Gli spazi missionari kerigmatici della vita della comunità parrocchiale, di Sergio Lanza

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /04 /2017 - 22:16 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal Notiziario dell’Ufficio Catechistico Nazionale, dedicato a “Il Primo Annuncio in Parrocchia”, Anno XXXIII, n. 17, giugno 2004, pp. 21-49 un articolo di mons. Sergio Lanza, allora Docente di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Lateranense. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Annunzio del vangelo (Kerygma, evangelizzazione, primo/secondo annunzio).

Il Centro culturale Gli scritti (2/4/2017)

N.B. de Gli scritti Vogliamo con questo articolo ricordare il prof. Sergio Lanza. Questo suo studio, nonostante sia ovviamente datato poiché precede sia papa Benedetto XVI che papa Francesco, mostra una comprensione ampia di cosa sia l’evangelizzazione, anticipando alcuni passaggi di Evangelii Gaudium soprattutto nei cinque orizzonti finali che vuole dischiudere e proporre.   

Rilevanza e urgenza del tema

[…[1]]

Parlare di primo annuncio in terra di antica cristianità significa ammettere non troppo velatamente la portata del cambiamento. Se dunque, da un punto di vista meramente teorico, il primo annunzio ha, nell’azione missionaria, «un ruolo centrale e insostituibile, perché introduce al “mistero dell’amore di Dio, che chiama a stringere in Cristo una personale relazione con lui” (Ad gentes, n. 13) ed apre la via alla conversione” (Redemptoris missio, n. 44)»[2], non si può non notare, in una considerazione specificamente pastorale, la sua scioccante portata.

Ma anche, lo diciamo subito, la sua potenziale ambiguità. Da un lato, infatti, esso dovrebbe comportare la messa in questione di tutta l’impostazione pastorale. Per essere chiari: si può mettere a tema il «primo annuncio» come azione pastorale ordinaria e prioritaria e non considerare il cortocircuito - che inevitabilmente ne deriva - con la prassi vigente (altrettanto ordinaria e ben più consolidata) dell’iniziazione cristiana.

In realtà, il primo annuncio non è questione che pacificamente si giustapponga all’esistente. È, piuttosto, capitolo saliente di quella conversione pastorale - metanoia personale e trasformazione operativa - di cui da tempo si parla, ma che fatica (e lo si capisce!) a imboccare cammini persuasivi e fattivi.

Non vorremmo che tutto si risolvesse in un ennesimo caso di gattopardismo pastorale, di quella tendenza (tentazione) cioè, a cambiare tutto perché tutto resti come prima.

Con una punta di orgoglio possiamo dire che fu proprio Orientamenti Pastorali a ospitare, nel 1992, un mio articolo che poneva la questione sul tappeto, riprendendo la felice intuizione di Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 31[3].

La scelta dell’espressione «prima evangelizzazione» piuttosto che primo annuncio era motivato da due ragioni:

- anzitutto, la sollecitazione ripetuta dal papa a intraprendere un’opera intensa di nuova evangelizzazione dei paesi di antica cristianità,

- in secondo luogo, il timore che il termine annuncio finisse per coprire una duplice restrizione (al solo ambito di parola e per di più alla sola prima proclamazione kerygmatica), vanificando l’intento.

Un segnale preoccupante: «in Italia, si usa frequentemente “primo annuncio”, come equivalente di prima evangelizzazione. Il termine per sé esprime soltanto l’annuncio del Vangelo, del kerigma, mentre prima evangelizzazione indica tutto il processo tramite il quale il non cristiano può incontrare il cristianesimo, diventare simpatizzante, ascoltare la predicazione del Vangelo e finalmente, così si spera, decidersi in favore di Gesù Cristo»[4].

Anzi, non è del tutto superata l’illusione di poter affrontare adeguatamente le esigenze della situazione attuale con una sorta di «recupero» catechistico, che è certo lodevole in mancanza di meglio (in questo senso lo approva anche Catechesi tradendae, n. 19[5]), ma non può in alcun modo - soprattutto oggi - essere considerato risolutivo, come i fatti dimostrano.

Perché non tutto resti come prima, ma il primo annuncio diventi via di autentico rinnovamento pastorale delle nostre parrocchie (e non solo), è necessario prendere atto che la stagione pastorale della catechesi è finita: il che non significa, ovviamente, la fine della catechesi, ma di un impianto pastorale imperniato sulla catechesi[6]; e, ancora, che il passaggio - necessario e prezioso - dal catechismo alla catechesi operato a partire dagli anni ’70 non risponde adeguatamente alle trasformazioni di un mondo - il nostro - che cambia, rapidamente e radicalmente. Un primo annuncio che non si inquadri in una complessiva e organica pastorale di prima evangelizzazione sarebbe vox clamantis in deserto. Diventa addirittura controproducente, perché risulta sostanzialmente non recepibile.

Lo sfondo teologico (e le sue derive)

Si può darne qui solo un riferimento schematico. Si tratta però di un aspetto che merita approfondimento. Se non causa (ma in qualche caso lo sono state) queste concezioni non corrette (o non complete) hanno perlomeno fornito indebita copertura a prassi pastorali inadeguate (e a pigrizie pastorali adeguate!). Brevemente.

a. L’ipostasi del kerygma

Questa posizione, che sta dietro la prassi pastorale dell’annuncio kerygmatico “forte”, restringe l’annuncio alla proclamazione del mistero pasquale e produce una deriva di ipertrofia della efficacia della Parola.

Si deve dire decisamente no al positivismo della rivelazionedi stampo barthiano, che genera una onnivora teologia della Parola.

Come ribadiva correttamente J. Jeremias, «la rivelazione non avviene tra le dieci e le undici della domenica mattina, durante il sermone». Tutt’altro che ipotetico il rischio che il tanto deprecato magismo sacramentale migri dalla teologia dell’ex opere operato alla teologia della Parola.

Non esiste annuncio separato dall’atto dell’annunciare e dalle concrete circostanze in cui esso avviene; si può certo distinguere il contenuto dall’atto; ma si tratta quel tipo di distinzione che, con il linguaggio della scolastica, si definirebbe «inadeguata», cioè possibile (e a volte utile) analiticamente, ma non riscontrabile direttamente nella realtà: l’annuncio è atto linguistico con carattere illocutorio e performativo; inoltre, dell’annuncio fa parte l’annunciatore, che in qualche modo diventa egli stesso messaggio: una realtà complessa, che non può essere affrontata con forme di riduzionismo dogmatico, che gli attribuiscono virtù di magica efficacia, distorcendo il significato vero e profondo della Rivelazione.

Nella teologia kerygmatica, la domanda dell’uomo a Dio viene semplicemente assorbita (elisa ed elusa) dalla risposta. Ha decisamente ragione W. Pannenberg: «Io mi sono staccato dalla “teologia della parola di Dio”, nelle sue varie forme odierne, non da ultimo perché mi sono accorto che esse erano solo la versione moderna di una teologia della rivelazione autoritativa»[7].

L’annuncio non è mera ripetizione, ma attestazione viva, personale, comunitaria, storica: come mostra chiaramente la tradizione originaria del Vangelo quadriforme.

Si deve ricordare, inoltre, che la dimensione pratica (comandamento, obbedienza della fede, relazione interpersonale) è interiore al kerygma, che la esige come parte integrante (e non solo come conseguenza):

- At 2,37: «All’udir questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”».

- Rm 10,9: «se confesserai con la bocca e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo».

Insomma, kerygma e primo annuncio si coappartengono, ma non coincidono. Vi torneremo in dettaglio.

b. La deriva sentimentale

Sul versante opposto, si deve tuttavia notare che l’appello al nerbo kerygmatico dell’annuncio è senz’altro opportuno e salutare, contro ogni tentazione di dilavatura del messaggio nel generico religioso-irrazionale.

Un no altrettanto deciso, pertanto, deve essere detto a proposito del misticismo di tipo wittgensteiniano che, al di là di un’apparenza suadente, produce l’evanescenza e quasi l’evaporazione stessa del kerygma. Non ci si deve lasciar trarre in inganno. In una nota dell’8.7.1916, per esempio, Wittgenstein osserva: «Credere in Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non sono poi tutto.

Credere in Dio vuol dire vedere che la vita ha un senso» (Notebooks, p. 174). E, nella pagina precedente, è detto che il senso della vita può essere detto Dio. E ancora: «pregare è pensare al senso della vita» (p. 173). Espressioni che possono apparire persuasive, nella loro sfumatura religiosa, lontana tuttavia dal riferimento a un Dio personale.

Quando la religione si accontenta di uno spazio emozionale, senza impatto aperto e consistente sul pensiero e sull’azione, si avvia alla evanescenza: una fede fuori del mondo non è fedele all’uomo, ma nemmeno a Dio. La deriva estetica che oggi sembra prevalere non è certo meno insidiosa delle distorsioni che hanno segnato la stagione sessantottina dell’impegno politico.

c. L’evasione logologica

«Al deduzionismo dottrinaristico, che la teologia ha cercato di scrollarsi di dosso, sembra essere succeduta un’esplosione di semantismo che si avvita su se stesso; ed è una cosa ancor più povera, come è più povero il logo semantico di fronte a quello apofantico»[8]. Questa annotazione di Italo Mancini coglie nel segno. La fedeltà alla Parola è atto di tradizione (traditio) che esige rigore di pensiero e precisione di parole. L’attorcigliamento del lessico della predicazione e della catechesi genera disagio e confusione; e contribuisce a quell’appannamento della identità cristiana cui così spesso si assiste, e a cui si è tentati di reagire con forme altrettanto errate di irrigidimento. Il primo annuncio si nutre di buona teologia[9] e di una comunità credente capace di linguaggio narrativo, simbolico, dottrinale. Quando una di queste componenti decade, tutto l’annuncio ne soffre.

Conclusione [sulla rilevanza e l'urgenza del tema]

La questione radicale: perché dall’annuncio non viene la fede?

«La fede cristiana non si intende più da sé. È come se dovessimo riscoprire ed esplorare i paesaggi remoti di una fede ormai obsoleta, estranea alla mentalità vigente»[10]. Il processo di estraniazione culturale del cristianesimo, già in incubazione da lungo tempo[11], è esploso negli ultimi tre decenni con forza dirompente.

Le difficoltà che l’evangelizzazione incontra trovano certo spiegazione anche nelle carenze degli evangelizzatori e nelle ombre che segnano il volto delle comunità[12]. Ma anche - la questione è complessa! - nel mistero della libertà e dell’indurimento del cuore, per cui l’uditore non si apre alla Parola; e, ancora, nell’influsso delle dinamiche socioculturali, che costituiscono un fattore determinante.

In altri termini, non è possibile parlare sensatamente di primo annuncio se non nel quadro di una pastorale organica e integrata di prima evangelizzazione, posta nel segno di un’autentica conversione pastorale. La questione cruciale è indicata con precisione dalle parole di J. Derrida (autore non sospetto di sovraccarico moralistico) che la individua nell’«abbandono dichiarato a ogni riferimento a un centro, a un soggetto a un riferimento privilegiato, a un’origine a un’archia assoluta»[13].

IL “PRIMO ANNUNCIO”, EVENTO DI COMUNICAZIONE

1. Qualche appunto di «ortografia pastorale»

a. Kerygma non è sinonimo di primo annuncio. Il primo annuncio non coincide con il kerygma, che ne costituisce il cuore e la cifra sintetica, il centro cristologico e storico salvifico (cristocentrismo trinitario e antropologico). Inteso come contenuto centrale della fede, il kerygma è un capitolo di teologia biblica e dogmatica; inteso come (primo) annuncio è un capitolo di teologia pastorale; il primo è contenuto normativo, il secondo azione (proclamazione, attestazione, testimonianza, dialogo, attesa di risposta...). Benché ortodossia e ortoprassi in alcun modo si contrappongano (ma, al contrario, siano poste in mutua interiorità e reciprocità), tuttavia chiaramente si distinguono ed esigono diverso approccio teologico.

In quanto annuncio (non solo il primo), il kerygma conosce (esige) sia la fatica del concetto (riflessione speculativa), sia l’impegno della comunicazione (riflessione pratica): «la stessa comprensione del linguaggio non s’instaura per suo conto, per mera analisi linguistica, ma in un complesso di condizioni più ampie, che investono l’intero campo delle precomprensioni e dei dati ermeneutica»[14]; è posto quindi nella responsabilità del «opportune, importune », né si può vantare del «quod dixi, dixi».

Si deve tenere ben presente, inoltre, che la testimonianza neotestamentaria non conosce predicazione ristretta alla formula kerygmatica; questa (cioè la formula kerygmatica) dice piuttosto il centro sintetico e il nucleo dinamico dell’annuncio; ma l’annuncio viene sempre posto in un’articolazione situazionale come mostrano sia i discorsi «kerygmatici» degli Atti degli Apostoli, sia tutto l’epistolario paolino).

Se dunque, da un lato, il kerygma non coincide con il primo annuncio, dall’altro non coincide nemmeno con la formula kerygmatica.

Questa, che lo sintetizza, non lo adegua se non nel rimando alla comunità, alla storia, alla decisione esistenziale... La formula è una mediazione culturale, un rimando: necessario, a volte vincolante (dogma definito), mai univoca, né esaustiva.

b. Evangelizzazione non è sinonimo di primo annuncio. Evangelizzazione, come si sa, è termine di conio relativamente recente: non compare nelle Scritture (dove troviamo evangelo ed evangelizzare) e viene in uso sullo scorcio del XIX secolo, nel contesto del movimento evangelistico protestante, per poi progressivamente diffondersi e quasi dilagare nel Novecento. Se etimologicamente essa dice annuncio del Vangelo (e in questo senso ha il sapore della primizia: di una notizia vecchia non si fa annuncio), storicamente (semanticamente) indica l’esigenza di ri-proporre il Vangelo nei paesi di antica cristianizzazione, a causa del progressivo affermarsi della secolarizzazione (per usare, un po’ sbrigativamente, un termine corrente, anche se discusso tra gli studiosi).

Lo stesso Vangelo che fa risuonare l’annuncio nella sua forma più classica, presenta Gesù come colui che parla in parabole, che modifica il suo metodo di evangelizzazione secondo la risposta dei suoi interlocutori.

In altri termini, l’annuncio non conosce solo la forma kerygmatica, ma si modula con varietà sapiente e multiforme: multifarie, multisque modis...: «La storia della Chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina di pentecoste, si mescola e si confonde con la storia di questo annuncio, Ad ogni nuova tappa della storia umana, la chiesa, continuamente travagliata dal desiderio di evangelizzare, non ha che un assillo: chi inviare ad annunziare il mistero di Gesù? In quale linguaggio annunziare questo mistero? Come fare affinché esso si faccia sentire e arrivi a tutti quelli che devono ascoltarlo? Questo annuncio - kerygma, predicazione o catechesi - occupa un tale posto nell’evangelizzazione che ne è divenuto spesso sinonimo. Esso tuttavia non ne è che un aspetto». (EN, 22).

2. Il kerygma come parola e messaggio

a. La consapevolezza dell’indicibile. Non ha perso vigore, in questo senso, l’antico precetto: non nominare...: «Noi dobbiamo come teologi parlare di Dio. Siamo però uomini e come tali non possiamo parlare di Dio. Dobbiamo sapere entrambe le cose, il nostro dovere e il nostro non potere, e proprio per questo dare onore a Dio»[15].

L’irruzione della parola, la forza della testimonianza non hanno nulla della costrizione. Si qualificano piuttosto come proposte alla libertà del soggetto, nella piena fiducia sulla forza persuasiva della verità, dell’annuncio di una parola «bella e buona».

Ancora, ciò genera quella attenzione intelligente e discreta al «destinatario» che non è «trattativa dialogica» (impensabile), e neppure soltanto strategia comunicativa, ma rispetto profondo dell’opera di Dio (che solo converte) e della dignità della persona umana (cf. 1Pt 3,15).

Si tratta della legge - teologica prima che pedagogica e comunicativa - dell’incarnazione. Della impossibilità, cioè, per dirla rapidamente, di separare Gv 1,1 e Gv 1,14, il Verbo eterno dal Verbo fatto carne. La parola dell’annuncio non è scindibile dall’evento, dal comandamento e dalla comunità; così come la sua recezione intreccia indissolubilmente ragione, storia e vita. Anche in questo caso si tratta di una legge teologica normativa: quella secondo cui la rivelazione avviene sempre gestis verbisquetra loro strettamente connessi.

La pretesa inaudita, l’ephapax della salvezza come assoluto non produce nessuna violenza comunicativa, perché è tutta racchiusa dentro lo scandalo della croce: la parola della croce (1Cor 1,17s.), critica insuperabile di ogni tentazione massimalista, segna piuttosto l’esigenza di una razionalità nuova, dischiusa dal paradosso per nulla retorico dell’impotenza di Dio nel Crocifisso. Come sembra riconoscere - paradosso anche questo - Th. W. Adorno nel passo conclusivo di Minima moralia: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione sul mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. Ottenere queste prospettive senza arbitri e senza violenza, dal semplice contatto degli oggetti, questo, e questo soltanto, è il compito del pensiero»[16].

Il kerygma è sempre interpretazione e confessione, marturia e omologia, mai solo reportage. La radice sta nel rimando all’evento salvifico, in particolare Cristo (superamento del divieto delle immagini; Gv 1,18). Così la questione della pronunciabilità del nome di Dio incontra quella della dicibilità - necessaria e critica - del kerygma.

Il kerygma non è soltanto un punto di vista, una teoria speculativa; è attestazione testimoniale.

Il keygma non è volto al passato, ma dispiega la Parola nel rinnovamento profondo dell’esistenza presente, mentre ne annuncia il compimento sperato: «[Sacra Scriptura] praeteritorum narratio est, futurorum praenuntiatio, praesentium demonstratio»[17].

Kerygma come prolessi, allora, come storia da narrare al futuro: «“Ma perché la fede cristiana si è lasciata sfuggire questo tema, che doveva essere il suo proprio tema? Dov’è andato a finire nel cristianesimo d’oggi, lo spirito cristiano primitivo della speranza?”. Ho incominciato allora il mio lavoro attorno a Teologia della speranza...»[18].

b. Attenzione al “destinatario”. Non si tratta di un piegamento condiscendente, tantomeno di una strategia di fatturazione: ma di una esigenza originaria della fede, manifestata in pienezza nel mistero dell’incarnazione (cf. RdC 75; RMi 44).

La teologia kerigmatica (rappresentata soprattutto da Barth) prende in considerazione solo il messaggio (il kerygma), senza riguardo all’altro polo, che è rappresentato dalle diverse forme culturali in cui si esprime l’interpretazione dell’esistenza.

Non si rende udibile l’annuncio agendo solo sul piano linguistico. È necessario incidere pastoralmente sul piano culturale, a tutto campo, per ricreare condizioni accettabili (favorevoli!) di udibilità: la fede non viene dall’annuncio, ma dall’ascolto (ex auditu).

È così posta in attenzione la dimensione culturale dell’annuncio.

LO SFONDO CULTURALE

Rivincita di Dio?

La retorica serve poco alla vita della Chiesa. Ancor meno, quando copre la verità. Vale, invece, l’inquietante interrogativo che già all’inizio degli anni sessanta si poneva Paul Tillich: «Il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?»[19].

Qualche tempo fa, il prestigioso settimanale culturale tedesco Die Zeit (11 maggio 2000) pubblicava un’intervista a H. Schnadelbach, in cui si legge tra l’altro: «Ho l’impressione che il cristianesimo ufficiale si sia lasciato alle spalle la propria fine effettiva, ma che non se ne sia accorto. La Chiesa come istituto morale e come organizzazione sociale è qualcosa che merita rispetto e sostegno, forse perfino una quota delle tasse, ma non è che ne sia rimasto molto di più. Non è poi un caso se le chiese oggi sono vuote; chi è più in grado di capire le prediche, i testi biblici e i canti? E anche se li si capisse, a che cosa servirebbe nel mondo moderno? In verità le chiese non hanno più nulla da dire che non potrebbe esser detto anche se non esistessero; non hanno più nulla di specificatamente cristiano da dire. Il cristianesimo ha dato anche un’impronta positiva alla nostra cultura, questo è vero, anche se il suo bilancio generale risulta nel complesso disastroso; le sue forze in grado di produrre un effetto positivo si sono da tempo esaurite o si sono trasformate nelle energie di un umanesimo profano. [...] È soltanto con la propria scomparsa che la maledizione del cristianesimo potrebbe volgersi in benedizione»[20].

Naturalmente, non siamo d’accordo. Ma è fuor di dubbio che, soprattutto nel nostro tempo, la parola non si fa evento automaticamente. Riprende e approfondisce Walter Kasper: «La crisi che il cristianesimo sta attraversando nel mondo occidentale riguarda proprio questo problema. Innanzi tutto si tratta di una crisi di rilevanza.

Facciamo l’esperienza quotidiana di come le verità dogmatiche e ancor più i precetti morali della Chiesa non raggiungono ormai più una grande fetta dei nostri simili, quasi fossero risposte che si danno a domande che nessuno pone. Ma questa crisi di rilevanza è soltanto l’aspetto maggiormente visibile del problema, che da tempo ormai, colto in profondità, segnala una crisi che è di identità. La domanda che dobbiamo porci non riguarda più la via che la chiesa deve seguire per parlare al mondo moderno secolarizzato, ma investe lo stesso cristianesimo! Che cosa significa essere cristiani? E che cosa ha da dire il cristianesimo a questo mondo? Ed ha poi qualche cosa da dire di suo, di inconfondibilmente proprio?»[21].

Vengono alla mente le parole di S. Kirkegaard in Aut-aut: «Lasciamo che gli altri si lamentino che i tempi sono cattivi; io mi lamento che il nostro tempo è miserabile, poiché senza passioni»[22].

Viene alla mente, ancora, la terribile frustata di E. Mounier, che già nel 1946 scriveva: «Il cristianesimo non è minacciato di eresia: non appassiona più abbastanza perché ciò possa avvenire. È minacciato da una specie di silenziosa apostasia provocata dall’indifferenza che lo circonda e dalla sua propria distrazione. Questi segni non ingannano: la morte si avvicina. Non già la morte del cristianesimo, ma la morte della cristianità occidentale, feudale e borghese. Una cristianità nuova nascerà domani, o dopodomani, da nuovi strati sociali e da nuovi innesti extra-europei. Ancora bisogna che noi non la soffochiamo con il cadavere dell’altra»[23].

Certo, la vittoria della città secolare appare piuttosto come una vittoria di Pirro: «Insieme alla sicurezza della fede è andata in frantumi anche la sicurezza dell’incredulità... L’assenza di Dio è la ferita ancora aperta dello spirito europeo... Il crollo del cristianesimo, che l’illuminismo s’attendeva con gioia, si è rivelato - nel modo in cui si è verificato - come il crollo quasi simultaneo dell’illuminismo»[24], come già presagiva Nietzsche dopo il folle grido della morte di Dio. Ma il «ritorno del sacro» non ripristina la situazione precedente.

Al contrario, «l’attuale riemergere della religione non rende, tuttavia, antiquato il messaggio di La città secolare»[25].

La ripresa del religioso costituisce un’opportunità, non una soluzione, nemmeno incipiente: nella cultura minuscola non si dibattono grandi questioni, non si accendono grandi passioni; si mostra piuttosto una mescolanza di domanda inespressa e disillusione nichilista[26].

Anzi, si profila uno stadio ulteriore di secolarizzazione: «A mio parere ci troviamo di fronte a una sorta di seconda secolarizzazione: una secolarizzazione della secolarizzazione. Se la prima è stata una secolarizzazione della salvezza, quella contemporanea è una secolarizzazione dalla salvezza. La prima aveva reso immanente il trascendente, mantenendone in qualche modo il modello: dalla salvezza dal tempo, alla salvezza nel tempo. Il grande progetto umano di conquista del futuro, l’uomo al posto di Dio. La secolarizzazione della secolarizzazione dissolve l’idea stessa di salvezza, intesa come fede in una salvezza incondizionata ed assoluta. Gli stessi progetti umani sviluppano dentro di sé troppe controfinalità per poter ancora confidare in essi, coltivare presunzioni di onnipotenza. Gli uomini - intendo gli uomini medi - oggi non sentono più bisogno d’essere salvati, se non nel senso di migliorare comparativamente le proprie condizioni di vita»[27].

A ciò si aggiunge quella erosione della identità soggettiva che costituisce l’esito paradossale, ma inevitabile, di quella rivendicazione di autonomia che aveva aperto la stagione illuministica. Così, il pluralismo da fenomeno ristretto all’ambito del sapere accademico, diventa fenomeno culturale e sociale, e giunge infine a toccare la stessa identità personale del singolo individuo. È l’«uomo senza qualità» descritto da Robert Musil come uomo privo di nucleo essenziale, incapace di configurare se stesso in personalità ben definita.

Sul piano religioso ciò comporta una oscillazione tra il «believing without belonging» (G. Davie, fede senza appartenenza), al «belonging without believing» (appartenenza - socioanagrafica, ma non senza uno sfondo emozional-simbolico - senza fede): come i sondaggi confermano, abbiamo più credenti che praticanti, ma anche più cattolici (dichiarati) che credenti.

Vince l’attimismo, la cultura dell’immediato, del navigare a vista, della partecipazione part time... L’attimo fuggente... L’immediatezza dominante assorbe il kerygma nell’istantaneo/episodico dell’esperienza momentanea.

PRIMA EVANGELIZZAZIONE. LA FIGURA (STRUTTURA) TEOLOGICO-PRATICA

1. Il Logos prima delle parole 

È il momento in cui i processi di inculturazione della fede si manifestano soprattutto come capacità di innervare le realtà socioculturali sul piano della persona (mentalità) e della società (strutture e costume). Dalla visione cristiana del mondo e della vita scaturiscono prospettive e progetti di valore per l’uomo e la società: nei campi della educazione, della coltivazione del sapere, delle espressioni artistiche, della edificazione della società, della strutturazione dell’economia e del lavoro... I cristiani, nutriti dalla parola della fede, si fanno promotori di vera umanità e di autentico progresso: non come tutori o censori che guardano dall’esterno, ma come protagonisti che si pongono nell’intreccio dei fenomeni socioculturali e li innervano con proposte ricche di spessore, capaci di attrarre e ottenere consenso per il loro alto livello qualitativo.

Tutto ciò non si declina fuori o a fianco dell’azione ecclesiale, ma appartiene alla tradizione autentica della evangelizzazione[28] e si radica in una precisa e ineccepibile prospettiva cristologia[29].

Entrano infatti in questo orizzonte molti capitoli della pastorale ordinaria, quali la famiglia, la scuola, il lavoro, la salute... Più complessivamente vi si riconduce l’impegno per la cultura. Chiamo questa multiforme azione pastorale praeparatio evangelica. Essa che è già a pieno titolo evangelizzazione: «Rivelare Gesù Cristo e il suo Vangelo a quelli che non li conoscono, questo è, fin dal mattino della pentecoste, il programma fondamentale che la Chiesa ha assunto come ricevuto dal suo Fondatore. Tutto il Nuovo Testamento, e in modo speciale gli Atti degli apostoli, testimoniano un momento privilegiato e, in un certo senso, esemplare di questo sforzo missionario che si riscontrerà poi lungo tutta la storia della chiesa. Questo primo annuncio di Gesù Cristo, essa lo realizza mediante un’attività complessa e diversificata, che si designa talvolta col nome di “preevangelizzazione”, ma che è già, a dire il vero, l’evangelizzazione, benché al suo stadio iniziale e ancora incompleto. Una gamma quasi infinita di mezzi, la predicazione esplicita, certamente, ma anche l’arte, l’approccio scientifico, la ricerca filosofica, il ricorso legittimo ai sentimenti del cuore umano possono essere adoperati a questo scopo» (EN, 51).

L’azione penetrante di praeparatio evangelica è dunque rivolta anzitutto al mondo dei non credenti; ma è capace di sostegno e illuminazione anche per chi versa in situazione di fede dubbiosa e incerta, e per il credente che respira l’atmosfera del nostro tempo e si sente fragile se non sostenuto dalla manifesta capacità della fede di essere fattore di rinnovamento e costruzione della città dell’uomo.

È il momento delle prime parole in cui emerge e si fa chiara l’istanza di esprimere il Vangelo di sempre nel «qui e ora» di una cultura storica: i processi di inculturazione della fede assumono la figura della interculturazione, intesa come proposta esplicita, convincente e avvincente, delle ragioni della fede, dei suoi contenuti fondamentali e delle sue esigenze basilari. Nel tempo dello smarrimento e dell’incertezza, questa preoccupazione non certo nuova assume carattere di urgenza: la prima evangelizzazione gioca qui una delle sue partite più difficili: i processi di estraneazione dei linguaggi della teologia e dell’annuncio, l’ombra gettata dai «maestri del sospetto», una perdurante e diffusa sensazione di déja vu, di immagine ingiallita, preziosa magari, ma museale... Le difficoltà toccano il nerbo stesso della proposta cristiana e la sua capacità di dirsi in modo chiaro e persuasivo. L’esigenza è sentita (si veda l’accoglienza del Catechismo della Chiesa Cattolica al suo primo apparire); è sapienza e responsabilità pastorale comprenderne le pieghe complesse e rispondervi con modalità adeguate. Ogni cura deve essere posta perché la parola del kerygma risuoni con la sua forza di interpellazione esistenziale: cura che non dà alla Parola una efficacia che le è nativa e propria, ma ne favorisce le condizioni umane di ascolto e accoglienza.

Nel nostro tempo, peraltro, questo è volto anche a consolidare la fede iniziale e l’appartenenza cristiana del credente: «Se questo primo annuncio si rivolge specialmente a coloro, che non hanno mai inteso la buona novella di Gesù, oppure ai fanciulli, esso si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che l’hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri» (EN, 52).

2. Il Logos dentro le parole (verità/evento)

Il kerygma è proclamazione pubblica. E non si dà evangelizzazione senza di essa: «anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata - ciò che Pietro chiamava “dare le ragioni della propria speranza” - esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. La buona novella, proclamata dalla testimonianza di vita, dovrà dunque essere presto o tardi annunziata dalla parola di vita. Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il regno, il mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio, non siano proclamati» (EN, 22).

Chiamo questo momento prolegomena fidei, le prime parole della fede. Esso riveste particolare importanza nel tempo presente, perché offre la possibilità di individuare con chiarezza e sinteticamente i capisaldi della fede cristiana, nelle sue affermazioni, motivazioni ed esigenze di vita.

Tra praeparatio evangelica e prolegomena fidei si dà sequenzialità logica, ma non necessariamente cronologica. Sono le circostanze e le esigenze dell’interlocutore a decidere se l’uno o l’altro debba precedere, e quale.

Alla prima adesione di fede segue l’esigenza del suo approfondimento organico, sistematico, integrale (cf. Catechesi tradendae). È il momento che chiamo volentieri dell’intellectus fidei. È prassi pastorale ben nota e consolidata, sia nel modello catecumenale, sia in quello della educazione cristiana dove trova luogo appropriato la catechesi. È l’azione volta a dare figura e nutrimento alla mentalità di fede; a condurre dal sapere alla sapienza e alla vita cristiana testimoniale; a formare l’identità cristiana del soggetto e favorire il suo inserimento da protagonista nella vita della Chiesa e della società: «L’annuncio, in effetti, non acquista tutta la sua dimensione, se non quando è inteso, accolto, assimilato e allorché fa sorgere in colui che l’ha ricevuto un’adesione del cuore. Adesione alle verità che, per misericordia, il Signore ha rivelate. Ma più ancora, adesione al programma di vita - vita ormai trasformata - che esso propone. Adesione, in una parola, al regno, cioè al “mondo nuovo”, al nuovo stato di cose, alla nuova maniera di essere, di vivere, di vivere insieme, che il Vangelo inaugura. Una tale adesione, che non può restare astratta e disincarnata, si rivela concretamente mediante un ingresso visibile nella comunità dei fedeli. Così dunque, quelli, la cui vita si è trasformata, penetrano in una comunità che è di per sé segno di trasformazione e di novità di vita: è la Chiesa, sacramento visibile della salvezza. Ma, a sua volta, l’ingresso nella comunità ecclesiale si esprimerà attraverso molti altri segni che prolungano e dispiegano il segno della Chiesa. Nel dinamismo dell’evangelizzazione, colui che accoglie il Vangelo come parola che salva, lo traduce normalmente in questi gesti sacramentali: adesione alla Chiesa, accoglimento dei sacramenti, che manifestano e sostengono questa adesione mediante la grazia, che conferiscono. Si lascia così il mare aperto della prima evangelizzazione per entrare nella casa, dove il Maestro raccoglie e ammaestra i discepoli (cf. Mc 4,11s). Ma anche in questo ambito, la tonalità di “prima evangelizzazione” rimane viva: per la temperie critica del momento presente, segnato da un dubbio non solo metodico; per l’esigenza sempre più pressante che ogni cristiano sia in grado di rendere ragione della propria scelta di fede; per quella umiltà vera che riconosce nella fede un dono da accogliere ogni giorno, e mai un possesso presuntuosamente acquisito» (EN, 23).

L’opera urgente, delicata e ardua di inculturazione della fede, si configura così nei suoi momenti qualificanti come:

- dialogo culturale: confronto, rispettoso e chiaro, come apertura e processo nel cammino verso la verità;

- discernimento culturale: valorizzazione, purificazione, arricchimento delle realtà culturali storiche;

- elaborazione culturale: dinamismo creativo di produzione di culture che, nella loro tipicità, siano cristianamente qualificate e portino la forza rinnovatrice del Vangelo dentro le più intime giunture della storia.

Il trinomio pastorale della nuova evangelizzazione interseca dunque e rinnova tutta l’impostazione dell’azione ecclesiale. Esso esige una salutare terapia linguistica contro tutto ciò che suona insignificante, che mette a rischio di inanità la proclamazione verbale del kerygma.

3. Il Logos dopo le parole (visione e pratica di vita)

Il kerygma che non si veste di fatti viene meno alla propria struttura costitutiva originaria (gestis verbisque). Ciò comporta l’esigenza di affrontare la questione complessa e delicata della presenza dei cristiani nella società. Ha ragione Paul Tillich: «La teologia della mediazione corre il rischio di estraniarsi totalmente dal messaggio originale. La teologia dello scandalo, d’altro canto, può arrivare a negare qualunque relazione. La prima diviene irrilevante per adattamento, la seconda per opposizione. Se rimangono sole, esse sono ugualmente pericolose»[30].

Prassi e futuro, allora, come verità del kerygma? Non certo nel senso che il contenuto del kerygma tragga la propria verità dalla verifica dei fatti; ma certamente nel senso - che la parola di Gesù pone inequivocabilmente – dei fatti come luogo della sua credibilità (Gv 14,34s.; Mt 7,16; 1Ts 1,9-10). La verità del kerygma è indissolubilmente speculativa e pratica: isolare la prima, significa aprire la strada a interpretazioni evanescenti e spiritualizzate; isolare la seconda significa prestare il fianco alla riduzione della salvezza a ideologia socio-politica.

Si tratta piuttosto di mostrare che «la fede cristiana in Dio è effettivamente quella forza che dischiude la realtà, una forza che illumina, libera e riconcilia. Soltanto dove Dio viene pensato come Dio il pensiero non sfocia in surrogati ideologici e in vuoti nichilistici.

Oggi, quando l’età moderna conosce la sua fine e vive la sua crisi, potrebbe dunque aprirsi quella via che porta a quell’umanesimo nuovo, cristianamente connotato, che salda, in una nuova sintesi, la tradizione biblica con la migliore eredità della metafisica e le sue trasformazioni moderne. Finora siamo riusciti soltanto ad intravedere i profili di questa cattolicità nuova, aperta, che però è una meta raggiungibile, seppure per una via lunga e sassosa, che fa appello a tutta la nostra fede ed a tutte le energie del nostro riflettere»[31].

La libertà cristiana è forza che interpella e mobilita, capace di risvegliare la coscienza pubblica, orientandola al bene comune.

Essa spinge a significative espressioni sociali di autentica vita cristiana capaci di dare risposta ai problemi del tempo. Non si deve dimenticare la fondamentale lezione di Gaudium et spes, Evangelii nuntiandi, Redemptor hominis:

- un primo annuncio che si comprendesse fuori da quell’orizzonte svanirebbe nel suono di parole inutili, come barattoli vuoti. La nuova attenzione pastorale al primo annuncio significa invece la consapevolezza di una situazione in cui è necessario dare nuova risonanza, nuova rilevanza alla parola della fede, perché sia possibile riaprire sentieri che si sono troppo rapidamente interrotti. Un primo annuncio che non fosse compreso - e attuato - nel contesto normativo della nuova evangelizzazione non avrebbe alcun senso;

- isolato dalle sue coordinate vitali, il kerygma rischia di cristallizzarsi in una introversione privatistica ed emozionalistica;

- l’annuncio non è separabile dalla storia e dalla biografia. Poiché la convinzione è effettiva nel linguaggio, è necessario che esso sia linguaggio, non mera formula. L’assenza del contesto determina l’evanescenza del testo e l’irrilevanza del messaggio;

- la teologia è fede pensata nel proprio tempo, contro ogni individualismo esoterico: «Ci si rimprovera d’essere individualisti anche nostro malgrado, a causa della logica della nostra fede, quando in realtà il cattolicesimo è essenzialmente sociale. Sociale nel senso più profondo della parola: non soltanto per le sue applicazioni nel campo delle istituzioni naturali, ma prima di tutto, nel suo centro più misterioso, nell’essenza della sua dogmatica»[32].

La riduzione kerygmatica condurrebbe a ripetere in ciascuno di questi ambienti l’annuncio di Cristo morto e risorto nella sua materialità verbale.

“LUOGHI” KERYGMATICI (IN PARROCCHIA)

Premessa 

a. Luoghi e nonluoghi. Nonluoghi: sono gli spazi in cui si passa, in cui non si fa che passare, in cui non si fissano radici, gli spazi della circolazione (autostrade, aereoporti), del consumo (supermercati, catene di alberghi), della comunicazione (schermi televisivi e computer). Circolare, consumare, comunicare: questi termini sono quasi intercambiabili e assieme definiscono la confusione «surmoderna». I mezzi di circolazione si vendono, si comprano, si consumano e ogni aereo, ogni automobile sono dotati di mezzi di comunicazione.

I prodotti di consumo provengono da ogni parte, circolano, e le campagne di pubblicità, di comunicazione pubblicitaria, ne vantano i meriti; i mezzi di comunicazione (televisione, computer, cellulari) sono prodotti di consumo; anch’essi circolano e permettono una quasi-ubiquità che trascende la circolazione stessa.

Paradosso del nonluogo: colui che circola, consuma o comunica ha la sensazione di esistere; ha una meta, opera delle scelte, trasmette messaggi che esprimono la sua identità di viaggiatore diretto a questo o quell’aereoporto, di amante dei profumi, di persona legata alla famiglia o alla propria azienda, o a entrambe...[33].

b. Luoghi kerygmatici in parrocchia? L’espressione, in sé non poco problematica, viene qui impiegata secondo la prospettiva e il senso inteso lungo tutta questa esposizione. Luoghi come realtà, occasioni, situazioni, in cui, in diversi modi e forme, in opere e parole, in maniera esplicita ma anche come lievito e sale, il Vangelo viene offerto, presentato, proclamato come la vera e in fondo unica illuminazione dell’esistenza, e, più correttamente e compiutamente, Gesù come luce del mondo, via, verità e vita.

1. La liturgia frontiera di prima evangelizzazione

La liturgia - l’eucaristia in particolare - è fonte e culmine dell’esistenza cristiana. Di fatto, però, in molte circostanze si presenta come occasione di evangelizzazione di coloro che solo del tutto occasionalmente vi partecipano. Un modus celebrandi, una regia liturgica che non ne tenga conto, ma proceda come se le persone fossero tutte nella ottimale condizione della actuosa participatio, chiude gli occhi di fronte alla realtà. Non si tratta certo di appesantire il rito, infarcendolo di pedanti note didascaliche. Ma di curarne la qualità, la bellezza, la forza evocativa e simbolica. Tutto ciò è possibile, come insegnano, per esempio, le celebrazioni della Giornata mondiale della Gioventù 2000. Ma... se la Messa di Natale assomiglia troppo a quella del 2 novembre!

Ecco allora alcune indicazioni. Nel suo porsi variegato, l’azione ecclesiale, trova nel momento liturgico l’espressione naturale e armonica del suo essere azione salvifica che si realizza nell’hic et nunc della storia (criterio storico-salvifico). Anzitutto, comporta la connessione vitale con le altre forme della vita cristiana ecclesiale: nessuna dissociazione (tantomeno contrapposizione) è pensabile (criterio di organicità).

Ciò esclude un’azione liturgica monocorde; comporta, al contrario, una configurazione variegata e polifonica (criterio di multiformità): tale carattere è presente, anzitutto, nelle articolazioni che strutturano il rito medesimo; riflette i doni di cui lo Spirito rende ricca e vitale la sua Chiesa; scandisce, nella sequenza cronologica dell’anno liturgico, il senso del tempo e della storia salvifica. Si connette, ancora, al vissuto ecclesiale concreto (qui l’esigenza propriamente teologica - incarnazione - trova forma e concretezza sul versante specificamente antropologico: i problemi, le aspirazioni, le vicende e la storia di una comunità particolare).

Appare così come il criterio di multiformità si franga e si determini come criterio di articolazione e di molteplicità; quest’ultimo, poi, si configura vuoi a partire dalle esigenze native della fede cristiana, vuoi a partire dal vissuto della comunità.

Le celebrazioni belle attirano, nutrono, sono luoghi in cui si ascolta la voce di Dio. Da esse comincia la possibilità di una autentica catechesi mistagogica.

A questo tema si connette quello, rilevante, delle nuove esigenze di spiritualità, la cui emergenza è segnalata dalla diffusione pervasiva di nuovi movimenti religiosi[34]. La parrocchia deve riprendere con vigore i tragitti di una rinnovata pietà popolare, attivare scuole di preghiera, scavare nel tesoro della tradizione non ripetendo, ma imparando e ricreando. Numeri esigui? Non importa. Il buon seme è gettato.

2. La prima evangelizzazione in famiglia

L’educazione (cristiana) delle prime età non avviene più per osmosi familiare e ambientale, se non in minima parte. Per questo esige che si ponga mano con urgenza a una attivazione pastorale istituzionale che vi sia dedita. Non iniziative sporadiche, dunque, ma una vera e propria strutturazione, che esige itinerari, operatori preparati, strumenti.... Quale invito e sostegno alla famiglia, anzitutto, e mediante valorizzazione delle scuole dell’infanzia, troppo spesso sottovalutate nella loro portata. Una pastorale strutturata e organica, un vero e proprio «sistema» di pastorale familiare della prima età, con modalità, operatori e strumenti propri e specifici.

L’infanzia, infatti, appare sempre più stagione molto significativa per la strutturazione della personalità; e segnatamente sotto il profilo religioso[35]. Le acquisizioni di ambito psicopedagogico sono confermate in modo autorevole dalla parola stessa del papa: «Questa prima educazione è di capitale importanza. Se i rapporti con i genitori e gli altri familiari sono contrassegnati da una relazionalità affettuosa e positiva, i bambini imparano dalla viva esperienza i valori che promuovono la pace: l’amore per la verità e la giustizia, il senso di una libertà responsabile, la stima e il rispetto dell’altro. Al tempo stesso, crescendo in un ambiente accogliente e caldo, essi hanno la possibilità di percepire, riflesso nelle loro relazioni familiari, l’amore stesso di Dio e questo li fa maturare in un clima spirituale capace di orientarli all’apertura verso gli altri e al dono di sé al prossimo»[36]. Autentico servizio alla vita.

In un’epoca in cui il fanciullo è posto sotto un cumulo multiforme e disorganico di influenze e di pressioni educative, appare pastoralmente importante, anzi decisivo, che l’attenzione educativa della comunità cristiana sia posta fin dalle prime età della vita. Gli anni della prima infanzia, infatti, non possono essere sbrigativamente derubricati come età di passaggio, ma costituiscono stagione di primaria rilevanza nella strutturazione della personalità, come evidenziano senza eccezione le indagini demoscopiche recenti. Fin dall’infanzia la visione del mondo e della vita appare legata in maniera decisiva - e spesso indelebile - alla qualità e alla tonalità (religiosa o meno) delle prassi educative.

A cominciare, senza dubbio, dalla famiglia, da cui prende figura e sostanza la religiosità intrinseca. Ma con non minore peso e rilievo da parte dell’esperienza ecclesiale: le persone che agli occhi del bambino incarnano la realtà ecclesiale (tutti coloro che prestano la loro opera nei contesti pastorali) diventano fattori di qualificazione dell’esperienza della fede e della vita cristiana, incisa nell’animo e radicata nello sfondo della sensibilità e dell’intelligenza.

I punti salienti, che qui non possono essere svolti, riguardano:

- l’accoglienza e l’accompagnamento delle giovani coppie, soprattutto nel periodo della attesa del primo (e a volte ultimo) figlio;

- attenzione particolare ai casi di difficoltà(sia di rapporti all’interno della coppia, sia per problemi di salute della madre o del bambino);

- la celebrazione del battesimo: rapporto personalizzato (operatori pastorali qualificati); dialogo sulla situazione e progettazione condivisa dell’itinerario...; itinerari differenziati (difficile costruirli in relazione alle diverse situazioni; ancor più difficile farli accettare, senza che appaiano discriminanti e penalizzanti); accoglienza e solidarietà comunitaria. Si tratta piuttosto di fare in modo che, mediante il colloquio, i genitori diventino essi stessi coscienti delle reali motivazioni e comincino a percepire, senza barriere difensive, la corrispondenza o meno con la realtà del sacramento. L’evoluzione e «purificazione» delle motivazioni deve essere perseguita indirettamente, e quindi efficacemente. Punto di partenza è quindi la conoscenza dei genitori e del modo con cui stanno sperimentando - di fatto, non secondo la retorica d’uso - la loro condizione di genitori: «di fronte al compito educativo, spesso l’uomo e la donna si sentono smarriti»[37];

- cura della celebrazione del battesimo. Una certa maggiore articolazione dei tempi celebrativi (e correlativamente formativi) in ordine al battesimo si prospetta sempre più come modalità da considerare attentamente. Si può pensare concretamente a momenti diversi (non troppo dilatati nel tempo, però). È invece da ritenere inopportuna una frammentazione in tappe troppo dilazionate nel tempo. A questa esigenza risponde propriamente la evangelizzazione e catechesi familiare delle prime età della vita;

- dopo il battesimo: catechesi familiare (0-3; 0-6 anni): “Dove il battesimo dei bambini è diventato largamente la forma abituale della celebrazione del sacramento, questa è divenuta un atto unico che, in modo molto abbreviato, integra le tappe preparatorie dell’iniziazione cristiana. Per la sua stessa natura il battesimo dei bambini richiede un catecumenato post-battesimale. Non si tratta soltanto della necessità di una istruzione posteriore al battesimo, ma del necessario sviluppo della grazia battesimale nella crescita della persona. È l’ambito proprio del catechismo» (CCC, 1231)

3. La scuola

Ben presente nella pastorale tradizionale e nella parrocchia tridentina, essa è emigrata rapidamente con le trasformazioni recenti.

L’ipertrofia della razionalità tecnico-scientifica e l’atrofia della razionalità etico-valoriale hanno causato l’estenuazione del pedagogico, ridotto a mera metodologia. La complessità e l’articolazione multidisciplinare, che nel processo educativo sono segno originario di spessore antropologico, diventano - nel contesto sociale frastagliato e congestionato dell’ultima modernità - un aggrovigliato intreccio di idee, fatti e relazioni, in cui è arduo individuare riferimenti e orientamenti non effimeri.

Più recentemente, la crisi della fiducia progressiva e risolutiva della ragione scientifica non ha prodotto un recupero etico-valoriale (come qualcuno sperava e ha un po’ troppo affrettatamente preannunciato, scambiando i desideri con la realtà), se non come interesse, preoccupazione, intento e problema (il cosiddetto ritorno dell’etica). Piuttosto, colpita dal virus del pensiero debole, ha incrementato la dispersione e il raccorciamento dei riferimenti: dall’ottimismo illuministico all’ottimismo della cosiddetta postmodernità. Di fronte alla complessità crescente dei territori del sapere e dell’esperienza riflessa è facile comprendere l’insufficienza dei modelli educativi ereditati, quand’anche illustri e venerandi. Ciò non legittima, tuttavia, la dissennatezza iconoclasta con cui un patrimonio ricco e fecondo è stato rapidamente spazzato via. L’affrettata quanto improvvida cancellazione del passato, invece di una sua lettura critica costruttiva, penalizza fortemente la pedagogia moderna.

La società moderna privilegia il futuro. Ma, come si è visto, la parabola declinante della modernità è caratterizzata dal fatto che l’uomo non si trova più davanti a una visione chiara e a un futuro ritenuto progressivo e certo, ma «sta nuovamente davanti al caos»[38].

Una logica che incrementa una visione dell’uomo in cui il valore è misurato sulla fruibilità dei mezzi a disposizione.

Fatta nuovamente responsabile, la comunità cristiana si scopre luogo di carismi specifici per il servizio del mondo della scuola.

Attiva perciò un corretto discernimento, per valorizzare persone, strutture e organismi presenti sul territorio, per dare efficacia e continuità all’azione pastorale per la scuola, per coinvolgere le persone direttamente interessate e tutti coloro che hanno a cuore le giovani generazioni. Questo comporta il non facile superamento di mentalità e abitudini invalse: sia da parte presbiterale, sia da parte laicale.

Ma l’incremento non retorico di questa consapevolezza pastorale contribuisce in modo notevole a far sentire meno isolati gli operatori della scuola, e più ricca la comunità cristiana.

È quindi necessaria un’opera capillare e approfondita di formazione (genitori, operatori, in particolare gli insegnanti). «La prima responsabilità nel creare l’originale stile cristiano spetta agli educatori, come persone e come comunità»[39]. Chi opera nella scuola esprime una specifica vocazione cristiana e una specifica partecipazione alla missione della Chiesa.

La scuola, inoltre, è luogo segnalato di pastorale giovanile. Non è facile, oggi, incontrare i giovani in un contesto favorevole alla formazione cristiana. La scuola è uno dei luoghi privilegiati per questo incontro. La parrocchia si fa attenta a come la scuola imposta la propria azione educativa, soprattutto quanto alla valenza educativa e al sistema dei significati del profilo educativo (visione cristiana sotto il profilo antropologico, pedagogico, scientifico...); quanto al clima relazionale e dello stile dei rapporti: la condizione essenziale del processo educativo è la relazione, anche se le altre componenti del processo sono ugualmente necessarie (i rischi più gravi per la crescita umana derivano da inadeguate o insufficienti relazioni personali con adulti); quanto alla equilibrata pluralità delle espressioni, banco di prova dello spessore di identità e della professionalità di educatori e docenti, e palestra efficace per la maturazione degli alunni.

La comunità cristiana è impegnata a tracciare forme e vie di relazione con le istituzioni scolastiche. In questo senso supera l’autoreferenzialità della singola parrocchia e mette in atto forme che molto concretamente comincino a realizzare una pastorale organica sul territorio: non delegando, ma convergendo. La comunità cristiana si fa così protagonista di dialogo sereno e costruttivo con la comunità civile, ai diversi livelli.

4. L’università

La nuova evangelizzazione è impensabile senza una marcata e specifica sollecitudine pastorale per il mondo della cultura.

La pastorale universitaria si pone anzitutto come cura specifica del mondo universitario nelle sue diverse realtà. Per quanto attiene la componente studentesca, essa si qualifica nell’ambito della pastorale giovanile. Per le altre componenti e l’istituzione nel suo insieme la pastorale universitaria pone in attenzione di tutta la pastorale alcune esigenze fondamentali: attraversa, sotto questo profilo, tutto il campo dell’azione ecclesiale. La domanda di salvezza, unica nel profondo del cuore dell’uomo, viene posta e percepita con modalità diverse secondo la diversità delle situazioni (dimensione culturale). Ad essa non viene rivolto un annuncio indifferenziato, ma un annuncio culturalmente determinato. Secondo la dottrina cattolica, la fede non è un puro paradosso: solo in quanto atto intellettualmente ragionevole essa è degna di Dio e dell’uomo: «la fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida»[40].

L’uomo di oggi può aderire alla proposta di fede solo se essa trova quadro di riferimento culturalmente adeguato. Se, cioè, le idee portanti di Dio creatore e salvatore trovano riscontro nella possibilità di senso dell’universo creato e nella vicenda degli uomini. Qui è posto un nodo primario dell’impegno culturale dei cristiani che operano in quella realtà così congeniale alla formazione della cultura che è l’università.

La situazione culturale contemporanea e la esponenziale crescita numerica degli studenti (e, proporzionalmente, dei docenti) rendono l’università ambiente di azione pastorale ordinaria e specifica.

La pastorale universitaria, inserita armonicamente nel quadro di una pastorale organica capace di coniugare la cura delle comunità territoriali con quella delle realtà di categoria e di ambiente, «concretizza la missione della Chiesa nell’università e fa parte integrante della sua attività e della sua struttura»[41]. La dimensione culturale la attraversa e la qualifica, disegnandone la tipicità.

In università, la missione ha fisionomia e modalità peculiari.

La missione è rispettosa del carattere proprio dell’istituzione universitaria e si svolge nella convinzione che la fede cristiana non solo non invada terreni «profani», ma sia di grande aiuto al raggiungimento delle finalità autentiche dell’università. In forma e stile di dialogo. Il dialogo culturale, inteso in senso evangelico, supera le debolezze della tolleranza, respinge le ambiguità dell’indifferenza, impara «l’ascolto reciproco, il rispetto e l’astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza... doti di un dialogo che all’interno della Chiesa deve essere assiduo, volonteroso, sincero» (Reconciliatio et paenitentia, 25). Il dialogo è capace di perdono. Si nutre di fiducia, vince la diffidenza: «La Chiesa si rivolge all’uomo nel pieno rispetto della sua libertà: la missione non coarta la libertà, ma piuttosto la favorisce. La Chiesa propone, non impone nulla: rispetta le persone e le culture, e si ferma davanti al sacrario della coscienza» (RMi, 39).

Dove il dialogo ancora risulta incerto e, per così dire, bloccato, è nel rapporto tra scienza e fede. Il pensiero moderno ha stabilito una cesura, una sorta di incomunicabilità sul piano istituzionale (Chiesa-Stato) e culturale (scienze della natura-scienza dell’uomo; scienza-fede). Ciò ha avuto anche risvolti positivi: ha consentito di superare momenti difficili di incomprensione, di allentare tensioni pericolose, di sviluppare i rispettivi ambiti di pertinenza. Ma ha segnato anche perdite gravi. Si gioca qui una partita di valenza epocale. Ogni sforzo deve essere fatto per approfondire, per dialogare con animo aperto e fermo, per aprire sentieri che conducano un sempre maggior numero di persone a godere della luce della verità.

5. L’impegno civile

Il rilievo nella società è strettamente (teologicamente!) connesso con la missionarietà, è una dimensione costitutiva della missione: «[La Chiesa] è “missionaria” a tal punto che non è se stessa se non quando esce da se stessa, se così si può dire. E questo non per una concessione, fastidiosa in fondo, ma per natura... la stessa fede è nello stesso tempo comunione con Cristo e testimonianza nel mondo»[42].

Una comunione che non diventa missione deforma la Chiesa in setta. E la missione non può essere concepita, oggi, in termini meramente geografici[43]. Le culture, nel senso ampio del termine, sono nuove terre di missione. Non per inseguire sogni di riconquista, ma per fedeltà al Vangelo, proprio nella sua tensione escatologica: «La Chiesa, che è animata dalla fede escatologica, considera questa sollecitudine per l’uomo, per la sua umanità, per il futuro degli uomini sulla terra e, quindi, anche per l’orientamento di tutto lo sviluppo e del progresso, come un elemento essenziale della sua missione, indissolubilmente congiunto con essa. E il principio di questa sollecitudine essa lo trova in Gesù Cristo stesso, come testimoniano i Vangeli» (Redemptor hominis, 15).

La nuova evangelizzazione vuole che la parola cristiana diventi una parola socialmente efficace. Essa cerca categorie che non servano solo all’illuminazione delle coscienze, ma anche alla loro trasformazione. In una società che si autodetermina a partire dal consenso sociale, dove la fede cristiana è una proposta tra le altre, la responsabilità cristiana:

- rivendica il diritto della verità come tensione e come riferimento oggettivo;

- non si estranea dal confronto culturale, ma in esso pone la sapienza e la luce del Vangelo, certa della sua insuperabile valenza per l’uomo. Pastorale del lavoro e del tempo libero

Carità è nome concreto del Vangelo, non si aggiunge come corollario alla pratica cristiana ordinaria e necessaria; piuttosto, la connota essenzialmente. Come attesta l’esperienza delle prime generazioni cristiane, nella comunità dei credenti il sacramento e la sollecitudine per i bisognosi sono inscindibili (1Cor 11,18-22).

Per questo la comunità cristiana non si limita ad alcune (preziose) forme di aiuto, ma tende a promuovere con intensità di impegno un’autentica cultura di solidarietà. Per questo si interroga su quali forme di volontariato siano più capaci di esprimere la carità di Cristo. Si va alla radice dei problemi, e non ci si accontenta di qualche forma di elemosina.

La Chiesa non si rinchiude nel ruolo assistenziale e di sgravio a cui la società comunemente la chiama, con un apprezzamento che tende spesso a diventare rigida delimitazione di campo. Sviluppa, invece, un apporto decisivo, attraverso la sua dottrina sociale, continuamente aggiornata. E non esita - ammaestrata dal concilio Vaticano II e dalle recenti encicliche pontificie - a elaborare modalità nuove di presenza, in corrispondenza di un modo fedele al Vangelo di pensare il proprio essere Chiesa nell’oggi.

No, ancora, a una carità che finisce per contribuire a una recezione - sociologicamente apprezzata, ma teologicamente negativa - della Chiesa come agenzia fornitrice di servizi sociali sul territorio.

È necessario che la solidarietà operosa esprima chiaramente la dimensione di speranza che la sostanzia e la consistenza di fede che la sostiene: essa non ama differenziarsi per posizione preconcetta.

Non erige, cioè, steccati ideologici, e non discrimina nessuno per partito preso; si rallegra di quanto lo Spirito suscita, nella sua libertà sovrana, tra gli uomini. Proclama però una realtà che non muove solo alla compassione, ma sa la verità di una condivisione e di una donazione totale, che trova in Cristo la propria sorgente e il proprio modello. E la propria meta.

Senza questa illuminazione, la carità si estenua: è consolazione di un momento, non profezia di senso. In questo quadro deve essere inteso anche l’impegno così significativo ed evangelizzante della pastorale della salute e della sofferenza.

Contro Marx e Rousseau, la politica non è la salvezza; ma - almeno parzialmente con loro - non si dà salvezza che non investa direttamente e costitutivamente l’ambito politico: la secolarizzazione della politica (dalla religione, non dalle chiese) produce di fatto o la sacralizzazione della politica (‘68) o l’estraneazione da essa (oggi).

CONCLUSIONE 

La conversione difficile e le decisioni ancor più difficili

«Ma il Vangelo di Gesù altro non è che il Vangelo che è Gesù.

In lui appare a noi il volto di Dio e nel contempo l’uomo è rivelato a se stesso. In lui si rivela e si compie l’umanità nuova, l’uomo nuovo. Non basta quindi ripetere verbalmente la formula del kerigma (“Cristo è morto ed è risorto”) senza un adeguato sforzo di ritraduzione del messaggio e di una sua intelligente e creativa inculturazione.

L’irrinunciabile dovere della proposta della Chiesa di dire in Cristo la verità sull’uomo chiede oggi di essere adempiuto mediante un rinnovato e convinto annuncio accompagnato dal dialogo con la cultura odierna (spesso pesantemente condizionata da visioni unilaterali) allo scopo di superare la separazione tra Vangelo e cultura. Studiare le condizioni dell’essere e del diventare cristiani oggi è pertanto compito intrinseco della nuova evangelizzazione, proprio perché la persona e la comunità cristiana in Italia si trovano al centro di un complesso di trasformazioni che “si risolvono tutte in trasformazioni dell’ethos civile”. Occorre rendere efficace il percorso formativo ecclesiale centrato sull’annuncio, prestando attenzione alle sue condizioni di possibilità e di esercizio, per metterci in grado di proporre stili di vita cristiani praticabili e plausibili»[44].

I misteri della vita del Signore Gesù rimangono il centro - l’inizio e il vertice, alfa e omega - di ogni evangelizzazione: ne costituiscono norma e sostanza, senza la quale ogni altra parola sarebbe suono vuoto. Ciò non significa, tuttavia, che ci si possa limitare alla ripetizione materiale. La centratura - ineludibile - sull’annuncio non elide (né consente di eludere) l’attenzione alle sue condizioni di possibilità, plausibilità, praticabilità.

È facile comprendere come, diversamente, tutto possa apparire (ed essere) una copertura di comodo alla incapacità comunicativa: «non c’è pensiero che sia immune dalla sua comunicazione, e basta formularlo nella falsa sede e in un senso equivocabile per minare la sua verità»[45].

L’annuncio deve apparire:

- udibile,

- convincente,

- suadente.

Deve incontrare, cioè, il desiderio del cuore dell’uomo: «L’intera vita del fervente cristiano è un santo desiderio. Ciò che poi desideri, ancora non lo vedi, ma vivendo di sante aspirazioni ti rendi capace di essere riempito quando arriverà il tempo della visione...

La nostra vita è una ginnastica del desiderio. Il santo desiderio sarà tanto più efficace quanto più strapperemo le radici della vanità ai nostri desideri. Già abbiamo detto altre volte che per essere riempiti bisogna prima svuotarsi»[46].

Tra autocomprensione della mentalità diffusa e autocomprensione propriamente cristiana si avverte una distonia, che rischia l’estraneità. La risposta autentica della fede è udibile come tale solo se si pone in un contesto reale (culturale, esperienziale) in cui ne appaiano il senso e la portata.

La rinnovata insistenza sul primo annuncio si rivelerà inetta se non sarà impegno di cultura e comunicazione. A cominciare, naturalmente, da un più coraggioso impulso alla teologia speculativa, che tenti costantemente di dire l’indicibile.

Poiché annuncia l’evento, il kerygma viene tradito dalla formula che ripete; solo la parola che suscita è kerygma... No, quindi, alla inerzia del kerygma. Il kerygma che conosce solo se stesso e non compie la fatica della inculturazione (che è molto di più di un lifting lessicale) tradisce e non trasmette; non testimonia e implode in una ennesima forma di utopia regressiva. Dal dialogo afono all’annuncio atono il guadagno sarebbe ben poca cosa.

Sì alla parresia del kerygma. Nessuna promozione umana avrebbe consistenza fuori dalla viva speranza escatologica posta nel Signore risorto, colui che era, che è e che viene. Per questo la Chiesa prega «Vieni, Signore».

Senza questa proiezione, la proclamazione, così come ogni forma di annuncio cessa di essere Vangelo, bella e grande notizia per l’uomo.

La ricapitolazione kerygmatica dell’annuncio sventa il rischio della dispersione semantica religioso-mondana della modernità declinante; ma deve a sua volta guardarsi dal cadere nell’equivoco riduzionismo fonologico (sia dogmatico, sia pratico). Essa chiede un rinnovamento che non tocca solo il rivestimento lessicale e la strategia didattica, ma il Vangelo stesso: cioè come ripensare il Vangelo dal di dentro di questa nostra cultura. Non un adattamento, tanto meno un travisamento: ma la novità del Vangelo riscoperta nella condizione presente.

L’attenzione alla prima evangelizzazione è parte integrante dell’iniziazione cristiana nel nostro tempo. Un capitolo tutto da scrivere. «Ma il dialogo non può essere fondato sull’indifferentismo religioso, e noi cristiani abbiamo il dovere di svilupparlo offrendo la testimonianza piena della speranza che è in noi (cf. 1 Pt 3,15). Non dobbiamo aver paura che possa costituire offesa all’altrui identità ciò che è invece annuncio gioioso di un dono che è per tutti, e che va a tutti proposto con il più grande rispetto della libertà di ciascuno: il dono della rivelazione del Dio-Amore che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Tutto questo, come è stato anche recentemente sottolineato dalla dichiarazione Dominus Iesus, non può essere oggetto di una sorta di trattativa dialogica, quasi fosse per noi una semplice opinione: è invece per noi grazia che ci riempie di gioia, è notizia che abbiamo il dovere di annunciare.

La Chiesa, pertanto, non si può sottrarre all’attività missionaria verso i popoli, e resta compito prioritario della missio ad gentes l’annuncio che è nel Cristo, “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6), che gli uomini trovano la salvezza. Il dialogo interreligioso “non può semplicemente sostituire l’annuncio, ma resta orientato verso l’annuncio”.

Il dovere missionario, d’altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all’ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infinitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell’uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull’aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cf. Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla “pienezza della verità” (cf. Gv 16,13).

Questo principio è alla base non solo dell’inesauribile approfondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le religioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che “soffia dove vuole” (Gv 3,8), suscita nell’esperienza umana universale, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è impegnato a leggere i “segni dei tempi?”. Pur attuando un operoso e vigile discernimento, per cogliere i “veri segni della presenza o del disegno di Dio”, la Chiesa riconosce che non ha solo dato, ma anche “ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano”. Questo atteggiamento di apertura e insieme di attento discernimento il concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l’insegnamento e la traccia con grande fedeltà» (NMI 56).

Note al testo

[1] [Questo l’inizio dell’articolo, omesso da Gli scritti]«Nutrirci della Parola, per essere “servi della Parola” nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo millennio. È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur tra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici. Oggi si deve affrontare con coraggio una situazione che si fa sempre più varia e impegnativa, nel contesto della globalizzazione e del nuovo e mutevole intreccio di popoli e culture che la caratterizza. Ho tante volte ripetuto in questi anni l’appello della nuova evangelizzazione. Lo ribadisco ora, soprattutto per indicare che occorre riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dall’ardore della predicazione apostolica seguita alla Pentecoste. Dobbiamo rivivere in noi il sentimento infuocato di Paolo, il quale esclamava: “Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1 Cor 9,16).

Questa passione non mancherà di suscitare nella Chiesa una nuova missionarietà, che non potrà essere demandata ad una porzione di “specialisti”, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri del popolo di Dio. Chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo. Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano delle comunità e dei gruppi cristiani. Ciò tuttavia avverrà nel rispetto dovuto al cammino sempre diversificato di ciascuna persona e nell’attenzione per le diverse culture in cui il messaggio cristiano deve essere calato, così che gli specifici valori di ogni popolo non siano rinnegati, ma purificati e portati alla loro pienezza.

Il cristianesimo del terzo millennio dovrà rispondere sempre meglio a questa esigenza di inculturazione. Restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato.

Della bellezza di questo volto pluriforme della Chiesa abbiamo particolarmente goduto nell’Anno giubilare. È forse solo un inizio, un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara.

La proposta di Cristo va fatta a tutti con fiducia. Ci si rivolgerà agli adulti, alle famiglie, ai giovani, ai bambini, senza mai nascondere le esigenze più radicali del messaggio evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità e linguaggio, secondo l’esempio di Paolo, il quale affermava: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Nel raccomandare tutto questo, penso in particolare alla pastorale giovanile. Proprio per quanto riguarda i giovani, come poc’anzi ho ricordato, il Giubileo ci ha offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare quella risposta consolante, investendo quell’entusiasmo come un nuovo “talento” (cf. Mt 25,15) che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare” (NMI 40). La citazione dell’ampio brano di Novo millennio ineunte mostra autorevolmente l’urgenza e la complessità del tema.

[2] J. Gevaert, La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo - finalità, destinatari, contenuti, modalità di presenza, LDC, Leumann (Torino) 2001, 14.

[3] S. Lanza, Nuova evangelizzazione e prima evangelizzazione, in «Orientamenti Pastorali» 40 (1992/11-12) 160-171; due anni prima, era apparso il bel lavoro di J. GEVAERT, Prima evangelizzazione. Aspetti catechetici, LDC, Leumann (Torino) 1990, limitato però, secondo l’assunto del titolo, all’ambito della catechesi.

[4] J. Gevaert, La proposta del Vangelo a chi non conosce il Cristo - finalità, destinatari, contenuti, modalità di presenza..., 17.

[5] Anche il Direttorio generale per la catechesi (1997) segnala il problema e la necessità di farvi fronte, ma senza indicare le modalità per risolverlo e restando genericamente entro il quadro della pastorale di catechesi (n. 61-62. Cf. Direttorio Catechistico Generale (1971), n. 18).

[6] Con risultati che Tillich giudica molto severamente: «Poche cose hanno contribuito all’irrilevanza del cristianesimo quanto la scuola di catechismo» (P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità oggi, Brescia 1998, 45).

[7] W. Pannenberg, Stellungsnahme zur Diskussion, in Teologie als Geschichte (1967), 291.

[8] I. Mancini, Teologia Ideologia Utopia, Queriniana, Brescia 1974, 55.

[9] Esagerato, forse, il commento di Ruggenini; ma da non accantonare troppo sbrigativamente: «Infatti Dio è morto piuttosto di teologia, dunque della separazione gelosa che il Dio metafisico della fede ha stabilito tra sé e il mondo. Così come è morto della rivendicazione molto poco spirituale, in realtà palesemente naturalistica, di un’onnipotenza prodigiosa [...]. Ancora: Dio è morto della promozione eccessiva dell’essere dell’uomo, dell’attribuzione a esso di un “valore assoluto”, a discapito di ogni altra realtà creata, in particolare della natura, abbassata a sgabello non soltanto dei piedi di Dio, ma pure della sua creatura eccellente; è morto infine della presunzione del credente di godere, tramite la fede, di un accesso privilegiato all’assoluto, accesso negato alla “semplice ragione”». M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Milano 1997, 72.

[10] A. Matteo, Della fede dei laici - Il cristianesimo di fronte alla mentalità postmoderna, Soveria Manelli 2001, 165.

[11] K. Barth, Not und Verheissung der christlichen Verkündigung, poi in Das Wort Gottes und die Teologie, München 1924, 101: «Indipendentemente dalla mia formazione teologica, sono stato spinto, sempre più fortemente, attraverso ogni genere di circostanze, ad occuparmi del problema pastorale per eccellenza, quello della predicazione. Cercavo [...] di aprirmi un mio sentiero fra i problemi della vita umana e il contenuto della Bibbia. Pastore, dovevo parlare ad uomini alle prese con le contraddizioni inaudite della vita, e parlar loro del messaggio non meno inaudito della Bibbia, di questa Bibbia che si pone come un nuovo enigma di fronte alle contraddizioni della vita».

[12] Cf. G. Canobbio, La Chiesa come evento di comunicazione, in «Dialoghi» 3 (4/2003) 37: «Se, infatti, l’annuncio ha in sé la potenza del Risorto, se questa non si manifesta nel suscitare la fede, potrebbe anche voler dire che gli annunciatori non compiono in forma adeguata l’atto dell’annuncio»; 38: «Modalità di annuncio e figura globale di Chiesa si richiamano e si determinano reciprocamente, sicché non sembra possibile oggi (come ieri) pensare a nuove forme di annuncio senza immaginare un nuovo volto di Chiesa».

[13] J. Derrida, L’Écriture et la Différence, Paris 1966, 149.

[14] I. Mancini, Teologia Ideologia Utopia, Brescia 1974, 184.

[15] K. Barth, Das Wort Gottes als Aufgabe der Theologie, in Anfänge der dialektischen Theologie, I, Kaiser, München 1996, p. 199.

[16] Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino 1979, 304.

[17] S. Agostino, De doctrina christiana, III 10, 15.

[18] J. Moltmann, Sguardo retrospettivo personale sugli ultimi dieci anni (1970), in R. GIBELLINI, La teologia di Jürgen Moltmann, Brescia 1975, 331.

[19] P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità oggi, Brescia 1998, 31.

[20] Le colpe del cristianesimo, pubblicata in italiano in «Rivista di Filosofia» 91 (2000), pp. 387-411: qui p. 410.

[21] W. Kasper, Teologia e Chiesa 2, Brescia 2001, 206.

[22] In «Opere», a cura di CORNELIO FABRO, Firenze 1972, 12.

[23] E. Mounier, Agonia del cristianesimo? (1946) in ID., Cristianità nella storia, Bari 1979, 30.

[24] L. Kolakowski, Der nahe und der ferne Gott. Nichttheologische Texte zur Gottesfrage im 20. Jahrhundert, a cura di H. Rossner, Berlin 1981, 10.

[25] H. Cox, Religion in the secular city, 1984, 19s.

[26] Cf. P. Gilbert, Nihilisme et christianisme chez quelques philosophes italiens contemporains: E. Severino, S. Natoli et G. Vattimo, in «Nouvelle Revue Theologique» 121

(1999), 254-273.

[27] S. Natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Brescia 1999, 119.

[28] Giovanni Paolo II, Slavorum apostoli, 27: «Attuando il proprio carisma, Cirillo e Metodio recarono un contributo decisivo alla costruzione dell’Europa non solo nella comunione religiosa cristiana, ma anche ai fini della sua unione civile e culturale. Nemmeno oggi vale un’altra via... Essere cristiani nel nostro tempo significa essere artefici di comunione nella Chiesa e nella società».

[29] Cf. C. card. Ruini, Intervento conclusivo al Convegno ecclesiale di Palermo: «Dalla centralità di Cristo si può ricavare un orientamento globale per tutta l’antropologia, e così per una cultura ispirata e qualificata in senso cristiano. In Cristo infatti ci è data un’immagine e un’interpretazione determinata dell’uomo, un’antropologia plastica e dinamica capace di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenendo però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali, i suoi contenuti di fondo. Ciò riguarda in concreto la filosofia come il diritto, la storiografia, la politica, l’economia... questa interpretazione cristiana dell’uomo è un processo sempre aperto e mai compiuto» (7).

[30] P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità oggi, Brescia 1998, 36.

[31] W. Kasper, Teologia e chiesa 2, Brescia 2001, 26.

[32] H. De Lubac, Cattolicismo. Gli aspetti sociali del dogma, 1937, XXIII.

[33] Cf. M. Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, 1993.

[34] Pontificio Consiglio della Cultura - Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul New Age, 3 febbraio 2003.

[35] Cf. S. Cavalletti, Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un’esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Roma (3) 1987.

[36] Giovanni Paolo II, Donna educatrice alla pace. Messaggio per la giornata mondiale della pace 1995, 6.

[37] Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 13.

[38] R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Brescia 19938, 74.

[39] Congregazione per l’Educazione Cattolica, Dimensione religiosa dell’educazione nella scuola cattolica, 26.

[40] Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 43.

[41] Cf. Giovanni Paolo II, Ex Corde Ecclesiae, Costituzione apostolica sulle università cattoliche, 15 agosto 1990, 38.

[42] M.D. Chenu, Vox populi vox Dei. L’opinione pubblica nell’ambito del Popolo di Dio, in AA.VV., La fine della Chiesa società perfetta, Mondadori, Milano 1969, 222.

[43] Cf. card. Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise, Paris 1947, 49: «Nel Medioevo, e ancora fino al secolo XIX, il cristianesimo era geografico. I missionari lasciavano la cristianità per andare a predicare alle nazioni degli infedeli. Il paganesimo era esterno alla società cristiana. Oggi invece le due città non sono esterne, bensì l’una dentro l’altra, strettamente intrecciate. La società pagana penetra da ogni parte nella vita quotidiana dei cristiani. Una società chiusa, al riparo dagli influssi pagani, sembra diventa attualmente impensabile».

[44] Card. C. Ruini, Educare oggi: sfide e compiti della Chiesa italiana alla luce dell’antropologia cristiana, Prolusione al Convegno Le sfide dell’educazione, promosso da CEI, Ufficio Nazionale per l’educazione, la scuola e l’università e Servizio Nazionale per il Progetto Culturale, Roma, 12 febbraio 2004, n. 2.

[45] Th. W. Adorno, Minima Moralia, (Frankfurt a M. 1951), Torino 1979, 17.

[46] S. Agostino, Trattati sulla prima lettera di Giovanni, Tratt. 4, PL 35, 2008-2009.