Femminile e maschile: vicende e significati di un’irriducibile diversità, di Giovanni Salonia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /12 /2016 - 22:30 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Ciclo di vita e dinamiche educative nella società postmoderna, Rosa Grazia Romano (ed.), Milano, Franco Angeli, 2004, pp.54-69 un articolo di Giovanni Salonia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sotto-sezione Famiglia, affettività, sessualità.

Il Centro culturale Gli scritti (4/12/2016)

1/ In principio era la diversità

Ci accostiamo alla realtà complessa del maschile e femminile interrogandoci sulle origini di tale diversità. Lo facciamo rileggendo un “luogo classico dell’antropologia” (cfr. Spinsanti, 1990, 5-22), la pagina biblica che presenta una descrizione suggestiva della genesi (non solo cronologica) delle strutture e dei legami affettivi.

“Maschio e femmina li creò: a sua immagine li creò” (Genesi 1, 27 ss.). Emergono qui due caratteristiche costitutive e irriducibili del femminile e del maschile[1]: la diversità e il legame. Viene affermato che né il maschio (da solo) né la donna (da sola) possono dichiararsi dio: la divinità risiede unicamente nell’essere l’uno-per-l’altro, l’uno “riferimento” irrinunciabile dell’altro. A queste due caratteristiche (opposte ma intimamente congiunte) - inscritte nei rispettivi corpi - è affidata la possibilità, il compito della sopravvivenza della specie, ossia del continuo rigenerare e rigenerarsi della vita.

Ogni corpo si presenta al mondo – in modo preliminare, inevitabile e immediatamente visibile – segnato dalla divisione sessuale: il corpo reale è (ed è percepito) sempre come femmina o come maschio. Anche nel caso in cui, con angoscia, si vive una drammatica frattura tra il sesso (anatomico) e quello simbolico (il genere), l’identità si costruisce prendendo le mosse dal proprio corpo sessuato. Il corpo ermafrodita – con ambedue le anatomie sessuali – non celebra la luminosità dell’integrazione ma piuttosto l’oscurità del fallimento a tal punto che dovrà essere ricondotto, attraverso laceranti sofferenze, ad un’unica identità sessuale.

Intimamente e indissolubilmente connessa alla diversità originaria è anche il secondo aspetto della sessualità: l’attrazione, una spinta istintiva a ricercare un altro corpo (diversamente) sessuato. Onde evitare il rischio che l’essere diversi provochi disinteresse o, peggio, isolamenti autoreferenziali, un’originaria, struggente forza attrae reciprocamente il corpo della donna e quello dell’uomo: come se fosse inscritto nella carne che assieme, e solo assieme, femminile e maschile, ricompongono l’immagine divina. L’eros si manifesta, quindi, come arcaica e magica forza di attrazione, fuoco che dona alla donna e all’uomo la generatività (superamento della morte) e la compagnia (superamento della solitudine). Deve essere cantato l’eros come innata, insopprimibile, ostinata spinta - inscritta nel telaio stesso dell’esistenza (umana e del creato) – che irresistibilmente attrae e spinge le diversità a congiungersi per custodire il miracolo e il gioco della vita.

“Questa sì che è carne della mia carne, ossa delle mie ossa” dirà Adamo vedendo Eva per la prima volta. Una traduzione più accurata suonerebbe: “Questa sì che è la soluzione!” (Ravasi, 1990, 62). Con queste parole, Adamo inaugura, dà il la al coro infinito e inesauribile dei canti dell’amore e dell’eros che da sempre, in tutti i luoghi e in tutte le lingue, hanno celebrato quell’attrazione tra uomo e donna capace di nutrire e di riempire ogni vita di significati e di emozioni. Non a caso, com’è stato notato, Adamo esplode in un canto di gioia non quando conversa con Dio ma quando incontra Eva. Viene così insinuato (S. Below in Ravasi, 1990, 61) che sulla terra solo l’eros - più della compagnia degli stessi dei - rivela in modo efficace la divinità.

Eros, quindi, come attrazione sessuale scritta dentro le diversità sessuali. Eros come ‘tertium’ ineliminabile tra maschio e femmina. In questo senso la donna e l’uomo vanno compresi in un’ottica triadica: si può affermare che non sono due ma tre. Mentre il tavolo e la porta rimangono due elementi che, sempre e comunque, non tenteranno di accostarsi, il corpo sessuato si definisce non solo per quello che è ma anche per la calamita (è attratto e attrae) che lo contrassegna. L’identità sessuale, in ultima analisi, è data dall’avere un corpo di femmina o di maschio con dentro un’attrattiva verso un altro corpo sessuato[2].

Questi due elementi costitutivi della sessualità (il proprio sesso e l’attrazione per l’altro sesso) costituiscono la struttura di fondo dell’organismo vivente e la garanzia naturale della sopravvivenza. Nell’uomo e nella donna la corporeità sessuata implica, quindi, vissuti di genere, significati specifici, attrazione sessuale: un intreccio di corpo e anima che si presenta sempre in forme nuove e personalizzate. Mentre le differenze sono visibili nei corpi, l’attrazione è sperimentata nell’anima che questi corpi abita. Mentre la diversità dei corpi è evidente (è un dato), non è così per l’attrazione (che è un vissuto): proprio perché abita l’anima, essa è sottoposta ad una molteplicità di forme e di vicende, di successi e di smarrimenti.

Nel suo essere figlio di povertà e di industriosità[3], l’eros presenta una fisionomia complessa. L’attrattiva rivela, proprio nel suo esplodere, a tratti incontenibile, l’altra sua faccia che è il limite, cioè il bisogno dell’altro. Il canto d’amore di Adamo per Eva, proprio nella sua passionalità, svela il vuoto, la solitudine da cui Adamo si sente liberato all’apparire di Eva. L’eros è intimamente connesso al limite: anche l’uomo più potente del mondo quando è colpito dal dardo di eros diventa ‘debole’, deve fare i conti con il chiedere, l’attendere, l’essere alla mercé di un corpo e di un’anima che possono negarsi. Fugace e vuoto è il piacere rubato con forza da un corpo e da un’anima. Quando tale limite (cioè dipendenza) non viene accettato, il senso stesso dell’attrattiva viene stravolto e si mettono in atto schemi relazionali disfunzionali nei quali, cercando la soddisfazione sessuale senza la necessaria, ineliminabile contrattazione, si diventa arroganti, manipolatori o, ancora peggio, violenti.

Ma l’eros è anche industriosità: ferita che diventa feritoia perché apre il cuore al darsi e all’accogliere. Dono e compito, ricerca mai del tutto esausta dell’altro, l’eros è fuori dalla logica dell’amore scontato (che rimanda al registro filiale) perché riguarda l’amore come continua conquista e riconquista, come da tutti i poemi d’amore è cantato. In altre parole, l’attrattiva, che ostinata riemerge sempre e comunque, è segno della necessità di un continuo rimettersi in cammino alla ricerca dell’altro. La relazione maschio-femmina, la più radicale differenza nella condizione umana inscritta nei corpi e nelle anime, diventa paradigma di ogni relazione con la diversità. Attraversando le differenze e l’attrattiva che sono dentro il rapporto femmina-maschio si impara a vivere anche con le tante diversità che si incontrano nella città. Ecco perché i terapeuti del corpo affermano che la maturità sessuale (la capacità di vivere l’eros) esprime e rivela la maturità relazionale della persona[4].

Torniamo all’antico testo della Bibbia. Jahvè diede ad Adamo un aiuto “ezer kenegdò”. È un’espressione che, come uno scrigno, nasconde una grande ricchezza di significati. Lavorando sul testo ebraico, gli studiosi hanno evidenziato che il testo originale è aperto a quattro tipi di significato (cfr. Salonia, 1999).

Il primo (il più usato) è quello di simile: un aiuto simile a lui. Ovvero: la diversità non ha alcun significato valoriale o gerarchico: non implica in alcun modo sudditanza o superiorità. Uomo e donna sono simili. Ogni rapporto tra maschio e femmina, nella sua ineliminabile diversità, deve svolgersi sul registro della uguaglianza di valore.

Un secondo significato è di fronte: un aiuto di fronte a lui. L’uomo e la donna stanno l’uno di fronte l’uno all’altro nella loro diversità. Essere “di fronte” è un modo per dire che ci si riconosce reciprocamente: Adamo si definisce maschio di fronte al corpo di Eva; Eva si definisce donna di fronte al corpo di Adamo. La diversità come riconoscimento della propria identità. L’altro non deve essere percepito come una protesi di se stessi o uno specchio che rimanda la propria immagine, ma come diverso, altro, colui che abita mondi affettivi e percettivi non omologabili ai miei. Non c’è riconoscimento genuino di parità senza un’accettazione della “frontalità”, dell’imprendibilità dell’altro. La critica ad una somiglianza che decade in simbiosi che annulla le differenze è stato uno dei messaggi forti di Emmanuel Lévinas (1978). L’altro è di fronte perché e in quanto Volto, Volto come epifania della diversità delle anime che nella diversità dei corpi è racchiusa e rappresentata. Il sogno di una relazione che si nutra di ‘scontato’ è in ultima analisi una prospettiva che Bateson definirebbe ‘dormitoria’ perché conduce alla desensibilizzazione fusionale (Bateson, 1972).

Terzo significato: un aiuto contro di lui. La diversità può diventare “essere contro”. Senza lotta – ci ricorda Gadamer (1960) – non c’è riconoscimento relazionale: dell’altro e di se stesso, potremmo aggiungere. Non per nulla dicevano gli antichi greci: “Il polemos, il conflitto è padre e re di tutte le cose”. Senza conflitto, senza necessità di confrontarsi tra le diversità non c’è nuova vita. Quando la madre e il figlio diventano ‘contro’ ri-nascono alle loro individualità. Quando l’altro-oggetto si sottrae o si oppone nasce l’altro-soggetto, e rinasco anch’io come soggetto. Ci ricorda Bonhoeffer (1939) che se non muore il nostro ideale di comunità, di matrimonio (e, possiamo aggiungere, di noi stessi), non c’è incontro nella verità di me e dell’altro. Nel momento in cui le diversità entrano in contrasto è necessario evitare l’essere passivi, il cedere precocemente, l’ostinarsi arrogante per imboccare, invece, le strade del confronto nel rispetto del proprio punto di vista e di quello dell’altro. Solo così potrà accadere la “fusione degli orizzonti” come integrazione delle diversità. Prospettiva terza che si pone al di là della vittoria e della sconfitta, nel regno dove l’incontro è Gnade und Geheimnis (mistero e grazia) (Salonia, 1999).

Un ultimo significato, non sufficientemente evidenziato, rimanda l’”ezer kenegdò” al comunicare, al raccontare e, in ultima analisi, all’Haggad – racconto – pasquale. Un aiuto per comunicare. La donna provoca e produce la parola di Adamo come ogni madre conduce il figlio nella terra delle parole che creano incontro. Un aiuto per parlare, un aiuto per creare il dialogo. Perché se è vero che il diavolo divide non è la simbiosi che unisce ma il dialogo, l’andare e venire da sponde diverse, dalla soggettività dell’uno a quella dell’altro. Le parole, nel loro mistero e nella loro ricchezza, hanno il compito di creare ponti (Salonia, 2004a, 75-84): attraverso le parole, le diversità diventano dono della condivisione della mia interiorità e dono dell’ascolto dell’interiorità del partner.

2/ Il femminile e il maschile tra natura e storia

A questo punto possiamo confrontarci con una domanda cruciale: le differenze di sensibilità, di atteggiamenti tra maschio e femmina appartengono ai corpi o alle anime? Alla natura o alla storia?

Vi sono certamente delle differenze di sensibilità e di atteggiamenti che derivano proprio dalla diversa struttura e dalle diverse funzioni dei corpi. Un corpo che, per anni e anni, scandisce il tempo attraverso un ritmo intimo, un corpo che accoglie (viene penetrato), che porta un bambino nel ventre e (lo) partorisce, che allatta, che accudisce nelle fasi preverbali, è un corpo che accentua e richiama tutto ciò che ha affinità con il concavo, con atteggiamenti e sensibilità che riguardano l’accogliere, il sentire e vivere le sfumature delle emozioni, l’attenzione alle vibrazioni corporee. Mentre un corpo che penetra, che rimane incerto sulla paternità del figlio, che non ha cadenze corporee interne, che non conosce la gravidanza, il parto e l’allattamento certamente avrà affinità e sensibilità più convesse, e cioè l’essere orientati al fare, al produrre, all’intrudere, al rapporto con le cose. È ovvio che trattandosi di qualità, di sensibilità non si può applicare il principio dicotomico del tutto o niente (come se alcuni atteggiamenti fossero esclusivi dei maschi e altri delle femmine): trattandosi di qualità possono essere sperimentate in combinazioni e gradazioni differenti. È da tenere presente, inoltre, che ogni atteggiamento viene modulato all’interno di un intreccio di interazioni[5], per cui gli schemi cognitivi (impliciti o espliciti) che ogni maschio e ogni femmina ha nei confronti degli atteggiamenti, richiesti dal suo genere, spesso producono un irrigidimento delle polarità. Se l’uomo esaspera quello che crede sia lo stile maschile di interagire provocherà, in una circolarità di influssi, una risposta di stile femminile che, a propria volta, rinforzerà quella maschile in una spirale di rinforzo reciproco.

Un’altra differenza decisiva tra il corpo femminile e quello maschile riguarda la modalità percettiva. Il corpo della donna è predisposto a riconoscere l’altro attraverso il registro cenestetico e tattile mentre il corpo maschile privilegia il visivo (si pensi ai differenti modi di sperimentare il bambino che hanno la madre e il padre). Queste diverse modalità di accesso all’esperienza producono modi differenti di vivere le esperienze e di interagire[6].

Anche il modo di vivere l’eros è differente tra maschio e femmina: differenza di processi corporei tra il ritmo più veloce e parziale dell’erezione maschile e quello più lento e globale dell’eccitazione femminile, tra le spinte dirette al penetrare e quelle al progressivo aprirsi ed accogliere.

Ma ci sono anche differenze che riguardano i modi di vivere il desiderio del corpo altrui. Il corpo del bambino è intriso, odora del corpo di donna (della madre). Se pensiamo ad un parto possiamo dire che il corpo del bambino viene impregnato, ha un imprinting corporeo del corpo della donna nella sua più piena e potente carnalità Da questo corpo amato che l’ha fatto e nutrito, il maschio deve staccarsi alla ricerca di un altro corpo, per molti aspetti, simile. Non sarà facile attraversare la nostalgia di un corpo femminile che ha dato i primi baci per aprirsi ad un altro corpo di donna. Come fare a non confondere la donna verso cui si va, con quella da cui si proviene? Come fare a non sognare la fusione tra la donna di ieri e quella di oggi? Come rinunciare, secondo un’ipotesi suggestiva, a forzare e varcare il mistero di quel grembo dove ha dimorato e dove è nascosto il segreto delle origini?

La fatica della donna, invece, va su un altro versante. Anche il suo corpo è impregnato di corpo materno, un corpo che conosce e riconosce nella propria corporeità: ma come farà ad aprirsi al rischio di una corporeità sconosciuta? Come non restare legate al sogno - che si riapre ogni volta che si tenta di appartenere - di un principe azzurro che arriva con il cavallo e ti porta via?[7]

La strada che va dal ritrovarsi maschio o femmina al divenire maschio e femmina si snoda lungo i sentieri che richiedono l’assunzione duplice della propria corporeità sessuata e dell’essere direzionati verso un altro corpo.

3/ Essere femmine e maschi nel tempo del pericolo

La sopravvivenza della specie è il bisogno che si colloca come orizzonte ultimo di riferimento dell’organizzazione stessa della vita umana (Salonia, 2004a, 129): la diversità dei corpi – come abbiamo visto – è, in ultima analisi, ad essa funzionale. Nei periodi in cui la specie è in pericolo (per la fame o per la guerra) la divisione dei compiti è chiara e rigida: il maschio deve proteggere la donna; la donna, a sua volta, i bambini (il futuro). A questa divisione di compiti corrisponde una divisione di spazi per cui la casa (oikos) sarà il regno della donna, e la città (polis) quello dell’uomo. Alla diversità dei sessi corrisponde una diversa geografia dei luoghi occupati che diventa, lentamente, rigida divisione e polarizzazione degli atteggiamenti, delle sensibilità e dei ruoli.

Come accade nella dinamica delle emergenze, chi affronta il pericolo in prima persona sviluppa in modo prevalente il coraggio e la forza: lottare contro il pericolo in modo diretto dà un senso di controllo della situazione. Chi invece è al riparo, lontano dal pericolo, sviluppa in modo più evidente i vissuti di paura e di dipendenza: non sa cosa avviene sul fronte, è impotente sull’andamento della situazione, e quindi sente crescere dentro di sé sentimenti di dipendenza nei confronti di colui cui è affidata la salvezza. Se la situazione si protrae, la donna diventa il “sesso debole”, l’utero viene ad essere identificato come la radice, non solo semantica, dell’isteria, definita come paura che travolge. Il maschio, invece, diventa il “sesso forte”, colui che non può dare spazio ai sentimenti di tenerezza, alle sfumature del legame e non deve ascoltare e prendere in considerazione il proprio mondo interiore (la paura, le perplessità) per mantenere la inevitabile incoscienza richiesta a chi si espone al pericolo.

Senza questo quadro di riferimento dell’emergenza (comunità in percolo) non si riesce a capire come mai si sia mantenuta, per secoli, una divisione (donna “sesso debole” e maschio “sesso forte”) che non ha riscontro nella realtà, se si pensa alle prove di forza che le donne, da sempre, hanno offerto in tanti ambiti della esistenza. Anche la classica divisione maschio-attività e donna-passività sembra rispondere a precisi periodi storici in cui le divisioni dei ruoli erano nette e dicotomiche[8].

“Casa” e “città” sono diventate così non solo gli spazi del maschile e del femminile ma anche due registri dell’esistenza[9]. In questo contesto, il maschio che rimaneva a casa dimostrava di essere un vigliacco o un malato che si sottraeva al compito comune di lottare per la sopravvivenza della specie. Da parte sua, la donna che stava nella strada e nella città o era un’eroina che si esponeva al disprezzo e alla morte o, più comunemente, era la prostituta, colei che offriva un po’ di calore (di casa) al maschio fuori-casa. Nei contesti di pericolo cambia anche il modo di vivere la sessualità che si scinde tra dovere (“la procreazione”) e piacere. Chi rimane a casa (la donna) non deve godere (“debito coniugale”) perché altrimenti non potrebbe sopportare la lunga assenza del partner. Il marito, da parte sua, vive il rapporto sessuale con la moglie solo come diritto (o dovere) e quello con la prostituta nel registro del piacere. Negare il piacere e separarlo dall’affettività è diventato, spesso, un modo per sopportare meglio le separazioni e i rischi di morte richiesti dal compito di custodire la specie.

Il persistere per secoli di situazioni di emergenze ha prodotto un progressivo stratificarsi di queste divisioni tra femmina e maschio (funzionali ad un preciso contesto storico) per cui è diventato difficile distinguere, nell’uomo e nella donna, le caratteristiche legate alla natura da quelle esasperate dalla storia. Forse il ritorno alle pagine della Genesi ha proprio il fascino della ricerca di quelli che dovrebbero essere gli elementi di base della diversità dei sessi.

4/ Essere maschi e femmine nella postmodernità

Il venir meno del pericolo immediato della guerra nei paesi occidentali e il benessere economico - che hanno reso autonoma la donna (attraverso il lavoro e lo studio) - hanno determinato radicali cambiamenti di paradigma anche nel rapporto donna-uomo[10]. La rivoluzione femminile, nelle sue varie declinazioni, è stato il tentativo e la ricerca di ritrovare quelle che sono le differenze tra maschio e femmina nella loro genuina proprietà affrancandole da ogni valutazione e funzionalità[11]. Come è stato ben evidenziato, la difficoltà principale di questa ricerca è rappresentata dal fatto che la condizione umana (compresa quindi la realtà della donna) era stata pensata partendo e rimanendo in un registro maschile. «Pensare la differenza sessuale a partire dall’universale uomo significa pensarla come già pensata, ossia pensarla attraverso le categorie di un pensiero che si regge sul non pensamento della differenza» (Cavarero, 1987, 45). Ecco perché è stata portata avanti una interessante ricerca con lo scopo di “Liberare il due dall’uno”: «dal modello onnipotente dell’uno e del molteplice, è necessario passare al due, un due che non sia due volte uno stesso, nemmeno uno più grande e uno più piccolo, ma che sia fatto di due realmente diversi» (Irigaray, 1994, 115).

Ripensare in una logica di reciprocità le differenze di genere è stato ed è un percorso impegnativo visto che per secoli il maschio era diventato il principale esperto della parola e alla donna era stato chiesto di tacere[12]. L’emergere della soggettività mentre ha permesso alle donne di ricercare e ri-trovare le proprie parole di donne, sta richiedendo al maschio di apprendere il silenzio dell’interiorità. Al femminismo corrisponde, anche se … più silenziosa, la crisi del maschio. Il maschio si ritrova senza parole nel tempo in cui diventa centrale il bisogno e l’attenzione alla relazione e ai sentimenti. Abituato alle parole della città (la guerra, lo sport, il piacere) non conosce le parole dell’intimità e non ritrova più la scontata e (falsa) supremazia. La polis, già regno del maschio, diventa adesso il luogo in cui la donna è presente ed esprime tesori di intelligenza e di capacità, da secoli messi da parte, per accudire alla casa e ai figli. Il maschio, non è più l’unico competente negli affari della città, si rende presente a casa ma in una posizione di profonda incertezza e imbarazzo: incapace di prendere nelle braccia un neonato senza chiedere o temere lo sguardo competente della donna. La donna, a sua volta, è sottoposta ad uno stress da “ipercompetenza” (a casa e in città): sperimenta e gusta la competenza nella città ma si ritrova, inesorabilmente, la responsabile scontata della gestione della casa. «Molti parlano di “disagio dell’identità sessuale” come se il disagio fosse ora dell’uno ora dell’altro genere… dovrebbe essere chiaro, invece, un’altra cosa: il disagio dei generi è un disagio fra generi, è un disagio relazionale» (Donati, 1997a, 16).

Venuto meno il pericolo comune, la supremazia del maschio - funzionale alla protezione della donna e della prole - non ha ragion di esistere per cui diventa consequenziale per la donna uscire da ogni dipendenza e maturare una propria autonomia economica e culturale. Questa nuova situazione provoca un ribaltamento degli antichi assetti in cui la donna era la custode della paura, della dipendenza e l’uomo quello della forza e del dominio. La parità di dignità non è soltanto l’ultimo orizzonte (facilmente dimenticabile) di una situazione in cui, almeno nelle apparenze, il maschile si presenta come dominante ma diventa la realtà quotidiana che entra nella casa e si consolida nella città dal momento in cui non ha più senso una struttura verticistica funzionale alla sopravvivenza: se non c’è un pericolo, e quindi non si necessita di un capo competente che ci salva, allora siamo tutti uguali e ognuno può sviluppare le proprie potenzialità (autorealizzazione).

Anche, dal punto di vista della sessualità, i rapporti tra donna e uomo subiscono cambiamenti inediti, basti pensare al fatto che la donna che abita la città non è più la prostituta ma la collega, la direttrice. Lavorare assieme – femmina e maschio – nella città è un cambiamento inedito nella storia dei rapporti tra donna e uomo.

La postmodernità ha veramente sconvolto l’assetto che da secoli aveva ordinato i rapporti tra maschio e femmina. La centralità della soggettività nei confronti dell’appartenenza, la frantumazione dei centri di riferimento, la complessità multiculturale hanno aperto strade nuove di cui ancora non è possibile intravedere i punti di arrivo. Anche a livello di diversità sessuale ci si trova di fronte ad interrogativi di grande portata antropologica. Non si pensi solamente alla legittimazione dell’orientamento omosessuale (fenomeno peraltro da sempre presente) ma alla drammaticità (in termini di sofferenza e di inquietudine antropologica) del cambiamento di sesso che mette in discussione quello che era ritenuto un punto fermo, e cioè il proprio corpo sessuato.

Il periodo storico che stiamo vivendo ha operato cambiamenti decisivi e radicali delle regole della grammatica del maschile e del femminile. Attraverso travagli e sofferenze si stanno sperimentando modi nuovi di essere maschio e di essere femmina, e di interagire tra uomo e donna. Ne segnaliamo tre.

Il maschio (il padre) scopre la casa. Forse, uno dei motivi del successo del film di Benigni “La Vita è bella” è il recupero della figura paterna. Stiamo assistendo ad un cambiamento epocale: l’invenzione del rapporto tra padre e figlio piccolo. Forse non si può neppure parlare di ritorno del padre perché egli, abitualmente, non è stato mai in casa, e, in particolare, si è sempre poco interessato all’educazione dei figli specie nei primi anni. In tempi di pericolo il padre ha poco tempo per vedere e stare con i figli: oggi aumenta il numero di padri che vivono tanto tempo con i figli anche piccoli. A tal punto che si parla (e a ragione) di essere passati dall’invidia del pene (prospettiva comunque maschilista) all’invidia dell’utero (dell’esperienza ineffabile del portare dentro una vita) (Badinter, 1986) e dell’allattamento (momento magico di intimità tra madre e figlio). Ancora, forse, è presto per indovinare quali vissuti (positivi) produrrà questa presenza paterna nella prima socializzazione (cfr. Sichera, 1997).

Una seconda linea di novità è la presenza della donna in città: dall’utero-paura all’utero-accoglienza. Dopo le inevitabili fasi di irritato arroccamento dei maschi e di rivalsa delle stesse donne, la presenza della donna nella gestione della polis porterà certamente un modo diverso di mettere insieme le diversità, un’attenzione speciale ai deboli (bambini, diversabili, stranieri). L’utero da icona della paura isterica diventa l’icona dell’accoglienza in quanto capace di accogliere una vita nuova ed estranea senza crisi di rigetto (“economia placentare”)[13]. Non si tratta solo di ascoltare il pensiero delle donne ma di un cambiamento epistemologico: pensare al femminile. Quando la città, le civiltà saranno pensate al femminile o, meglio al “femminile-maschile” scopriremo possibilità inedite di risposta alle domande della polis: come coniugare gli interessi degli uni con quelli degli altri?

Terza linea di cambiamento: riscrivere la grammatica del convivere tra maschio e femmina. Che la società postmoderna debba affrontare il tema dell’affettività e delle relazioni umane è una constatazione ormai diventata drammatica. La casa non ha retto i cambiamenti di paradigma provocati dall’emergere della soggettività e dell’allentarsi delle spinte all’appartenenza. Se prima il senso di colpa creava un cordone di sicurezza per garantire l’appartenere al gruppo, oggi si sperimenta la tragicità di dover costruire una identità senza appartenenze. Siamo passati – è stato detto – dall’ Uomo Colpevole (Guilty Man) all’Uomo Tragico (Tragic Man) (Kohut, 1985).

Coniugare la centralità della soggettività con quella della relazione è una delle fatiche più aspre della casa e della città. È sintomatico l’emergere oggi di una conflittualità di coppia che si connota come “la paura che l’altro mi faccia impazzire” (cfr. Salonia,2002, 2003). Spesso i due partners sperimentano affetto ma non riescono ad ascoltarsi fino in fondo: la prospettiva dell’altro sembra “pazza” talmente è lontana dalla propria. Ascoltare fino in fondo la soggettività dell’altro nei suoi passaggi e nelle sue ferite è fatica e richiede competenze nuove. È necessario, forse, imboccare strade alternative dove l’ascoltarsi e il volersi bene includano anche il non comprendersi, l’accettare l’irriducibilità della logica dell’altro alla mia. La diversità irriducibile dei corpi ci ricorda che anche le diversità della mente sono irriducibili e non si compongono negando la diversità o con processi di omologazione, ma solo attraverso un gioco di penetrazione e di accoglienza, costituito dalla fiducia in se stessi e nell’altro, nel proprio corpo e in quello dell’altro.

È necessario passare dalla “legge del padre” alla “legge della relazione”(cfr. Salonia, 2004b). Non un principio dall’alto (un super-Io più o meno ideologizzato) presiede le regole del vivere insieme ma l’essere-dentro-la-relazione diventa la regola, o meglio, l’autoregolazione della relazione. Se la donna vive e custodisce l’esistere e il maschio il divenire di ciò che esiste[14], è necessaria la co-presenza di ambedue queste presenze e questi principi. Un esistere che non si apre alla logica del divenire e un divenire che non si fonda sulla logica dell’esistere si rivelano, entrambi, smarrimenti e deiezioni della condizione umana. Ecco perché gli studiosi della coppia sostengono che il compito più impegnativo dei partners oggi è raggiungere e mantenere la “parità”: sentire e vivere le differenze senza trasformale in gerarchia di valore.

Nella città si tratta di portare avanti, con sempre maggiore chiarezza e coraggio, il processo di inventare un nuovo modo di con-vivere tra donna e uomo. Come abbiamo visto, da secoli la mappatura degli spazi e della qualità degli incontri tra donna e uomo era codificata: le donne incontravano abitualmente gli uomini nell’‘ordine’ della casa e solo raramente nella città, tranne quelle che offrivano momenti e frammenti di fisicità e vicinanza (sempre nell’ordine della ‘casa’). Nei contesti storici di non evidente pericolo, quando la società non ha avvertito più il bisogno di unirsi contro un nemico (fame o guerra) – nell’occidente (geografico e culturale), per intenderci – si stanno rimettendo in gioco i luoghi dell’incontro donna-uomo: la presenza della donna nella polis ha richiesto la creazione di un’inedita modalità relazionale tra uomo e donna, assieme nell’ordine della ‘polis’. Tale processo non è ancora ultimato, si è ancora alla ricerca di nuove prassi di convivenza e collaborazione che rispondano alla domanda: come lavorare assieme, donna e uomo, tenendo presenti ma non rendendo determinanti le differenze di genere e la corrispettiva attrazione? Per la donna si fa lunga e, a volte, travagliata, la ricerca di un modello funzionale e funzionante che non sia il negare il corpo in un’esposizione mascolina o l’esibirlo esasperandone la seduttività. Per l’uomo ritrovare il corpo della donna nella città provoca ed evoca una complessità di sentimenti – smarrimento, paura e timidezza, arroccamento difensivo, voglia di dominio, di sopruso – difficile da gestire. Lavorare assieme in città nella ricchezza delle differenze di genere rimane, ancora, un compito aperto.

Ritorna così la forza dell’incipit da cui siamo partiti: femmina e maschio assieme, e solo assieme, nell’oikos e nella polis sono immagini del divino.

5/ Orientamenti educativi

Il compito educativo di facilitare il diventare femmina/maschio nel periodo della postmodernità si rivela complesso e impegnativo. Tutta l’articolata realtà educativa viene messa in crisi, a livello di processi e di contenuti, nel momento in cui si sperimenta, nella casa e nella città, la frantumazione dei punti di riferimento, il cambiamento repentino e inedito dei paradigmi interpretativi e dei modelli concreti di vita, la percezione dell’impossibilità di un unico punto di vista nella teoria e nella prassi. In tale contesto mentre risulterebbe ingenuo pretendere di delineare percorsi formativi, si rivela stimolante indicare temi e processi che richiedono particolare attenzione.

Possiamo racchiudere i cambiamenti che si sono succeduti nella riflessione educativa in una traiettoria che va dal Rapporto Faure (1970) al rapporto Delors (1996). Nel 1970 E. Faure nel suo famoso rapporto all’Unesco descriveva e proponeva cambiamenti epocali nelle strategie educative. Elaborando le nuove trasformazioni sociali e culturali, egli proponeva, in modo rivoluzionario, un nuovo obiettivo educativo: “Apprendere ad essere”. Un ribaltamento da una formazione che puntava ad aspetti settoriali ad una nuova meta educativa: apprendere il mestiere di essere uomini, che si rivelava sempre meno scontato e sempre più smarrito. Nel suo rapporto, Delors insiste sulla capacità di collaborare, di vivere e lavorare insieme, di coniugare le esigenze della globalizzazione e quelle dell’attenzione al territorio. Dall’imparare ad essere si è giunti, in modo chiaro e deciso, all’apprendere a “con-esser-ci”.

Ritroviamo il medesimo percorso nel campo delle teorie evolutive. La terapia della Gestalt (Perls, 1942) aveva sottolineato, negli anni cinquanta, la centralità della competenza al contatto come criterio di crescita della persona e in seguito, nella sua teoria evolutiva, indicherà la competenza la contatto come punto di arrivo della crescita del bambino (cfr. Salonia, 1989). Margaret Mahler (1975), negli anni settanta, sottolinea, per prima, l’importanza decisiva nella maturazione del bambino dell’apprendere a camminare come momento determinante per giungere all’autonomia. Negli anni ottanta, Daniel Stern (1985) elabora una teoria evolutiva che guarda al bambino nelle sue interazioni (come “sé”) e indica come meta la capacità di narrare e di narrarsi (narrative self) che è un’azione triadica. Tutta la riflessione e la pratica sull’educare, o meglio facilitare il divenire femmina/maschio, si inscrive in queste traiettorie di fondo. Parliamo di “facilitare” perché il diventare femmina e maschio è processo fisiologico che può essere solo accompagnato e facilitato. Alcune aree nell’ambito formativo oggi richiedono un’attenzione specifica. Ne segnaliamo due in particolare.

La corporeità. Diventare femmina e maschio è un percorso decisamente corporeo. L’attenzione alla soggettività, l’analisi fenomenologica, le teorie corporee hanno offerto contributi notevoli ad un comprensione, a tratti nuova, della corporeità. Si tratta di riscoprire il “corpo vissuto”, il “corpo sessuato”, la dimensione e personale e relazionale del respiro e della sessualità (Salonia, 2004a, 25-35). Solo dal di dentro, dalla scoperta della musica e del ritmo dei corpi è possibile coniugare il senso fiero e pieno del proprio corpo e di quello “diverso”. Parafrasando Kundera, posiamo affermare poeticamente che ogni corpo deve scoprire la propria anima e ogni anima deve scoprire il proprio corpo: quando avviene questo matrimonio, come ci ricorda Nietzsche, si rinasce ed è possibile incontrare in un ritmo nuovo anche il corpo dell’altro (Salonia, 2004a, 53-60). In altre parole, nei tempi di pericolo (fame e guerra) la sessualità perde tutta la dimensione del ‘pre-sessuale’ che riguarda la tenerezza, le sfumature, il senso del ritmo e anche la corporeità come identità. La riscoperta del pre-sessuale in tutte le sue sfumature ridarà pienezza alla sessualità vissuta nell’incontro dei corpi.

Un apprendimento, quindi che non riguarda solo la casa, l’intimità (la sessualità è relazione) ma che si estende anche alla città: vivere insieme, collaborare femmine e maschi al di là di ogni atteggiamento di abuso. Il mobbing sessuale rivela proprio l’incapacità di vivere la diversità dei sessi nella polis.

Saper collaborare. Un impegno educativo dovrà puntare sul far emergere nel/la bambino/a la curiosità del punto di vista dell’altro ed, in particolare, del punto di vista dell’altro sesso. Solo se educati a vivere la diversità come ricchezza da cercare e non come lotta di potere o di valore sarà possibile maturare gli atteggiamenti necessari e funzionali alla competenza alla collaborazione, in particolare tra femmina e maschio. I sentimenti di rispetto e di tolleranza sono solo propedeutici all’incontro con la diversità. Perché la convivenza produca la pienezza che ha in germe è necessario essere consapevoli che la propria prospettiva può essere, sempre e comunque, arricchita da un’altra per cui è necessario nutrire interesse e curiosità, anche per una prospettiva che ci sconvolge nella sua originale diversità. Essere attenti, nella casa e nella polis, a riconoscere il frammento di luce presente nel punto di vista dell’altro e il frammento di oscurità nascosto nel nostro punto di vista, è l’inevitabile premessa e condizione di un genuino e fecondo vivere insieme (Salonia, 2004a, 101-114). Questa pratica di collaborazione deve prendere le mosse proprio dall’atteggiamento del pensare-con, del pensare insieme che è premessa inevitabile di una genuina collaborazione. Solo così si può sperimentare che la diversità dei corpi femminile e maschile non è solo la diversità più radicale e più complessa dell’esistenza ma è anche la più feconda: è la strada per il nostro futuro, quello già dentro di noi e quello che verrà.

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Note al testo

[1] Nel corso del testo non useremo la parola “uomo” per indicare donna e uomo per evitare «la mostruosità di un universale che è insieme neutro e maschile» (Cavarero, 1987, 47). Eviteremo anche la scontata successione “maschio-femmina” ma, in modo casuale, alterneremo la precedenza tra “femmina-maschio” .

[2] Il presente intervento si limita a focalizzare il rapporto femmina-maschio e prescinde, quindi, da altre analisi che riguardano la complessità della sessualità, come, ad esempio, le identità ad orientamento omosessuale. Cfr. a riguardo Iaculo, 2002.

[3] “In occasione della nascita di Afrodite gli dei fecero un banchetto e, come è costume nelle feste, venne a mendicare Penìa (penuria). Quando Poros (risorsa), ebbro di nettare, entrò nel giardino di Zeus e, appesantito, si pose a dormire, Penìa si stese al suo fianco e divenne gravida di Eros” (Platone, Convito, 203 b-c).

[4] Classici su questo tema sono: Reich,1949; Lowen, 1965, 1975. Per una visione d’insieme cfr. Salonia, 2004a, in particolare pp. 53-60.

[5] «Non ha senso parlare di ‘dipendenza’, di ‘aggressività’, o di ‘orgoglio’ e così via. Tutte queste parole affondano le radici in ciò che accade tra una persona e un’altra, non in qualcosa che sta dentro una sola persona» (Bateson, 1972, 179). Sulla prospettiva relazionale cfr. anche Perls-Hefferline-Goodman, 1951.

[6] Per approfondire le modalità di interazione attraverso i vari canali di accesso all’esperienza, anche se prescinde dalle differenze sessuali, si può consultare la PNL (cfr. Bandler–Grinder, 1980).

[7] Suggestiva ed evocativa la scena del film “La vita è bella” (R. Benigni), in cui il protagonista arriva con un cavallo bianco e porta via con sé la “principessa”.

[8] «La femmina offre sempre la materia, il maschio, l’agente del processo di trasformazione» (Aristotele). Per una rilettura di questo paradigma cfr. Galimberti, 1999, 118-120.

[9] Illuminanti le riflessioni sull’ordine dell’oikos e su quello della polis in Cacciari, 1997.

[10] Sui cambiamenti a livello relazionale della postmodernità, citiamo alcuni: Bauman, 2003a, 2003b; Beck , 2003; Donati, 1997b, 25-92. Per una presentazione del cambiamento di concetto di maturità nei vari contesti sociali, cfr. Salonia, 1997. Per le tematiche connesse con la comunicazione, cfr. Salonia, 1999.

[11] È vasta la ricerca e la bibliografia che relativa al femminile. Ci limitiamo a citare alcuni tra gli autori più significativi: De Beauvoir, 1949; Horney, 1967; AA.VV., 1987; Greer, 1970. Anche la Irigaray ha approfondito molti aspetti di questa ricerca: cfr. 1990, 1991, 1994.

[12] Sull’influsso della diversità sessuale nel silenzio e nella parola, cfr. Irigaray, 1991; cfr. anche Mizzau, 1979.

[13] «I meccanismi placentari destinati a bloccare le reazioni immunitarie materne entrano in azione solo se l’organismo materno riconosce degli antigeni estranei. Dunque la placenta […] non sopprime ogni reazione della madre […]. Al contrario, è necessario il riconoscimento materno dell’altro, del “non-se” […] perché si producano i fattori placentari» (H. Rouch, in Irigaray, 1990, 36).

[14] Cfr. a riguardo lo stimolante capitolo di Cassano, 1989, 65-85 (“I sessi”).