La tradizione delle opere di misericordia, di Luciano Manicardi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /01 /2016 - 22:23 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito http://www.notedipastoralegiovanile.it/ un testo di Luciano Manicardi che la rivista riprende a sua volta da  L. Manicardi, La fatica della carità, Qiqajon 2010, pp. 57-70. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (24/1/2016)

Caravaggio, Le sette opere di misericordia, Napoli,
Cappella del Pio Monte della misericordia, 1606-1607

"Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso" (Lc 6,36). Prima di essere un comando, queste parole di Gesù sono la rivelazione di una possibilità: esse attestano la possibilità per l'uomo di partecipare alla misericordia di Dio, ovvero di dare vita, di mostrare tenerezza e amore, di fare grazia, di con-soffrire con chi soffre, di sentire l'unicità dell'altro e di essergli vicino, di perdonare, di sopportare l'altro e di pazientare con le sue lentezze e le sue inadeguatezze.

Se "misericordioso e compassionevole" è il nome di Dio (cf. Es 34,6; Sal 86,15; 103,8; I 11,4; eccetera), Gesù di Nazaret ha dato un volto d'uomo a tale misericordia e compassione e l'ha narrata nella sua vita (cf. Mc 1,41; 6,34; Lc 7,13; eccetera) e, dietro a lui, per la fede in lui e l'amore per lui, anche il discepolo del Signore può vivere la misericordia.

Nella Bibbia la misericordia non è semplicemente un'emozione, un fremito delle viscere di fronte al soffrire altrui: essa nasce come acuta risonanza in me del soffrire altrui, ma diventa poi etica, prassi, virtù. Così avviene per il samaritano della parabola, che fa tutto ciò che è in suo potere per alleviare concretamente le sofferenze dell'uomo lasciato moribondo ai lati della strada (cf. Lc 10,29-37). La misericordia, secondo il linguaggio biblico, la si fa (cf. Gen 19,19; 2 1 ,23; 24, I 2; 40,14; Es 20,6; Dt 5,10; Rt 1,8; eccetera); "Va' e anche tu fa' lo stesso" (Lc 10,37), dice Gesù al dottore della Legge a cui ha narrato la parabola del samaritano. Di Gesù che opera guarigioni si dice: "Ha fatto bene ogni cosa" (Mc 7,37; cf. At 10,38).

I discepoli dunque conoscono ormai la volontà di Dio: la misericordia ("Misericordia io voglio e non sacrifici": Mt 12,7); e sanno anche come volerla essi stessi e come praticarla: seguendo le tracce del cammino percorso da Gesù e mettendosi alla scuola di lui che è "mite e umile di cuore" (Mt 11,29).

Fondamento della transitività da Dio all'uomo della capacità di "fare misericordia" è il comando dato da Gesù di amare e la prassi di amore che egli stesso ha vissuto: "Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34); "Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi" (Gv 15,9). Questo amore non può che essere concreto e visibile, effettivo e non semplicemente affettivo, operativo e pratico e non solo intimo e inespresso. La Prima lettera di Giovanni lo ricorda a più riprese: "Non amiamo a parole, né con la lingua, ma con i fatti e nella verità (in opere et veritate)" Gv 3,18); "Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l'amore di Dio?" (1 Gv 3,17); "Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20).

Già l'Antico Testamento ha enucleato alcune di queste realizzazioni visibili della carità che sono atti di liberazione (cf. Is 58,6) del povero e del bisognoso: "Dividere il pane con l'affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo" (Is 58,7).

Facendo l'apologia della propria condotta di un tempo, Giobbe afferma di essersi sempre preso amorevolmente cura della vedova e dell'orfano, di aver condiviso il proprio pane con il bisognoso e di aver vestito chi era privo di abiti (cf. Gb 31,16-23). Visitare i malati (cf. Sir 7,35), consolare gli afflitti (cf. Sir 48,24), seppellire i morti, fare l'elemosina ai poveri, nutrire chi è privo di cibo e vestire chi è nudo (cf. Tb 1,16-18), sono tratti di questa declinazione pratica dell'amore per il prossimo che sono delineati già nell'Antico Testamento.

Il giudaismo, che fin dal i secolo a.C. aveva familiarità con l'idea di "opere di misericordia" e che a volte le chiamava "bei comandamenti [1], affermerà che "il mondo poggia su tre fondamenti: sulla Torà, sul culto e sulle opere di misericordia (ghemilut chasadim)"[2]. E il Targum (ovvero la parafrasi aramaica del testo ebraico della Scrittura), commentando il passo biblico in cui si narra la sepoltura di Mosè (la cui tomba non fu mai trovata, cf. Dt 34,6), parla di una serie di opere caritatevoli come forma di imitatio Dei:

Benedetto il nome del Maestro dell'universo che ci ha insegnato le sue vie giuste! Egli ci ha insegnato a vestire quelli che sono nudi, quando lui stesso ha vestito Adamo ed Eva ... ci ha insegnato a visitare i malati, quando è apparso nella pianura di Mamre ad Abramo che soffriva ancora per il taglio della sua circoncisione; ci ha insegnato a consolare quelli che sono in lutto, quando apparve a Giacobbe, al suo ritorno da Paddan, nel luogo dove era morta sua madre; ci ha insegnato a nutrire i poveri, quando ha fatto scendere il pane del cielo per i figli di Israele; e quando Mosè è morto, ci ha insegnato a seppellire i morti [3].

La tradizione giudaica afferma ancora che le opere di misericordia abbracciano un ambito molto più vasto della sola elemosina e sono molto più grandi di essa:

L'elemosina viene fatta solo con il denaro, le opere di misericordia con il denaro e con tutta la persona; l'elemosina viene fatta solo al povero, le opere di carità vengono fatte sia ai poveri che ai ricchi; l'elemosina viene fatta solo ai viventi, le opere di carità riguardano sia i vivi che i morti[4].

Questo testo giudaico è particolarmente importante perché sottolinea la vera portata delle opere di misericordia: "Non si può praticarle se non ci si innalza dal piano dell'avere a quello dell'essere. Per praticarle bisogna impegnarsi personalmente. La qualità dei rapporti umani è fondamentale se si vuole 'fare' un'opera di misericordia"[5].

Il Nuovo Testamento trova nella pagina del giudizio universale di Matteo 25,31-46 una esemplificazione e un elenco di sei gesti di carità che, fatti a un povero, a un piccolo, sono in verità fatti a Gesù stesso: "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt 25,35-36).

Su queste basi bibliche e soprattutto sul fondamento evangelico e sull'esempio di Gesù, si sviluppa presto nella coscienza cristiana il senso dell'importanza della traduzione pratica dell'amore di Dio[6]. La misericordia trova un'infinità di espressioni e di manifestazioni assolutamente non racchiudibile in un elenco, ma la proliferazione di "liste" attestata nella produzione letteraria cristiana antica non solo non smentisce questa affermazione, ma la conferma: essa cerca proprio di esprimere il carattere non misurabile e non contenibile della misericordia. Queste opere, infatti, si situano sempre tra un elemento perenne (l'esigenza e il fondamento divini) e uno cangiante (i differenti bisogni della creatura umana). Lungi dunque dal voler esaurire le possibilità della misericordia, le liste sono indicative e, mentre affermano delle istanze basilari dell'essere umano e della sua dignità, vanno accolte come sollecitazione della creatività e dell'intelligenza dei credenti nella storia perché la carità non sia solamente un gesto "buono", ma anche "profetico".

Così in uno scritto del II secolo d.C., Il pastore di Erma, troviamo un elenco di azioni buone da compiere, o meglio, di attitudini buone in cui abitare e in cui camminare. Infatti, non si tratta solamente di "cose da fare", ma anche di disposizioni d'animo, ovvero del modo di vivere le relazioni con il prossimo che il cristiano è chiamato a mettere in pratica:

Assistere le vedove, visitare gli orfani e i bisognosi, liberare dalle necessità i servi di Dio, praticare l'ospitalità, non ostacolare nessuno, essere tranquillo, divenire il più umile di tutti gli uomini, rispettare gli anziani, praticare la giustizia, osservare la fratellanza, tollerare la tracotanza, essere longanime, non avere rancore, consolare chi è afflitto, non respingere coloro che sono scandalizzati ma convertirli e renderli gioiosi, ammonire i peccatori, non opprimere i debitori e i bisognosi[7].

Nel III secolo Cipriano di Cartagine dedica un breve trattato a Le buone opere e l'elemosina e nella sua opera La preghiera del Signore afferma che la preghiera, per essere ascoltata, deve essere accompagnata da "opere di bene"[8]. Più tardi Lattanzio presenta una lista che si avvicina a quella che diventerà tradizionale:

Se qualcuno non ha cibo, condividiamolo con lui; se qualcuno viene a noi nella nudità, vestiamolo; se qualcuno è vittima di ingiustizia da parte di un potente, liberiamolo. La nostra casa sia aperta ai pellegrini e ai senza tetto. Non smettiamo mai di difendere gli interessi degli orfani e di assicurare la nostra protezione alle vedove. Grande opera di misericordia (misericordiae opus) è riscattare i prigionieri al nemico, visitare e consolare i malati e i poveri. Se dei miseri o degli stranieri muoiono non lasciamo che restino insepolti. Queste sono le opere, i doveri della misericordia: se qualcuno ne assume l'iniziativa, offrirà a Dio un sacrificio autentico e gradito[9].

Tra gli "strumenti delle buone opere" la Regola di Benedetto elenca: "Ristorare i poveri, vestire chi è nudo, visitare chi è malato, seppellire chi è morto, soccorrere chi si trova nella tribolazione, consolare chi è afflitto"[10].

Ovviamente questi elenchi non vanno intesi in senso restrittivo, quasi che solo le situazioni e le categorie di bisognosi indicate debbano essere destinatarie dell'aiuto. Che essi non vadano compresi in senso legalistico e non costituiscano una casistica, lo esprime bene Ambrogio di Milano mostrando che è l'altro nel suo bisogno che suscita la creatività e l'intelligenza della carità:

Sarebbe una grave colpa se un fedele, pur essendone tu informato, versasse nel bisogno; se tu sapessi che egli è senza mezzi, patisce la fame, soffre tribolazioni, specialmente se si vergogna della sua indigenza; sarebbe grave colpa la tua se, ridotto in schiavitù dai suoi o calunniato, tu non lo aiutassi; se un giusto si trovasse in carcere per debiti, tra pene e tormenti, e non ottenesse nulla da te nella sua sofferenza; se nel momento del pericolo, quando viene condotto a morte, per te fosse di maggior valore il tuo denaro della vita di chi sta per morire[11].

Insomma, alla radice delle opere di carità vi è il volto del Dio misericordioso e il bisogno dell'uomo: esse nascono dall'esperienza dell'amore di Dio e realizzano il comando dell'amore del prossimo.
L'idea di "opere di misericordia spirituali"[12], accanto a quelle rivolte al "corpo" dell'uomo, sembra nascere dall'interpretazione allegorica del testo di Matteo 25 da parte di Origene: le opere lì indicate hanno una valenza "materiale", ma anche una "spirituale". Scrive Origene:

In verità, che intendiamo i benefici in senso semplice e materiale o in senso spirituale, una cosa è certa: che chi compie un'opera buona in un senso o nell'altro, e nutre anime con alimenti spirituali, o farà qualsiasi altra specie di opera buona per amore di Dio, è al Cristo affamato e assetato che dà da mangiare e bere[13].

Origene inizia così una rilettura spirituale-allegorica dei gesti di concreta carità elencati nel capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo: ad esempio, l'atto di vestire chi è nudo diviene il rivestire di virtù il prossimo grazie all'insegnamento della parola di Dio e della dottrina cristiana. Scrive Origene:

Abbiamo tessuto una veste per Cristo che ha freddo, prendendo da Dio una tessitura di sapienza, in modo da insegnare ad alcuni la dottrina, facendoli rivestire di viscere di misericordia, castità, mansuetudine, umiltà (Col 3,12) e delle altre virtù; e tutte queste virtù sono indumenti spirituali per quelli che ascoltano l'insegnamento di coloro che li ammaestrano in essa, seguendo colui che dice: Rivestitevi di viscere di misericordia, di benignità, umiltà, mansuetudine (Col 3, r 2), eccetera, ma maggiormente lo stesso Cristo che è tutto ciò per i fedeli, stando a colui che ha detto: Rivestitevi di Gesù Cristo (Rm 13,14)[14].

Commentando il Vangelo secondo Matteo, Teofilatto scrive: "Adempi queste sei forme di carità sia materialmente che spiritualmente, infatti duplice è la nostra natura: noi siamo anima e corpo"[15].
L'idea di opere di misericordia spirituali è ben presente nell'Opera incompleta su Matteo, un'opera erroneamente attribuita a Giovanni Crisostomo, da ricondursi invece a un anonimo autore ariano che l'avrebbe composta intorno al 420. Vi si dice:

Nella chiesa non vi sono solo dei poveri materialmente, degli assetati o dei malati nel corpo, ... ma vi sono anche dei poveri spiritualmente, senza il cibo della giustizia, senza la bevanda della conoscenza di Dio, senza l'abito di Cristo ... Vi sono dei malati nell'animo, dei ciechi nella mente, dei sordi a motivo della disobbedienza, altri che sono affetti da tutti gli altri vizi spirituali ... Chi dunque non può fare elemosine corporali (eleemosynas corporales), ne faccia di spirituali (faciat spirituales)[16].

La duplice dimensione materiale e spirituale delle opere di misericordia è espressa da Agostino di Ippona con il binomio "dare e condonare: dare dei beni che possiedi, e condonare i mali che subisci"[17]. Egli aggiunge: "Su queste due specie di opere di misericordia ascoltate come seppe ben compendiarle in una breve massima il Signore, maestro buono ... [Egli] disse: Perdona- te e vi sarà perdonato, date e vi sarà dato (Lc 6,37-38)[18].

Scrive ancora Agostino:

Fa elemosina non soltanto chi dà da mangiare all'affamato, dà da bere all'assetato, chi veste l'ignudo, chi accoglie il pellegrino, chi nasconde il fuggitivo, chi visita l'infermo o il carcerato, chi riscatta il prigioniero, chi corregge il debole, chi accompagna il cieco, chi consola l'afflitto, chi cura l'ammalato, chi orienta l'errante, chi consiglia il dubbioso, chi dà il necessario a chiunque ne abbia bisogno, ma anche chi è indulgente con il peccatore[19].

Chi, perdonando la colpa, rimette a chi l'ha commessa contro di lui, senza dubbio fa l'elemosina[20].

Cesario di Arles afferma:

Tu puoi dirmi: "Non ho nulla da dare al povero: non posso digiunare di frequente né astenermi dal vino e dalla carne". Ma puoi forse dirmi che non puoi avere la carità? Essa il cui possesso aumenta quanto più viene donata ... [Infatti] ci sono due forme di elemosina: una del cuore, l'altra del denaro (una cordis, alia pecuniae). L'elemosina del cuore consiste nel perdonare l'offesa subita. A volte tu vorresti dare qualcosa a un povero, ma non hai niente; invece perdonare al peccatore lo puoi sempre fare, se solo lo vuoi. Può avvenire che tu non abbia da dare ai poveri né oro, né argento né vesti né grano né vino e neppure olio; ma quanto ad amare tutti gli uomini, a volere per gli altri ciò che vuoi per te e perdonare ai tuoi nemici, non potrai mai trovare giustificazioni per non farlo. Se, infatti, nella tua cantina o nel tuo granaio non hai nulla da poter dare, puoi sempre trarre fuori dal buon tesoro del tuo cuore qualcosa da offrire[21].

Gregorio Magno attesta l'interpretazione spirituale, oltre a quella materiale, delle opere di misericordia presenti in Giobbe 29,12-13: "Io soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l'orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo gioia". Scrive Gregorio:

La santa chiesa offre queste opere di bontà (pietatis opera) ... sul piano materiale e non cessa di offrirle sul piano spirituale. Soccorre il povero che chiede aiuto, quando rimette le colpe al peccatore che invoca perdono. A proposito di tali poveri è detto: Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3)[22].

Più tardi (IX secolo) Rabano Mauro, ispirandosi ad Agostino, afferma che, sebbene l'uso abbia ristretto il termine elemosina alle elargizioni ai poveri, in realtà ne esistono numerose forme ("sunt eleemosynarum species plurimae"), e passa a elencare svariate opere:

Fa elemosina chi riconduce l'errante sulla via della verità; fa elemosina chi istruisce l'ignorante, chi annuncia la parola di Dio ai suoi vicini; fa elemosina chi non cessa di condividere i propri beni materiali con i propri fratelli, cioè con gli altri uomini; fa elemosina chi offre cibo e vesti ai bisognosi, li ospita, visita gli infermi, sostiene con i propri beni i carcerati e i tribolati, e non manca di liberare i condannati a morte e ai supplizi. Infatti tutte le opere buone che ogni giusto compie in questa vita possono essere comprese con questo unico nome[23].

Quindi prosegue parlando del fare misericordia verso se stessi:

Quando ci convertiamo dai peccati alle opere buone, dalla superbia all'umiltà, dalla lussuria alla temperanza, dall'astio e dall'invidia alla carità e all'amore, dall'ira e dalla contesa alla mansuetudine e alla pazienza, dalla gola alla sobrietà, dall'avarizia alla generosità, dalla tristezza mondana alla gioia dello spirito, dall'accidia temporale allo zelo del bene, che altro facciamo se non elargire elemosine a noi stessi, poiché abbiamo pietà di noi stessi? ... Esercita dunque bene e con ordine l'arte della misericordia (artem misericordiae) chi non lascia mancare innanzitutto a se stesso le buone opere, una santa condotta e i frutti delle virtù[24].

Una lista definitivamente fissata delle opere di misericordia non è ancora attestata entro la fine del primo millennio: probabilmente è solo con il XII secolo che assistiamo allo stabilirsi di una lista stereotipa di sette opere di misericordia, quelle che chiamiamo corporali (le sei di Matteo 25 più la sepoltura dei morti attestata nel libro di Tobia) a cui si accompagnerà - certamente almeno a partire da Tommaso d'Aquino - la lista di sette opere di misericordia spirituali. Conosciamo del resto il fascino che il numero sette e i settenari esercitarono sull'animo dell'uomo medievale al punto che il medioevo celebrò "il trionfo del sette"[25]: "Il sette è simbolo di ordine e di completezza, sintesi quasi magica di unità e di molteplicità"[26]. Con il settenario la molteplicità di atti di misericordia viene in certo modo sintetizzata e dotata di unità. Sempre nel medioevo accanto al settenario si sviluppa un sistema binario per cui, ad esempio, ai sette vizi si accompagnano sette virtù, spesso descritte in maniera corrispondente e parallela ai vizi.
La forma con cui la lista delle opere di misericordia è divenuta tradizionale suona così:

Opere di misericordia corporali

1. Dare da mangiare agli affamati
2. Dare da bere agli assetati
3. Vestire gli ignudi
4. Alloggiare i pellegrini
5. Visitare gli infermi
6. Visitare i carcerati
7. Seppellire i morti.

Opere di misericordia spirituali

1. Consigliare i dubbiosi
2. Insegnare agli ignoranti
3. Ammonire i peccatori
4. Consolare gli afflitti
5. Perdonare le offese
6. Sopportare pazientemente le persone moleste
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti.

Note al testo

[1] Cf. F. Manns, "Les oeuvres de miséricorde dans le quatrième Évangile", in Bibbia e Oriente 146 (1985), p. 216.

[2] Pirqè Avot 1,2, in Detti di rabbini. Piquè Avot, con i loro commenti tradizionali, a cura di A. Mello, Qiqajon, Bose 1993, p. 52.

[3] Targum a Deuteronomio 34,6, in Targum du Pentateuque, IV. Deutéronome, a cura di R. Le Déaut, SC 271, Cerf, Paris 198o, p. 3or.

[4] bSukkah 49b, in Der babilonische Talmud III, a cura di L. Goldschmidt, Jüdischer Verlag, Königstein 198o, p. 392.

[5] F. Manns, "Les oeuvres de miséricorde dans le quatrième Évangile", p. 218.

[6] Cf. I. Noye, s.v. "Miséricorde (Oeuvres de)", in Dictionnaire de spiritualité, ascétique et mystique, doctrine et histoire X, Beauchesne, Paris 1980, coll. 1328-1349.

[7] Erma, Il Pastore, Precetti a cura di M. B. Durante Mangoni, EDB, Bologna 2003, p. 112.

[8] "Coloro che pregano non giungano a Dio accompagnati da orazioni prive di opere di bene ... La Scrittura divina ci ammaestra, dicendo: 'Sicuramente l'orazione è buona se unita al digiuno e alle elemosine' (Tb 12,8)" (Cipriano di Cartagine, La preghiera del Signore 32, in Id., Trattati, a cura di A. Carretini, Città Nuova, Roma 2004, pp. 172-173).

[9] Lattanzio, Epitome 60,6-7, in Id., Epitomé des institutions divines, a cura di M. Perrin, SC 335, Cerf, Paris 1987, pp. 233-235.

[10] Regola di Benedetto 4,14-19, in Regole monastiche d'occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Einaudi, Torino 2001, p. 205.

[11] Ambrogio di Milano, I doveri 1,30,148, a cura di G. Banterle, Biblioteca Ambrosiana-Città Nuova, Milano-Roma 1977, pp. 113-115.

[12] Una rilettura in chiave psicologica delle opere di misericordia spirituali è presente nel già citato libro di S. Callahan, With All Our Heart and Mind. Le sette opere di misericordia spirituali sono riassunte e sintetizzate nei tre elementi della riconciliazione ("a reconciling spirit": ammonire i peccatori, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste), della vigilanza ("being vigilant": consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, consolare gli afflitti) e della preghiera ("prayer": pregare Dio per i vivi e per i morti) nel libro del gesuita J. F. Keenan, The Works of Mercy, pp. 59-80.

[13] Origene, Commento a Matteo 72, in Id., Commento a Matteo. Series I, a cura di G. Bendinelli, R. Scognamiglio e M. I. Danieli, Città Nuova, Roma 2004, PP. 435-437.

[14] Ibid., p. 437.

[15] Teofilatto di Ocrida, Esposizione sul Vangelo secondo Matteo 25, PG 123,433D.

[16] Pseudo-Giovanni Crisostomo, Opera incompleta su Matteo 54, PG 56,946. L'opera ci è giunta in traduzione latina (Opus imperfectum in Matthaeum), cf. P. Nautin, "L"Opus imperfectum in Matthaeum' et les Ariens de Constantinople", in Revue d'histoire ecclésiastique 67 (1972), pp. 381-408, 745-766.

[17] Agostino di Ippona, Discorsi 42,5, a cura di P. Bellini, F. Cruciani e V. Tarulli, Città Nuova, Roma 5979, vol. I, p. 745.

[18] Ibid.

[19] Id., Manuale sulla fede, speranza e carità 19,72, in Id., La vera religioneII, a cura di G. Ceriotti, L. Alici e A. Pieretti, Città Nuova, Roma 1995, p. 561.

[20] Id., La città di Dio 21,22, a cura di G. Gentili, Città Nuova, Roma 1991, vol. III, p. 267.

[21] Cesario d'Arles, Discorsi al popolo 38,5, in Id., Sermons au peuple, a cura di M.-J. Delage, SC 243, Cerf, Paris 1978, vol. II, p. 253.

[22] Gregorio Magno, Commento morale a Giobbe XIX,20,31, a cura di P. Siniscalco ed E. Gandolfo, Città Nuova, Roma 1997, vol. III, pp. 55-57.

[23] Rabano Mauro, La formazione dei chierici 2,28, a cura di L. Samarati, Città Nuova, Roma 2002, p. 105.

[24] Ibid., pp. 105-106.

[25] C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel medioevo, Einaudi, Torino 200o, p. 193.

[26] Ibid., p. 194.