se è così, non è da oggi che l'Europa è sotto attacco, e non lo è da sola. L'attacco è infatti a quella pratica e a quella testimonianza della democrazia che chiamiamo Occidente, e che tiene insieme in una comunità di destino Europa, Stati Uniti, Israele. Una pratica spesso infedele, ma costante; una testimonianza sovente bugiarda, tuttavia irriducibile e testarda. Per questo sono sempre stato convinto che dire "siamo tutti americani" dopo l'11 settembre fosse troppo facile, e troppo poco. Bisognava avere il coraggio di dire "siamo tutti occidentali", passando dalla compassione alla condivisione, con il peso della responsabilità che ne consegue, anche per reggere il carico della risposta indispensabile per garantire la sicurezza dei cittadini, fino all'uso della forza militare se necessaria: naturalmente nel rispetto del diritto e della legalità internazionale, perché le democrazie hanno il diritto di difendersi ma hanno il dovere di farlo restando se stesse.

Ecco perché siamo coinvolti dal 13 novembre: perché lo eravamo dall'11 settembre. L'orrore di Parigi ci interpella non perché la Francia è vicina a noi, ma perché ciò che gli jihadisti cercavano al Bataclan lo possono trovare identico nelle notti italiane, nelle abitudini dei nostri week-end, nei riti dei ragazzi, nell'uguale costume di autonomia e di libertà. Certo c'è uno specifico francese, i 1500 islamisti partiti a combattere abiurando la Republique, e cresciuti dell'84 per cento nell'ultimo anno. Ma l'assalto è al nostro modo di essere e di vivere, a quel credo comune che ci rende liberi e che parte dalle piccole regole di convivenza per arrivare alla regola istituzionale, alla Costituzione. Per questo, occorre una coscienza comune dell'Occidente per rispondere alla sfida. Sul piano dell'intelligence soprattutto, sul piano militare se è necessario. Ma prima ancora sul piano culturale. Se l'attacco è alla nostra cultura, dovremmo essere consapevoli che ha un valore, e dovremmo difenderla. La svalutazione quotidiana della democrazia che noi occidentali facciamo nei nostri discorsi e nella nostra pratica, è distruttiva. Il rifiuto di distinguere, la tentazione di fare di ogni erba un fascio, sono cedimenti culturali colpevoli. Il disimpegno da ogni cosa pubblica, la scelta di non partecipare e rimanere ai margini
sembra un gesto di ribellione ma è solitudine repubblicana, perché mentre io dico allo Stato che non mi interessa, nemmeno io interesso allo Stato: se l'esercizio dei miei diritti è esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, se l'uso della mia facoltà di cittadino è soltanto personale e non esce di casa, lo Stato può infatti ignorarmi, e ridurmi a numero isolato nei sondaggi. La democrazia ha bisogno del cittadino per essere in salute: ne ha tanto più bisogno quando è sotto attacco.

Il patto di cittadinanza dovrà essere riformulato anche con l'Islam moderato che vive da noi, usufruisce delle nostre garanzie democratiche, usa le libertà di culto, di associazione e di espressione in cui noi crediamo per noi stessi e per gli altri: per queste ragioni e per quel che è accaduto oggi deve affermare pubblicamente la sua condanna dell'islamismo terroristico che trasforma una religione in ideologia di morte, deve dichiarare una scelta non equivoca per il quadro di valori e di regole della democrazia, separandosi per sempre dal terrore omicida.

Tutto questo è possibile, a patto di essere consapevoli della sfida e di ciò che noi siamo. I terroristi lo sanno, dovremmo saperlo anche noi. Nel vortice dell'asimmetria che abbiamo visto a Parigi - uomini armati in agguato contro uomini in pace - nonostante le nostre colpe storiche e le nostre infedeltà gli "innocenti" eravamo noi occidentali. Dobbiamo ricordarlo per non diventare come loro, cedendo all'intolleranza e all'irrazionale. Ma difendendo un modo di vivere che ha dato forma a una cultura, a una civiltà democratica, a città come Parigi, che per queste ragioni oggi è la vera capitale dell'Occidente.

3/ Domenico Quirico: «Ecco perché l’Occidente non capisce l’Islam guerriero e la realtà dell’Isis». Un’intervista di Maria Ausilia Boemi (con una breve introduzione di Alessandro D’Avenia)

Riprendiamo da La Sicilia dell’11/11/2015 un’intervista di Maria Ausilia Boemi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

N.B. di Alessandro D’Avenia (dal suo profilo FB) Consiglio l'attenta lettura di questa intervista rilasciata un anno fa da Domenico Quirico, rapito dai jihadisti e poi liberato, autore di un libro chiarissimo sul Califfato (Il Grande Califfato, Neri Pozza), pubblicato prima di Charlie Hebdo. L'emotivismo reattivo, seppur legittimo, rimane sterile, perché non aiuta a capire che non si tratta solo di terrorismo, da contenere a livello poliziesco, ma di un fenomeno politico e militare non semplificabile con la categoria della "follia", dell'orrore, della disumanità, che sono la lettura di superficie di qualcosa di molto più profondo e complesso rispetto alle nostre categorie. Anche il cappello introduttivo all'intervista semplifica identificando islam e violenza, quando Quirico parla dei jihadisti. Saltatelo e leggete le risposte di uno che ha parlato a lungo con queste persone e le ha viste agire da dentro.

L’Isis e il califfato sono fenomeni completamente diversi da Al Qaida: ma l’Occidente non lo capisce e sbaglia utilizzando i medesimi schemi per combattere i due fenomeni. Così come è errato considerare l’Islam una religione pacifica: è invece uno strumento di totalitarismo che condanna senza appello tutti gli “impuri” non per quello che fanno, ma per ciò che sono. Ne abbiamo discusso, in un forum nella nostra redazione (erano presenti, oltre alla sottoscritta redattrice, il direttore Mario Ciancio, il direttore editoriale Domenico Ciancio, il caporedattore Giuseppe Di Fazio, il caposervizio Carlo Anastasio, il freelance Orazio Vecchio), con Domenico Quirico, inviato de La Stampa che questi fenomeni li conosce bene per averli visti e subìti (è stato a lungo ostaggio dei jihadisti) in prima persona.
 
In base alla tua esperienza, c’è qualcosa di strutturale nella cultura e nella religione islamica che spinge verso la violenza e l’affermazione violenta di sé?
«Credo che uno dei maggiori guai nell’affrontare la situazione attuale sia quello di costruirsi un Islam che non esiste o non è quello prevalente. L’Islam è una religione nata in un ambiente naturale terribilmente ostile nei confronti dell’uomo ed è quindi guerriera: il combattere, l’allargarsi, il difendere lo spazio dell’unica religione vera è una realtà fondamentale per l’Islam. Aggiungi che tutte le religioni monoteiste sono per principio autoritarie. Il problema, però, oggi è più complesso. La domanda da porsi non è se i jihadisti siano buoni o cattivi musulmani, perché la risposta è molto semplice: loro sono convinti di essere dei perfetti musulmani. Il problema è che la religione - come la razza per i nazionalsocialisti o l’appartenenza al proletariato per i comunisti staliniani - è utilizzata da loro come strumento per dividere il mondo in buoni e cattivi: per i jihadisti, i buoni sono loro che praticano la religione salafita rigorosa. Gli altri sono tutti impuri e quindi il compito che Dio assegna ai jihadisti è quello di eliminare gli impuri che inquinano la società. Questo è il carattere terribilmente pericoloso di questo fenomeno. Essi usano la religione come strumento per la separazione della società in due parti. E chi è dalla parte sbagliata deve essere cancellato, non per quello che fa, cioè azioni o atti che possano mettere in pericolo la vera fede, ma per quello che è. È una nuova forma di totalitarismo di cui la religione è uno strumento».
 
Ma questo tipo di convinzione è nel miliziano ed è anche nel capo oppure il capo utilizza il miliziano?
«Il miliziano che arriva da Londra dove faceva il medico e il miliziano che arriva da Tunisi per combattere in Siria e Iraq sono trascinati dalla tentazione totalitaria, dal piacere di sentire di essere dalla parte giusta del mondo».

È questo è il motivo dell’appeal dell’Isis anche tra gli occidentali?
«Secondo me, sì. È un’avventura trascinante, emotivamente affascinante il sapere di essere dalla parte giusta del mondo, di essere tra i puri».

Ho letto che per il giovane musulmano che sta a Londra, quanto più la società londinese si mostra tollerante verso la sua religione, tanto più per lui diventa odiosa.
«È vero: se ti sequestrano in un Paese musulmano, l’unica cosa da non fare è dire di essere una persona indifferente al problema religioso. Ti ammazzano immediatamente. Per loro è meglio un praticante di qualsiasi fede, anche sbagliata, che uno che dice: “Per me la religione è l’oppio dei popoli, è una fregatura”. Quello è inconcepibile per loro.
L’ossessione dell’unità, poi, è quello che impedisce, secondo me, ai popoli musulmani di praticare davvero la democrazia: nella mentalità musulmana, il concetto che esistano più verità, e che queste verità si possano scambiare secondo un calcolo numerico, è eresia. Il mondo è tutto concentrato nella cifra uno: un Dio, un libro, un popolo».

Per la cultura islamica, dunque, la democrazia non è adatta?
«È molto complicata».

È legittima allora la prevenzione della gente verso gli islamici, visti come qualcosa di diverso e difficilmente conciliabile con la nostra cultura e il nostro modo di vita?
«Il problema è che i musulmani hanno fatto tante rivoluzioni - di cui le Primavere arabe sono le ultime - ma tutti questi movimenti rivoluzionari inevitabilmente e rapidamente sono tornati alla casella dell’autoritarismo, del rais, del capo, perché è nella loro identità. La verità è una e allora anche il capo deve essere uno. Per l’Occidente, la democrazia è la legittimazione della confusione, anche se virtuosa, nel senso che nessuno è depositario della formula giusta. Questo per un musulmano è inaccettabile: è il disordine, è un atto contro Dio che è ordine. Poi è anche possibile che si trovi qualche forma di democrazia per quel mondo, ma non il nostro tipo di democrazia. È un mondo che non capiamo, che cerchiamo di imbullonare dentro idee come quella che l’Islam sia una religione tollerante, pacifista: esiste anche questo, ma attualmente prevale l’altro, quelli vogliono rifare il califfato e cacciare quelli che non sono musulmani. Tra l’altro, l’Isis ha messo su un Welfare state. Questo nei giornali non lo scriviamo: pensiamo che a Mosul ci siano bande di assassini che girano per le strade, violentano le donne. Non è così: le prime cose che hanno fatto gli islamisti dell’Isis a Mosul sono state riaprire i forni perché la gente potesse comprare il pane, obbligare i dipendenti pubblici ad andare al lavoro come quando c’era il governo centrale, riaprire le scuole. Questa è gente che vuole restare, non va lì per saccheggiare. E noi continuiamo a pensare che sono una banda di folli criminali che, chissà come, si è impadronita di un territorio grande come la Francia e sta lì, massacra, ruba, uccide. Fa anche quello, però è uno Stato, c’è un’amministrazione».

È questa la differenza tra Al Qaida e Isis?
«Questa è la novità: i jihadisti non si muovono da lì per i prossimi 30 anni se qualcuno non va lì con forze, che attualmente non abbiamo, per cacciarli. Il califfo non è Bin Laden che stava nascosto nella grotta. Questa è una cosa completamente nuova: c’è una frontiera di due Stati che è stata disintegrata, creando una frontiera nuova che nelle carte geografiche non c’è. Le carte geografiche del mondo oggi sono false. La grande trovata pubblicitaria del califfato è stato dire: “Io sono il califfo, voglio ricostruire il grande califfato del VI secolo”. Cosa che Bin Laden non ha mai neanche osato pensare. Questo è pericoloso, perché c’è un progetto, non è la follia di quattro fanatici: l’islamismo non è un problema psichiatrico, ma politico e, quindi, molto più difficile da risolvere. Al Qaida e l’Isis sono due cose diverse: Al Qaida è il precursore primitivo di un progetto politico completamente diverso».

Obama scrive a Khamenei e non disdegna anche di dialogare con Assad: l’Isis può creare delle nuove strane alleanze?
«Diciamo che il califfo ha già sconvolto le carte del passato e questo è già un enorme risultato politico. Il fatto di avere costretto il presidente Obama, che l’anno scorso voleva bombardare Assad, a fornirgli l’Aviazione, ha una influenza pubblicitaria enorme a favore dell’Isis perché Assad è odiato. Per i jihadisti, quindi, adesso l’America scopre le carte: come dicevano loro, è alleata di Assad. E poi, attenzione a dialogare con l’Iran: Teheran è parte del mondo islamico, ma è sciita. E i sunniti odiano gli sciiti, li considerano atei, eretici pericolosi. Per cui, alleandoti con l’Iran, ti porti dietro l’odio di tutto il mondo sunnita, che è esattamente quello che vuole il califfo: unificare i sunniti in un’alleanza mondiale. Tutto questo è l’espressione della confusione della politica Usa».

Ma qual è l’effettiva forza militare e capacità offensiva dell’Isis contro l’Occidente?
«La Cia a un certo punto ha detto che l’Isis aveva 3.000 combattenti, un mese dopo siamo saliti a 40.000. C’è qualcosa che non funziona in questi numeri. Diciamo che il califfo non ha più un gruppo terroristico, ma un esercito regolare: hanno preso carri armati, artiglieria pesante, trasporto truppe - tutti mezzi americani di ultima generazione - che gli Usa avevano fornito agli sciiti che, quando sono scappati, non li hanno distrutti. Al Qaida era un problema di tipo terroristico, quindi di polizia: fa spendere soldi, inceppa l’economia, insinua batteri pericolosi nella società democratica, ma è un problema di polizia. Quest’altro è invece un problema militare: bisogna andare lì con la fanteria e occupare un territorio enorme, ostile per la sua stessa natura e soprattutto prevedere che in realtà questa sfida militare non si limiti a quel luogo, ma che sia già estesa ad altri luoghi: Sael, Libia, Nigeria, Somalia, Repubblica Centrale Africana, Afghanistan. È la teoria guevarista della moltiplicazione dei fuochi rivoluzionari. L’insurrezione globale islamica usa un classico sistema per indebolire il nemico: tanti Vietnam per disperdere le forze dell’avversario, che non ha i mezzi economici per essere ovunque».

Sei il giornalista che salva la categoria rispetto alla ventata internettiana: con internet non c’è più bisogno di andare, di vedere. Tu dici “Sono uno di quelli che vedo e racconto”, ma lavori in un giornale tra i più avanti nell’innovazione: ti senti uno del secolo scorso?
«Per molti aspetti sì. Resto dell’idea che il giornalismo non è una tecnica e tanto meno una tecnologia. Il giornalismo è racconto e il racconto nasce dall’essere in un posto e vedere delle cose, anche una parte minimale della realtà. Ci possono essere tutti gli internet, i satellitari e i marchingegni possibili, ma alla fine resterà quello: il racconto. Questo vale a tutti i livelli, sia che fai l’inviato sia che racconti il quartiere cittadino: il giornalismo sono gli essere umani che incontri nelle tue frequentazioni. Se conosco molto bene uno strumento tecnico, non faccio giornalismo: faccio l’archivista, sono a 10.000 anni luce dall’atto giornalistico. Entro nel giornalismo nel momento in cui io vado in una situazione e la racconto».

Accennavi prima a qualche rappresentazione impropria, non proprio corrispondente al vero, di fatti e realtà in Medio Oriente. Quali sono le maggiori mistificazioni che ti sei trovato a rivedere?
«Rispetto a questo terribile fenomeno, l’incapacità di cogliere il passaggio dalla fase terroristica alla fase militare e politica. Io sono rimasto fermo ad Eraclito e al logos: le cose sono le parole con cui le definisci. Se tu un serpente lo chiami gatto e poi cerchi di accarezzarlo come fai col gatto, quello ti morde e muori. Noi continuiamo a chiamare questo fenomeno nuovo con le parole che usavamo per Al Qaida 15 anni fa: è lì il problema. E poi l’incapacità di rendersi conto della rapidità con cui questi fenomeni si trasformano in realtà. Sono stato liberato a settembre dell’anno scorso: allora non c’era il califfato, l’Isis era un movimentino tra i tanti che c’erano nel Nord della Siria; ora c’è uno Stato, un esercito e una comunicazione islamica. Sì, perché questa è gente che manovra la tecnologia dell’informazione meglio di noi o degli americani. I video che hanno fatto di queste terribili esecuzioni sono girati secondo una scenografia e una regia molto sofisticate. Altro che gente che vive nel Medio Evo! Bisogna stare attenti, non c’è la percezione di questo: se leggi i giornali, trovi le crocefissioni e poi l’intervista all’imam italiano che dice che i jihadisti sono dei sanguinari. Ma quello che è fuori dal mondo è l’imam italiano che, se andasse non a Mosul, ma anche in qualche quartiere del Cairo o di Tunisi, dopo due minuti sarebbe linciato. Questa è la verità».

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4/ Una frattura generazionale nelle moschee, di Domenico Quirico

Riprendiamo da La stampa del 16/11/2015 un articolo di Domenico Quirico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rosso-maoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini. 

Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino.

L’integrazione fallita

Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel

Il Consiglio del Culto

Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati. Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario.

Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…»

La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè: immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può assopire qualsiasi Jihad.

Una vita separata

Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey.

I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro nero. Entro: sono indiani

Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau. 

Quartieri musulmani

Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici. 

Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare.

I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico. Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale. Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo».

«Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra».

La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete allarga le braccia: questa è terra di missione…».

5/ Some popular fallacies about Islamism, di Magdi Abdelhadi

Riprendiamo dal sito di Magdi Abdelhadi https://maegdi.wordpress.com/ un suo articolo pubblicato il 16/11/2015. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

Get your facts right.

Al-Qaeda and its most recent clone, Daesh, did not come about as a result of the invasion of Iraq or the civil war in Syria. It was born out of the unholy alliance between America and the Wahhabi zealots of Saudi Arabia to defeat Communism and bring down the Soviet Union. Remember the Cold War and Afghanistan ? That was the primal sin we are all paying the price for. Islamism itself is of course a much older phenomenon which received an enormous boost with the arrival of oil money in the Gulf. It will continue in all its heinous forms even after Daesh is defeated, as long as there are those who believe that there are moderate and radical Islamists. Islamism is extremism.

Do European leaders really want to do something about it as they say?

Here is what they have to do:

- Cut Qatari and Saudi funding to any Islamic activity in Europe under any form: mosques, schools, charities, so called think-tanks that justify violence, Muslim victim mentality and legitimise the dictionary of hate.

- Train European Iamms, who study history and psychology of religion. Do not import Imams from Egypt, Pakistan and certainly not those who studied in Saudi Arabia

There is a direct line between the ideology of the Muslim Brothers and that of global jihad. In fact, it is not even a line. It is the same ideology. Allowing the MB to continue to operate inside European mosques or schools or charities or student association under any guise means allowing the cancer to grow and metastisize. If you ban Hizbu Al Tahrir — why not the Muslim Brothers — the mother of all terrorist organisations ! Don’t be taken in by their suave and media savvy spokespeople in European capitals. Look at the basics of their ideology : the Koran is our Constitution, Jihad is our way, Martyrdom is our ultimate goal. What more evidence do you need !!

Keep on the look out for any discourse that uses the vocabulary below. These are the building blocks of the hate doctrine that demonsies non-Muslims, and underpins the Islamist narrative to justify the killing of kuffar, infidels, Westerners, Christians, Jews, apostates, women, Yazidis, gays and any one who is not a Muslim or does not subscribe to the Islamist doctrine:

- Muslims are victims of the West

- The West is decadent and has no principles

- Palestine is the principal cause of Islam and all Muslims (Incidentally, Palestine is the principal cause of the Palestinians)

- Islam is the only true faith and will and must prevail

- Islam is under attack

- Blasting any criticism of Islam or Islamism as Islamophobia

And to those who still entertain the fallacy that there is a link between poverty or lack of opportunity and Islamic terror I would like to remind them that Osama bin Laden was a millionaire; the current leader of Al-Qaeda, Ayman Al-Zawahiri, comes from a well-off middle class family in Egypt, and so was Anwar Awlaqi, the leader of Al-Qaeda in Yemen, and many more.

And to those who claim lack of democracy is another reason for Islamic terror or radicalisation I refer them to the many European Muslims who joined the ranks of global jihad. Take the most recent example of French Muslims who perpetrated the barbaric horrors of Paris, or the British Muslim dubbed Jihadi John (real name Mohamed Emwazi) who behaded American hostages in Syria: it is not abject poverty of Yemen of Egypt or Waziristan, not lack of opportunity, and certainly not lack of democracy because he grew up in one of the most democratic societies in the world. The likes of Emwazi are the agents of a pernicious ideology called ISLAMISM, that thrives in our midst in Western societies, and the main carrier of this virus is an organisation called the Muslim Brotherhood, that continues to enjoy the full rights and freedoms of a democracy while working to undermine by brainwashing the minds of young European Muslims, inculcating into them the ideas of Jihad, Muslim victimhood and Islamic superiority.

If the West really wants to stop the recruiting to IS or Al-Qaeda, it knows where to go and what it should do. Islamism is extremism. There is no such thing as moderate Islamists. Stop believing in Muslim Brotherhood propaganda and its apologists in Western think tanks.

Another fallacy : Islamism is not Islam. Yes and NO.

Islamism draws upon, and is sustained by, the canonical texts of mainstream Islam. That is why it is difficult to challenge it from within Islam. There are plenty of textual and historical evidence to justify the use of the sword against infidels or those perceived as the enemies. And once you designate anyone as such using Islamic texts (as the Muslim Brothers, Al-Qaeda, Daesh often do) you cannot challenge them by playing the same game of textual quotation. Textual evidence weighs in their favour. There is no shortage of texts that are — by modern standards — pretty nasty. Only if there is radical overhaul of Islamic teachings to bring them into line with the universal declaration of human rights, can you deny Islamism the legitimacy it currently enjoys. That is not happening, and is unlikely to happen any time soon. Only a cultural and religious revolution of some kind can pave the way for such change. As long as the fundamental dogma of Islam and its teachings understood literally, meaning what was valid in 7th century Arabia is valid today, Islamism will thrive.

This way — to use a concept from Biblical exegesis — the letter killeth the spirit in Islam. That should be bad news for Muslims, and for all of us.

6/ Export armi, la rivolta della società civile, di Luca Liverani

Riprendiamo da Avvenire del 19/11/2015 un articolo di Luca Liverani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

Che peso ha l’industria bellica nazionale nell’infuocato quadrante mediorientale? A chi vendiamo? E cosa? Un ruolo sicuramente non secondario, quello dell’Italia, se negli ultimi cinque anni - mentre il termometro nella regione saliva - cresceva del 30% l’export verso Medio Oriente e Nord Africa. Il problema è che il quadro è sempre più difficile da ricostruire perché, nonostante l’esistenza della legge 185 del 1990 che fissa obblighi di trasparenza, i governi degli ultimi anni l’hanno notevolmente depotenziata, omettendo nei rapporti al Parlamento dati essenziali. Eclatante il caso delle bombe aeree all’Arabia Saudita, paese guida della coalizione che - senza mandato internazionale - sta bombardando in Yemen le milizie qaediste. Quella stessa Arabia Saudita che, secondo molti analisti, ospita i finanziatori della guerra del Daesh contro Assad. Con le note ripercussioni in Occidente. Senza risposta le interrogazioni parlamentari al ministro degli Esteri. 

L’ultimo carico, com’è noto, il 30 ottobre: il cargo 4K-SW888 Boeing 747 della compagnia aerea azera Silk Way Airlines è decollato da Cagliari carico, secondo le ong, di diverse tonnellate di bombe della RWM Italia, azienda bresciana di proprietà del gruppo tedesco Rheinmetall, con impianti a Domusnovas in Sardegna. Una fornitura che prosegue da anni: circa 5mila pezzi per oltre 70 milioni di euro. «L’Italia da tempo sta vendendo bombe all’Arabia Saudita – spiega Francesco Vignarca della rete Italiana Disarmo – ormai in palese violazione della legge 185», la norma che vieta espressamente l’esportazione di armamenti «verso i Paesi in stato di conflitto armato». Una guerra che ha fatto oltre 4mila i morti, di cui almeno 400 bambini, e 20mila feriti, la metà tra civili. Sotto le bombe a Sa’dah, il 26 ottobre, anche un ospedale di Msf

Non solo: «È in corso anche la vendita al Kuwait – racconta Vignarca – di 28 aerei Eurofighter per 8 miliardi di euro. Il governo, al quale la 185 attribuisce il ruolo di controllore dell’export delle aziende italiane, in realtà è il primo a promuovere questi affari: il premier Renzi nel suo recente viaggio in Arabia Saudita è stato accompagnato dall’Ad di Finmeccanica Mauro Moretti. Parliamo di armi da guerra, non di noccioline, a paesi coinvolti nello scacchiere siriano nella lotta interna all’Islam tra Assad, al Nusrah, Daesh». Secondo un’analisi dell’Institute for economics and peace di Sidney l’80% delle vittime del terrorismo si verificano in Pakistan, Afghanistan, Irak, Siria e Nigeria. «È lì – afferma la Rete Italiana Disarmo – che si gioca questa partita: altro che guerra all’Occidente. E noi contribuiamo a portare armi in quel quadrante. Un conto sono i traffici illegali, ma che lo facciano i governi occidentali... Ci conviene davvero incassare quei soldi?». «La comunità internazionale si muove in maniera incoerente – dice il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – rispetto al tema delle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita. Da un lato si mobilita contro il rischio che venga messo a morte un attivista minorenne e premia un blogger dissidente. Dall’altro, tace sui crimini di guerra commessi in Yemen e, anzi, li alimenta con trasferimenti irresponsabili di armi». 

«L’Italia vende sempre di più in Medio Oriente e Nord Africa, ma noi sappiamo sempre di meno di queste esportazioni», sostiene Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal Brescia. «La legge 185 è stata fortemente depotenziata, svuotata e un parlamentare non può più controllare nulla». Nell’ultimo quinquennio le autorizzazioni all’export di armi da guerra a paesi non Ue né Nato sono salite al 62,9% e tra i primi 20 destinatari solo 7 sono «democrazie complete» secondo la classifica del Democracy Index stilato dall’Economist. 

Cinque sono regimi autoritari, due sono ibridi. In testa Algeria e Arabia Saudita. Ma i dati sono sempre meno intellegibili. Dal 2009, col governo Berlusconi IV, le tabelle del Rapporto al Parlamento si sono svuotate: «Ora nelle autorizzazioni si parla di 'velivoli' – spiega Giorgio Beretta – senza specificare se sono elicotteri per la ricerca di dispersi o Mangusta da attacco. Il Parlamento può controllare ben poco. Non sappiamo che banca gestisce le transazioni tra RWM e Arabia Saudita. Al sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova – aggiunge l’esperto – abbiamo chiesto di reintrodurre i destinatari e il dettaglio delle operazioni bancarie, sparite nell’ultima relazione del governo Renzi, nonostante le 1281 pagine. Rimpiangiamo la trasparenza del governo Andreotti che riportava tutte le informazioni necessarie a un controllo parlamentare».

7/ Arabia Saudita: poeta palestinese condannato a morte per “ateismo, capelli lunghi e per opposizione alle autorità”

Presentiamo sul nostro sito una breve nota. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2015)

Il 20 novembre 2015 è stato reso noto al pubblico che il poeta palestinese Ashraf Fayadh è stato condannato a morte. È attualmente incarcerato in una prigione saudita, apparentemente con l'accusa di diffondere l'ateismo e di avere i capelli lunghi. Il poeta, cresciuto in Arabia Saudita, era stato arrestato nel 2013, quando un lettore aveva sporto denuncia contro di lui sostenendo che le sue poesie contenevano idee atee. Le accuse non erano state provate e Fayadh era stato rilasciato per essere nuovamente arrestato il 1 gennaio 2014. 

Il caso di Fayadh sta facendo il giro dei media e dei social network, grazie ad interventi di scrittori arabi di tutta la regione. Alcuni amici hanno scritto on-line che la vera ragione dietro il suo arresto potrebbe essere quella di un video girato da lui cinque mesi fa, nel quale viene ritratta la polizia religiosa di Abha mentre frusta un giovane in pubblico.